Capitolo terzo : La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di espulsion
3.2 Il caso Hirsi e altri c Italia
3.2.3 La violazione dell’articolo 3 della CEDU e del principio d
non-refoulement diretto ed indiretto
I ricorrenti avevano denunciato la violazione dell’art.3, il quale stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”, allegando due diversi aspetti del caso in esame. Essi lamentavano la sottoposizione a trattamenti vietati dall’art. 3 dapprima in Libia, dove erano stati respinti dalle autorità italiane (integrando il c.d. refoulement diretto), e successivamente in Somalia ed Eritrea, i loro paesi d’origine, in cui sussisteva il rischio di essere respinti dalle autorità libiche (c.d. refoulement indiretto).
È pertanto rinvenibile una doppia violazione dell’articolo in esame. Per quanto riguarda il respingimento in Libia, i ricorrenti avevano dichiarato di essere stati vittime di un allontanamento arbitrario e sommario. I soggetti non erano infatti stati identificati, non ne era stata indagata la provenienza e non era stato consentito loro di proporre domanda d’asilo.
Durante il viaggio avevano creduto di essere condotti a Lampedusa e solo una volta giunti a Tripoli si erano resi conto di essere stati respinti, pertanto è possibile affermare che non sono stati messi al corrente dell’allontanamento verso la Libia e dunque non hanno avuto inizialmente neppure la necessità di proporre domanda d’asilo, dato che viaggiavano nella convinzione di essere condotti in Italia.
Sono stati respinti attraverso un’espulsione sommaria in Libia, paese di transito per molti migranti, tra cui i ricorrenti, guidato da una feroce
dittatura e tristemente celebre per le torture e i trattamenti disumani riservati ai migranti provenienti dall’Africa subsahariana.
Dopo aver compreso di essere stati ricondotti in Libia, dove molti di essi avevano già sperimentato i trattamenti disumani che le autorità libiche riservavano ai migranti, avevano implorato le autorità italiane di non sbarcarli a Tripoli, ma questo atteggiamento non poteva essere considerato, secondo la difesa del Governo, una richiesta d’asilo287.
Alle denunce proposte dai ricorrenti su questo punto, la difesa del Governo aveva risposto che la Libia doveva essere considerata un “luogo di accoglienza sicuro”288,quindi idoneo luogo di approdo per i migranti in conformità a quanto stabilito dal diritto internazionale289, e
287Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 96.
288Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 97. La sicurezza della Libia per i migranti sarebbe
dimostrata dal fatto che lo Stato in questione ha ratificato il Patto internazionale delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti e la Convenzione dell’Unione africana sui rifugiati in Africa. Inoltre la presenza sul territorio libico di un ufficio dell’HCR e dell’OIM consente di ritenere la Libia uno Stato idoneo ad accogliere migranti; è importante rilevare che prima dell’emanazione della sentenza della Corte EDU altre istituzioni europee non avevano mancato di esprimere perplessità sulle politiche migratorie poste in essere dagli Stati europei ed in particolare, per quanto a noi interessa, sulla diversa interpretazione attribuita al significato della locuzione “luogo sicuro”. In particolare Cfr. la Risoluzione 1821 del 2011 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che, dopo aver manifestato le proprie preoccupazioni per il modo in cui gli Stati europei, in particolari quelli che si affacciano sul Mediterraneo, hanno deciso di gestire i flussi migratori, al punto 5.2 afferma: “Benché la priorità assoluta in caso di intercettazione in mare sia assicurare lo sbarco rapido delle persone cui è stato prestato soccorso in «luogo sicuro», la nozione di «luogo sicuro» non sembra essere interpretata allo stesso modo da tutti gli Stati membri. È evidente che la nozione di «luogo sicuro» non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali; Cfr. anche il punto 9.5 della risoluzione citata, in cui il Consiglio d’Europa ribadisce la necessità di assicurare “in via prioritaria lo sbarco rapido delle persone cui è stato prestato soccorso in «luogo sicuro» e a considerare come «luogo sicuro» un luogo che possa rispondere alle necessità immediate delle persone sbarcate, che non metta in alcun modo a rischio i loro diritti fondamentali; tenendo presente che la nozione di «sicurezza» va oltre la semplice protezione dal pericolo fisico e tenendo conto altresì della prospettiva dei diritti fondamentali del luogo di sbarco proposto”.
289La Convenzione SAR (Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo) del 1979, al punto 3.1.9 stabilisce che “Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare, siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la
che i ricorrenti non avevano prodotto sufficienti prove dei trattamenti contrari all’art.3 che avrebbero, a loro avviso, subito.
Prima di affrontare questo punto nel merito sembra interessante evidenziare l’opinione di alcuni autori290 che hanno letto nel comportamento dell’Italia, che ha addotto a legittimazione del proprio comportamento la sicurezza della Libia, una violazione del diritto internazionale. Difatti, seppure la Libia potesse considerarsi un luogo di approdo sicuro per i migranti, e come vedremo non è così, l’espulsione collettiva effettuata in alto mare sarebbe comunque illecita perché contrasterebbe con il divieto di respingimenti massivi e perché certamente in alto mare non sarebbe possibile fornire ai migranti l’accesso ad un esame individuale ed obbiettivo.
Il Governo aveva inoltre ribadito la legittimità del proprio operato affermando che l’operazione posta in essere dalle navi italiane era avvenuta in conformità agli accordi stipulati tra l’Italia e la Libia, conclusi per favorire la cooperazione tra i paesi mediterranei in materia di controllo delle migrazioni, come più volte auspicato dalle istituzioni europee291, ed aveva “strumentalmente”292 sostenuto che in ogni caso
cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.
290Cfr. F. De Vittor, Il diritto di attraversare il Mediterraneo, cit, pag. 73 in cui l’autrice
sostiene che ammettere la legittimità delle espulsioni collettive se il respingimento avvenisse verso luoghi sicuri sarebbe una conclusione che “non terrebbe in debito conto quanto affermato dalla Corte europea dei diritti umani in materia di divieto di espulsioni collettive e di diritto ad un rimedio interno effettivo”.
291 Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 94. Il Governo fa riferimento in particolare alla
Risoluzione del Parlamento europeo n. 2006/2250 ed al Patto europeo sull’immigrazione e sull’asilo, elaborato dal Consiglio europeo il 24 settembre 2008, i quali affermano la necessità per i paesi dell’UE di cooperare e di concludere accordi con i paesi di origine o di transito dei migranti al fine di ridurre l’immigrazione irregolare e dunque rafforzare i controlli delle frontiere.
292
Cfr. N. Napoletano, La condanna dei “respingimenti” operati dall’Italia verso la Libia, cit, pag. 436; Cfr. in senso analogo A. Gianelli, Respingimenti di stranieri indesiderati verso
la Libia, cit. pag. 2363 dove l’autrice ritiene “un tentativo di elusione” il richiamo da parte
non erano state eseguite le procedure di identificazione, perché l’espulsione era riconducibile ad un’operazione di soccorso e non ad un’operazione di polizia marittima, che avrebbe al contrario richiesto l’identificazione dei migranti.
Per quanto riguarda il primo argomento, dunque sull’idoneità della Libia ad accogliere migranti, e rifugiati in particolar modo, erano intervenute, in qualità di soggetti terzi, alcune organizzazioni internazionali che in base alla loro esperienza diretta, reportages e documentari hanno dimostrato che la Libia era tutt’altro che un “luogo d’accoglienza sicuro” all’epoca dei respingimenti.
Il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, nel suo rapporto pubblicato nel 2010293, aveva affermato che la Libia non poteva essere considerata un paese sicuro in materia di diritti dell’uomo e di diritto dei rifugiati, “la situazione delle persone arrestate e detenute in Libia, compresa quella dei migranti – che corrono anche il rischio di essere espulsi – starebbe a dimostrare che le persone rinviate in Libia rischiavano di essere vittime di maltrattamenti”.
Secondo il CPT la politica dei respingimenti adottata dall’Italia violava il principio di non-refoulement294.
Secondo quanto affermato da Human Rights Watch e dall’HCR, non essendo presente in Libia un sistema che consentisse di richiedere asilo,
293Cfr. Rapporto del 28 aprile 2010 del CPT, par. 36. Il 28 aprile 2010 il CPT, Comitato
europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti, organo del Consiglio d’Europa incaricato di verificare, attraverso sopralluoghi, il trattamento delle persone private della libertà al fine di assicurare la protezione dalla tortura, ha pubblicato il suo rapporto sulla visita in Italia effettuata dal 27 al 31 luglio 2009, reperibile al
link http://www.cpt.coe.int/documents/ita/2010-inf-14eng.htm. Lo scopo del Comitato era
quello di verificare le garanzie sussistenti in Italia per impedire il rimpatrio dei soggetti che avrebbero rischiato di subire trattamenti vietati ex articolo 3 avendo riguardo particolarmente alla politica di intercettazione e respingimento verso la Libia, posta in essere dal nostro Paese.
294 Cfr. N. Ricciuti, Il Comitato europeo contro la tortura e la prassi italiana dei
i migranti irregolari erano spesso imprigionati e sottoposti a torture, trattamenti degradanti e violenze di ogni genere compreso lo stupro.
La permanenza in carcere, che avveniva in condizioni disumane e in assenza di cure mediche, era a tempo indeterminato, dato che non venivano comunicate né le ragioni né la durata della detenzione, senza alcun controllo giudiziario e senza che fosse prevista la possibilità di contattare un legale rappresentante. I migranti potevano in qualsiasi momento essere ricondotti nei loro paesi d’origine dove imperversava la guerra o abbandonati nel deserto dove sarebbero andati incontro a morte certa.
Secondo le testimonianze raccolte dall’HCR i migranti avrebbero subito violenze e percosse anche durante il trasferimento verso il territorio libico e dopo essere giunti al centro di trattenimento. Il viaggio verso tali centri avveniva attraverso container, che secondo le testimonianze sarebbero stati simili a carri bestiame con piccole feritoie.
A conferma della sistematica violazione dei diritti umani in Libia, erano state allegate le documentazioni ed i rapporti di organizzazioni come Amnesty International e FIDH (Federazione Internazionale dei Diritti Umani), ritenute altamente attendibili.
Per quanto concerne la richiesta d’asilo, l’HCR aveva allegato che le autorità italiane avrebbero confiscato gli effetti personali dei migranti compresi i certificati dell’HCR attestanti lo status di rifugiati e che, per giunta, l’ufficio dell’HCR di Tripoli avrebbe concesso a 73 persone respinte dall’Italia tra cui 14 dei ricorrenti, lo status di rifugiato.
In secondo luogo, il Governo aveva ritenuto “vaghe e insufficienti” le prove fornite dai ricorrenti a proposito dell’esistenza di un rischio reale di essere sottoposti a trattamenti contrari all’art. 3 in Libia.
Contro tale argomento, la Corte aveva ricordato che nel caso in cui il ricorrente allegasse di far parte di un gruppo che sistematicamente
veniva sottoposto ai suddetti trattamenti, era sufficiente dimostrare l’appartenenza al gruppo in questione295. Aveva inoltre sottolineato che “spettava alle autorità nazionali, di fronte ad una situazione di mancato rispetto sistematico dei diritti dell’uomo quale quella sopra descritta, informarsi sul trattamento al quale i ricorrenti sarebbero stati esposti dopo il respingimento”296.
Nel caso di specie, per verificare la sussistenza di comportamenti vietati ex art. 3 in Libia, all’epoca dei respingimenti, essa aveva considerato rilevanti ed attendibili i rapporti di numerose organizzazioni internazionali e di organizzazioni non governative che avevano descritto come “preoccupante”297 la situazione libica, con riferimento al trattamento riservato agli immigrati irregolari.
Di fronte al drammatico scenario dipinto dalle varie organizzazioni internazionali, la convinzione del Governo italiano che aveva ritenuto il territorio libico “luogo d’accoglienza sicuro” appare incomprensibile.
Anche volendo ammettere che la difesa del nostro paese abbia fondato la sua convinzione sulla presunzione, verificatasi errata, che la Libia avrebbe rispettato gli impegni internazionali in materia di asilo e tutela dei rifugiati ed in particolar modo il Trattato di amicizia italo- libico del 2008, che prevedeva espressamente il rispetto delle disposizioni di diritto internazionale in materia di tutela dei diritti dell’uomo, non è possibile ritenere che le autorità italiane ignorassero le gravi lacune del sistema libico in materia di diritti umani e le
295Cfr. Salah Sheekh c. Paesi Bassi, ricorso n. 1948/04 decisione del 23 maggio 2007; Sufi e
Elmi c. Regno Unito ricorsi n. 8319/07 e 11449/07, decisione del 28 novembre 2011.
296Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 133; cfr. anche M.S.S c. Belgio e Grecia, cit, par. 359
laddove la Corte ha affermato che il Belgio non si sarebbe dovuto accontentare “de présumer
que le requérant recevrait un traitement conforme aux exigences de la Convention mais au contraire de s’enquérir, au préalable, de la manière dont les autorités grecques appliquaient la législation en matière d’asile en pratique”; Cfr. in tal senso, B. Nascimbene, Condanna senza appello per i 'respingimenti', cit, che ammette che sia onere dello Stato italiano
sincerarsi dell’adeguatezza del trattamento che le autorità libiche avrebbero riservato ai migranti.
inequivocabili posizioni di Gheddafi in materia di immigrazione e richiedenti asilo298.
Al riguardo la Corte aveva osservato che il mancato rispetto degli obblighi internazionali da parte della Libia, era già stato denunciato da molte organizzazioni internazionali e che, in ogni caso, la ratifica da parte della Libia di trattati internazionali non implicava che essa potesse considerarsi un paese sicuro per gli immigrati, soprattutto considerando che fonti affidabili come le organizzazioni internazionali sopracitate avevano documentato le indicibili violenze che i migranti erano costretti a subire da parte delle autorità libiche299.
Per quanto riguarda la responsabilità del nostro Paese, essa senz’altro non può venire meno invocando gli accordi Italia-Libia, perché comunque l’Italia resta vincolata al rispetto della Convenzione europea. Su questo punto, la Corte aveva anche chiarito che, pur riconoscendo le difficoltà che gravano sugli Stati del sud Europa nella gestione dei sempre più numerosi ingressi di migranti e richiedenti asilo, le difficoltà nella gestione dei flussi migratori non possono esonerare lo Stato dal rispetto della Convenzione, in particolar modo nel caso di specie, dell’articolo 3300.
I rappresentanti legali del nostro Paese avevano poi addotto, come elemento a sostegno dell’idoneità della Libia, ad ospitare richiedenti asilo e rifugiati, la presenza dell’ufficio dell’HCR a Tripoli.
In realtà l’ufficio citato, la cui attività è poi definitivamente cessata nel 2010, non è mai stato riconosciuto ufficialmente dal Governo libico,
298Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 131 in cui la Corte ha ammesso pertanto che l’Italia non
poteva non conoscere la sorte a cui sarebbero andati incontro i migranti, “La Corte osserva ancora una volta che quella realtà era nota e facile da verificare a partire da molteplici fonti. Pertanto, a suo avviso, al momento di allontanare i ricorrenti, le autorità italiane sapevano o dovevano sapere che questi, in quanto migranti irregolari, sarebbero stati esposti in Libia a trattamenti contrari alla Convenzione e non avrebbero potuto accedere ad alcuna forma di tutela in quel paese”.
299Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 128. 300Cfr. Hirsi e altri c. Italia, cit, par. 179.
che del resto non ha nemmeno mai riconosciuto la rilevanza giuridica dello status di rifugiato.
Per quanto concerne la richiesta d’asilo da parte dei ricorrenti e degli altri migranti respinti, il Governo, come accennato, riteneva che essa non fosse mai avvenuta e che il rifiuto di tornare in Libia non potesse essere considerato come un’implicita richiesta d’asilo301.
La Corte ha osservato che la circostanza in esame era stata smentita dalle testimonianze raccolte dalle organizzazioni internazionali, che erano riuscite a provare l’avvenuta richiesta d’asilo. Ha aggiunto però che era onere delle autorità italiane, avendo presente la situazione di sistematica violazione dei diritti dell’uomo che caratterizzava la Libia, di informarsi sulla sorte alla quale sarebbero stati esposti i migranti dopo il loro rientro in Libia302.
Inoltre, chiarisce il paragrafo 133 della sentenza in esame, “il fatto che gli interessati abbiano omesso di chiedere espressamente asilo, tenuto conto delle circostanze del caso, non dispensava l’Italia dal rispettare gli obblighi derivanti dall’articolo 3”303, soprattutto quando, come nel caso di specie, i migranti stremati dal viaggio non erano nelle condizioni psico-fisiche di manifestare immediatamente la volontà di chiedere asilo304.
Concludendo su questo aspetto, la Corte aveva ritenuto che l’Italia, respingendo gli interessati in Libia, li aveva sottoposti al rischio concreto di subire trattamenti contrari all’art. 3 “con piena cognizione
301
Cfr. N. Hervieu, Interception et refoulement des migrants en haute mer, cit. che descrive come “cinica” la difesa proposta dal Governo, secondo cui i migranti non avrebbero proposto la domanda d’asilo.
302Si vedano, mutatis mutandis, Chahal c. Regno Unito, sopra citata, 104 e 105; Jabari, cit,
par. 40 e 41; e M.S.S., cit, par. 359.
303
In senso analogo si è espresso anche il CPT nel suo comunicato del 28 aprile 2010. Al par. 32 il Comitato sostiene che l’assenza di un’esplicita richiesta d’asilo da parte dei migranti, non esime l’Italia dall’adempimento degli obblighi derivanti dalla CEDU e dall’articolo 3 in particolare.
di causa”305ed aveva dichiarato pertanto che c’era stata una violazione dell’art. 3 CEDU.
Difatti, dopo aver riconosciuto che gli Stati hanno il diritto di decidere autonomamente di rifiutare l’ingresso al territorio a chi non ha i requisiti per accedere, sottolineava che alcuni limiti alla discrezionalità dei governi nel sancire politiche migratorie possono derivare dall’applicazione dell’art.3, che vieta l’espulsione, estradizione, allontanamento e qualsiasi altra forma di rinvio del soggetto verso luoghi dove la sua persona sarebbe sottoposta al rischio di subire trattamenti vietati.
L’indagine della Corte si è pertanto concentrata sulla valutazione del rischio di trattamenti contrari all’art.3, sussistente per i migranti in Libia.
Si rinvia al capitolo 2 per i principi generali concernenti la valutazione del rischio, e per la protezione “par ricochet” fornita dall’art. 3 CEDU.
I ricorrenti avevano denunciato la violazione dell’art. 3 anche rispetto al rischio di refoulement indiretto verso la Somalia e l’Eritrea, luoghi in cui era dimostrata la sistematica violazione dei diritti umani, inoltre la fondatezza del timore dei ricorrenti era confermata anche dal fatto che la maggior parte di essi aveva ottenuto lo status di rifugiato presso gli uffici dell’HCR di Tripoli che, benché non avesse alcuna rilevanza presso le autorità libiche, confermava che essi necessitavano di protezione internazionale ed avevano diritto ad ottenere lo status di rifugiato.
La Corte, nell’affrontare la questione nel merito, aveva ricordato che il divieto di refoulement concerne non solo il respingimento diretto, ma anche quello indiretto, pertanto è onere dello Stato che pone in essere
305Hirsi e altri c. Italia, cit, par 137, ammettendo pertanto che l’Italia era a conoscenza dei
l’allontanamento assicurarsi che il soggetto non sia esposto al rischio di subire trattamenti contrari all’art. 3, sia attraverso un respingimento diretto, sia attraverso un respingimento indiretto.
Infatti, al paragrafo 147 la Corte precisava che “è lo Stato che procede al respingimento a doversi assicurare che il Paese intermedio offra garanzie sufficienti che permettano di evitare che la persona interessata venga espulsa verso il suo Paese di origine senza valutare il rischio cui va incontro. La Corte osserva che tale obbligo è ancora più