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Responsabilita colposa del lavoratore

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Academic year: 2021

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INDICE SOMMARIO

Introduzione……….p. 1

CAP I

LE ORIGINI DELLA POSIZIONE GIURIDICA DI

GARANZIA

1. Reato omissivo improprio ………....p. 5 2. La condotta colposa………...p. 10

2.1.Le variegate fattispecie della colpa nella sicurezza

del lavoro………...….p. 20 2.2.Principio di affidamento… ……….p. 24 2.3.…E una auspicabile soluzione………...p. 26 3. La distinzione tra obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia

e obbligo di sorveglianza...p. 30 4. Nesso di causalità………...p. 40

4.1.Il nesso di causalità nel diritto penale del lavoro……...p. 47 4.2.Interruzione del nesso di causalità………...p. 50 5. Fonti dell’obbligo di garanzia…… ………...p. 54 6. Il negozio giuridico ……….…...p. 56 7. Posizione di garanzia del datore di lavoro………....p. 58

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7.1.Il titolare primario della posizione di garanzia ………...p. 60 7.2.Esercizio di fatto dei poteri direttivi;

art. 299, D. Lgs., n. 81/2008 ..………...p. 66

8. Gli obblighi del lavoratore……….…p. 71

CAP II

RESPONSABILITA’ DEGLI INFORTUNI SUL LAVORO E

COMPORTAMENTO COLPOSO DEL LAVORATORE

1. Irrilevanza della condotta colposa del lavoratore ……….p. 76 2. Il gestore del rischio e concetto dell’area di rischio …………..p. 81

2.1.Comportamento esorbitante del lavoratore ………...p. 84 2.2.Comportamento abnorme nell’ambito

delle proprie mansioni………..p. 87

2.3.Comportamento del lavoratore e i suoi limiti esimenti ….p. 96 2.4.Comportamento meramente imprudente ………….…...p.101

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CAP III

LA COLPA DEL LAVORATORE

1. Un corretto accertamento ……….p. 107 2. La sentenza della Cassazione Penale,

Sezione IV, 14 Febbraio 2012, n. 10712………...p. 115 3. Una Sentenza ricca di novità………p. 118 4. Giurisprudenza consolidata e obblighi di vigilanza……p. 121 5. La Novità arriva da lontano:

il c.d. “Principio di Affidamento”

e l’Obbligo di Vigilanza ………p. 123 6. Conclusioni………...p. 129 7. Nota bibliografica...p. 132

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Introduzione

Il presente studio si propone l’obbiettivo di studiare e di analizzare vari orientamenti giurisprudenziali sulla questione concernente la rilevanza del comportamento del lavoratore nell’accertamento della responsabilità per infortuni sul lavoro. La rilevanza della condotta del lavoratore nell’accertamento della responsabilità per l’infortunio occorso al medesimo nello svolgimento dell’attività lavorativa è stata, ed è, largamente dibattuta sia in giurisprudenza che in dottrina.

Per inquadrare adeguatamente il problema è necessario, preliminarmente, confrontarsi con il panorama normativo del sistema della sicurezza sul lavoro e con le sue evoluzioni. L’analisi della normativa mostra come fin dal dettato normativo l’infortunio - o qualunque altro evento offensivo possa prodursi in danno del lavoratore nel corso dell’attività lavorativa - viene considerato come il risultato di una serie di fattori interagenti, tra cui può concorrere anche la condotta della vittima. Il legislatore per primo riconosce la pericolosità di certi comportamenti, che i lavoratori possono tenere, non solo imprudenti, ma talvolta negligenti e prende atto della necessita di prevenirli.

I modelli di tutela che si sono succeduti nel tempo sono, fondamentalmente, riconducibili a tre modelli.

Il modello vigente dalla seconda metà del secolo scorso fino alla promulgazione del D. Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, il sistema ricavabile dal Testo Unico per la sicurezza 1994 e, in fine, le modifiche apportate dal D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

L’originario sistema di tutela era interamente incentrato sulla figura del datore del lavoro, di fatto alla base del sistema vi era la particolarità del rapporto e dei legami che intercorrono tra i diversi

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soggetti interagenti. In particolare, si considerava in termini assoluti il divario tra la posizione di debolezza del lavoratore, che era costretto a rimettere la propria incolumità nelle mani di un altro soggetto a lui gerarchicamente sovraordinato senza alcun potere di controllo sul suo operato, e quella del datore di lavoro che deteneva, in maniera esclusiva, i poteri decisionali e di spesa necessari ad approntare le misure di sicurezza.

Il legislatore sulla base di quanto detto sopra, ha predisposto un modello di tutela particolarmente stringente che riconosceva in capo al datore di lavoro una “posizione di garanzia” in virtù della quale egli aveva l’obbligo di proteggere i lavoratori da tutti i danni che potevano derivargli nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa; in modo tale da assicurare una piena corrispondenza tra poteri e doveri del datore di lavoro e riequilibrare, così, la sua posizione con quella del prestatore.

La norma cardine del sistema era costituito dall’art. 2087 c.c. il quale dispone che è obbligo del datore di lavoro di adottare “le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica”

L’obbligo di garanzia derivante dalla norma aveva una portata talmente ampia da essere stato unanimemente interpretato nel senso di essere teso ad impedire qualunque evento prodottosi in danno al lavoratore, in danno del lavoratore, compresi quelli derivanti dalla sua stessa imprudenza, negligenza o disattenzione.

L’imprenditore, o qualunque figura equiparabile a quella del datore di lavoro, non aveva semplicemente il dovere di fornire tutti i mezzi idonei a garantire la sicurezza del luogo del lavoro, ma anche l’obbligo di vigilare costantemente sul corretto utilizzo di tali mezzi da parte dei lavoratori. Con il D. Lgs. n. 626/1994 si rafforza la posizione di garanzia del datore di lavoro e tale figura viene a coincidere col “dirigente, al quale spettano i poteri di gestione, o con quella del

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funzionario non avente qualifica dirigenziale ma preposto ad un ufficio dotato di autonomia gestionale”: gli artt. 3, 4 e 35 del decreto imponevano al datore di lavoro di predisporre un idoneo sistema di prevenzione e protezione in relazione al rischio specifico e altamente probabile in considerazione dell’attività svolta.

Si trattava di un importa tante novità; stante le crescente complessità delle attività lavorative e l’impossibilità per il legislatore di conoscere tutti i rischi connessi ad ogni specifica incombenza, egli rimetteva al garante il compito di individuare, nello specifico, le cautele adeguate. Nella sostanza l’imprenditore era chiamato compiere una valutazione

ex ante sul rischio proprio dell’attività lavorativa e predisporre un

piano di prevenzione idoneo ad evitare la concretizzazione di tale rischio.

Nello stesso modo ha posto le basi per la responsabilizzazione dei lavoratori, non più considerati come meri creditori di sicurezza ma chiamati, anch’essi, a svolgere un ruolo attivo nel sistema di prevenzione.

Un’ulteriore modifica del sistema di prevenzione è pervenuta per mezzo del nuovo Testo Unico della sicurezza D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, il quale ha riordinato e coordinato le numerose normative relative alla tutela della sicurezza sul lavoro, il nuovo decreto ha avuto il pregio di disporre un sistema di tutela che tiene conto del complesso organigramma aziendale che caratterizza la maggior parte delle imprese odierne, dove tra il vertice apicale e i lavoratori vi è, spesso, una distanza enorme per cui, per far fronte concretamente a tutti i rischi, è necessario che gli obblighi di garanzia siano ripartiti in verticale tra i diversi soggetti.

In primis è la figura del datore di lavoro che ha il dovere di compiere

una valutazione di tutti i rischi e conseguentemente elaborare un documento che deve essere presentato agli organi nei termini di legge (c.d. DVR). Egli deve, altresì, designare il responsabile del servizio di

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prevenzione e protezione che ha il compito, a sua volta, di predisporre un piano di sicurezza che dovrà essere avvallato dal datore di lavoro. Infine è prevista anche la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza che il datore di lavoro dovrà consultare prima di avviare qualunque decisione concernente la sicurezza dei lavoratori.

In questo modo il datore di lavoro, che rimane il principale garante nei confronti dei lavoratori, pur non potendo delegare i propri obblighi di garanzia ad alcun altro soggetto, è messo nella condizione di conoscere i rischi connessi all’attività lavorativa ad ogni livello. Gli stessi, dal canto loro, sono maggiormente garantiti dalla presenza di un rappresentante che partecipa attivamente, se pur con un ruolo meramente consultivo, alle decisioni in materia di sicurezza. Permangono, poi, per il datore di lavoro gli obblighi di formazione e di informazione dei lavoratori che devono essere edotti dei rischi cui vanno incontro nell’esercizio delle proprie mansione (l’art. 17 del D. Lgs. n. 81/08 dispone, in particolare, l’obbligo di “informare il più presto possibile i lavoratori esposti a gravi rischi”).

Il sistema della normativa infortunistica si è trasformato da un modello iperprotettivo ad un modello collaborativo, in cui gli obblighi sono ripartiti tra i vari soggetti, compresi i lavoratori.

Pertanto, anche la questione della rilevanza della condotta del lavoratore è diventata, lentamente, il fulcro delle decisioni in materia di infortuni sul lavoro e si sono sviluppate diverse correnti giurisprudenziali che hanno certamente risentito dell’evoluzione normativa. Si deve tener presente che la linea giuda in materia di infortuni è a favore della totale irrilevanza del comportamento (ancorché) colposo del lavoratore ai fini dell’esclusione o della limitazione della responsabilità del datore di lavoro.

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CAP I

LE ORIGINI DELLA POSIZIONE GIURIDICA DI

GARANZIA

1. Reato omissivo Improprio

Il Giurista e storico Spangerberg scriveva, nell’ambito del diritto penale “…si deve accettare come principio fondamentale che

l’obbligo del cittadino o del suddito si indirizza esclusivamente all’omissione: egli deve cioè omettere delle azioni che, se venissero commesse, lederebbero o porrebbero in pericolo la sicurezza dello stato o dell’ individuo e la cui commissione, di conseguenza, è vietata”1.

L’autore, continuando nella sua opera, precisava che solo eccezionalmente può essere penalmente sanzionata la violazione di un obbligo di attivarsi ed una tale eccezione poteva essere giustificata solamente attraverso un fondamento giuridico, pertanto un delitto per omissione presuppone necessariamente per la sua esistenza tre elementi fondamentali, l’esistenza di un obbligo di attivarsi basato su un fondamento giuridico, la violazione di tale obbligo attraverso l’omissione dell’azione doverosa e infine la sussistenza di un danno provocato dall’omissione per colui che era autorizzato ad esigere l’adempimento di quell’obbligo e quindi la commissione di quell’azione2.

1

Spangenberg, Uber Unterlassungsverbrechen und deren Strafbarkeit, in Neues Archiv des Criminalrechts, 4 (1820), p. 528-529.

2

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Tale affermazione anche se imprecisa3 per la moderna dottrina ha il merito di sintetizzare in maniera chiara la struttura delle fattispecie omissive improprie a cui fondamento deve stare sempre un

“besonderer Rechtsgrund”. Occorre a questo punto precisare la

discussa linea di demarcazione tra i reati omissivi propri ed impropri che ha diviso molti giuristi.

Secondo un primo orientamento della dottrina , il criterio distintivo tra le due categorie andrebbe ricercato nel carattere della norma violata: nei reati omissivi propri verrebbe lesa una norma di comando (che impone cioè il compimento di una certa azione), in quelli impropri una norma di divieto (che vieta la causazione di un evento)4.

In una tale impostazione i reati omissivi impropri costituirebbero una particolare forma di manifestazione dell’agire illecito, si potrebbe così asserire che non sono i reati omissivi a dover essere distinti in due categorie ma quelli commissivi5, da qui l’origine dell’espressione “delitti commissivi mediante omissione”.

Tale teoria è stata abbandonata a seguito di molte critiche fondate sulla base che i “divieti e comandi si distinguono tra di loro sulla base

dell’oggetto della formazione: i divieti esigono l’omissione, i comandi invece l’esecuzione di un azione”6

.

Ma si aggiunge e si riscontra una completa unanimità sul fatto che

“nel reato omissivo improprio il comportamento antigiuridico consiste nell’omissione della possibile esecuzione dell’impedimento dell’evento… allora la norma alla quale un tale comportamento contravviene non può essere un divieto di azione ma solo un comando

3

Giovanni Grasso, Il reato omissivo improprio, Milano, Giuffrè Editore, 1983.

4

Questo criterio risale a Luden, Abhandlungen aus dem gemeinen teutschen Strafrecht, 2. Band, Ueber den thatbestand des Verbrechesn, Gottingen, 1840, p. 210-220.

5

Così Vannini, I reati commissivi mediante omissione, Roma, 1916, p. 48 ss.

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di azione”7

. Abbandonato così il criterio descrittivo fondato sul tipo di norma violata, nella dottrina sono emerse due soluzioni alternative per operare una distinzione tra fattispecie omissive proprie ed improprie: l’una che si impernia sulla struttura della fattispecie, l’altra sulle modalità della tipizzazione8.

Nella prima impostazione viene elaborato un criterio di distinzione che si potrebbe definire di carattere materiale. I reati omissivi propri sono quei reati che si esauriscono nel mancato compimento di un’azione comandata ed in cui, di conseguenza, il verificarsi dell’evento non è elemento di fattispecie (anche se, di regola, l’azione comandata deve servire ad evitare dei risultati antigiuridici); nei reati omissivi impropri la realizzazione dell’evento appartiene alla fattispecie, l’omittente viola un comando che non è quello di porre in essere una certa azione ma di impedire un determinato evento9. Utilizzando termini giuridici contemporanei possiamo riassumerli in questo modo, i reati omissivi propri corrispondono a quelle fattispecie in cui il legislatore si limita a punire solo ed esclusivamente il fatto di omettere un azione doverosa, il cui contenuto viene espressamente indicato dalla stessa fattispecie incriminatrice, ad es., l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.), l’omissione di denuncia (art. 361 c.p.), l’omissione di referto (art. 365

7 Così Armin Kauf mann, Methodische Probleme, der Gleìchstellung des Unterlassen mit

der Begehung, in Juristische Schulung. cit., p. 174.

8 Una diversa impostazione è quella eseguita da Herzberg, Die Unterlassunng im

strafrecht und das Garantenprinzip, Berlin, 1972 p. 22 ss. Per il quale “reati omissivi propri sono tutte quelle fattispecie legali che possono essere realizzate solo per omissione”, reati omissivi impropri, invece quelle fattispecie “che possono essere realizzate ,tanto con un comportamento positivo quanto con un’omissione”. Si tratta com’è evidente, di un criterio di distinzione fortemente discutibile. Nella dottrina italiana una opinione simile era sostenuta da Caraccioli, Il tentativo nei delitti omissivi, Milano, 1975, p. 10 ss. per il quale “con la figura dei reati di commissione mediante omissione si fa riferimento ad ipotesi criminose nelle quali la condotta produttiva di un certo risultato materiale può essere concreta indifferentemente dalla violazione di un divieto o di un comando di fare”.

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c.p.) o come vedremo in dettaglio successivamente, l’omissione di cautele antinfortunistiche (art 437 c.p.).

Questi rappresentano fattispecie in cui la legge incrimina l’inadempimento ai relativi obblighi, ponendosi essa come la fonte da cui questi derivano ed in forza della quale risulta incriminata la corrispondente violazione, precisando ulteriormente che non potendosi imporre un obbligo con scadenza indefinita, ne tantomeno che un soggetto possa essere obbligato in via permanente a compiere l’atto dovuto, tali fattispecie prevedono un termine entro il quale l’azione doverosa deve essere adempiuta10 o espressamente indicata nella stessa fattispecie (l’omissione di denuncia o referto) o desumibile dalla funzione cui l’obbligo di agire è preordinato (tempo necessario per un soccorso efficace, nell’art 593 c.p.).

Per quanto attiene invece i reati omissivi impropri l’individuazione dei caratteri essenziali di tali figure deve basarsi sulla norma incriminatrice, la quale non deve prevedere testualmente condotte di tipo omissivo, ma sarà basata sulla condotta consistente nel cagionare un determinato risultato (la morte nell’omicidio, l’incendio, il disastro ferroviario, la malattia nelle lesioni). Come si potrà notare è la causalità della condotta a qualificare il suo rapporto con l’evento, tale condotta non può che assumere i connotati di un’azione; soltanto un comportamento dotato di efficienza sul piano naturalistico può realmente cagionare un risultato anch’esso dotato di consistenza naturalistica11.

Lo stesso illustre Grispigni al quale si devono contributi decisivi alla comprensione delle peculiarità della condotta omissiva e del suo carattere intrinsecamente normativo precisa “soltanto dal punto di vista

10

Si veda G.De Francesco ,Diritto Penale i fondamenti cit. p.186 ss.

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normativo l’omissione può essere considerata come causa dell’evento”12

.

Nel caso in cui una norma prescriva una determinata azione, “di tale

natura che, ove fosse compiuta, avrebbe appunto impedito il verificarsi dell’evento, ne deriva che ove invece essa non sia compiuta l’evento si verificherà. Pertanto l’evento stesso può considerarsi dal punto di vista normativo e cioè del dover essere come cagionato precisamente da tale mancata azione”.

Il “non impedire” che dal punto di vista naturalistico “non ha

significato… dal punto di vista normativo, invece, è del tutto equivalente a cagionare”13

; secondo cui la differenza tra la causalità dell’azione (cagionare) e la causalità dell’omissione (non impedire) consisterebbe soltanto in questo “il non impedire assume valore

causale solo in quanto esiste una norma che prescrive opporre un impedimento” lo stesso autore Grispigni ci illumina con un epico

esempio, se un corso d’acqua è deviato da una barriera naturale di sassi “chi toglie questi sassi… cagiona un’inondazione”. Se invece tale barriera non esiste ed una norma impone di costruirla per evitare una possibile inondazione “chi omette di fare ciò cagiona (nel senso di

non impedire) un’ inondazione.

Detto ciò possiamo affermare che la causalità dell’omissione deriverebbe, quindi, dalla creazione normativa dell’impedimento ed è soltanto l’esistenza di un dovere di agire che rende causale il non impedimento: senza la norma questo non avrebbe alcun rilevanza causale”14

.

Si necessita a questo punto che per poter imputare l’omissione all’autore un apposito intervento legislativo, volto a far sì che al dovere di attivarsi, rispettivamente a carico del bagnino, medico, del

12

Grispigni, L’omissione nel diritto penale, cit., p. 38 ss.

13

Grispigni, L’omissione nel diritto penale, cit., p. 38-39.

14

Così Carnelutti, L’illecita penale dell’omissione, p. 2 ss. Anche Antolisei. Il rapporto di causalità, p. 162.

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datore di lavoro, venga corrispondere ugualmente una responsabilità per omicidio laddove tale dovere sia stato concretamente disatteso. Nel nostro codice penale, al fine di assicurare il rispetto del principio di legalità, ha introdotto un’apposita disposizione, l’art 40 comma 2: “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire

equivale a cagionarlo”, per tale clausola di equivalenza, le

disposizioni che contemplano reati a forma libera o casualmente orientati vedono duplicato il proprio ambito di rilevanza, infatti la loro integrazione avverrà non soltanto in presenza di una condotta che abbia causato l’evento ma anche quando il soggetto giuridicamente obbligato non abbia impedito la sua verificazione, ed essendo ovvio che tale obbligo non è desumibile dalla stessa norma incriminatrice si deve ritenere che soltanto una fonte normativa (qualificata) possa imporre ai consociati un intervento (in soccorso) degli interessi dei terzi15, non potendo a sua volta limitare alle altre fonti legislative (regolamenti, ordinanze, consuetudini) di apportare un contributo specificativo, ne si può escludere che l’obbligo possa derivare da un contratto in forza delle quali una delle parti, ad es., il datore di lavoro, si sia impegnato ad un determinato adempimento, nel nostro caso specifico la sicurezza del lavoratore.

2 La Condotta colposa.

Il carattere colposo della condotta della vittima (e conseguentemente la impossibilità concreta di fronteggiare il rischio) resta infatti quasi irrilevante nella economia delle decisioni, che pervengono comunque ad affermare la responsabilità del datore di lavoro nel caso di morte o lesione del lavoratore.

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Tale esito interpretativo si giustifica in parte attingendo alle ragioni della dogmatica, o comunque ad argomentazioni desumibili dalla disciplina positiva di contesto, al cui vertice è messa la figura del datore di lavoro, garante della incolumità e della salute dei suoi sottoposti16. Che questa non sia l’unica motivazione ad ispirare la severità della giurisprudenza, sarà dimostrato dalla sostanziale indifferenza che le sue decisioni mostrano nei confronti delle recenti riforme legislative in materia di sicurezza sul lavoro: cambiamenti che avrebbero dovuto far riflettere sul diverso (dal punto di vista qualitativo, il che non significa necessariamente: più contenuto) potere di garanzia del datore di lavoro sulle fonti di esposizioni al rischio. Sicuramente tale spiegazione deve essere ricercata muovendo da riflessioni di tipo sociologico che affrontano non tanto o non solo nel pure elevatissimo tasso di esposizione del lavoratore a rischio né nella qualità di tale rischio (per sua natura particolarmente insidiosa e poco manipolabile), quanto – in maggior misura – nell’origine del pericolo. Si fatto settore, a differenza che in altri17, la coscienza sociale sembra poco disposta a tollerare la verificazione di eventi dannosi perché questi non sono direttamente riconducibili alla libera esposizione a rischio da parte di chi li patisce, bensì scaturiscono da scelte decisionali operate da terze persone (quelle che ne traggono il vantaggio economico)18, le quali non ne subirebbero le ripercussioni,

16 Di nessuna specifica trattazione necessita il fondamento della responsabilità del datore

di lavoro in generale, assolutamente pacifico. In proposito basti ricordare quando più di un secolo fa osservava l’Impallomeni: “La responsabilità dei padroni non è solo in ragione diretta della dipendenza degli operai e della loro impotenza di controllo, ma altresì della loro possibilità di adottare i mezzi più idonei. […]”. Impallomeni, L’omicidio nel diritto

penale, Torino, 1889, p. 132.

17

Come, ad esempio, nell’ambito della circolazione stradale, ma anche nell’ambito della attività sportiva pericolosa, o della produzione di peni pericolosi. Vedi Di Giovine, il contributo della vittima nel delitto colposo, Giappichelli Editore ,Torino, 2003, p. 51.

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Di “pericolo” dovrebbe parlarsi, ove si voglia seguire la terminologia di Luhmann, atteso che la nozione di rischio presuppone che la conseguenza dannosa sia riconducibile

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se non intervenisse appunto il diritto penale: usato qui (più a ragione che nell’ambito della infortunistica stradale) come strumento compensativo, allo scopo, cioè, di riallocare i costi sociali ponendoli a carico di chi è in grado di sostenerli19.

A ben vedere questo ragionamento è basato non tanto su basi penali anzi rispecchia il ragionamento civilistico, le cui categorie sembrano insensibilmente mutate al diritto penale, e fa leva sulla inerenza del danno a rischio di impresa.

Infatti porgendo un semplice sguardo alle massime in materia infortunistica, vi si trovano tracce dell’impostazione civile, anche dottrinale che imputa la responsabilità dell’imprenditore “alle deviazioni dalla attività specificatamente ordinata, e al compimento di operazioni connesse, che il dipendente abbia volontariamente intrapreso”20

, ovvero ai danni cagionati da attività commesse fuori orario21.

Questo modo di pensare non dovrebbe essere adattabile al modo di pensare del diritto penale, infatti tutto questo si desume dal nesso strettissimo che la stessa dottrina ravvisava tra la responsabilità civile per il rischio e la sua assicurabilità: è chiaro infatti che il rischio normale di impresa deve potere essere assicurabile, dovendo rimanere a carico dell’imprenditore soltanto gli incidenti atipici e imprevedibili22.

Lo stesso Trimarchi afferma che “fintanto che la previdenza sociale non opererà, ed efficacemente, a favore della intera popolazione […],

ad una decisione di chi subisce la possibilità del suo verificarsi. Luhmann, Sociologia del

rischio, p. 33 ss.

19

La trasposizione della analisi economica del diritto in sede penale consente di cogliere più agevolmente le ragioni per cui, la giurisprudenza trascura spesso la situazione concreta a favore della considerazione della attività nel suo complesso. Trimarchi,

Causalità e danno, p. 141. 20 Trimarchi, Rischio, p. 159. 21 Trimarchi, Rischio, p. 159. 22 Trimarchi, Rischio, p. 38.

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la responsabilità oggettiva svolge la benefica funzione di attribuire il danno a chi è in grado di affrontarlo economicamente”23

.

Oltre a questa concezione socio-econmica della funzione compensativa, ci troviamo di fronte al criterio di imputazione oggettivo che in diritto civile adempierebbe ad una funzione preventiva in una misura che il criterio colposo non riesce a soddisfare24.

Questo principio si basava sulle ricerche della psicologia degli incidenti compiuti, negli anni Cinquanta in America25.

Dove veniva appurata la possibilità che la responsabilità oggettiva del danneggiante residuasse anche in presenza di una colpa del danneggiato26, anche se però era ritenuta concettualmente distinta da quella in cui il danneggiato assumesse (volontariamente), il rischio caso da cui invece discendeva la non responsabilità del datore di lavoro.

È opportuno notare che in una rassegna giurisprudenziale del 198027, in base all’orientamento giurisprudenziale dell’tempo si rivelava che; “l’abitudine ad un determinato lavoro, anche se pericoloso, porta inevitabilmente l’agente a sottovalutare la reale entità del rischio, e a non individuare tempestivamente i pericoli, ad allentare l’attenzione, specie se il lavoro comporti movimenti automatici”;

“La difficoltà dell’operazione che si sta compiendo, magari delicata e di responsabilità, per la quale un errore può determinare un danno rilevante all’imprenditore, concentra l’attenzione dell’agente sullo sviluppo del lavoro, sottraendolo totalmente ai pericoli connaturati a quell’attività lavorativa”; “la corretta valutazione del corretto

23

Trimarchi, Rischio, p. 39.

24 Di giovine, op. cit., p 52. 25 Trimarchi, Rischio, p. 36 e ss. 26 Trimarchi, Rischio, p. 50.

27 Domenighetti, Rassegna giurisprudenziale sulla rilevanza del comportamento del

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coinvolgimento delle parti contraenti (datore lavoro, lavoratore) e l’alea cui ognuno di queste è sottoposta (l’una di tipo economico e l’altra di natura squisitamente personale) comporta il trasferimento sull’imprenditore della responsabilità di quanto accade nell’impresa a danno del lavoratore”28

.

Come si può notare la giurisprudenza degli anni sessanta, settanta, si fa promotrice della sensibilità sociale dei cittadini, promuovendo un lento e progressivo irrigidimento della responsabilità in capo al datore di lavoro, portando ad ignorare la mutazione del dominio sulle fonti di rischio da effettivo a potenziale, come conseguenza della crescente complessità della realtà lavorativa organizzata29.

Si noterà che effettuando una semplice ricerca storico-giuridica l’impronta giurisprudenziale fino agli inizi del novecento si contraddistingue per una certa “benevolenza”30 nei confronti del datore di lavoro, basti ricordare che era sufficiente per escludere la responsabilità che il datore di lavoro avesse preventivamente avvertito il lavoratore dell’esistenza del rischio31

.

Di fatto “non risponderà di omicidio o lesioni colpose il padrone o imprenditore che abbia espressamente avvertito l’operaio addetto al lavoro edilizio del pericolo sovrastante e l’abbia diffidato ad evitarlo, e

28 Domenichini ,rassegna giurisprudenziale,cit., 243. 29 Di Giovine, Il contributo della vittima , cit., p. 52 ss. 30 Di Giovine, Il contributo della vittima , cit., p. 55. 31

Ovvero avesse vietato l’attività. Così Cass. Roma, 1 Maggio 1902, Patete, in Rep. Foro it., 1902, 984, “Manca di motivazione la sentenza, la quale, in tema di omicidio colposo, ritiene la responsabilità dei giudicabili pel fatto che essi non avevano impedito che il loro garzone (rimasto vittima) avesse condotto al pascolo un cavallo indomito: quando la sentenza non dice che cosa il padrone avrebbe dovuto fare, e non fece, per impedire l’evento, e in che modo egli avrebbe dovuto prevederlo, posto che aveva vietato al garzone di condurre l’animale ; e quando, inoltre, essendosi l’evento letale verificatosi per l’imprudenza del garzone , che erasi legatosi con una fune al cavallo, era da indagare se vi fosse un nesso di causalità fra l’evento e l’operato del padrone, attraverso i quali due fatti erasi intromessasi la negligenza della stessa vittima”.

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18

ciò non ostante l’operaio abbia voluto affrontare il pericolo”32

o come nel caso “dell’operaio edile che cade dalle scale in costruzione, riportando la morte, esula la responsabilità del datore, quando si accerti che i ripari provvisori erano stati posizionati, e successivamente tolti per poter posizionare la soglia di marmo e relativi adornamenti. In tale situazione, comune a tutti gli edifici in costruzione, si determina un situazione di pericolo che rappresenta il rischio inevitabile dell’opera [...] l’operaio può e deve con la propria esperienza evitare. L’evento di danno che si verifichi in questo caso è indennizzabile all’operaio, come infortunio, ma non può dare di per sé ingresso ad azione penale di colpa, quando essa non esista”33. Sempre su questo indirizzo anche il Tribunale di Bologna34, secondo cui “l’aver fornito, all’operaio, attraverso un corso d’istruzione, una maggior capacità professionale e quindi una conoscenza del lavoro più profonda esimerebbe il datore di lavoro dell’obbligo di esercitare un controllo sull’attività del lavoratore”.

Di contro già ne gli anni sessanta, la dottrina assumeva posizioni contrastanti, sebbene in con riguardo al settore della responsabilità civile (ma i riverberi su quella penale, erano nell’economia della trattazione pressoché immediati)35, veniva premesso: “ tutto il titolo degli atti illeciti tende a socializzare il diritto, con difesa del danneggiato. L’operaio deve essere difeso anche contro se stesso, specialmente nelle industrie pericolose che si svolgono a ritmo logorante. Si deve, quindi, prevenire con i sistemi più moderni che l’imprudenza, la negligenza dell’operaio gli siano dannose…..”36

, sempre in questo periodo si viene a creare la tesi per cui le norme di

32

App. Bologna, 17 Febbraio 1892, Fabbri, in Foro it., 1892, II, 134 (ove per altro si argomenta la mancanza del “nesso di causa ed effetto”).

33

Cass., 16 Giugno 1939, Bella, in Giust. Pen., II, 1940, p. 481.

34

17 Febbraio 1960, in Rep. Giur. It., 1961, voce Inf. Lav. E mal. Prof. N. 277.

35

Di Giovine, Il contributo della vittima , cit., p. 60.

36

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19

prevenzione degli infortuni sono anche dirette scongiurare il pericolo delle disattenzioni degli operai37, la stessa tesi sarà ripresa e sviluppata dalla giurisprudenza degli anni settanta, che porterà ad affermare che la funzione primaria delle norme sulla prevenzione degli infortuni è quella di evitare che si verifichino eventi lesisi dell’incolumità fisica, intrinsecamente connaturati all’attività lavorativa, “ anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali imprudenze e disattenzioni degli operai subordinati ”38.

Dello stesso avviso39, dove si viene ad affermare che le norme a tutela della sicurezza del lavoro non mirano solo a proteggere il lavoratore dai rischi intrinseci l’attività di lavoro, ma anche da quelli “causati da imprevidenza, indifferenza o disattenzione, degli stessi lavoratori, la cui incolumità deve essere tutelata, addirittura contro la loro stessa volontà”. Così facendo la Corte era arrivata a negare il principio di autodeterminazione in nome e per conto del bene dell’incolumità fisica, anche se a prima vista poteva sembrare che il comportamento del lavoratore fosse diventato irrilevante, nella pratica tale principio era mitigato, non soltanto con riferimento all’ipotesi in cui la condotta del subalterno fosse stata “ inopinabile, esorbitante dal procedimento di lavoro ed incompatibile con il sistema di lavorazione” ma anche

37 Cass. Pen., 17 Dicembre 1956, Fornaro, in Riv. Giur. Lav. prev. soc., 1957, II, 275,

richiamando la sentenza d’appello.

38 Cass. Pen., 15 Ottobre 1979, Pedrotti, Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1981, n. 1576, con nota di

Petrini, Concorso colposo della vittima e infortunio sul lavoro.

Le norme di prevenzione antinfortunistica sono dettate anche allo scopo di evitare le conseguenze di possibili errori del lavoratore, errori che possono essere sia di carattere tecnico, che di matrice psico-fisica dovuti a possibile stanchezza o al mancato incameramento dei dati mnemonici (nella specie era stata ritenuta irrilevante, ai fini dell’esclusione della responsabilità del datore di lavoro, la circostanza che la vittima avesse, per errore manomesso, non fissato un pannello che, caduto, provocava l’evento dannoso). Cass. Pen. 9 Novembre 1981, n. 5750, Bellina , CED Cass., n. 154159.

39

Cass. Pen., 17 Dicembre 1975, in Mass. Cass. Pen., 1976. n. 1360, citata anche da Domenighetti, Rassegna giurisprudenziale, cit., 242.

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20

quando si concretizzasse nella inosservanza da parte del lavoratore di “precise disposizioni antinfortunistiche”40

.

Spesso bastava semplicemente, perché fosse riconosciuta efficacia interruttiva del rapporto di causalità tra il comportamento del datore di lavoro e l’evento verificatosi, che la condotta del lavoratore avesse di sua iniziativa compiuto un’operazione diversa da quella rientrante nelle fasi delle lavorazioni affidategli41.

Queste aperture giurisprudenziali sono andate sparendo, consolidando l’affermazione, che il comportamento del lavoratore, per assumere rilievo ai fini dell’esclusione della responsabilità, debba essere “eccezionale, imprevedibile, tale da non essere preventivamente immaginabile”42

, la massima prosegue precisando che il datore di lavoro è destinatario delle norme antinfortunistiche per far si che il lavoratore non compia scelte irrazionali o che possano pregiudicare la propria integrità psico-fisica.

Tali norme non coprono solo il rischio direttamente discendenti dai processi di produzione, ma anche il comportamento colposo del lavoratore, fautore di pericoli per se e per gli altri43, pertanto le finalità cautelari della normativa antinfortunistica, hanno ampliato il proprio

40 Cass. Pen. sez., IV 17 Marzo 1977. Zaccariello, in M. D. P., 1977 p. 486.

La Massima riportava che la vittima era addetto alla pulizia di una vasca, e nello svolgere tale mansione rimaneva incastrato con i propri abiti nell’albero di trasmissione situato all’interno della vasca. La Corte ritenne l’evento riferibile alla colpa esclusiva del lavoratore, la quale aveva omesso di fermare l’albero di trasmissione, violando le precise disposizioni del datore di lavoro .

41

Cass. Pen. Sez., IV, 28 Luglio 1981, n. 7464. In Rassegna giurisprudenziale ,cit.

42

Cass. Pen. sez., IV, 1 Giugno 1993, Vannicelli, in Mass. Cass. Pen., 1993, fasc. 12-84 .

43

Per tutti, Pulitanò, voce Igene e sicurezza sul lavoro , Dig. disc. pen., IV, Torino, 1992, 111. “ si è statuito che le norme antinfortunistiche sono poste a tutela non di qualsivoglia persona che si trovi fisicamente presente sul luogo del lavoro,per curiosità o abusivamente, ma di coloro che versino quanto meno ad una situazione quanto meno in una situazione analoga a quella dei lavoratori e che si siano introdotti sul luoghi di lavoro per qualsiasi ragione purché a questa connessa (fattispecie di ingresso abusivo di tre ragazzi in un’area recintata). Cass. Pen., 5 Gennaio 1999, Caldarelli, in CED, Cass. n. 214246.

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21

ambito applicativo, tale da vanificare la possibilità di un contrario esito dell’accertamento in concreto44

(N.d.r.: Il problema del corretto e concreto accertamento sarà successivamente trattato nel capitolo III). Tale ambito applicativo non si ferma nemmeno di fronte alla scelta di un operaio particolarmente qualificato, scelta indotta dall’inesistenza sul mercato di una macchina operatrice che, dotata di mezzi di protezione, fosse in grado di eseguire quelle specifiche lavorazioni. “Nell’ipotesi in cui l’adozione di misure e cautele efficaci sia incompatibile con il funzionamento di una macchina o con il suo impiego in determinate lavorazioni” scatta il divieto assoluto di utilizzarla ( Cass. Pen. 15 dicembre 1989, Degola, in Riv. Trim. pen.

econ., 1991, 279 s., con nota di Cataliotti).

Il principale ostacolo alla delimitazione della regola della diligenza era tradizionalmente rinvenuto nelle norme che obbligano il datore di lavoro a vigilare sul comportamento (anche imprudente), del lavoratore. Tale obbligo (vigilanza) è imposto dall’art 4, lett. c del D.P.R. n. 547 del 1955 come si legge in giurisprudenza45.

L’obbligo di vigilanza viene inserito nella normativa antinfortunistica, come una norma di chiusura che consente di affermare46 l’irrilevanza, per un verso, dall’avvenuto adempimento degli obblighi di formazione e informazione, e laddove non si riesca a configurare una culpa in

44 “In caso di infortunio sul lavoro la responsabilità dell’imprenditore per inosservanza

delle norme sulla prevenzione degli infortuni sussiste anche nel corso in cui l’operaio, al momento del fatto, svolgeva una mansione diversa da quella affidatagli.” (Cass. Pen., Sez, IV, 2 Marzo 1984, n. 4477, Magni, CED Cass., n. 169112.

45 “E’dato ravvisare in giurisprudenza applicazioni estremamente rigorose , che delineano

la condotta dovuta dal soggetto obbligato alla sorveglianza e al ordinamento in termini tali da giustificare l’impressione che talvolta la giurisprudenza, tautologicamente, ricavi l’omessa sorveglianza dal fatto stesso del verificarsi dell’evento stesso, e la possibilità di evitarlo dal dovere di evitarlo” così, Volpe, Infortuni sul lavoro e principio di affidamento, in Riv. Trim. dir. Econ., 1995, p. 125.

46

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vigilando47, residua sempre la possibilità di imputare quella di in

eligendo48.

Di fatti sia il datore di lavoro che il preposto devono provare di aver compiuto atti specifici intesi ad evitare che l’attività lavorativa si svolga in modo difforme dalle norme di sicurezza, si deve ricordare che non basta dimostrare di non aver voluto l’esecuzione del lavoro in contrasto alle normative antinfortunistiche, ma sarà necessario dimostrare di aver compiuto atti specifici per evitare la violazione di tali norme.

Dunque non ci resta che osservare che se applichiamo le massime di diritto così rigorose, diventerà difficile o ancor più impossibile, trovare una causa esimente che porti all’assoluzione del datore di lavoro. E come vedremo successivamente, ad oggi, la giurisprudenza rimane restia nel concedere un affievolimento della posizione di garanzia del datore di lavoro.

Ne permette a nuove o vecchie teorie (principio di affidamento o di auto responsabilità) di attecchire in ambito di sicurezza del lavoro.

47

La Corte Suprema ritenne responsabile di un infortunio il gestore di una cava, che aveva scelto per la direzione tecnica della cava stessa un minatore sprovvisto delle nozioni tecniche necessarie. Cass., 5 Novembre 1984, in Securitas, 1984, n. 5.

48 L’avvenuto espletamento da parte del datore di lavoro del suo obbligo di informazione

ed il grado di professionalità del lavoratore, rappresentano due elementi atti a fondare, sotto diversi aspetti, un giudizio di affidamento del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori. La puntuale indicazione dei rischi da parte dell’imprenditore può contribuire a descrivere la misura oggettiva di diligenza richiesta nel suo comportamento; ponendo in via preliminare le basi per un’esclusione della sua responsabilità a titolo di colpa , consente all’imprenditore di confidare nel corretto espletamento delle sue mansioni altrui e conseguentemente, di esonerarsi dal potere dovere di verificare l’operato dei lavoratori. Al secondo aspetto, sarebbe con riguardo a differente tematica, è stato eloquentemente osservato come “non soltanto il quantum ma anche l’an [potere dovere di verifica] non potranno non risentire del grado di qualificazione professionale e specialistica di coloro l’attività posta in essere dai quali si tratti di indirizzare verso un determinato risultato” Mantovani , Il caso Senna fra contestazione della colpa e principio

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23

2.1. Le variegate fattispecie della colpa nella sicurezza

del lavoro

Come abbiamo potuto notare nelle sopracitate sentenze, non si entra mai in modo approfondito nel concetto essenziale della colpa del datore di lavoro, ma anzi nelle motivazioni si cerca sempre di mantenerla nell’ombra, come se fosse un argomento ostico e controproducente per le stesse motivazioni.

Di fatto possiamo osservare che la colpa non sembra essere presa considerazione da parte dei giudici, gli stessi infatti ritengono inutili o superfluo entrare nel merito della colpa ritenendo indifferente il concetto di colpa “generica” o “specifica”.

Cosi facendo si perde la sua natura di elemento di tipizzazione del fatto; in vero, è anche spogliata del suo meno nobile ruolo di criterio ascrittivo della responsabilità per essere degradata a mero strumento di commisurazione della pena.

Lo studioso nell’affrontare temi così importanti, ricerca nella sentenza la prova della colpa, ma come anticipato essi tacciono e si limitano “apoditticamente” ad affermare la sussistenza49

. Non si fa nemmeno questione, infatti, di controfattuali: non si accerta se l’evento si sarebbe comunque verificato nel caso in cui il comportamento diligente del datore di lavoro fosse stato tenuto.

Di fatto, non si discute del tasso più o meno elevato di probabilità da esigere: semplicemente, il nesso di condizionamento non viene affatto preso in esame. Il rapporto di causalità è impostato esclusivamente sul piano del’imputazione oggettiva “in una versione menomata dell’aumento del rischio, che si esaurisce dunque in una malintesa interpretazione dello scopo della norma”50.

49 Di Giovine, il contributo, cit. p. 74. 50

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24

L’imputazione oggettiva, è fatta derivare direttamente dalla posizione di garanzia, discendendo da qualunque ancoraggio con l’analisi della situazione concreta. In questo senso la colpa risulta appiattita sulla causalità, e inversamente si ha una causalità appiattita, dalla posizione di garanzia.

La nostra attenzione si rivolge sull’art 2087 c.c.51

: che è diventato, nel corso degli anni, strumento prezioso della giurisprudenza, che ne ha saputo apprezzare l’indole versatile e polifunzionale, facendone una vera e propria norma di chiusura del sistema penale del lavoro.

In passato non si è mancato di auspicare la sanzione in via penale, sulla base del presupposto che contenesse “una descrizione particolareggiata della condotta pericolosa” ed indicasse “criteri oggettivi assai concreti”52

.

La norma è formulata in termini decisamente elastici, limitandosi ad additare un obiettivo (la sicurezza dei lavoratori), senza specificare le modalità per il suo conseguimento; questo ha consentito alla giurisprudenza di operare impunemente sul piano della logica argomentativa le suddette, surrettizie, trasposizioni di piani53.

L’art. 2087 c.c. è talvolta richiamato in tema di posizioni di garanzia, come “formale presupposto dei reati propri dell’imprenditore”54

. Mentre altre volte è rappresentata la norma per cui inferire le molteplici finalità della disciplina antinfortunistica ai fini dell’accertamento del rapporto di causalità (sub specie di imputazione

51

“l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”.

52

Smuraglia, La tutela penale della sicurezza del lavoro alla luce dei principi

costituzionali, in Riv. Giur. Lav., 1974, p. 74.

53

Di Giovine, Il contributo, cit., p. 76.

54

La citazione è di Pulitanò, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personale nel

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25

oggettiva dell’evento), atteggiandosi ad una e plurima al tempo stesso55.

Bisogna sempre e comunque tener presente che il suo ruolo “consiste nel ricordare che i doveri di diligenza gravanti sull’imprenditore non si esauriscono in quelli tipizzati da specifiche disposizioni, e che quella dovuta dall’imprenditore è una garanzia, a tutto campo, il cui adempimento richiede l’attuazione di ogni misura necessaria all’effettiva salvaguardia del bene tutelato”56

. In proposito, era giustamente specificato che “i criteri indicati dall’articolo stesso […] poco o nulla aggiungono a quanto desumibile dai criteri generali in materia di responsabilità per colpa. Qualsiasi regola cautelare deve tenere conto della particolarità della situazione in cui si tratti di agire”57. E dunque all’ormai acquisita teoria della colpa generica.

Di contro la giurisprudenza ha saputo basarsi sull’ambiguo rapporto tra colpa specifica e colpa generica, affidando all’art. 2087 c.c. l’individuazione di regole cautelari diverse ed ulteriori rispetto a quelle positive. Questa scelta applicativa ha destato perplessità, sotto diversi profili.

In primis, di fronte al rispetto di una cautela specifica, un’ indagine sulla eventuale colpa generica si dovrebbe potersi ammettere esclusivamente in relazione a quegli sviluppi accidentali che non rientrino nel area di protezione della norma cautelare suddetta, pur coprendo una area adiacente58: pena un inammissibile svuotamento di

55

Di Giovine, op. cit., p. 77 e ss.

56

Pulitanò, voce Igiene e sicurezza, cit., p. 110 e ss.

57

Pulitanò, op. cit., p. 110 e ss.

58

Volpe, Infortuni sul lavoro, cit., p. 109, il quale afferma che “gli spazi operativi della diligenza, prudenza, perizia generica sono, dunque, più correttamente limitabili alle ipotesi in cui si tratti di fronteggiare un pericolo non preso in considerazione dal legislatore delle cautele speciali”.

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26

quella funzione orientativa dei comportamenti umani che dovrebbe caratterizzare la norma stessa59.

In secondo luogo, anche là dove in ipotesi residuino spazi per una verifica di tale fatta (perché come si è appena detto, la concatenazione di anelli causali in concreto sia per ipotesi diversa da quella che si trova riflessa nello spettro cautelare della cautela scritta), l’art. 2087 c.c. fornisce alla giurisprudenza la chiave per eludere ogni sforzo di ricostruzione del contenuto modale della regola. Esso ha sempre consentito di conferire veste di specifica (essendo la norma positivamente prevista) ad una colpa nella sostanza generica (a causa della latitudine e dell’elasticità del suo precetto): con tutte le semplificazioni di ordine probatorio che da ciò la giurisprudenza fa discendere60. In particolare, la norma è stata da sempre utilizzata per saltare a piè pari l’accertamento in ordine alla prevedibilità dell’evento concreto; mentre, dall’altro canto, è chiaro che ogni evento lesivo dell’incolumità del lavoratore è suscettibile di essere ricondotto all’ampio spettro cautelare dell’art. 2087 c.c.; con conseguente diluizione della colpa nel mero rapporto di causalità61.

Ciò spiega perché quando – e accade spesso – si parla di prevedibilità (rectius: imprevedibilità), il concetto sia utilizzato nella sua accezione astratta: tale assunto trova puntale conferma nell’accostamento che ne viene fatto con l’eccezionalità62.

59 E’ poi ovvio che tale verifica non va realizzata ex post, come invece sembrerebbero

fare le pronuncie sul punto; per tutte, Cass. Pen., sez. IV, 5 novembre 1984, n. 327.

60

Smuraglia, La sicurezza del lavoro, cit., p. 222.

61

La dottrina ha individuato nella norma “una fattispecie impositiva di un generale obbligo di diligenza, del tutto simile ad una clausola generale di responsabilità civile, dove, come noto, la negligenza funge prevalentemente da criterio di ascrizione del danno e non già da elemento di definizione di quanto forma oggetto della imputazione”. Piergallini, Attività produttive e imputazioni per colpa: prove tecniche di diritto penale del

rischio, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1997, p. 1493. Il quale rinvia sui rapporti tra colpa penale

e colpa civile a Giunta, Illiceità e colpevolezza, Cit., p. 276 e ss.

62

Nel senso invece che l’art. 2087 c.c. funga da veicolo per l’accertamento di una colpa (che è e rimane) generica, Volpe, Infortuni sul lavoro, cit., p. 107.

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27

2.2 Il principio di affidamento.

Sulla base del rigore giurisprudenziale diventa difficile che il principio di affidamento possa mitigare questo settore, o possa essere invocato dal datore di lavoratore come causa esimente della responsabilità.

“L’avvenuto affidamento, da parte dei vari destinatari delle norma antinfortunistiche, alla prudente discrezionalità di operai esperti di quanto indispensabile alla adozione delle cautele di prevenzione non può, in caso di evento colposo, costituire motivo per l’esonero di responsabilità”63

.

Come già menzionato in precedenza tale impatto socio-economicho di siffatte forme di criminalità ha meritato un riconoscimento solenne al contrario del Misstrauensgrundsatz (principio di fiducia), portando la giurisprudenza ad affermare.

“Il datore di lavoro non può invocare a propria scusa il principio di affidamento assumendo che l’attività del lavoratore era imprevedibile, essendo ciò doppiamente erroneo, da un lato in quanto l’operatività del detto principio riguarda i fatti prevedibili e dall’altro atteso che esso comunque non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia, come certamente è quella del datore di lavoro (fattispecie in cui un lavoratore per sbloccare una macchina a sei metri da terra anziché servirsi dell’apposita scala aveva fatto uso improprio di un carrello elevatore)”64

.

Il ragionamento è di intuitiva evidenza; giova però ancora una volta ripercorrere le tappe fondamentali.

La prevalente elaborazione in tema di Vertrauensgrundsatz colloca questo ultimo nell’ambito concettuale della colpa, e ne fa un limite alla

prevedibilità di eventi dannosi quante volte il soggetto agente abbia

63

Cass. Pen., 27 ottobre 1989, Amendola, in Riv. Pen., 1991, p. 214.

64

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28

adempiuto al suo dovere di diligenza, che solitamente si sostanzia in un obbligo di controllo.

Poiché tuttavia tale obbligo si indirizza anche verso l’impedimento dei comportamenti negligenti dei lavoratori, è chiaro che esso non potrà mai dirsi soddisfatto in ogni caso in cui l’evento si sia verificato in conseguenza di una di tali condotte negligenti.

Di fatto continuando su questo piano interpretativo, verrebbe a mancare il presupposto di operatività del principio di affidamento65; specularmente, l’evento dannoso diventerebbe prevedibile per definizione. Si deve notare che la giurisprudenza ha cercato di aprire uno spiraglio nell’applicazione di tale principio.

Spicca in proposito la sentenza Cass. Pen., 9 febbraio 1993, Giordano66 la quale, per quel che interessa ai nostri fini, affermò:

“Una volta che i responsabili dell’organizzazione abbiano predisposto nel migliore dei modi le operazioni da compiere per l’esecuzione del lavoro, hanno motivo per contare sull’esatto adempimento della obbligazione di lavoro da parte dei lavoratori e per attendersi da costoro l’uso della normale diligenza nell’eseguire l’operazione. Ed infatti, se il lavoratore ha il diritto di aspettarsi che il datore di lavoro lo metta nelle condizioni migliori per lavorare, il datore di lavoro ha, dal canto suo, il pari diritto di fare affidamento sull’esatto adempimento da parte del lavoratore del proprio dovere”.

Si fatta decisione ha le sue basi su un’ sensibile ridimensionamento dell’obbligo di controllo gravante sul datore di lavoro dal quale “non può pretendersi che […] si spinga […], nell’organizzazione il lavoro

65

Concorda con tale impostazione giurisprudenziale, Veneziani, Infortuni sul lavoro, cit., p. 520 e ss., laddove nega la configurabilità di un affidamento nei confronti del lavoratore, il quale può essere “in linea di principio, creditore e non debitore di sicurezza” (p. 521). In senso analogo, Bonini, Soggetti penalmente responsabili all’interno

dell’impresa e delega di funzioni alla luce dei D. Lgs. n. 626/94 e n. 242/96 in materia di sicurezza del lavoro, in AA.VV., Ambiente, salute e sicurezza, cit., p. 275.

66

In Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 1995, p. 101 e ss., con nota di Volpe, Infortuni sul lavoro, già citata.

(29)

29

oltre certi ragionevoli limiti dettati dalla natura, dalla qualità del lavoro da eseguire”67

.

Le condizioni di ragionevolezza, risultano poi soddisfatte quanto i responsabili “destinino, anzitutto, all’esecuzione di quel particolare lavoro persone che siano senza riserve all’altezza dello stesso, ribadiscono, in secondo luogo, nonostante la collaudata esperienza degli addetti, le dovute istruzioni sul perfetto modo di eseguirlo e, infine e soprattutto, nel caso di disagi […] possono compromettere la felice esecuzione del lavoro, ne prevedono l’esecuzione da parte di un numero di addetti qualificati tale da consentire di superare agevolmente quei disagi”68.

Tale orientamento, anche se condivisibile non è mai stato preso in considerazione, rimanendo isolato.

2.3 … E una auspicabile soluzione

Partendo dall’assunto che in presenza di norme positive specifiche di cautela, il legittimo affidamento si gioca sulla previa individuazione dell’area di protezione. Le novità legislative69

di cui si è parlato e si parlerà, potrebbero avere riflessi anche in materia di colpa generica, in considerazione delle scelte di valore che hanno operato. Ci si riferisce alla valorizzazione del ruolo attivo del lavoratore, che dovrebbe indurre la giurisprudenza ad un ripensamento complessivo della

materia.

67 In Motivazione, p. 129. L’obbligo di controllo era desunto dal solito all’art’4, lett. c, D.

P. R. 27 Aprile 1995, n. 547.

68 Cass. Pen., Sez. IV, 9 febbraio 1993, cit., p. 128 ss. 69

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30

In particolare, nella sentenza Cass. Pen., 9 febbraio 1993, sopra citata, nel recepire un autorevole orientamento dottrinale, limita espressamente l’operatività dell’affidamento (quando sussistono circostanze dalle quali si evinca che il terzo non sia in grado di evitare i pericoli scaturenti dalla propria condotta, oltre che) nelle ipotesi in cui l’obbligo di diligenza si innesti su una posizione di garanzia70

. Come è il nostro caso, presidiata dagli obblighi di protezione e di controllo facenti capo al garante-imprenditore, in cui sembrerebbe dunque che neppure in futuro possa attecchire il principio. “Se l’affidamento è interdetto quante volte la cautela doverosa si protenda proprio a prevenire il comportamento negligente di un terzo, ciò accadrebbe sempre al cospetto delle posizioni di garanzia, dal momento che queste ultime rappresentino un indice sicuramente eloquente di tale funzionalizzazione”71.

Ma tali impostazioni finirebbero con il tradire il significato stesso delle sue precisazioni sui limiti dell’affidamento. Si fatto la posizione di garanzia, non rappresenta un limite “rigido e aprioristicamente dato”72 all’operatività del Vertrauuensgrundsats, i due concetti (che operano uno sul piano della tipicità oggettiva, l’atro sul piano della tipicità soggettiva) sono così eterogenei da non potersi in alcun modo intaccarsi. L’affidamento consiste infatti in un concreto atteggiarsi della cautela doverosa (attiene alla tipicità oggettiva): la

Garantenstellung è in invece il presupposto sostanziale dell’obbligo.

Questa può anche svolgere una funzione di indirizzo nella delimitazione dall’esterno della regola, ma non è in grado di scolpirne in maniera puntuale il contenuto dal di dentro. Infatti questo compito è affidato esclusivamente ai giudizi sulla prevedibilità e sull’evitabilità dell’evento alla stregua dell’homo eiusdem condicionis et professionis

70

Burgstaller, Das Fahrlassigkeitsdelikt, cit., p. 64.; Fiandaca-Musco, Diritto penale, cit., p. 516 ; Forti, La colpa ed evento, cit., p. 284 ss.

71 Di Giovine, op., cit. n. 88. 72

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31

(nonché allo scopo della norma cautelare, se si tratta di colpa specifica) che, con riferimento anche ai profili di doverosità desumibili dall’assetto sistematico complessivo, ben potrebbero rendere legittimo l’affidamento sul comportamento auto responsabile del lavoratore. Viceversa, soltanto la riconducibilità soggettiva del pericolo consente di definire in negativo la volumetria di tale affidamento, escludendolo nel caso concreto73.

O come affermato da Pulitanò74 quando aveva osservato che la questione della rilevanza del comportamento colposo della vittima doveva essere reimpostata, “ non già muovendo dalla condotta del

lavoratore, ma da quella di coloro la cui punizione si tratta di valutare”, e aggiunge “l’anomalia nel comportamento del lavoratore, che eventualmente la responsabilità di terzi, è fondamentale da ravvisare in ipotesi in cui la vittima si sia messa in una situazione di pericolo fuoriuscendo da quelle costituenti oggetto del “dovere di sicurezza”, od in cui sia stata la stessa vittima (ma lo stesso è a dirsi nell’ipotesi di intervento di terzi) ad eliminare o ad eludere misure di prevenzioni che il garante aveva apprestato, e tale attività (per così dire) di neutralizzare delle misure non sia rimproverabile a difetti di controllo dovuto ed esigibile”.

Questa specie di stratagemma interpretativo è utilizzato dalla giurisprudenziale tutt’oggi. La sua essenza ed elasticità sta tutta nel mutuare, ancora una volta, nei contenuti (indefiniti) della posizione di garanzia di cui l’art 2087 c.c., trasferendosi sic et simpliciter in seno alla regola precauzionale violata75; la cautela, per tal via, assume una portata onnicomprensiva, suscettibile di comprendere, nei fatti,

73

Ammette la possibilità dell’affidamento nel nuovo assetto di disciplina lavoristica, Mantovani, Responsabilità per inosservanza, cit., 291 ss.

74

Igiene e sicurezza, op., cit. p. 113.

75

Sull’Unterlassungsdelikte, della colpa, Arm, Kaufmann, Die Dogmatik der Unterlassungsdelikte, Gottingen, 1959, p. 167 ss. In Italia, per tutti, Fiandaca-Musco, Diritto penale, cit., p. 501 ss.

(32)

32

qualunque evento dannoso si sia verificato, prescindere dalla sua specie, dal momento della verificazione (legame temporale con la prestazione lavorativa), dal nesso qualitativo con il tipo di mansione cui il lavoratore era adibito: in ultima analisi, dal comportamento negligente di quest’ultimo.

Si deve però tener presente che tale operazione non risulta del tutto legittima sul piano del diritto positivo76. Non si può escludere che la costruzione di un obbligo astratto di prevenzione dal raggio di tutela amplissimo, renda la sua attuazione difficile da parte del datore di lavoro: ma non basta infatti se prendiamo in considerazione attività produttive complesse (e quindi per la sempre minore dominabilità in concreto del rischio da parte dei soggetti i quali non manipolano direttamente).

Sicché, per un verso, la concreta inattuabilità della cautela finisce con il presentare il processo penale sotto le vesti di un ineluttabile (ma ben preventivabile) costo per l’azienda, determinando un ulteriore abbattimento degli standard di diligenza utilizzati (sia chiaro: prevedibile diviene, non già il singolo evento dannoso, bensì la responsabilità penale, come tale idonea ad assurgere a voce del bilancio dell’impresa, insieme alle altre passività); per un altro verso, il suddetto orientamento giurisprudenziale potrebbe provocare pericolosi effetti distorsivi, in termini di deresponsabilizzazione del prestatore di lavoro, ingerendo in lui il convincimento (destinato purtroppo a rilevarsi sovente erroneo) di poter confidare in una supplenza di cautela da parte del datore: tutto il contrario di quanto la nuova impalcatura della normativa antinfortunistica mirava a realizzare. Anche sul punto si auspica che una più problematica ponderazione delle scelte di merito compiute nella vigente legislazione induca tuttavia la giurisprudenza a mutare avviso77

76

Di Giovine, op. cit., p. 90.

77

(33)

33

3. La distinzione tra “obbligo di attivarsi”, “obbligo

di garanzia” e “obbligo di sorveglianza”

Nella letteratura penalistica e nel linguaggio giurisprudenziale le locuzioni “obbligo di attivarsi”, “obbligo di garanzia” e “obbligo di sorveglianza” (o vigilanza) appaiono, generalmente, impiegate in modo promiscuo.78

In particolare, si parla, da un lato, di “obbligo di attivarsi” per indicare, indifferentemente, sia il dovere giuridico scaturente dalla norma penale sul reato omissivo proprio, ovvero quello extrapenale, la cui inosservanza è sanzionata da tale norma ex art. 593 c.p.; o l’obbligo di agire finalizzato all’impedimento di eventi lesivi, sul quale si fonda, ex art. 40, comma 2, c.p., la responsabilità penale per il reato omissivo proprio (esempio: per il datore di lavoro di predisporre misure antinfortunistiche a tutela della integrità del lavoratore) dall’altro lato, si definisce “obbligo di sorveglianza” (obbligo di vigilanza) sia il dovere del garante di vigilare sulla situazione di pericolo (o, prima ancora, ove ciò sia possibile, sulla sua insorgenza), che attualizza l’obbligo impeditivo ex art. 40, comma 2, c.p.; sia l’asserito obbligo residuale del garante originario di vigilare sull’operato del garante a titolo derivato in caso di c.d. delega di funzioni79; sia, infine in tempi più recenti, l’obbligo, di analogo contenuto, spettante al soggetto non garante, privo di poteri impeditivi di possibili eventi lesivi, di esercitare un controllo sull’altrui operato, al fine di intervenire (generalmente informando il garante o il titolare del bene), in caso di

78 Isabella Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo garanzia e obbligo di sorveglianza, G.

Giappichelli editore, Torino, 1999, p. 14 ss.

79

D. Lgs. 81/2008, art. 16 […] “La delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite […]”

(34)

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commissione di illeciti, con una condotta che non può, peraltro, di per se impedire l’altrui comportamento criminoso.

Il problema nominalistico della qualificazione degli obblighi sopra descritti, o di loro singoli aspetti, sarebbe in se marginale, se alla rilevata commistione di termini non corrispondesse, sul piano teorico, una parziale sovrapposizione tra concetti diversi. E che si riflette, sul piano pratico-applicativo, in contrasti e incertezze dottrinali e in opinabili decisioni giurisprudenziali in ordine al tipo o, addirittura, alla stessa sussistenza, di una responsabilità penale derivante dalla violazione dei singoli obblighi di agire (soprattutto, sulla sussistenza o meno di una responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, ex art. 40, comma 2, c.p.)80

.

Prescindendo da una precisa e specifica nomenclatura, le situazioni di volta in volta indicate con le suddette espressioni devono viceversa, essere tenute rigorosamente distinte, come è stato nitidamente evidenziato, sia sotto il profilo concettuale, sia sotto quello della disciplina positiva, derivando dalla collocazione dei singoli obblighi nell’una o nell’altra categoria una radicale diversità, non sempre avvertita, di conseguenze giuridico-penali81.

Precisamente, secondo tale dottrina, occorrerebbe distinguere tra: “L’obbligo di garanzia, consistente nell’obbligo giuridico del soggetto, fornito dei necessari poteri, di impedire l’evento offensivo dei beni, affidati alla sua tutela. Tale obbligo sarebbe contraddistinto da quella funzione di tutela rafforzata dei beni giuridici, affidati a un garante (come un datore di lavoro) per l’incapacità dei titolari di salvaguardarli

80

Leoncini , op, cit., p. 16 ss.

81

Per la distinzione di “obbligo di attivarsi”, obbligo di garanzia” e “obbligo di sorveglianza” e per le definizioni seguenti, vedi F. Mantovani, Diritto Penale parte

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