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La violazione dell’art 4 del Protocollo 4 della CEDU

Capitolo terzo : La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di espulsion

3.2 Il caso Hirsi e altri c Italia

3.2.4 La violazione dell’art 4 del Protocollo 4 della CEDU

I ricorrenti avevano denunciato anche la violazione del divieto di espulsioni collettive, consentendo alla Corte di decidere nel merito ed innovare il proprio orientamento in relazione a questo punto309.

308Cfr.Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 150.

309Sulla portata innovativa della sentenza in relazione all’art. 4 del Protocollo 4 Cfr. A.

Liguori, La Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per i respingimenti verso la

Libia, cit, che a pag. 428 afferma “inedito e ricco di implicazione è il riconoscimento nel caso

di specie della violazione dell’articolo 4, Protocollo 4, per la prima volta in un’ipotesi di respingimenti posti in essere oltre i confini nazionali”; Cfr. altresì N. Napoletano, La

condanna dei “respingimenti” operati dall’Italia verso la Libia, cit, pag. 438, in cui con

riferimento all’applicazione extraterritoriale dell’art. 4 del Protocollo 4 afferma “quest’ultimo rappresenta sicuramente l’aspetto più significativo ed innovativo della sentenza”; Cfr. N.

Avevano lamentato di essere stati respinti collettivamente dalle autorità italiane, in assenza di una previa identificazione, e senza che nessuno avesse indagato sulle circostanze che avevano portato ciascun migrante a fuggire dai loro paesi d’origine. In particolare, la denuncia aveva ad oggetto la violazione del divieto di refoulement, dato che tra i respinti erano presenti anche e soprattutto persone che avrebbero avuto molto probabilmente il diritto di ottenere lo status di rifugiato.

Il Governo aveva eccepito l’inapplicabilità dell’art. 4 del Protocollo 4 nel caso di specie, perché “la garanzia offerta da tale disposizione entra in gioco solo in caso di espulsione di persone che si trovano sul territorio di uno Stato o che hanno attraversato illegalmente la frontiera nazionale”310 e non sarebbe stata pertanto applicabile nel caso Hirsi dato che il respingimento era avvenuto in alto mare.

A questo proposito è importante ribadire che i respingimenti in alto mare non costituiscono una novità nel panorama internazionale311, la novità consiste nel “carattere sistematico”312che hanno acquisito.

Hervieu, Interception et refoulement des migrants en haute mer, cit, che parla di un’applicazione inedita dell’articolo 4 del Protocollo 4; Cfr. Migrants at sea, Hirsi v. Italy:

Prohibition of Collective Expulsion Extends to Extra-Territorial Actions, reperibile al link

http://migrantsatsea.org/2012/02/27/hirsi-v-italy-prohibition-of-collective-expulsion-extends- to-extra-territorial-actions/; Cfr. F. Vassallo Paleologo, Prima e dopo la sentenza Hirsi, cit, in cui l’Autore sostiene che “Mai il divieto di espulsioni collettive era stato sancito in modo tanto chiaro da un giudice internazionale”.

310Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 160.

311Cfr. il caso dei profughi haitiani intercettati dagli Stati Uniti e sul quale ci siamo già

soffermati. In quel caso la Commissione interamericana dei diritti umani ha condannato la prassi dei respingimenti in alto mare con una decisione del 13 marzo 1997 (Haitian Centre

gor Human Rights e a. c. Stati Uniti, caso 10675). Si veda altresì anche il caso della nave

Tampa dell’agosto 2001 in cui l’Australia ha respinto un’imbarcazione di profughi afghani in fuga dal regime dei talebani. Si trattava di 434 persone, fra cui 26 donne e 43 bambini, provenienti dall'Afghanistan, dallo Sri Lanka e dall'Indonesia che erano state tratte in salvo dalla nave Tampa, un ‘imbarcazione norvegese. Dopo aver fatto salire a bordo i migranti il capitano della nave Tampa li avrebbe ricondotti in Indonesia ma data la determinazione dei soggetti che minacciavano di gettarsi in mare se non fossero stati condotti in un paese occidentale, il comandante aveva deciso di portarli in Australia. Il primo ministro australiano John Howard ha però negato l’accesso alle acque territoriali australiane ritenendo che l’imbarcazione si trovasse in acque indonesiane e che la situazione dovesse essere risolta

Gli Stati hanno frequentemente adottato lo strumento dell’espulsione in acque internazionali nel tentativo di “operare in una zona grigia313”, di non-diritto, o “terra di nessuno314” in cui il rispetto dei diritti dell’uomo, e del principio di non-refoulement per quanto a noi interessa, non sarebbe imprescindibile315.

La presa di posizione della Corte in tal senso è stata fondamentale: decidere diversamente avrebbe significato legittimare il comportamento

dalla diplomazia norvegese ed indonesiana con il risultato che l’imbarcazione piena di profughi che necessitavano di cure fu costretta a vagare per l’Oceano Pacifico per giorni.

312Cfr. A. Terrasi, I respingimenti in mare di migranti alla luce della Convenzione europea,

cit, pag. 591.

313A. Terrasi, I respingimenti in mare, cit, pag. 592; Cfr. O. Barsalou, L’interception des

réfugiés en mer: un régime juridique aux confins de la normativité, reperibile al link

http://www.lex-electronica.org/articles/v12-3/barsalou.pdf. L’Autore afferma, a proposito dei rifugiati espulsi in alto mare, che “Ils se trouvent dans une situation d’indistinction juridique,

une zone d’anomie marquée du sceau de l’état d’exception […] une situation de vacuum juridique”; Cfr. A. Liguori, Il caso Hussun sui respingimenti Italia-Libia del 2005, cit,

pag.448; Cfr. N. Ricciuti, Il Comitato europeo contro la tortura, cit, pag. 674.

314N. Hervieu, Interception et refoulement des migrants en haute mer, cit. l’Autore parla di

“no man’s land”.

315

In tal senso Cfr. par. 164 sentenza Hirsi in cui l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (HCDH), e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (HCR) hanno affermato che “permettere agli Stati di rinviare i migranti intercettati in alto mare senza rispettare la garanzia sancita dall’articolo 4 del Protocollo n. 4 significherebbe accettare che gli Stati si liberino dai loro obblighi derivanti da convenzioni con il pretesto delle operazioni di controllo alle frontiere. Inoltre, riconoscere l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione di uno Stato contraente per fatti avvenuti in alto mare comporterebbe secondo l’HCDH una presunzione di applicabilità di tutti i diritti sanciti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli”; vedi altresì la Risoluzione 1821 del 2011 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa sull’intercettazione e il salvataggio in mare di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in situazione irregolare, che recita al punto 8 “l’Assemblea ricorda agli Stati membri che hanno l’obbligo sia morale che giuridico di soccorrere le persone in pericolo in mare senza il minimo indugio e riafferma senza ambiguità l’interpretazione fatta dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (HCR) secondo cui il principio di non-respingimento si applica anche in alto mare. L’alto mare non è una zona in cui gli Stati sono esenti dai loro obblighi giuridici, ivi compresi gli obblighi derivanti dal diritto internazionale dei diritti dell’uomo e dal diritto internazionale dei rifugiati”; in particolare sulla violazione del principio di non respingimento Cfr. il documento dell’UNHCR “stop ai

respingimenti in Libia” del 15 maggio 2009 reperibile al sito www.unhcr.it; “Immigrati, critiche dell'Onu all'Italia: «Porre fine ai respingimenti»” del 12 maggio 2009; “Onu: i respingimenti violano il diritto internazionale” del 14 giugno 2009; “Immigrazione, Pillay: i respingimenti violano i diritti umani” dell’ 11 marzo 2010, reperibili al sito www.ilsole24ore.com.

degli Stati che, operando in alto mare, ritengono di potersi sottrarre agli obblighi derivanti dal diritto internazionale e non316.

Sul punto sembra importante rilevare la riflessione di Bruno Nascimbene, che ha definito l’eventuale introduzione di limiti all’applicabilità spaziale del divieto di refoulement “uno strumento pericoloso in mano agli Stati” e ha richiamato l’attenzione sulla possibilità che le imbarcazioni dei migranti vengano “indirizzate o spinte verso acque internazionali ove il principio non opererebbe, così escludendo la responsabilità dello Stato”317.

In realtà, esiste un nucleo di norme di diritto interno e internazionale che devono essere rispettate inderogabilmente dal nostro Paese, anche se i respingimenti avvengono al di fuori del territorio italiano.

Da menzionare, ex multis318, le convenzioni SOLAS319 e SAR320, la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, la Convenzione delle

316Cfr. Berlusconi: ‘La nostra idea dell’Italia non è multietnica’”, Il Sole 24 Ore.com, 9

maggio 2009,reperibile alla pagina

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2009/05/berlusconi-no-italia-

multietnica.shtml?uuid=f34356f2-3cbd-11de-9448-2a21b45d727f&DocRulesView=Libero (consultato il 15 luglio 2009) dove Berlusconi, definendo il significato che attribuisce al divieto di refoulement e la sua applicabilità spaziale, ha affermato che l’obbligo consiste nell’ “accogliere solo quei cittadini che sono nelle condizioni per chiedere l’asilo politico e che dobbiamo accogliere qui come dicono gli accordi e i trattati internazionali” e cioè “coloro che mettono piede sul nostro suolo, intendendo come piede sul nostro suolo anche le entrate nelle acque territoriali.”

317

Cfr. B. Nascimbene, “Il respingimento degli immigrati e i rapporti tra Italia e unione europea” reperibile dal sito www.iai.it.

318Il divieto di refoulement è ormai ritenuto come un principio di diritto consuetudinario,

perciò vincolante anche per quegli Stati che non abbiano sottoscritto le convenzioni che specificamente lo prevedono. Per quanto attiene al diritto interno, la tutela dei diritti fondamentali è garantita dall’art. 2 Cost. e il diritto d’asilo dall’art. 10, 3° co. Cost. Il t.u. sulla condizione dello straniero (d.lgs. 25.7.1998, n. 286) prevede all’art. 2, 1° co. il riconoscimento dei diritti fondamentali allo straniero “comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato”; all’art. 10, 4° co. il divieto di respingimento in caso di asilo politico, riconoscimento dello status di rifugiato, adozione di misure di protezione temporanea per motivi temporanei; all’art. 19 il divieto di espulsione e respingimento verso uno Stato in cui possa essere oggetto di persecuzione per vari motivi ovvero corra il rischio di essere respinto verso un altro Stato in cui non sia protetto dalla persecuzione. L’obbligo di assicurare la protezione internazionale, che ha una formulazione più vasta di quella prevista dalla Convenzione di Ginevra (comprendendo anche la protezione sussidiaria) è previsto dalle direttive comunitarie e dai d.lgs. di recepimento; B. Nascimbene, documento IAI cit, in cui

Nazioni Unite contro la tortura del 1984 che vieta di rinviare qualsiasi persona verso Paesi ove sarebbe esposta a simili rischi, il Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici e ovviamente la CEDU.

Un rilievo particolare deve essere attribuito alla Costituzione italiana del 1947 ed alla contrarietà della prassi dei respingimenti collettivi anche rispetto ad essa.

Anche se le violazioni denunciate dai migranti riguardano disposizioni contenute nella CEDU, è necessario ricordare che la prassi dei respingimenti in alto mare è contraria anche, e forse prima di tutto, alla nostra Carta costituzionale.

L’articolo 10, comma 3321, della Costituzione, in primo luogo, sarebbe stato sufficiente a sancire prima ancora dei rilievi di incompatibilità con il diritto internazionale, l’incostituzionalità della prassi dei respingimenti in alto mare, poiché non ha consentito agli eventuali richiedenti asilo di accedere a qualsivoglia forma di tutela.

Il testo costituzionale recita “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

Rientrano pertanto nella tutela costituzionale gli stranieri che non potendo esercitare le libertà garantite dalla Costituzione nei loro paesi d’origine, fuggono altrove.

ha affermato “Questo complesso di norme non potrebbe essere rimesso in discussione da un presunto limite di applicazione del principio di non-refoulement”.

319Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, firmata l’1

novembre 1974.

320Convenzione internazionale sulla ricerca e salvataggio in mare, firmata il 27 aprile 1979. 321Sembra necessario ricordare la ratio e l’inserimento nel testo costituzionale dell’articolo 10

comma 3. È stato fortemente voluto da quei membri della Costituente che, avendo duramente sofferto l’esilio a causa delle loro idee liberali, desideravano donare alle nuove generazioni una disposizione che impedisse loro di subire quello che loro stessi avevano subito, una disposizione che fosse anche manifesto della nuova era democratica e libera alla quale si affacciava il nostro Paese.

In quest’ottica, non è difficile cogliere la piena violazione dell’articolo 10, comma 3, da parte del Governo, respingendo i migranti senza verificare previamente le condizioni di ciascuno322.

È possibile rilevare dunque una netta violazione dell’art. 10 della Costituzione da parte delle autorità della Marina Militare e della Guardia Costiera, ma prima ancora degli organi dello Stato che hanno ordinato tali procedure. Avrebbero dovuto, al contrario, tenere “un atteggiamento costituzionalmente orientato” e quindi accogliere i migranti sul territorio italiano e sottoporli ad esami obiettivi e non sommari per valutare se avessero o meno necessità di protezione internazionale.

Nel caso di specie, infatti, i migranti sono stati invece considerati non come soggetti di diritto ma come oggetti di “un atto di sovranità delle autorità politiche italiane, dettato dal Ministro dell’Interno, ed attuato mediante l’utilizzo di navi e personale militare italiano”.

Il Governo aveva difeso la propria politica sostenendo che la misura posta in essere dalle autorità italiane non costituiva un’espulsione, ma integrava piuttosto un diniego d’accesso al territorio italiano.

Le obiezioni mosse dalla difesa del nostro Paese hanno consentito alla Corte di chiarire definitivamente ed in modo inequivocabile l’ambito d’applicazione e la portata del divieto di espulsioni collettive sancito dalla CEDU.

La Corte aveva affrontato la questione definendo preliminarmente il concetto di espulsioni collettive e ricostruendo la sua giurisprudenza in materia.

Aveva confermato che la definizione del concetto in esame proviene dalla sentenza Henning Becker c. Danimarca, in cui aveva definito

322L’articolo 10 avrebbe dovuto trovare piena e incontroversa applicazione nei confronti di

tutti quegli stranieri potenzialmente impediti nel loro Paese “nell’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.

“l’espulsione collettiva di stranieri come qualsiasi misura dell’autorità competente che costringa degli stranieri, in quanto gruppo, a lasciare un Paese, salvi i casi in cui una tale misura venga adottata all’esito e sulla base di un esame ragionevole e oggettivo della situazione particolare di ciascuno degli stranieri che compongono il gruppo”323.

Ripercorrendo la propria giurisprudenza in materia, rilevava che la definizione citata era stata utilizzata solo in casi in cui l'espulsione riguardava soggetti che si trovavano già sul territorio dello Stato324, eccezione fatta per il caso Xhavara in cui, come affermato nel paragrafo 3.1, i migranti erano stati respinti in alto mare, ma la Corte non era entrata nel merito della controversia, perdendo la grande occasione di chiarire definitivamente l’ambito d’applicazione dell’art. 4, Protocollo 4, a causa di un’incompatibilità ratione personae.

Pertanto, nel caso Hirsi, la Corte ha affrontato per la prima volta la questione dell’applicabilità dell’art. 4, Protocollo 4, ad un caso di respingimento di stranieri in acque internazionali e dunque fuori dal territorio nazionale, ed ha stabilito che l’allontanamento di quei soggetti verso la Libia aveva costituito un’espulsione collettiva vietata ex art. 4, Protocollo 4.

Si tratta di una posizione “inedita”325 alla quale la Corte è giunta applicando un’interpretazione teleologica dei significati dei termini in esame, in conformità agli articoli 31 e 33 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati e ricordando che l’interpretazione delle norme

323

Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 166.

324Cfr. K.G. c. Repubblica Federale di Germania, n. 7704/76, decisione della Commissione

del 1 marzo 1977; O. e altri c. Lussemburgo, n. 7757/77, decisione della Commissione del 3 marzo 1978; A. e altri c. Paesi Bassi, n. 14209/88, decisione della Commissione del 16 dicembre 1988; Andric c. Svezia (dec.), n. 45917/99, 23 febbraio 1999; Čonka c. Belgio, n. 51564/99, CEDU 2002-I; Davydov c. Estonia (dec.), n. 16387/03, 31 maggio 2005; Berisha e

Haljiti c. ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, n. 18670/03, decisione del 16 giugno 2005; Sultani c. Francia, n. 45223/05, CEDU 2007 X; Ghulami c. Francia (dec.), n. 45302/05, 7

aprile 2009; e Dritsas c. Italia (dec.), n. 2344/02, 1 febbraio 2011.

convenzionali deve avvenire alla luce del principio di buona fede e avendo riguardo allo scopo del trattato.

In particolare, il paragrafo 171 della sentenza, a proposito del significato da attribuire all’art. 4 del Protocollo 4, chiarisce che “in applicazione della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, la Corte deve stabilire il senso comune da attribuire ai termini nel loro contesto e alla luce dell’oggetto e dello scopo della disposizione da cui sono tratti. Deve tenere conto del fatto che la disposizione in questione fa parte di un trattato per la protezione effettiva dei diritti dell’uomo e che la Convenzione deve essere vista come un insieme ed essere interpretata in modo da promuovere la propria coerenza interna e l’armonia tra le sue varie disposizioni”.

È proprio per garantire una “protezione effettiva” che è necessario adottare un’interpretazione teleologica non ancorata al significato letterale della disposizione326.

Alla tesi del Governo, secondo la quale il caso di specie non avrebbe potuto configurare un’espulsione perché avvenuta fuori dai confini territoriali, la Corte si è opposta nettamente.

Rinviando al capitolo 1 per la definizione del concetto di espulsione, è necessario ribadire in questa sede che nella sentenza Hirsi la Corte ha sancito definitivamente l’applicazione anche extraterritoriale dell’art.4, Protocollo 4327.

326Sull’ importanza e la necessità di un’interpretazione estensiva della disposizione Cfr. il

parere dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (HCDH), così come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (HCR) che in qualità di terzi intervenienti nel caso Hirsi hanno sostenuto “che l’articolo 4 del Protocollo n. 4 è applicabile al caso di specie” e che “la questione è cruciale, tenuto conto delle ripercussioni importanti che una interpretazione estensiva di questa disposizione potrebbe avere nel campo delle migrazioni internazionali” Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 164.

327

Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 173, in cui la Corte ha dichiarato che “se le cause esaminate finora riguardavano persone che si trovavano già, a vario titolo, nel territorio del Paese interessato, il contenuto dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 non ne ostacola l’applicazione extraterritoriale”.

Ad avviso dei ricorrenti non c’erano ostacoli all’applicazione dell’articolo in esame, poiché anche se la vicenda si era svolta in acque internazionali, i migranti, tra cui i ricorrenti, erano stati trasportati in Libia con una nave battente bandiera italiana e pertanto assimilata dall’articolo 4 del codice della navigazione, al territorio italiano.

L’orientamento della Corte è corroborato anche dall’assenza di riferimenti al concetto di “territorio” nell’art. 4, Protocollo 4, a differenza degli articoli 3, Protocollo 4, e 1, Protocollo 7, che invece contengono specifici riferimenti al termine.

La Corte ha allegato a sostegno della correttezza della propria interpretazione, anche i lavori preparatori dell’art.4 del Protocollo 4, in particolare dal rapporto esplicativo, redatto nel 1963, relativo al suddetto Protocollo si evince che il termine “espulsione” deve essere interpretato nel senso generico di “mandar via da un luogo”, pertanto il respingimento dei migranti avvenuto in alto mare rientra a pieno titolo nel concetto di espulsione delineato dall’art. 4, Protocollo 4.

Sulla necessità di adottare un’interpretazione evolutiva delle disposizioni della Convenzione, ci siamo già soffermati nel primo capitolo. In questa sede è sufficiente ribadire che la Corte ha ritenuto integrata la fattispecie vietata dall’art.4, Protocollo 4, anche tenendo presente che la Convenzione deve essere interpretata ed applicata in modo tale da rendere le garanzie in essa contenute concrete ed effettive e non teoriche ed illusorie328, ed era dunque necessaria in tal senso una pronuncia che sancisse la violazione del divieto di espulsioni collettive anche qualora il respingimento fosse avvenuto in acque internazionali.

Se la Corte avesse accettato l’eccezione del Governo, ritenendo inapplicabile l’articolo in esame perché il respingimento era avvenuto al di fuori dei confini territoriali, avrebbe privato di effettività la Convenzione e di tutela gran parte dei migranti che giungono in Europa

via mare, ed avrebbe implicitamente ammesso l’esistenza di una “zona grigia” in cui la Convenzione non avrebbe alcun rilievo ed i diritti dell’uomo sarebbero impunemente violati.

A questo proposito la Corte ha ribadito, come precedentemente affermato nel caso Medvedyev e altri contro Francia329 che “la specificità del contesto marittimo non può portare a sancire uno spazio di non diritto all’interno del quale gli individui non sarebbero soggetti ad alcun regime giuridico che possa accordare loro il godimento dei diritti e delle garanzie previsti dalla Convenzione e che gli Stati si sono impegnati a riconoscere alle persone poste sotto la loro giurisdizione”330.

Sembra rilevante, in tal senso, anche quanto dichiarato dall’agenzia ONU per i rifugiati, secondo la quale “il principio di non-refoulement non implica alcuna limitazione geografica. Secondo l’UNHCR, gli obblighi da esso risultanti si estendono a tutti gli agenti del Governo