• Non ci sono risultati.

vv 289-324: la lezione genealogica

2.5 Le Coefore Atridi e Pelopid

3.1.3 vv 289-324: la lezione genealogica

Una volta espressi i propri dubbi e data voce alle difficoltà empiriche nel credere all'origine argiva del coro, Pelasgo torna sulla propria affermazione iniziale e chiede al coro di istruirlo, affinché possa comprendere in che modo le fanciulle dichiarano di avere origine argiva. Inizia così la sotto-sequenza principale di questo brano, che consiste in una lunga sticomitia, la più lunga del corpus eschileo388, il cui scopo principale è quello di dimostrare la veridicità

dell'affermazione della corifea. Tale dimostrazione si articola grosso modo in due fasi: la

dimostrazione della conoscenza della storia della capostipite argiva Io (vv. 291-310), e la dimostrazione della conoscenza della storia genealogica della famiglia (vv. 311-23), che garantisce la continuità tra Io e le figlie di Danao.

Il passo presenta diverse difficoltà testuali che necessitano di una presa di posizione preliminare a qualsiasi ulteriore interpretazione contenutistica. La prima di queste difficoltà consiste nella distribuzione delle battute, una questione non di minore importanza per la corretta comprensione del brano, soprattutto dato il suo carattere palesemente sticomitico. Il problema sorge dal fatto che il codice mediceo Laurentianus Graecus 32.9 (M), il manoscritto del X secolo su cui si basa la tradizione testuale delle Supplici in maniera quasi univoca, non reca alcuna indicazione di cambio di interlocutore dal v. 276 al 336389.

Questo fatto, assieme alla necessità di postulare una lacuna dopo il v. 315 condivisa dalla totalità degli editori390 e l'incertezza nell'attribuire a taluni versi valore affermativo o

interrogativo, ha portato gli editori a scontrarsi sulle più diverse attribuzioni congetturando, talvolta a mano troppo libera, lacune a seconda delle aspettative createsi su questo brano. A mio giudizio, rimane tutt'oggi il testo più solido, quantomeno per ciò che concerne questo passo, quello pubblicato dagli editori Hans Friis Johansen ed Edward W. Whittle nel 1980, che sostanzialmente riprende il lavoro pubblicato dieci anni prima dal solo Friis Johansen391.

È questo il testo che ho riportato, salvo una sola modifica: l'accettazione della lacuna proposta da Pearson nel XVII secolo al v. 294 che, benché venga respinta come non necessaria da Friis Johansen e Whittle, è diventata talmente canonica da lasciare invariata la numerazione dei versi, che da 293 salta direttamente a 295392.

I due studiosi partano da una serie di considerazioni preliminari: la certezza che manchi un verso dopo il 315, la quasi certezza che il verso 308 sia pronunciato dalla corifea, la necessità di attribuire le domande a partire dal v. 314 a Pelasgo e il sospetto che vi sia una qualche forma di corruzione testuale nei dintorni del v. 309393. La presenza di una lacuna al 316 appare

davvero necessaria per giustificare il passaggio dal v. 315 menzionante Epafo al 317 menzionante Libia, che rimarrebbe altrimenti sintatticamente e contenutisticamente ingiustificabile. La congettura elegante di Bothe, che non può che essere pubblicata in apparato exempli gratia, veicola perfettamente il senso di ciò che ci si aspetterebbe in quel passaggio: Ἐπάφου δὲ τίς ποτ᾽ ἐξεγεννήθη πατρός; ("di chi fu padre Epafo?"). Che il v. 308

389 Friis Johansen - Whittle 1980, vol. II, pp. 232-3. 390 Bowen 2013, p. 207.

391 Friis Johansen 1970.

392 Friis Johansen - Whittle 1980, vol. II, pp. 236-7. 393 Friis Johansen - Whittle 1980, vol. II, p. 232.

venisse recitato dalla corifea è altrettanto verosimile, dal momento che sembrerebbe un po' eccessivo attribuire a Pelasgo conoscenze relative agli usi (in questo caso linguistici) delle popolazioni del Nilo394: questo appare ancora più vero se si considera che in altri punti della

tragedia il sovrano argivo esprime esplicite incertezze se non vere e proprie lacune sugli usi e costumi adottati in Egitto395. Altrettanto vero mi pare attribuire le domande dal v. 314 in poi a

Pelasgo e le risposte alla corifea, dal momento che soltanto la corifea avrebbe potuto pronunciare la risposta al v. 319 ( e quindi verosimilmente anche 315, 317 e sicuramente 321 e 323).

Quello che viene principalmente messo in discussione dagli editori è dunque l'attribuzione delle battute ai vv. 291-313, che sostanzialmente coincide con l'identificare chi formula le domande e chi fornisce le risposte. Senza scendere nei dettagli esposti da Friis Johansen e Whittle nelle pagine del loro commento ad locum, trovo che una serie di considerazioni a carattere più generale possono aiutare a chiarire la questione.

La struttura della sotto-sequenza sticomitica presenta un forma abbastanza semplice: due distici, uno ai vv. 291-2 e uno ai vv. 323-4 ed entrambi pronunciati dalla corifea, racchiudono una serie di versi che, tendenzialmente, si presentano come domanda seguita da risposta. L'unità di questo primo distico è auto-evidente, così come è abbastanza inoppugnabile la loro attribuzione alla corifea. Pelasgo ha appena reiterato la richiesta posta al coro di identificarsi, specificando in questa occasione di spiegare in quale paradossale modo si possono definire argive. La corifea passa dunque a individuare esplicitamente l'antenata cui già più volte il coro aveva fatto allusione, Io, sacerdotessa di Era nella regione argiva. La formula che impiega, con φασί, è quella generalmente impiegata per il racconto di una verità reciprocamente condivisa e riconosciuta dagli interlocutori396. Nel caso specifico, il distico serve alla corifea

per avviare un discorso il cui scopo è sia quello di elencare la storia genealogica della famiglia (come avverrà dal v. 311 in poi) sia quello di dimostrare, proprio in virtù della storia genealogica familiare, una conoscenza di una parte di storia locale, quella di Io di Argo, condivisa con Pelasgo (come potrebbe una straniera conoscere le storie di Argo se non in virtù di una sua lontana origine argiva?). La risposta enfatica di Pelasgo mostra che la corifea è riuscita nel suo intento, avviando una interazione non solo locutoria ma di vera e propria condivisione delle memorie della collettività, un atto che è già di per sé un enorme collante

394 Bowen 2013, p. 211.

395 Penso, ad esempio, ai vv. 390-1, in cui Pelasgo esplicita di non conoscere le leggi egiziane riguardanti le nozze tra parenti.

396 Friis Johansen - Whittle 1980, vol. II, p. 234: not tentative, [...] but indicating that the matter is established [...] by living tradition. [...] In epic φασί not seldom refers to matters of general knowledge".

sociale. Invertire l'attribuzione delle battute non avrebbe alcun senso drammatico, così come suggerire che i vv. 291-2 costituissero una interrogativa ambiguamente posta dalla corifea per giustificare l'attribuzione a lei delle domande da v. 295 a v. 306. In perfetta risposta alla richiesta di Pelasgo, la corifea fornisce uno spunto su cui avviare un dialogo tramite il quale convincere il sovrano della loro "argività".

Sia che si ponga, sia che si ometta la lacuna postulata da Pearson, l'attribuzione del v. 295 a Pelasgo rientra perfettamente nella situazione ipotizzabile dai versi che immediatamente lo precedono. Il sovrano, ormai ingaggiato in un discorso di verifica delle conoscenze di storia locale da parte di una straniera, pone, da qui al v. 306, una serie di domande che inducono la corifea a svelare la storia dell'antenata Io. Il senso delle domande non è infatti quello di richiedere un'informazione che non si conosce, ma quello di verificare nell'interlocutore il possesso delle conoscenze, arrivando al punto, al v. 304 e nella lacuna da postulare tra v. 307 e 308, di chiedere di specificare il nome di un elemento già fornito nella risposta precedente397. Il v. 310, trasposto correttamente da Friis Johansen prima del 309 e non dopo,

culmina questo procedimento con la conferma da parte di Pelasgo della correttezza delle risposte fornite dalla corifea, che ha dunque dimostrato di conoscere approfonditamente questo pezzo di storia argiva: καὶ ταῦτ᾽ ἔλεξας πάντα συγκόλλως ἐμοί.

Che il ruolo di colui che pone le domande sia da attribuire a Pelasgo è dettato non solo dal buon senso e da una certa logica scenica (a dover dimostrare di conoscere la storia dell'antenata argiva non può che essere il coro, che per tutto il corso dell'opera tenta di dimostrare la propria relazione con i cittadini di Argo per ottenere da loro aiuto contro i cugini), ma anche dal lessico impiegato nel finale della lunga battuta dei vv. 277-90. Il senso di διδαχθεὶς <δ᾽> ἂν τόδ᾽ εἰδείην πλέον si comprende veramente soltanto se è Pelasgo a porre le domande cui la corifea fornirà le risposte che alla fine lo permetteranno di giungere alla comprensione/verifica. Inoltre, come già accennato, è sicuramente Pelasgo a dettare le domande strettamente genealogiche a partire dal v. 314, e il testo non fornisce nessuno elemento convincente indicante il cambio di ritmo nell'alternanza domanda/risposta. In aggiunta a quest'ultimo argomento, si può constatare che anche la maniera di formulare le domande rimane simile in entrambe le metà della sotto-sequenza, denotando sempre una certa progressività nella successione delle domande (πῶς οὖν...οὔκουν...τί δῆτα...τί οὖν... τίς οὖν...τίν᾽ οὖν)398.

Il διδάσκειν, cui Pelasgo e, contemporaneamente, il pubblico ateniese si sottopone, si attua

397 Friis Johansen - Whittle 1980, vol. II, p. 243. 398 Bowen 2013, p. 210.

dunque in due fasi dal ritmo crescente che svelano finalmente la storia dietro le allusioni al triangolo Zeus-giovenca argiva-Epafo espresse dal coro nella parodo. La prima di queste due fasi è incentrata sulla storia di Io. Tre aspetti, in particolare, vengono evidenziati dalle scelte lessicali e narrative di Eschilo: il rapporto conflittuale con Era, la particolare durata e profondità del rapporto amoroso con Zeus e la trasformazione tormentata in giovenca. La frequente associazione tra le vicende di Io ed Era, dea massimamente argiva, potrebbe essere correlato ad uno sforzo da parte della corifea di dimostrare una certa dimestichezza con le prerogative divine epicoriche: il tempio di Era ad Argo era particolarmente importante e fare di Io una sua sacerdotessa poteva forse essere percepito come motivo di ulteriore prestigio per il γένος. Questa istanza è ancora più evidente nell'insistenza sulla particolare passione di Zeus per la ragazza, che si unisce a lei sia in forma umana che in forma taurina399. La discendenza

da Zeus era già nei poemi omerici, come si è visto, segno distintivo e più volte all'interno del dramma il coro ricorderà la propria discendenza dal sovrano degli dèi per rafforzare le proprie richieste di asilo e aiuto.

L'insistenza sul tema della trasformazione in giovenca di Io, infine, consente alla corifea di tornare al mito eziologico della nascita di Epafo, il vitello nato dal tocco di Zeus che nella parodo si era presentato come vero capostipite del γένος delle Danaidi. Con la menzione della sua nascita in Egitto, a Menfi400, parte la seconda fase della sticomitia, che si presenta come

una vera e propria lezione genealogica dal ritmo serratissimo.

I versi che seguono contengono gli elementi del discorso genealogico osservati già nei poemi omerici nel primo capitolo: un'indicazione geografica iniziale associata al capostipite del γένος, l'impiego del verbo εὔχεσθαι e la strutturazione verticalizzante della linea di discendenza che subisce un'apertura orizzontale solo alla fine, per esplicitare il rapporto che intercorre tra Danao ed Egitto e, di conseguenza, tra le Danaidi e gli Egittiadi401. Lo schema

genealogico che ne risulta, il più lungo di tutto il corpus eschileo, consta di cinque generazioni (sei se si include il coro) e potrebbe essere riassunto nel seguente modo:

399 Bowen 2013, p. 209.

400 È significativo che il luogo di nascita di Epafo sia qui Menfi e non Canobo come in PV 846 sgg. Menfi era, storicamente, sede di un importante tempio dedicato al vitello sacro Apis, ed è già stato sottolineata sia la ricorrenza di questo nome divino egiziano nella tragedia sia la sua associazione ad Epafo figlio-vitello di Io e di Zeus, come testimonia Erodoto (Hdt. II 153 e III 27 1). Cfr. Friis Johansen - Whittle 1980, vol. II, p. 253. 401 Come si era visto, la verticalizzazione di una genealogia è spesso sintomatico di un tentativo di legittimare

Finalmente, dunque, la corifea dimostra a Pelasgo di conoscere in maniera coerente e continua la storia del proprio γένος, che passa attraverso l'elencazione dei nomi degli antenati e una loro corretta collocazione genealogica. Che la conoscenza del nome specifico di ogni singolo antenato venisse percepita come importante ai fini di convalidare le affermazioni della corifea si intuisce da due dati testuali abbastanza evidenti. In primo luogo, il fatto che la corifea inizi ben cinque battute-risposte con un nome proprio in apertura di verso (vv. 315, 317, 319, 321, 323). In secondo luogo, l'insistenza di Pelasgo nel richiedere i nomi di coloro che vengono inizialmente identificati con un termine di parentela più generico (vv. 320 e 322).

La sotto-sequenza termina con un distico, da attribuire senza ombra di dubbio alla corifea, la cui unità è garantita dall'unità sintattica dei vv. 323-4. Il distico presenta anche una certa unità semantica con i vv. 289-90 con cui avevo fatto iniziare questa sotto-sequenza e meritano di essere riaccostati per sottolineare qualche considerazione conclusiva all'analisi di questa sezione:

ὑμᾶς. διδαχθεὶς <δ᾽> ἂν τόδ᾽ εἰδείην πλέον, ὅπως γένεθλον σπέρμα τ᾽ Ἀργεῖον τὸ σόν. Αἴγυπτος [δ᾽]. εἰδὼς δ᾽ ἀμὸν ἀρχαῖον γένος πράσσοις ἂν ὡς Ἀργεῖον ἀνστῆσαι στόλον.

La similarità dei versi potrebbe fare pensare ad un certo desiderio di creare un effetto di

ringkomposition per isolare tematicamente e drammaticamente la lezione genealogica della

corifea. Quello che più colpisce è senz'altro la ricorrenza della nozione di "sapere/conoscenza" legata al discorso genealogico. Prima dell'inizio della sticomitia Pelasgo

chiede di essere maggiormente informato, di modo da potere poi avere le conoscenze necessarie per verificare se davvero le Danaidi siano di origine argiva402. Alla fine del dialogo,

fornita la storia di Io e i nomi precisi degli antenati del coro fino a quelli del padre e dello zio paterno dai cui figli sono in fuga, la corifea cerca una conclusione suggerendo a Pelasgo che ha ricevuto tutte le informazioni di cui aveva bisogno e che quindi adesso comprende l'antichità della stirpe. Non solo: compiendo quella che è stata definita una sophistry, la corifea indica al sovrano quelle che sono le conseguenze della conoscenza ottenuta, ossia di aiutarle come se fossero un gruppo argivo a tutti gli effetti403. L'antichità del γένος, che è

l'unica cosa realmente "dimostrata" dal discorso genealogico della corifea, si traduce per il coro in una assimilazione, da parte loro, alla comunità argiva presente guidata da Pelasgo, i cui possibili rapporti di parentela con Danao e le sue figlie non vengono mai, effettivamente, menzionati. In altre parole, dalla conoscenza della storia passata, il coro propone una costruzione di identità nel presente che contrasta con l'osservazione diretta della realtà. In un certo senso, si potrebbe dire, quello che viene messo a fuoco in questa sezione del dramma non è semplicemente il valore gnoseologico della genealogia, ma altresì la sua potenziale capacità di modificare la conoscenza pregressa della realtà spostando i meccanismi interpretativi della realtà da un sistema basato sull'inferenza tramite osservazione ad uno fondato sulla verosimiglianza (pre)logica di un percorso gnoseologico linguistico.

3.1.4 vv. 325-7: l'accettazione di Pelasgo e la problematicità del confronto tra verità e