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Divieto di espulsioni collettive e tutela dei diritti

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Indice

Introduzione p.4

Capitolo primo: Il concetto di espulsione

1.1 L’articolo 3 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea dei

diritti dell’uomo p.7

1.2 Il concetto di espulsione p.11

1.3 L’articolo 4 del Protocollo n. 4 della CEDU: aspetti

generali p.15

Capitolo secondo: Presupposti che integrano la fattispecie del divieto di espulsioni collettive

2.1 Elemento quantitativo p.20

2.2 Motivazione del respingimento e divieto di refoulement p.23 2.2.1 Principio di non-refoulement e tutela par ricochet offerta

dalla CEDU p.23

2.2.2 Il contenuto del principio del non-refoulement p.32

2.2.3 L’esame ragionevole ed obiettivo p.44

2.3 Le modalità del respingimento p.46

Capitolo terzo: La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di espulsioni collettive

3.1 La giurisprudenza della Corte precedente alla sentenza Hirsi

e altri c. Italia p.58

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3.2.1 La validità delle procure p.97 3.2.2 La giurisdizione dell’Italia e le implicazioni derivanti

dall’applicazione dell’ articolo 1 della CEDU p.101 3.2.3 La violazione dell’articolo 3 della CEDU e del principio di

non-refoulement diretto ed indiretto p.112

3.2.4 La violazione dell’art. 4 del Protocollo 4 della CEDU p.122 3.2.5 La violazione dell’art. 13 della CEDU p.136 3.2.6 La condanna: misure di carattere generale e misure di

carattere individuale p.145

3.2.7 Conclusioni p.151

3.3 La giurisprudenza della Corte EDU successiva alla sentenza

Hirsi e altri c. Italia p.160

3.3.1 Il caso Georgia c. Russia p.160

3.3.2 La sentenza Sharifi e altri c. Italia e Grecia p.170 3.3.2.1 L’eccepita invalidità delle procure p.173 3.3.2.2 Le allegate violazioni degli articoli 2, 3 e 13 della CEDU

da parte della Grecia p.182

3.3.2.3 Le allegate violazioni degli articoli 2, 3, 13 e 34 della Convenzione e dell’articolo 4 del Protocollo 4 da parte

dell’Italia p.194

3.3.2.4 Conclusioni p.209

3.3.3 Sostanziale inosservanza della Convenzione a seguito delle

condanne della Corte EDU p.213

3.3.4 Il caso Khlaifia ed altri c. Italia p.217

Conclusioni p.228

(4)

Introduzione

Il presente elaborato si propone di esaminare il divieto di espulsioni collettive sancito dall’articolo 4 del Protocollo 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

L’interesse per tale tematica nasce dall’avvertita esigenza di approfondire la ratio e la portata del divieto di respingimenti collettivi e sommari a fronte, da un lato, dei recenti avvenimenti che toccano fortemente il nostro Paese, in quanto particolarmente interessato, dal punto di vista geografico, alla gestione ed accoglienza del gran numero di migranti che fuggono dai continenti africano ed asiatico, e, dall’altro, delle recenti politiche in materia di immigrazione proposte da alcuni Stati europei che sembrano essenzialmente elusive della Convenzione.

Il primo capitolo si propone di fornire un quadro di riferimento relativamente alle disposizioni che tutelano i cittadini e gli stranieri da espulsioni arbitrarie.

I primi paragrafi si soffermano sugli articoli 3 e 4 del Protocollo 4 che hanno consentito, attraverso anche un’esegesi dei lavori preparatori, di ricostruire la definizione e la ratio del divieto di espulsioni collettive. Il secondo capitolo ricostruisce i presupposti integrativi della fattispecie esaminata, gli elementi indicativi dell’integrazione del divieto, i quali, però, è bene ricordarlo, non possono condurre automaticamente a ritenere violato l’articolo 4 del Protocollo 4, richiedendo al contrario una valutazione dei fattori indicativi complessivamente intesi.

I fattori che possono denotare l’attuazione di un’espulsione collettiva sono l’elemento quantitativo concernente il concetto di collettività, le modalità attraverso le quali si concretizza il respingimento e la motivazione del provvedimento di espulsione.

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Tale ultimo fattore acquisisce fondamentale importanza nella valutazione della legittimità del respingimento, in quanto solo le espulsioni precedute da un esame ragionevole ed obiettivo degli individui singolarmente considerati potrà evitare la violazione del divieto dell’art. 4, Protocollo 4.

Avendo riguardo all’esame delle circostanze, è opportuno operare un particolare riferimento al principio di non-refoulement ed alle implicazioni derivanti dalla sua applicazione.

Il terzo ed ultimo capitolo analizza la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in relazione al divieto di espulsioni collettive, soffermandosi sul mutato orientamento della Corte anteriormente e successivamente al caso Hirsi e al. c. Italia, che ha avuto un ruolo cardine nell’evoluzione della giurisprudenza in materia di respingimenti massivi ma più in generale di tutela dei diritti umani.

Nel primo paragrafo del terzo capitolo, si cerca di dare conto dell’orientamento assunto dalla Corte di Strasburgo in relazione a denunce di espulsioni collettive, esaminando alcuni ricorsi sottoposti all’esame di quest’ultima, indispensabili per comprendere la portata innovativa della decisione del caso Hirsi.

Il secondo paragrafo è dedicato interamente all’analisi del caso Hirsi che rappresenta una necessaria inversione di tendenza, richiesta a gran voce dalle organizzazioni internazionali governative e non, impegnate nella tutela dei migranti e dei diritti umani in generale.

Sono approfondite pertanto le doglianze che fondano il caso Hirsi, a seguito del quale il nostro Paese, nonostante i vani tentativi di ottenere la cancellazione della causa dal ruolo, è stato condannato per la violazione degli articoli 3 e 13 e dell’articolo 4, Protocollo 4 della CEDU.

Tale decisione ha rivestito un ruolo particolare, proponendosi di condannare, non solo i respingimenti collettivi attuati dall’Italia, ma più

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in generale la prassi delle espulsioni collettive poste in essere da vari Stati dell’Unione europea in contrasto con il Protocollo 4.

Nella parte finale del capitolo vengono analizzate le decisioni della Corte europea in materia, successive al caso Hirsi, al fine di verificare se l’orientamento innovatore in esso adottato sia stato seguito anche successivamente.

È approfondita in particolar modo la sentenza Sharifi e al. c. Italia e Grecia, in cui è possibile apprezzare la parziale continuità con l’orientamento precedente, nonostante sia doveroso osservare un ritorno al passato per quanto concerne la valutazione delle procure.

Il capitolo si conclude con un breve riferimento agli avvenimenti più recenti che denotano una sostanziale elusione dei principi inequivocabilmente sanciti dalla Convenzione e dalle più recenti decisioni della Corte di Strasburgo.

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Capitolo primo : Il concetto di espulsione

1.1 L’articolo 3 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo

La materia delle espulsioni di stranieri, da sempre terreno di scontro tra forze politiche che più che regolamentare le espulsioni sembrano impegnate nella mera repressione dei flussi migratori, spesso a discapito della tutela dei diritti umani, rientra nella domestic jurisdiction1dei singoli stati.

La regolamentazione della materia è dunque affidata alle leggi nazionali che decidono liberamente i presupposti e le modalità per procedere all’espulsione di individui, con l’unico limite del rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale e dalla stipulazione di trattati2.

A riprova dell’esistenza di un diritto degli Stati ad espellere, respingere, estradare individui in autonomia attraverso le proprie leggi, è possibile osservare che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo3 non si preoccupa di intervenire in materia4 se non all’articolo 5 che ci

1 Tale principio, ormai pacificamente condiviso nel diritto internazionale, è confermato dalla giurisprudenza della Corte europea. Ex plurimis: Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito , sentenza del 28 maggio 1985 (ricc. nn. 9214/80; 9473/81; 9474/81), par. 67; Boujlifa c. Francia, sentenza del 21 ottobre 1997, (ric. n. 25404/94), par. 42 e Saadi c. Italia, sentenza del 28 febbraio 2008 (ric. n. 37201/06), par. 124.

2 Cfr. articolo 3, Protocollo 4 CEDU in Commentario breve alla Convenzione europea per la

salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, S. Bartole, P. De Sena, V.

Zagrebelsky (a cura di), Padova, CEDAM,2012, p.867 ss.

3 La Convenzione europea è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 dai 12 stati al tempo membri del Consiglio d'Europa (Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia, Turchia) ed è entrata in vigore il 3 settembre 1953, ma per l'Italia solo il 10 ottobre 1955. È stata ratificata da parte di tutti i 47 Stati membri (al 22 giugno 2007) del Consiglio d'Europa.

4 Tale atteggiamento della Corte , di non disciplinare la materia è stato definito da Sudre come un “ vide normatif partiel ” in L’éloignement des étrangers délinquant et l’article 8 de

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fornisce un elenco tassativo dei casi in cui la libertà del soggetto può essere limitata.

In particolare, la lettera (f) dell’elenco enuncia la possibilità di privare della libertà un soggetto “se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”5.

Tale lacuna nella Convenzione può essere compresa solo avendo presente il quadro storico in cui essa è stata emanata6.

La Convenzione risale come noto alla seconda metà del ‘900, epoca in cui l’Europa, frantumata dal secondo conflitto mondiale, ha tentato di ridisegnare i confini dei paesi dell’Europa orientale.

È in questo momento storico, attorno al 1949, che è stata effettuata l’espulsione di circa 16 milioni di cittadini tedeschi da Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria verso la Germania come deciso nella conferenza di Potsdam. Questo comportamento posto in essere dai vincitori della seconda guerra mondiale, che verrà poi condannato dal tribunale di Norimberga come crimine contro l’umanità, avrebbe impedito l’inserimento di una disposizione che vietasse le espulsioni di massa nella Convenzione7.

Infatti, il primo documento che ha preteso l’emanazione di una simile disposizione è stata la Convenzione di Stabilimento8 del 1955,

5 Limiti al diritto degli Stati di espellere ed allontanare arbitrariamente stranieri possono ricavarsi dall’art 1 Protocollo 7 “garanzie procedurali in caso di espulsioni di stranieri” e più indirettamente o “par ricochet” dagli articoli 8 “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, 2 e 3 della CEDU che avremo modo di approfondire in un secondo momento (vedi infra cap. 2) .

6 Cfr. Jean-Marie Henckaerts, Mass Expulsion in Modern International Law and Practice, Boston, Martinus Nijhoff Publishers / Brill Academic, 1995, p. 8 .

7 Cfr. Jean-Marie Henckaerts , Mass Expulsion in Modern International Law and Practice, cit, p. 9.

8 La Convenzione Europea di Stabilimento è stata firmata a Parigi il 13 dicembre 1955 ed è entrata in vigore in Italia il 23 febbraio 1965 .

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sebbene con una portata limitata, occupandosi essa soltanto dell’espulsione individuale di cittadini9.

Per avere un’esplicita tutela in tema di espulsioni all’interno della CEDU, dovremo attendere l’entrata in vigore, nel 1968, del Protocollo addizionale n. 4 che agli articoli 3 e 4, ha disciplinato l’espulsione individuale e collettiva dei cittadini in un chiaro e dettagliato art. 3, e l’espulsione collettiva di stranieri in un conciso e laconico art . 410.

L’espulsione individuale di stranieri è rimasta invece nell’esclusivo ambito di competenza interna dei singoli Stati.

Le due disposizioni in esame hanno la comune finalità di limitare l’arbitrarietà degli Stati nell’allontanare individui, ma hanno destinatari diversi, rispettivamente, come detto, i cittadini all’art. 3 e gli stranieri all’art. 4.

L’art. 3 dispone che “ nessuno può essere espulso, a seguito di una misura individuale o collettiva, dal territorio dello Stato di cui è cittadino” e che “ nessuno può essere privato del diritto di entrare nel territorio dello Stato di cui è cittadino”.

A questo punto rileva definire il concetto di “cittadino” e dunque ricavare in negativo quello di “straniero” come pacificamente accettato dal diritto internazionale11.

9 L’ articolo 3 della Convenzione Europea di Stabilimento recita: “1 Nationals of any

Contracting Party lawfully residing in the territory of another Party may be expelled only if they endanger national security or offend against order public or morality. 2.Except where imperative considerations of national security otherwise require, a national of any Contracting Party who has been so lawfully residing for more than two years in the territory of any other Party shall not be expelled without first being allowed to submit reasons against his expulsion and to appeal to, and be represented for the purpose before, a competent authority or a person or persons specially designated by the competent authority. 3Nationals of any Contracting Party who have been lawfully residing for more than ten years in the territory of any other Party may only be expelled for reasons of national security or if the other reasons mentioned in paragraph 1 of this article are of a particularly serious nature”.

10

Jean-Marie Henckaerts, Mass Expulsion in Modern International Law and Practice, cit, p.10.

11Cfr. B. Nascimbene, divieto di espulsioni collettive di stranieri, in S. Bartole, B. Conforti,

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I requisiti necessari per ottenere lo status di cittadino sono demandati alla legislazione nazionale dello Stato di cui si intende acquisire la cittadinanza ed è dalla definizione di cittadino che potremo ricavare in negativo quella di straniero: “è straniero colui che non è cittadino dello Stato che procede all’espulsione”12.

È da notare tuttavia che il concetto di cittadinanza può assumere anche una rilevanza “internazionale”.

Infatti, affermando che “nessuno può essere privato del diritto di entrare nel territorio dello Stato di cui è cittadino” 13, l’art. 3 ci fornisce una regola fondamentale perché attraverso la stipulazione di accordi di riammissione tra lo Stato espellente l’individuo e lo Stato di cui il soggetto è cittadino (che è dunque obbligato a riammetterlo ex art. 3) è possibile eliminare alcuni ostacoli che potrebbero presentarsi in fase di esecuzione dell’espulsione.

L’obbligo imposto agli Stati dall’art. 3, nonostante la sua formulazione rigorosa ed apparentemente inderogabile, presenta delle eccezioni. È infatti possibile per lo Stato allontanare i suoi cittadini, ad esempio nel caso in cui dopo l’estradizione dal proprio Paese di origine un soggetto sia evaso dalla prigione del Paese ospitante, in quel caso lo Stato di cui è cittadino non ha l’obbligo di riammetterlo.

una definizione di straniero nell’ambito della Convenzione europea cfr. il doc. DH/Exo/Misc. (62) 11, del 9 marzo 1962, p. 505 secondo cui sono stranieri “ all those who have no actual

right to nationality in a state, wheter they are merely passing through a country or reside or are domiciled in it, wheter they are refugees or entered the country on their own initiative, or wheter they are stateless or possess another nationality”.

12

Cfr. Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti

dell’uomo e delle libertà fondamentali di S.Bartole, P.De Sena, V.Zagrebelsky (a cura di) ,

cit, art. 3 protocollo 4, p.867.

13Questo principio è stato più volte ribadito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ex

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Ancora, il soggetto che presta servizio militare alle dipendenze di uno Stato diverso da quello di cui è cittadino, non ha il diritto di essere nuovamente accettato nel proprio Paese14.

Concludendo, è da riconoscere la sostanziale “irrilevanza del fenomeno dell’espulsione e della non ammissione dei propri cittadini”15 che ha avuto rilievo solo in pochi trascurabili casi16.

1.2 Il concetto di espulsione

Di maggior interesse e notevole rilevanza soprattutto alla luce degli eventi degli ultimi anni che hanno contribuito ad un aumento esponenziale dei flussi migratori17, è il tema delle espulsioni di stranieri.

Nel difficile bilanciamento tra il diritto degli Stati ad arginare il fenomeno dell’immigrazione illegale e l’imprescindibile tutela dei diritti umani, gioca un ruolo fondamentale la definizione del concetto di espulsione.

14Cfr. Explanatory Report Protocol No. 4 to the Convention for the Protection of Human

Rights and Fundamental Freedoms par. 28, reperibile al link

http://conventions.coe.int/Treaty/EN/Reports/Html/046.htm.

15

Cfr. art. 3 protocollo 4, Commentario breve alla Convenzione Europea per la Salvaguardia

dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali di Bartole, De Sena, Zagrebelsky (a cura

di), cit, p. 870.

16Ha avuto rilievo ad esempio nel caso Vittorio Emanuele di Savoia c. Italia. Il ricorrente

lamentò l’impossibilità di accedere al territorio italiano per i discendenti della famiglia Savoia in virtù della XIII disposizione transitoria della Costituzione, che è stata poi abrogata con legge costituzionale n.1 del 23.10.2002. La vicenda si concluse con la cancellazione dal ruolo del ricorso perché la controversia si risolse con la modifica del testo costituzionale. Un caso analogo riguardò i discendenti dell’ultimo imperatore d’Austria (figlio e nipote cittadini austriaci) che furono banditi dal territorio austriaco con una legge del 1919 ritenuta compatibile con il Protocollo e la Convenzione.

17

Cfr. "Nei primi 4 mesi del 2014 c'è stato un aumento del 823% di arrivi di migranti verso l'Italia rispetto allo stesso periodo del 2013". Così il vice direttore di Frontex, Gil Arias Fernandez, presentando i dati dell'agenzia. Il primo quadrimestre del 2014 ha segnato il record negli ultimi 5 anni, fatta eccezione per i mesi della Primavera araba del 2011. Da www.repubblica.it del 14.05.2014.

(12)

Per espulsione deve intendersi qualsiasi provvedimento di allontanamento18, avvio, invio, rimpatrio19o comportamento materiale20 che abbia lo scopo di “chasser hors d'un endroit”21.

Rientrano dunque in questa accezione di espulsione non solo i respingimenti alla frontiera, ma anche quelli effettuati in alto mare, mentre resta esclusa dalla nozione in esame la procedura di estradizione

22

.

In effetti, nonostante si possa riconoscere al termine espulsione, come del resto al termine giurisdizione, un’accezione prevalentemente

18 Cfr. Art. 3 Protocollo 4, Commentario breve alla Convenzione Europea per la

Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali di Bartole, De Sena,

Zagrebelsky, cit, p.869 “la nozione di espulsione deve essere intesa in senso estensivo ,vale a dire comprendente qualsiasi misura di allontanamento da un territorio ad eccezione delle misure di estradizione”.

19Bruno Nascimbene, Le garanzie nel procedimento di espulsione dello straniero , in “diritti

dell’uomo estradizione ed espulsione” (a cura) di Francesco Salerno, pag. 186.

20Le riflessioni che seguono valgono anche nel caso in cui a porre in essere le misure di

espulsione, allontanamento rimpatrio sia Frontex, l’agenzia dell’Unione Europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea costituita con il regolamento n.2004/2007 (recentemente modificato dal regolamento 1168/2011). Frontex infatti, a partire dall’operazione Hera II , è sicuramente stata coinvolta in operazioni di intercettazione in acque territoriali dei paesi terzi dai quali provengono migranti quali Senegal , Mauritania, Capo Verde, aprendo tutta una serie di problematiche concernenti l’imputabilità e la responsabilità dei comportamenti posti in essere dato che gli attori delle operazioni di Frontex sono molteplici: lo Stato che ospita la missione, gli Stati partecipanti, Frontex stessa, eventualmente anche organizzazioni internazionali come la NATO, infine Stati terzi. È da segnalare che Human Rights Watch ha accusato Frontex di aver preso parte ai respingimenti Italia-Libia (escluso però il caso Hirsi) e nonostante Frontex abbia negato qualsiasi responsabilità, è certo che l’operazione Nautilus si sia svolta proprio in un periodo coincidente con i respingimenti (aprile- ottobre 2009). Cfr. Anna Liguori, La

corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per i respingimenti verso la Libia del 2009: il caso Hirsi, in rivista di diritto internazionale , 2012, pag. 439; cfr. rapporto di

Human Rights Watch, Pushed Back, Pushed Around pag.37. Per un esame completo delle funzioni di Frontex e delle problematiche connesse alle missioni dell’agenzia cfr. A. Liguori e N. Ricciuti, Frontex ed il rispetto dei diritti umani nelle operazioni congiunte alle frontiere

esterne dell’Unione Europea, in Diritti umani e diritto internazionale, 2012, pag. 539-567.

21

Cfr. Expalanatory report protocol no 4, par. 22 in cui si afferma che ”Le mot "expulsion"

doit être compris ici dans le sens générique que lui reconnaît le langage courant (chasser hors d'un endroit)” .

22 Cfr. Expalanatory report protocol no 4, par. 22 “il a été entendu que l'extradition se

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territoriale23, è necessario ammetterne una portata anche extraterritoriale nel caso eccezionale in cui uno Stato eserciti la propria giurisdizione al di fuori del territorio nazionale, ad esempio nelle acque internazionali.

L’espulsione rappresenterebbe in questo caso, non tanto un “allontanamento da un luogo geografico, quale il territorio di uno Stato, quanto piuttosto come un allontanamento da uno spazio giuridico sul quale insiste l’esercizio della giurisdizione”24.

Troviamo conferma di quanto appena affermato nella sentenza Hirsi25 in cui la Corte europea aveva deciso per la prima volta nel merito la questione dell’applicazione dell’art. 4, Protocollo 4 ad un caso di respingimento di stranieri effettuato in alto mare26, avvalendosi di un’interpretazione del termine “countertextually”27.

Nel caso di specie, il Governo Italiano aveva eccepito l’inapplicabilità dell’art. 4 del Protocollo 4 perché: “la garanzia offerta da tale disposizione entra in gioco solo in caso di espulsione di persone che si trovano sul territorio di uno Stato o che hanno attraversato illegalmente la frontiera nazionale. Nella presente causa, la misura in

23 N. Napoletano, La condanna dei “respingimenti” operati dall’Italia verso la Libia da

parte della Corte Europea dei diritti umani: molte luci e qualche ombra, in Diritti umani e diritto internazionale, 2012, pag. 439.

24Cit N. Napoletano, La condanna dei “respingimenti” operati dall’Italia verso la Libia, cit,

p.439.

25

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ricorso n.27765/09 decisione del 23 febbraio 2012, traduzione a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, eseguita da Martina Scantamburlo, Rita Pucci e Rita Carnevali, funzionari linguistici, reperibile al link https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?facetNode_1=1_2%282012%29&facetNo de_2=0_8_1_85&previsiousPage=mg_1_20&contentId=SDU743291.

26

Cfr. Anna Liguori, La corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per i

respingimenti ,cit, pag. 430 ss.

27Francesco Messineo, Yet another mala figura: Italy breached non-refoulement obligations

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questione corrisponderebbe ad un rifiuto di autorizzare l’entrata nel territorio nazionale piuttosto che a una «espulsione»”28.

La posizione assunta dalla Corte, che aveva respinto in modo inequivocabile la tesi del Governo Italiano, può essere sostenuta anche muovendo da una mera interpretazione letterale.

Infatti, mentre troviamo un esplicito riferimento al “territorio” all’art. 3 della CEDU e all’articolo 1 del Protocollo 7 della CEDU, esso è assente nell’art. 4, Protocollo n. 4, a riprova del fatto che, per quanto concerne le espulsioni collettive, è necessario inquadrare il fenomeno in un ambito extraterritoriale per ottenere un’interpretazione conforme allo scopo della disposizione29.

È possibile tuttavia riconoscere un’efficacia extraterritoriale al termine anche attraverso un’interpretazione “teleologica ed evolutiva”30 della Convenzione che è “un instrument vivant qui doit etre interprété à la lumière des conditions actuelles”31.

Interpretazione teleologica ed evolutiva che è del resto necessaria a garantire un’utilità effettiva alla Convenzione e dunque un’effettiva tutela dei diritti dell’uomo.

Se così non fosse e considerassimo il termine espulsione come “vincolato” alla sua sfaccettatura territoriale resterebbero prive di tutela tutte le persone che costituiscono ad oggi una parte consistente degli attuali flussi migratori32, in palese violazione della Convenzione e

28Cfr. Hirsi Jamaa e altri c. Italia, cit, par. 160.

29 Antonella Ciervo, Il miglio verde: note a prima lettura alla sentenza Hirsi, in

www.diritticomparati.it

30 Cfr. Hirsi Jamaa e altri c. Italia, cit, par. 162; cfr. a conferma di quanto affermato la

Convenzione di Vienna in tema di interpretazione dei trattati, articoli 31-33, che richiede un’interpretazione che tenga conto del contesto e dello scopo della Convenzione.

31Cit. Hirsi Jamaa e altri c. Italia, cit, par. 175 ; come riconfermato anche in F.Lenzerini , Il

principio del non refoulement dopo la sentenza Hirsi della Corte Europea dei diritti dell’uomo in rivista di diritto internazionale,2012 ; N. Napoletano, La condanna dei

“respingimenti” operati dall’Italia verso la Libia, cit, p. 438.

32 Cfr. Hirsi Jamaa e altri c. Italia, cit. par. 177 in particolare, facendo riferimento alla

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delle principali carte e trattati che sanciscono la tutela dei diritti fondamentali creando inoltre una zona grigia di non diritto nelle acque internazionali, dove sarebbe possibile violare impunemente i diritti dell’uomo33.

1.3 L’articolo 4 del Protocollo n. 4 della CEDU: aspetti generali

Nella sentenza Hirsi, dunque, è stata utilizzata per la prima volta un’interpretazione evolutiva dell’art. 4 del Protocollo n. 4, secondo il quale le espulsioni collettive di stranieri sono vietate34.

La formulazione originaria dell’articolo 4, Protocollo 4 redatta dall’Assemblea Consultiva del Consiglio d’Europa35è molto simile, per lessico usato e contenuto, all’art. 3 della Convenzione di Stabilimento36.

via mare e che essendo respinti prima ancora di approdare sulla terraferma, non avrebbero diritto neppure ad un esame individuale del loro specifico status, a differenza dei migranti che raggiungono la frontiera via terra.

33

Cfr. Hirsi Jamaa e altri c. Italia, cit, par. 178 “ la specificità del contesto marittimo non può portare a sancire uno spazio di non diritto all’interno del quale gli individui non sarebbero soggetti ad alcun regime giuridico che possa accordare loro il godimento dei diritti e delle garanzie previsti dalla Convenzione”.

34Il divieto di espulsioni collettive compare anche in altri trattati di diritto europeo. L’art. 78

TFUE impone che l’acquis in materia di asilo sia conforme agli “altri trattati pertinenti” ; l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE prevede più specificamente che “1. Le espulsioni collettive sono vietate.2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”.

35La bozza originaria dell’art. 4 del Protocollo 4, come si evince dall’ Explanatory report,

disponeva: "1. Tout étranger résidant régulièrement sur le territoire d'une Haute Partie

Contractante ne peut être expulsé que s'il menace la sécurité de l'Etat ou a contrevenu à l'ordre public ou aux bonnes moeurs.2. Tout étranger résidant régulièrement depuis plus de deux ans sur le territoire de l'une des Parties Contractantes ne peut faire l'objet d'une mesure d'expulsion qu'après avoir été admis, à moins de motifs impérieux touchant à la sécurité de l'Etat, à faire valoir les raisons qu'il peut invoquer contre son expulsion et à présenter un recours effectif à cet effet devant une instance nationale au sens de l'article 3 de la Convention.3. Tout étranger résidant régulièrement depuis plus de dix ans sur le territoire de l'une des Parties Contractantes ne peut être expulsé que pour des raisons touchant à la sécurité de l'Etat ou si les autres raisons mentionnées au paragraphe 1 du présent article revêtent un caractère particulier de gravité”

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La somiglianza avrebbe potuto creare rischi di conflitto tra le due disposizioni.

In realtà questo timore poteva essere facilmente fugato sottolineando il diverso ambito d’applicazione soggettiva dei due articoli in questione. È più ragionevole ritenere che il motivo che ha condotto all’odierna e sintetica formulazione dell’art. 4, che recita “le espulsioni collettive di stranieri sono vietate” , omettendo quindi quanto affermato nella bozza originaria in materia di espulsioni individuali di stranieri, sia un altro.

Le espulsioni individuali di stranieri resterebbero escluse dalla tutela della CEDU perché “le Comité n'aurait pu adopter une disposition limitant les motifs de l'expulsion37”, ribadendo (v. supra 1.1) la necessaria autonomia degli Stati in materia di ingresso ed espulsione di stranieri.

In realtà il Comitato ha auspicato l’inserimento nella Convenzione di una disposizione in tal senso, che limitasse l’arbitrio degli Stati in materia di espulsione a vantaggio di un ampliamento della tutela dei soggetti38; alla fine però ha ritenuto preferibile non inserire alcuna disposizione in tal senso39, piuttosto che limitare la tutela al conferimento di garanzie procedurali.

Infatti, non si sarebbero potute applicare le garanzie procedurali a difesa del migrante ogni qual volta lo Stato avesse lamentato l’esistenza di ragioni impellenti riguardanti l’ordine pubblico, e la valutazione dell’ effettiva esistenza di queste ragioni sarebbe spettata allo Stato; inoltre,

37

Cfr. Explanatory report protocol no 4 § 34 lett. b).

38La disposizione sarebbe stata formulata in questo modo : “A moins que l'Etat ne considère

que des raisons impérieuses touchant à sa sécurité ne s'y opposent, l'expulsion ne peut avoir lieu sans que l'étranger ait eu la possibilité de faire valoir les raisons qu'il peut invoquer contre cette mesure, de faire examiner son cas par une autorité compétente ou par une ou plusieurs personnes désignées par ladite autorité et, s'il le désire, de se faire représenter devant ces autorités lors de l'examen de son cas." In Explanatory report protocol no 4 § 34”.

39Quanto appena affermato può valere fino all’entrata in vigore, nel 1992 per l’Italia, del

Protocollo n.7 che all’art. 1 conferisce agli stranieri “ garanzie procedurali in caso di espulsione”.

(17)

lo straniero non avrebbe avuto alcuna garanzia d’imparzialità del giudizio sulla sua condizione perché l’autorità competente ad esaminarla avrebbe avuto competenza anche ad espellerlo.

Si può dunque concludere che il Comitato ha preferito non attribuire, almeno in un primo momento40, alcuna protezione contro le espulsioni individuali di stranieri, piuttosto che inserire nella Convenzione una disposizione che avrebbe avuto una portata limitata.

Il divieto di espulsioni collettive è presente non solo nella CEDU all’articolo 4, Protocollo 4, ma anche in altre Convenzioni internazionali.

Ad esempio, l’art 22 § 9 della Convenzione americana41, entrata in vigore nel 1978, vieta le espulsioni collettive di stranieri. È stata invocata per la prima volta la violazione dell’art. 22 nel 199142. In quell’occasione la Inter-American Commission on Human Rights ha avuto modo di sottolineare la sostanziale coincidenza tra la ratio dell’art 22 della Convenzione americana ed il corrispondente articolo 4 del Protocollo 4 della CEDU.

Nel 1986 entrò in vigore anche la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli43,che, all’art. 12 §5, vieta le espulsioni collettive,

40

Vedi supra nota 37.

41

American Convention on Human Rights "Pact of San Jose, Costa Rica". È un trattato

internazionale sui diritti umani adottato dalle nazioni dell'incontro delle Americhe a San José, Costa Rica nel 1969. Essa entrò in vigore il 18 luglio 1978.

42Cfr. Decision Sale v. Haitian Centers Council, INC. 113 S.Ct. 2549.U.S. Supreme Court,

21 giugno, 1993. Nel caso in esame furono intercettati e respinti in alto mare una moltitudine di migranti che fuggendo da Haiti tentavano di raggiungere le coste degli Stati Uniti d’America per invocare la concessione dell’asilo. La marina statunitense ricevette dal Presidente Bush, l’ordine di respingere collettivamente i migranti, senza valutare le singole situazioni ed eventuali richieste di asilo sul presupposto che, trattandosi di respingimento in acque internazionali, i trattati stipulati dagli Stati Uniti in materia di divieto di refoulement non sarebbero stati vigenti. Per una trattazione approfondita del suddetto caso F.Lenzerini, Il

principio del non-refoulement dopo la sentenza Hirsi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, cit.

43La Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli è stata adottata il 28 giugno 1981 a

Nairobi (Kenya) ed è entrata in vigore il 21 ottobre 1986. E' stata ratificata da tutti i 53 Stati membri dell'Unione Africana.

(18)

conferendo però al divieto un’accezione diversa rispetto a quella che rinveniamo nella CEDU e nella Convenzione americana. L’art. 12 afferma che “ l'espulsione collettiva di stranieri è vietata. L'espulsione collettiva è quella che tocca globalmente gruppi nazionali, razziali, etnici o religiosi”. La disposizione sembrerebbe finalizzata a vietare l’espulsione collettiva di gruppi nazionali, razziali, etnici o religiosi44.

Volendo comparare le tre Carte fondamentali, potremmo desumere dalla formulazione dei divieti, due standard qualitativi diversi 45. Da un lato, la Carta americana e la CEDU, concentrate nel limitare l’arbitrarietà delle espulsioni e dall’altro la Carta africana che sembra improntata alla riduzione di comportamenti discriminatori effettuati tramite l’allontanamento di un gruppo etnico, religioso ecc..

In realtà, gli aspetti in esame sono due facce della stessa medaglia, in quanto l’espulsione di una pluralità di persone senza un previo esame individuale implica l’esistenza di un comportamento discriminatorio basato sulla nazionalità, sull’etnia, sulla religione46, con la conseguenza che non sussiste alcun contrasto tra le tre Carte dei diritti.

Quel che si può rilevare è che i presupposti del divieto di espulsioni collettive sono la presenza di un gruppo (mass) e l’assenza di un esame individuale. Questi due elementi si combinano diversamente nelle tre Convenzioni.

La Carta africana vieta principalmente comportamenti discriminatori effettuati attraverso espulsioni collettive, mentre proibisce l’arbitrarietà, l’assenza di un esame specifico, di ciascun singolo individuo sottoposto

44In Africa in effetti più volte la misura dell’espulsione collettiva è stata utilizzata come

strumento di rappresaglia e ritorsione. Questo accadde ad esempio nel 1978 quando circa 9000 cittadini del Benin furono espulsi dal Gabon a causa dei pessimi rapporti personali tra i Presidenti dei due stati ed ovviamente senza che fosse effettuato alcun esame individuale dei soggetti espulsi.

45

Jean-Marie Henckaerts , Mass Expulsion in Modern International Law and Practice, cit. pag. 19.

46Jean-Marie Henckaerts , Mass Expulsion in Modern International Law and Practice, cit.

(19)

alla misura di espulsione collettiva, in termini più generali. Al contrario la CEDU e la Carta americana proibiscono principalmente l’arbitrarietà, vietando la discriminazione soltanto in modo indiretto.

In conclusione, e rimandando ad un secondo momento per un’analisi più dettagliata degli aspetti e dei presupposti delle espulsioni collettive (v. cap. 2), è necessario comprendere cosa s’intenda per “espulsione collettiva” almeno in termini generali, e quale sia la ratio dell’articolo 4 del Protocollo 4.

Possiamo ricavarne una definizione dalla sentenza Becker c. Danimarca47, dalla quale si evince che è espulsione collettiva “any measure compelling aliens as a group to leave the country, except where such a measure is taken after and on the basis of a reasonable and objective examination of the particular case of each individual alien of the group”48.

È possibile cogliere già da questa definizione il fulcro del divieto ed il fine ultimo dell’articolo 4, che consiste dunque nell’evitare che attraverso un’espulsione collettiva siano respinti una pluralità di individui senza un esame individuale del loro status, in possibile contrasto con il principio di non refoulement, e senza consentire agli interessati di ricorrere contro le misure adottate nei loro confronti49.

47

Cfr. Henning Becker c. Danimarca, ricorso n. 7011/75, decisione del 3 ottobre 1975; cfr.

Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 162.

48Becker c. Danimarca, cit, p. 215.

49 Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 177 ; Anna Liguori, La Corte europea dei diritti

dell’uomo condanna l’Italia per i respingimenti verso la Libia, cit, pag. 432 ; Francesco

Messineo, Yet another mala figura: italy breached non-refoulement obligations by

intercepting migrant’s boats at sea, cit ; Jean-Marie Henckaerts ,in Mass Expulsion in Modern International Law and Practice, in cui afferma: “mass expulsions are fundamentally illegal under international law because they cannot take individual circumstances into consideration”.

(20)

Capitolo

secondo:

Presupposti

che

integrano

la

fattispecie del divieto di espulsioni collettive

2.1 Elemento quantitativo

Come precedentemente accennato (v. cap. 1 § 1.3 ), le espulsioni collettive sono definite nella sentenza Becker50, ma anche in altri casi51, dalla Corte, come “qualsiasi misura dell’autorità competente che costringa degli stranieri, in quanto gruppo, a lasciare un Paese, salvi i casi in cui una tale misura venga adottata all’esito e sulla base di un esame ragionevole e oggettivo della situazione particolare di ciascuno degli stranieri che compongono il gruppo”.

La fattispecie è dunque caratterizzata dalla presenza di due elementi: uno quantitativo, che consiste nella presenza di un gruppo e l’altro concernente l’arbitrarietà della misura di espulsione che non tiene conto delle situazioni particolari dei singoli individui.

Pur riconoscendo lo strettissimo legame sussistente tra i due elementi, è opportuno in questa sede analizzare brevemente il primo profilo, quello quantitativo, riservando ad altro momento ( v. § 2.2) un approfondimento specifico del secondo elemento consistente nella necessità di un esame ragionevole ed obiettivo dei singoli casi.

Data la complessità della fattispecie, non si potrà parlare di espulsione collettiva nel caso in cui lo Stato riesca ad esaminare

50Becker c. Danimarca, cit, pag. 215.

51Cfr. Hirsi Jamaa e altri c. Italia , cit , par. 166 ; cfr. Čonka c. Belgio, ricorso n. 51564/99,

sentenza del 5 febbraio 2002, § 59; Andric c. Svezia, ricorso n. 45917/99, decisione di inammissibilità del 23 febbraio 1999, punto 1 della parte in diritto; M.A. c. Cipro, ricorso n. 41872/10,decisione del 23 ottobre 2013, § 245; Ghulami c. Francia ricorso n. 45302/05, 7 aprile 2009; Sultani c. Francia, ricorso n. 45223/05, § 81; Davydov c. Estonia, ricorso n. 16387/03, 31 maggio 2005; A. ed altri c. Olanda, n. 14209/88, decisione della Commissione del 16 dicembre 1988.

(21)

individualmente i singoli casi ed a garantire il diritto di difesa ai soggetti interessati52.

Nonostante, dunque, la presenza di un gruppo sia una componente necessaria per poter parlare di espulsioni collettive, è importante chiarire che il numero di persone coinvolte dalla misura collettiva non è determinabile a priori53.

Quel che si può senz’altro rilevare è che l’espulsione collettiva è sempre intrinsecamente sospetta. Il carattere massivo della misura sottende l’assenza di un esame effettivo dei singoli casi, determinando la colpevolezza dello Stato a meno che esso non riesca a fornire una prova contraria, e dunque la sussistenza di un esame idoneo54.

Infatti, da un punto di vista meramente pratico, l’esame richiesto necessita di un ragionevole lasso di tempo55 per essere svolto adeguatamente. Pensando alle espulsioni di centinaia di individui, è difficile credere che uno Stato abbia un apparato così imponente da

52 Cfr. Sultani c. Francia, cit, par. 83. In questo caso la corte ha escluso l’esistenza

dell’espulsione collettiva perché lo stato aveva eseguito l’espulsione attraverso provvedimenti motivati ed ai ricorrenti era stata concessa la possibilità di reagire contro l’espulsione ; Cfr. anche la sentenza Becker c. Danimarca in cui il ricorrente, Henning Becker, lamenta una violazione dell’art. 4 protocollo 4 da parte del governo danese in seguito al rimpatrio di 199 bambini in Vietnam. Il ricorrente, direttore dell’organizzazione “Project

children’s protection and security international”, era riuscito ad ottenere l’autorizzazione a

trasferire i bambini in Europa provando l’esistenza del rischio di morte o persecuzione in Vietnam a causa della loro appartenenza ad una minoranza etnica,denominata Montagnards, in quegli anni sottoposta ad un vero e proprio sterminio da parte del movimento del Fronte di liberazione nazionale. In questo caso però la Corte non ha ritenuto sussistente la violazione del suddetto articolo dal momento che le autorità statali procedettero all’espulsione solo dopo aver valutato singolarmente ciascun caso e tenendo conto del fatto che sarebbe stato nell’interesse di alcuni bambini essere rimpatriati in Vietnam a seguito delle assicurazioni sull’incolumità dei ragazzi fornite dal paese in questione.

53Cfr. Jean-Marie Henckaerts, Mass Expulsion in Modern International Law and Practice,

cit, pag. 18.

54

Jean-Marie Henckaerts, Mass Expulsion in Modern International Law and Practice, cit, pag. 14.

55Si pensi soltanto al tempo necessario all’identificazione dei singoli individui, alla necessità

di trovare mezzi di trasporto idonei a rinviare lo straniero nel paese d’origine o al tempo necessario per valutare eventuali richieste d’asilo o di protezione internazionale.

(22)

poter valutare centinaia di casi in un tempo così irrisorio da giustificare addirittura, per fare un esempio, un respingimento in alto mare56.

Meritevole di attenzione è l’opinione di Deumland 57, secondo il quale la presunzione dell’ illegalità delle espulsioni collettive è inoppugnabile. L’illegittimità della misura sussisterebbe, secondo Deumland, anche se lo Stato avesse provveduto effettivamente a valutare i singoli casi perché l’illegalità deriva proprio dal carattere massivo dell’espulsione. Infatti considerando che perfino l’espulsione individuale deve essere utilizzata solo in ultima istanza, come misura eccezionale, ed è legittima solo in alcuni specifici casi, è impensabile, seguendo la logica, che l’eccezionalità ricorra contemporaneamente in una moltitudine di casi, e che, dunque, l’espulsione di un gruppo possa essere conforme alla legge.

Questa tesi, inconfutabile da un punto di vista logico, presenta alcune criticità nell’ambito pratico.

Il ragionamento di Deumland è applicabile, infatti, soltanto nel caso in cui ad essere espulsi siano centinaia o migliaia di persone, mentre le stesse considerazioni non sono necessariamente valide nel caso in cui vittime della misura di espulsione siano solo, ad esempio, poche decine di persone58.

L’elemento quantitativo è dunque una componente importante della fattispecie in esame, ma non essendo definibile a priori, risente della discrezionalità e dell’evoluzione della giurisprudenza delle Corti.

56Come avvenuto, ex plurimis, nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia , ricorso n.27765/09,

sentenza del 23 febbraio 2012.

57 Cit. Deumland a proposito dell’intrinseca illegittimità delle espulsioni collettive “this

presumption of illegality is unrebuttable” in Mass Expulsion in Modern International Law and Practice, pag. 14.

58Infatti Deumland, consapevole delle problematiche scaturenti dal suo ragionamento, ha

distinto sul piano teorico il concetto di “massa” ed il concetto di “collettività” utilizzando quest’ ultimo termine solo per indicare l’espulsione di poche decine di soggetti.

(23)

2.2 Motivazione del respingimento e divieto di refoulement

Di maggior rilevanza rispetto all’elemento quantitativo della “massa” è l’altro fattore caratterizzante la fattispecie dell’espulsione collettiva e cioè l’arbitrarietà della misura.

Prima di procedere all’espulsione è necessario infatti che lo Stato si preoccupi di garantire un esame ragionevole ed oggettivo, non sommario, delle singole situazioni e di corroborare l’espulsione59 con un provvedimento che sia motivato60, consentendo alle persone espulse di difendersi contro tali provvedimenti.

2.2.1 Principio di non-refoulement e tutela par ricochet offerta dalla CEDU

Rinviando l’analisi degli aspetti procedurali dell’esame del soggetto ad altra sede (vedi infra par. 2.2.3), è necessario chiarire la ratio e la portata della necessità di un esame individuale che preceda la misura di espulsione.

Ponendo in essere una misura di espulsione collettiva che non tenga conto delle peculiari situazioni dei singoli, lo Stato61 rischierebbe di

59“ L'atto di respingere può consistere in una espulsione, una estradizione, una deportazione,

un allontanamento, un trasferimento ufficioso, una "restituzione", un rigetto, un rifiuto di ammissione o in qualsiasi altra misura il cui risultato sia quello di obbligare la persona interessata a restare nel suo paese di origine” cit. opinione concordante del giudice Pinto De Albuquerque, in Sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia, cit.

60La motivazione dell’espulsione è determinante per valutare se la condotta dello Stato abbia

o meno violato l’art. 4 protocollo 4 CEDU. La motivazione non deve essere genericamente riferita alla mera irregolarità dello status dell’ espulso ma deve avere ad oggetto le specifiche condizioni individuali del soggetto in questione.

61È necessario chiarire però, che il divieto di espellere individui in luoghi dove correrebbero

il rischio di essere uccisi o sottoposti a comportamenti vietati dagli art. 2 e 3 della CEDU, vige anche quando la minaccia proviene da organi diversi da quelli statali, ad esempio gruppi

(24)

respingere soggetti in luoghi in cui sarebbero condannati a pena capitale, privati del loro diritto alla vita62 , sottoposti a tortura o trattamenti inumani o degradanti63in violazione di quanto stabilito dalle principali carte dei diritti fondamentali64.

terroristici, senza che l’autorità statale riesca a proteggerli. Ad esempio, nel caso HLR c.

Francia, sentenza 29 aprile 1997, ricorso n. 24573/94, § 43-44, Il ricorrente condannato per

spaccio, temeva le ritorsioni non delle autorità statali bensì di un cartello di trafficanti di droga colombiano per aver collaborato con le autorità, e rilasciato le informazioni che avevano portato alla condanna dei trafficanti. La Corte, tuttavia, ha ritenuto che, nel caso di specie, le autorità colombiane sarebbero state in grado di offrire al ricorrente una protezione contro il rischio di maltrattamento, tortura o altri trattamenti inumani o degradanti. Pertanto, il suo rimpatrio non avrebbe costituito una violazione dell’articolo 3 CEDU.

62 In ogni caso, un soggetto può lamentare la violazione dell’ art. 2 CEDU anche in merito a

gravi pericoli per la vita il cui verificarsi non abbia determinato l’evento della morte.

63 L’art. 3 della Convenzione europea non fornisce alcuna definizione del concetto di tortura

e di trattamenti inumani o degradanti. La ragione di questa lacuna si comprende avendo riguardo ai lavori preparatori dell’articolo in esame, durante i quali, il rappresentante francese Teitgen, si oppose all’inserimento nella disposizione di un elenco delle fattispecie di tortura. Menzionare dei comportamenti vietati avrebbe escluso dall’ambito di applicazione della norma altre azioni vietate restringendo notevolmente la portata della tutela (vedi

preparatory work of articol 3 of the european convention on human rights, memorandum prepared by the secretariat of the commission, DH (56), 5, 8 disponibile al sito http://www.echr.coe.int/Documents/Library_TravPrep_Table_ENG.pdf). L’assenza di un elenco di comportamenti tipici ha consentito alla Corte una grande discrezionalità nell’applicazione dell’art. 3. Essa ha comunque specificato, nel caso Irlanda c Regno Unito, ricorso n. 5310/71, 18 gennaio 1978, che le violazioni riconducibili nell’ambito di tutela dell’art. 3, devono possedere un livello minimo di gravità che non può essere stabilito in termini assoluti, ma relativi, facendo riferimento ad esempio alla durata delle violazioni, le conseguenze fisiche e mentali prodotte, l’età, lo stato di salute dell’individuo sottoposto ai trattamenti vietati, la natura particolarmente violenta degli atti incriminati, la sistematicità dei trattamenti inflitti in un determinato periodo (cfr.Selmouni contro Francia, ricorso n. 25803/94, 28 luglio 1999 §103,104)e la particolare vulnerabilità del soggetto. Per quanto concerne le nozioni di “inumano” e “degradante” cfr. S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti

dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, Padova, 2012, pag. 68 e ss. Si intende inumano, un

trattamento premeditato, applicato per ore e che causa lesioni corporali o sofferenze intense sotto il profilo fisico o mentale. La nozione in esame concerne dunque principalmente comportamenti che hanno effetti sul fisico del soggetto. Va invece considerato degradante, un trattamento tale da creare nella vittima un senso di paura, angoscia e inferiorità tale, da umiliarla e piegare la sua resistenza fisica o morale, cosi da indurla ad agire contro la sua volontà o coscienza ( cfr. Jalloh c. Germania, ricorso n. 54810/00, 11 luglio 2006, par 68). Il concetto riguarda dunque comportamenti dannosi per la psiche e la sfera mentale dell’individuo. La tortura è una forma aggravata di trattamento inumano e degradante. La corte precisa (nella sentenza Gäfgen c. Germania, ricorso n. 22978/05, 30 giugno 2008, par 91) che anche la minaccia di essere sottoposto a tortura, se risulta sufficientemente concreta o immediata, costituisce un trattamento inumano per l’individuo che la subisce mentre, se

(25)

risulta cosi intensa da produrre gravi sofferenze psicologiche, può configurarsi quale vera e propria tortura.

64

Il divieto di respingere i rifugiati è un principio ormai consolidato in diritto internazionale. Cfr. Articolo 33 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati

(1951); articolo 2 § 3 della Convenzione della Organizzazione dell'unità africana che

disciplina determinati aspetti del problema dei rifugiati in Africa (1969) ; articolo 3 della

Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (1984) ; articolo 16 § 1 della Convenzione internazionale delle Nazioni unite per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate (2006) ; avendo riguardo al diritto regionale dei diritti dell'uomo cfr. articolo 22 § 8 della Convenzione americana sui diritti dell'uomo (1969), articolo 12 § 3 della Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli (1981), articolo 13 § 4 della Convenzione interamericana sulla prevenzione e repressione della tortura (1985) e articolo 19 § 2 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (2000), articolo 3 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’asilo territoriale del 1967; § 5 Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati; articolo 7 International Covenant on Civil and Political Rights; Asian-African

Legal Consultative Organization, Final Text of the AALCO’s 1966 Bangkok Principles on Status and Treatment of Refugees as adopted on 24 June 2001 at the AALCO’s 40th Session, New Delhi, disponibile all’indirizzo http://www.unhcr.org/refworld/publisher,AALCO,, 3de5f2d52,0.html; l’art. III stabilisce “ 1. No one seeking asylum in accordance with these Principles shall be subjected to measures such as rejection at the frontier, return or expulsion which would result in his life or freedom being threatened on account of his race, religion, nationality, ethnic origin, membership of a particular social group or political opinion. The provision as outlined above may not however be claimed by a person when there are reasonable grounds to believe the person’s presence is a danger to the national security or public order of the country in which he is, or who, having been convicted by a final judgement of a particularly serious crime, constitutes a danger to the community of that country. 2. In cases where a State decides to apply any of the above-mentioned measures to a person seeking asylum, it should grant provisional asylum under such conditions as it may deem appropriate, to enable the person thus endangered to seek asylum in another country”; Convenzione per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate del 2006, disponibile all’indirizzo http://www.refworld.org/docid/47fdfaeb0.html, all’art. 16 recita: “ 1.

No State Party shall expel, return (“refouler”), surrender or extradite a person to another State where there are substantial grounds for believing that he or she would be in danger of being subjected to enforced disappearance. 2. For the purpose of determining whether there are such grounds, the competent authorities shall take into account all relevant considerations, including, where applicable, the existence in the State concerned of a consistent pattern of gross, flagrant or mass violations of human rights or of serious violations of international humanitarian law”. Si può affermare che, ancora prima dell’adozione della Convenzione di Ginevra, il divieto in esame fosse già previsto nell’ambito del diritto internazionale umanitario; esso trova espressione in modo particolare nell’art. 45, par. 4, della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 (Geneva Convention Relative to the Protection of Civilian Persons in Time of War, 1949, United Nations Treaty Series, vol. 75, p. 287). L’art. 45, par. 4, stabilisce che”in no circumstances shall a protected

person be transferred to a country where he or she may have reason to fear persecution for his or her political opinions or religious beliefs” ; Per un’analisi del principio del non-refoulement e della sua portata “extraterritoriale” cfr. anche F. Salerno, l’obbligo internazionale di non-refoulement dei richiedenti asilo, Diritti umani e diritto internazionale,

4 (2010), pag. 494. L’Autore colloca la Convenzione di Ginevra del 1951 all’interno dei c.d. “trattati-regime”, ovvero di quegli accordi internazionali che enunciano una disciplina

(26)

In materia di espulsione, estradizione, respingimento di soggetti è da ritenere quindi che lo Stato subisca delle limitazioni all’arbitrarietà delle politiche migratorie, come precedentemente affermato (v. supra cap. 1). Tali limitazioni derivano anche dal rispetto del principio del non-refoulement e, per quanto concerne l’oggetto del nostro esame, dalla CEDU, che pur non sancendo espressamente un divieto di refoulement, fornisce una tutela indiretta c.d. par ricochet principalmente attraverso gli articoli art. 2 e 3 che consacrano alcuni dei valori fondamentali delle società democratiche e devono perciò essere considerati principi inderogabili ed imprescindibili65.

Volendo chiarire il rapporto che sussiste tra il principio del non-refoulement espresso dalla Convenzione di Ginevra ed il principio di non-refoulement che si può evincere indirettamente dalla la CEDU, è doveroso fornire la definizione del principio in questione che troviamo nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, secondo il quale: “ Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (refouler) - in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche.” La CEDU non dedica alcuna disposizione al diritto d’asilo66 ma è possibile ottenere una tutela in tal senso par

obbiettiva rilevante anche per stati terzi, nonostante sia in vigore solo tra un numero limitato di stati. Per quanto invece riguarda il divieto di tortura, cfr. art 5 della Dichiarazione

Universale dei diritti dell’uomo; art 7 del Patto ONU sui diritti civili e politici; art 5 della Convenzione americana sui diritti dell’uomo; art 5 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli; Convenzione ONU contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti; Convenzione interamericana per prevenire e punire la tortura, Convenzione Europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti.;

65

Come ribadito anche dall’articolo 15 CEDU che stabilisce quali sono i diritti assoluti e inderogabili espressi dalla Convenzione.

66 Nell’ambito del diritto dell’Unione Europea, viene sancito per la prima volta il diritto

d’asilo dall’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che prevede: “il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra

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[...] e a norma del Trattato sull’Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea […].” Nonostante la prescrizione contenuta nell’art. 18, il diritto dell’UE non prevede alcuna modalità per agevolare l’arrivo dei richiedenti asilo ; l’esigenza di una comune politica europea in materia è espressa dall’articolo 78 TFUE il quale sancisce che l’UE è tenuta a sviluppare “una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta ad offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento”. Detta politica deve essere conforme agli altri trattati pertinenti, ed è in quest’ottica, che sono stati emanati il regolamento Dublino II n. 343/2003, la direttiva qualifiche 2011/95/UE, la direttiva sulle procedure di asilo 2005/85/CE e la direttiva sulle condizioni di accoglienza 2003/9/CE. È importante sottolineare che per quanto concerne il nostro paese, il diritto d’asilo è garanti dalla Costituzione del 1948, che all’art. 10, comma 3 recita “ Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Tale disposizione costituzionale, stando ad un recente orientamento della Corte di Cassazione inaugurato con la sentenza n. 25028/2005 della sezione prima civile ,non sarebbe sufficiente, da sé sola, a fornire una base giuridica idonea a disciplinare in modo stabile e autonomo il diritto di soggiorno di un richiedente asilo nello Stato, ma fornirebbe ai richiedenti asilo una tutela provvisoria , che si limiterebbe a garantire loro il diritto di entrare nel territorio dello Stato e di ottenere il permesso di soggiornarvi esclusivamente al fine di proporre domanda d’asilo. Al termine di tale procedimento, il diritto costituzionale di asilo verrebbe così in ogni caso a estinguersi, o per intervenuta risoluzione, o, perché conferito al soggetto lo status richiesto. Nella prassi, il diritto di asilo è oggi disciplinato dal decreto legislativo n. 251/2007, adottato in attuazione della direttiva europea n. 2004/83/CE, che regola le condizioni ed il contenuto del diritto in esame, e dal decreto legislativo n. 25/2008, adottato in attuazione della direttiva europea n. 2005/85/CE e successivamente modificato dal Decreto legislativo 3 ottobre 2008 n. 159 e dalla Legge 24 luglio 2009 n. 94, che concerne invece gli aspetti procedurali. La valutazione delle domande d’asilo e protezione internazionale compete, in sede amministrativa, alle Commissioni Territoriali per il Riconoscimento della Protezione Internazionale. Esse sono autorità amministrative attualmente presenti presso le Prefetture di Torino, Milano, Gorizia, Roma, Caserta, Foggia, Bari, Crotone, Siracusa e Trapani. Tali Commissioni hanno il potere di riconoscere lo status di rifugiato, riconoscere lo status di protezione sussidiaria, respingere la domanda di protezione o dichiararne la manifesta infondatezza. Al vertice delle autorità competenti in materia di riconoscimento del diritto d’asilo è posta la Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo, la quale ha competenza in materia di revoca e cessazione degli status di protezione internazionale riconosciuti, oltre che più generiche funzioni di indirizzo e coordinamento delle Commissioni territoriali, di formazione e aggiornamento dei componenti delle medesime Commissioni, di costituzione e aggiornamento di una banca dati informatica contenente le informazioni utili al monitoraggio delle richieste di asilo, di costituzione e aggiornamento di un centro di documentazione sulla situazione socio-politico-economica dei Paesi di origine dei richiedenti, di monitoraggio dei flussi di richiedenti asilo. Le decisioni delle Commissioni Territoriali per il Riconoscimento della Protezione internazionale e quelle adottate dalla Commissione Nazionale per il diritto di asilo, possono infine essere impugnate innanzi ai Tribunali ordinari, le cui sentenze in materia possono poi eventualmente costituire motivo di ricorso davanti alla Corte di Appello e, in ultima istanza, di ricorso per Cassazione.

(28)

ricochet67, o indirettamente, attraverso gli art. 2 e 3 che, prescrivendo rispettivamente la tutela del diritto alla vita ed il divieto di tortura, detengono una posizione di rilievo nella Convenzione ed il loro mancato rispetto costituisce una delle violazioni più gravi in materia di diritti dell’uomo.

Le due disposizioni in esame, per quanto interessa in questa sede, vietano agli Stati di espellere, respingere, allontanare individui in luoghi dove sarebbero sottoposti al rischio di subire comportamenti vietati dagli art. 2 e 3 della Convenzione europea sancendo in modo inequivocabile la prevalenza del rispetto del diritto fondamentale alla vita sul diritto degli stati di porre in essere arbitrari respingimenti di individui illegalmente entrati, o che aspirano ad entrare nel territorio dello Stato.

Dunque la tutela indiretta dei richiedenti asilo che otteniamo dalla CEDU promana da un’estensione concettuale del principio del non-refoulement68.

Concludendo sul rapporto sussistente tra la CEDU ed il principio del non-refoulement, è da sottolineare che la Corte EDU ha più volte

67

Cfr. A.Terrasi, I respingimenti in mare di migranti alla luce della Convenzione europea dei

diritti umani, in Diritti umani e diritto internazionale,, 2009, pag. 597 in cui di afferma

che“Si tratta di un meccanismo volto ad ampliare la tutela di certi diritti garantiti dalla Convenzione a diritti che, viceversa, non sono espressamente protetti”; è interessante citare quanto evidenziato da G. Malinverni , I limiti all’espulsione secondo la Convenzione europea

dei diritti dell’uomo, F. Salerno (a cura di), Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione,

2003, pag. 166. Secondo l’Autore è curioso notare come, in materia di diritti dei migranti si preferisca invocare la tutela degli articoli 2 e 3 della CEDU che solo indirettamente forniscono protezione in tal senso, e non si invocano gli articoli più propriamente deputati alla tutela degli stranieri come ad esempio l’articolo 4 protocollo 4.

68

Cfr. Stefano Zirulia, I respingimenti nel Mediterraneo tra diritto del mare e diritti

fondamentali, reperibile al link

http://www.meltingpot.org/I-respingimenti-nel-Mediterraneo-tra-diritto-del-mare-e.html#.VFKzZTSG9e8, in cui l’autore afferma: “Questa tecnica di protezione – definita in dottrina par ricochet, ossia di riflesso – è evidentemente debitrice, sul piano strutturale, del concetto tradizionale di non-refoulement, in quanto fa scattare la responsabilità di uno Stato in presenza di un rischio promanante da un altro Stato, così risolvendosi in una nuova forma di tutela – testualmente non prevista dalla Convenzione – a favore dello straniero destinatario di misure di allontanamento.”

(29)

affermato che la protezione offerta dall’art. 3 è più ampia di quella fornita dall’art. 33 della Convenzione del 195169.

La maggiore intensità della tutela è riconducibile a due ordini di motivi. Preliminarmente le due disposizioni hanno destinatari diversi. Mentre l’art. 33 è rivolto soltanto ai richiedenti asilo ed a coloro che ottengono lo status formale di rifugiato 70, e dunque opera solo in presenza dei requisiti fissati dal suddetto articolo i principi che scaturiscono dalla giurisprudenza di Strasburgo in applicazione dell’art. 3 si applicano a chiunque corra un rischio effettivo di subire trattamenti incompatibili con l’articolo in esame71.

In secondo luogo, l’assolutezza e l’inderogabilità della protezione offerta dall’art. 3 CEDU, che prescrive il divieto di tortura e trattamenti o pene inumani o degradanti in termini assoluti, indipendentemente dalla condotta della vittima, sgradita o pericolosa che sia72, risulta più

69In particolare, sentenza Chahal c. Regno Unito, 15 novembre 1996; Ahmed c. Austria, 17

dicembre 1996; Ryabikin c. Russia, 19 giugno 2008.

70Ai sensi dell’art 1 A, § 2, della Convenzione di Ginevra, il termine "rifugiato" si applicherà

a colui: “che, a seguito di avvenimenti verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

71

Nonostante la progressiva estensione delle maglie dell’art. 33, infatti, resta pur sempre necessario che la minaccia per la vita o la libertà siano collegate ad una delle motivazioni espressamente previste dall’art. 1, lett. A, n. 2 della Convenzione di Ginevra, vale a dire razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale, o opinioni politiche. In tal senso v. UNHCR Handbook on Procedures and Criteria for Determining Refugee Status,

Conclusion No. 15 (XXX) 1979, par. 66, in www.unhcr.it.

72

Emblematico in tal senso è il caso Saadi c. Italia, sentenza 28 febbraio 2008, ricorso n. 37201/06. Il ricorrente è un cittadino tunisino, condannato in contumacia in Tunisia a 20 anni di reclusione in quanto membro di un’organizzazione terroristica. Il soggetto era stato, altresì, condannato in Italia per associazione a delinquere. La Corte ha ritenuto che il fatto che il ricorrente rappresentasse una possibile grave minaccia per la collettività non escludeva o riduceva in alcun modo il rischio cui lo stesso avrebbe potuto essere esposto se rimpatriato. Inoltre nel caso di specie, il maltrattamento dei detenuti in Tunisia, in particolare di quelli condannati per reati di terrorismo era provato da indagini effettuate da autorevoli ONG e organizzazioni internazionali. La Corte ha dunque dichiarato che sussistevano motivi fondati di ritenere sussistente un rischio effettivo per il ricorrente di essere sottoposto a trattamenti

(30)

forte rispetto alla tutela offerta dalla Convenzione di Ginevra, che ammette al contrario l’esistenza di eccezioni73, non potendo quest’ultima essere invocata dal soggetto che costituisca una minaccia per la sicurezza collettiva.

Il paragrafo 2 dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra parrebbe pertanto introdurre delle eccezioni al principio in esame. In realtà, considerando altre carte fondamentali 74 e la giurisprudenza 75 delle Corti che da esse promanano, è possibile affermare che quanto asserito non è del tutto esatto.

È necessario ammettere, infatti, che il principio di non-refoulement è ormai un principio di diritto internazionale, di natura cogente76.

A rigor di logica, se il divieto di tortura è un principio di jus cogens

77

, ed il non-refoulement costituisce una forma in cui può sostanziarsi il

contrari all’articolo 3 CEDU, se rimpatriato in Tunisia. ; a conferma della tendenza seguita dalla corte “ tale orientamento interpretativo si è andato consolidando e il giudice di Strasburgo, anche in casi in cui i provvedimenti nazionali di espulsione fossero giustificati dalla minaccia che lo straniero costituiva per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, si è pronunciato nel senso dell’incompatibilità con la CEDU dei provvedimenti stessi” cit. A.Terrasi, I respingimenti in mare di migranti alla luce della Convenzione europea, cit, pag. 598.

73

L’art. 33 par. 2 della Convenzione di Ginevra del 1951 recita: “La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese”.

74 Cfr. Commentario breve alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti

dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali”, S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky (a cura di), cit, pag. 62.

75Cfr. Saadi c. Italia, ricorso n. 37201/06, grande camera, sentenza dell’8 febbraio 2008 §

127.

76 Cfr. F.Lenzerini , Il principio del non refoulement dopo la sentenza Hirsi della Corte

Europea, cit,pag. 736 ; come confermato anche nel caso Saadi c. Italia, cit,al par. 127 la

Corte precisa: “ Article 3, which prohibits in absolute terms torture and inhuman or

degrading treatment or punishment, enshrines one of the fundamental values of democratic societies. Unlike most of the substantive clauses of the Convention and of Protocols Nos. 1 and 4, Article 3 makes no provision for exceptions and no derogation from it is permissible under Article 15, even in the event of a public emergency threatening the life of the nation”.

77 Come espressamente evidenziato dall’ Assemblea generale dell’ONU (ris. 61/153,

19.12.2006 e ris. 62/148, 18.12.2007); dalla giurisprudenza internazionale ( ad es. tribunale ad hoc per la ex Iugoslavia, Prosecutor c. Anto Furundzija, 10.12.1998 par 144 e 153 ss) ; in senso conforme vedi anche l’opinione concordante del giudice Pinto De Albuquerque in

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