• Non ci sono risultati.

Dal reale all'ideale: senso e relazioni nei processi di programmazione dei servizi sociali intesi come processi di cambiamento sistemico

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Dal reale all'ideale: senso e relazioni nei processi di programmazione dei servizi sociali intesi come processi di cambiamento sistemico"

Copied!
534
0
0

Testo completo

(1)
(2)

Ringraziamenti

I ringraziamenti che qui voglio esprimere segnano il percorso di un viaggio che sta per volgere oramai al termine, e che ha trovato nelle relazioni che ha saputo tessere e nelle consapevolezze e conoscenze di cui si è nutrito le sue conquiste umane e professionali più significative.

Il mio più sentito grazie va ad Antonio Samà, maestro di sempre ed unico mentore, per aver potuto imparare da lui e crescere assieme a lui. Lo ringrazio per la sua disponibilità incondizionata in ogni “dove” della ricerca, per i suoi insegnamenti preziosissimi e le rilevanti opportunità di formazione; per le conoscenze che ha voluto condividere con me, per la supervisione puntuale e feconda a questo lavoro che, nell’essere stata riflessione e valutazione dall’esperienza, è diventata processo di apprendimento in sé; per la ricchezza delle nostre discussioni, per i dubbi e le incertezze personali e professionali che ha saputo ‘contenere’e per il sostegno sincero a che imparassi ad accoglierle per trasformarle in occasioni di crescita; per la pazienza e l’indulgenza alla quale ha saputo educarmi e per gli apprendimenti ‘altri’ che hanno saputo sfidare quelle paure e quelle resistenze che rendevano difficili, o facevano apparire impossibili, i cambiamenti di rotta.

Il mio senso di gratitudine va a Lionel Stapley, i cui insegnamenti sono stati preziosi per lo sviluppo delle abilità richieste da questo lavoro. Lo ringrazio per tutte le opportunità di apprendimento esperenziale che mi ha offerto, per gli incitamenti e la fiducia donati anche quando le fatiche emotive del “crescere” erano insopportabili e gli apprendimenti sembravano non conquistarsi mai.

Il mio grazie va a Jean Neumann per i suoi unici insegnamenti che sono stati costanti punti di riferimento, certi e forti, nel dispiegarsi del processo della ricerca. Allo stesso modo, la mia riconoscenza va a Frances Abram e Camilla Child che mi hanno con benevolenza e fiducia aperto le porte del Tavistock e permesso di studiare più da vicino i modelli teorici e le pratiche operative di una tradizione di ricerca a cui questo studio deve molto.

(3)

- 2 - questo lavoro.

E ancora a Roberto, che sento prima come sincero compagno di vita, e poi come interlocutore privilegiato con cui è sempre agevole confrontarsi. Il suo sguardo esperto, curioso e appassionato sui temi e sui processi dell’innovazione sociale non ha soltanto arricchito di intuizioni e contenuti questo lavoro, ma lo ha anche, spesso, indirizzato e semplificato nei suoi irti percorsi. Lo ringrazio per avermi ascoltata sempre, per avermi sostenuta nelle piccole conquiste che non sempre ho saputo apprezzare e per aver condiviso anche i dubbi propri delle scelte da compiere quando uno scritto inizia prendere vita.

Il mio pensiero va anche a Lucia, sorella d’anima, il cui dono immenso di condividere con me la sua vita ha il sapore di un trofeo per il quale varrebbe la pena combattere ogni battaglia. La ringrazio perché il suo amore incondizionato è stato per me un’ancora di salvezza, un balsamo che ha curato le ferite dell’esistenza. E perché ha arricchito la mia vita regalandomi Mattia.

E poi, grazie a quel ‘bene certo’, che ha cambiato la mia vita, rendendomi una persona migliore.

(4)

- 1 -

Indice

Premessa………..pg. 8

Parte Prima

Framework Teorica

Capitolo Primo

Lo Scenario della Ricerca.

Welfare e Politiche Sociali in Cambiamento

1. Introduzione……….. pg. 17

2. Tipologie e modelli tradizionali………... pg 19

3. Sviluppi recenti……….. pg. 23

3.1 Il welfare latino………... pg. 24

3.2 Modelli di solidarietà……….. pg. 25

3.3 Il welfare mediterraneo………... pg. 26

4. Welfare a confronto………... pg. 28

5. La crisi del welfare: nuovi rischi e nuovi bisogni……….. pg. 32

6. La riforma del welfare: note da un dibattito……….. pg. 35

6.1 La risposta alle sfide: il welfare mix……….. pg. 38

6.2 I soggetti del welfare mix: il Terzo Settore……… pg. 40

6.3 Dal welfare mix al welfare locale………pg. 44

7. Politiche socio-assistenziali a confronto: Italia e Regno Unito..……….. pg. 45

7.1 La riforma dell’assistenza in Italia………..pg. 46

7.2 Le riforme del settore socio-assistenziale nel Regno Unito…………pg. 54

8. Scenari futuri in Italia e nel Regno Unito……….. pg. 59

(5)

- 2 -

Capitolo Secondo

Implicazioni Organizzative della Legge 328/2000.

Programmazione Partnership e Partecipazione

1. Introduzione……….. pg. 71

2. La programmazione nella legge di riforma………... pg. 76

3. Come studiare la programmazione……… pg. 78

3.1 Dal dibattito italiano: i tre approcci alla programmazione…………. pg. 79

3.2 Conservazione vs innovazione: la programmazione

nel settore delle politiche socio-assistenziali……….. pg. 83

3.3 Programmazione come cambiamento sistemico………. pg. 85

4. I fondamenti teorici……… pg. 92

5. Lavoro inter-organizzativo come risposta alla complessità………... pg. 96

5.1 La collaborazione multi-organizzativa………... pg. 98

5.2 Working across boundaries……… pg. 99

6. La partecipazione………... pg. 107

6.1 Alcune posizioni teoriche sulla partecipazione……….. pg. 111

6.2 La partecipazione nei processi di cambiamento………. pg. 114

6.3 Perché le persone non partecipano………. pg. 117

6.4 Concludendo……….. pg. 124

7. Conclusioni……… pg. 126

Capitolo Terzo

L’inconscio al Lavoro.

How to Make Sense Out of Non-Sense

1. Introduzione………... pg. 131

2. Deliberation: contributi dell’approccio socio-tecnico allo

studio delle decisioni………. pg. 133

3. L’organizzazione e l’inconscio: una nuova struttura di pensiero………. pg. 138

3.1 Origini concettuali dell’approccio sistemico-psicodinamico………. pg. 139

4. Implicazioni per il cambiamento organizzativo……… pg. 144

5. Il ruolo delle emozioni nei processi organizzativi………. pg. 145

5.1 L’ansia e le resistenze al cambiamento………...pg. 147

5.2 Meccanismi inconsci alla base delle difese……… pg. 149

5.3 Ansie deliberative e responsabilità………. pg. 152

5.4 Autorità e potere………. pg. 155

5.5 “Sotto-la-superficie”: dipendenza e conflitto nel sistema

(6)

- 3 -

6. La funzione emotiva: leader(ship) come “contenitore”……… pg. 164

7. Learning from experience: sviluppare consapevolezza dei

processi inconsci……… pg. 165

Capitolo Quarto

Il Cambiamento Organizzativo.

Filosofie e Modelli

1. Introduzione……….. pg. 169

2. Le teorie del cambiamento organizzativo……….. pg. 172

2.1 La teoria razionale……….. pg. 175

2.2 La teoria biologica……….. pg. 177

2.3 La teoria istituzionale………. pg. 180

2.4 La teoria psicologica………... pg. 181

2.5 La teoria della cultura organizzativa……….. pg. 183

2.6 La teoria socio-cognitiva……….... pg. 186

2.7 La teoria dialettica………. pg. 188

3. Gli approcci al cambiamento organizzativo……….. pg. 189

3.1 Il cambiamento programmato………. pg. 190

3.1.1 Il modello a tre fasi di Kurt Lewin……… pg. 194

3.1.2 Estensioni del modello lewiniano: alcuni modelli a fasi…….. pg. 196 3.1.3 Un modello concettuale per il cambiamento culturale gestito.. pg. 203

3.2 L’organizational development: origini e sviluppi……….. pg. 210

3.2.1 Il processo del cambiamento pianificato………... pg. 214

3.3 L’approccio emergente al cambiamento………. pg. 217

4. Conclusioni: “one best way?”……….. pg. 222

Capitolo Quinto

Choosing the Right Change Path.

I Fondamentali della Ricerca Empirica

1. Introduzione……….. pg.226 2. Ri-apprezzare Kurt Lewin………. pg.229

2.1 I presupposti del modello lewiniano………... pg.213 3. La rilevanza del modello di Lewin nei processi di cambiamento

(7)

- 4 -

4. La sfida della complessità………. pg. 242

4.1 La (teoria della) complessità………... pg. 245

4.2 I sistemi adattativi complessi: dinamiche e proprietà………. pg. 248

4.3 Implicazioni organizzative: l’organizzazione come CAS………….. pg. 251

4.4 Le risposte organizzative alla complessità: approccio classico

vs approccio complesso……….. pg. 255

4.5 Concludendo……….. pg. 258

5. Using a whole system change approach: action research……… pg. 262

5.1 Le origini dell’action research in ambito organizzativo……… pg. 263 5.2 Note da un dibattito: action research come scienza………... pg. 266

5.3 Definizioni di action research……… pg. 271

5.4 Il tentativo di una sintesi……… pg. 275

6. Il processo metodologico dell’action research……….. pg. 279

7. Il ciclo di cambiamento governato per lo sviluppo organizzativo………. pg. 284

8. La fortuna in Italia………. pg. 287

(8)

- 5 -

Indice delle figure

Capitolo Primo

Figura 1 Who plans and buys treatments for patients……….. pg. 65

Figura 2 How the NHS is run……….. pg. 67

Figura 3 Overall structure of the new NHS in England………... pg. 68

Capitolo Secondo

Figura 1 Sistema aperto………... pg. 93

Figura 2 Sistema tecnologico e sistema sociale………... pg. 95

Figura 3 Sistema socio-tecnico……….pg. 96

Figura 4 Diagrammatic representation of relation between individual

small group and large group organisations……… pg. 102

Figura 5 Schema della dinamica relatedness/relation……….. pg. 104

Figura 6 Quale partecipazione………... pg. 109

Figura 7 Arnstein’s ladder………..………... pg. 110

Figura 8 Il Ventaglio delle posizioni sulla partecipazione………... pg. 113

Figura 9 Continuum of degree or range of participation in

decision-making……… pg. 115

Figura 10 Concentric circles of preferred involvement on issue…………... pg. 116

Figura 11 The formation of representatives’ group………... pg. 129

Capitolo Terzo

Figura 1 Role network for a major deliberation………... pg. 136

Figura 2 Le dimensioni strutturali del processo di apprendimento

esperienziale………... pg. 167

Capitolo Quarto

Figura 1 Lewin’s three-steps model of change……… pg. 195

Figura 2 Integrative model of planned change………. pg. 199

(9)

- 6 -

Figura 4 The eight-stage process……….. pg. 203

Figura 5 I livelli della cultura……….. pg. 205

Figura 6 Modello di cambiamento trasformativo………. pg. 208

Figura 7 Process of planned change………. pg. 215

Figura 8 Approccio alternativo al cambiamento……….. pg. 219

Capitolo Quinto

Figura 1 Force field analysis……… pg. 232

Figura 2 Action research cycle………. pg. 235

Figura 3 Today’s dominant management paradigm………. pg. 243

Figura 4 Simple action research cycle……….. pg. 279

Figura 5 The action research model……….. …pg.280

Figura 6 The cyclical process of action research……….. …pg.282

Figura 7 Action research model………... pg. 283

Figura 8 Action research for organisational change &

development……….. pg. 285

Figura 9 Multiple interaction of action research……….. pg. 286

(10)

- 7 -

Indice delle tabelle

Capitolo Primo

Tabella 1 Tipologia dei modelli di welfare state di Titmuss………... pg. 21

Tabella 2 Tipologia dei regimi di welfare state……….. pg. 23

Tabella 3 I cambiamenti nel modello italiano di welfare mix………. pg. 41

Capitolo Terzo

Tabella 1 Forum e principali deliberazioni corrispondenti………. pg. 135

Tabella 2 Parti idealmente associate con le principali deliberazioni……... pg. 135

Tabella 3 Gap informativi nel processo deliberativo……….. pg. 135

Tabella 4 La matrice sul management dell’incertezza……….pg. 153

Capitolo Quinto

Tabella 1 Modello manageriale classico e complesso a confronto………. pg. 258

(11)

- 8 -

Premessa

Gli anni novanta ed il primo decennio del nuovo millennio sono stati segnati dall’emergere di sfide decisive per la sostenibilità dei sistemi di welfare nei paesi europei, con una trasformazione epocale nel modo di regolazione politica che, a partire dalla crisi dello Stato sociale, può essere visualizzata nel passaggio da uno “Stato gestore” a uno “Stato regolatore” dei servizi (La Spina e Majone 2000).

I cambiamenti intervenuti a tutti i livelli, nella sfera sociale, economica ed in quella culturale, hanno rilevato la profonda inadeguatezza dei modelli di welfare tradizionali, cioè, le vecchie risposte di protezione sociale non sono più in grado di far fronte alla nuova natura dei rischi sociali perché, rispetto al passato, gli individui esprimono bisogni sempre più complessi, articolati ed individualizzati (Paci 2005). Proprio questo progressivo aumento dei bisogni e la loro crescente complessificazione hanno innescato processi di ristrutturazione del welfare per affrontare e rispondere in modo più efficace alle sempre più differenziate condizioni di marginalità e vulnerabilità sociale (Ferrera 2006).

In questo quadro, agli inizi degli anni novanta, nuove forme di collaborazione tra pubblico e privato, finalizzate alla soluzione dei problemi attraverso interventi e servizi più flessibilmente pensati per rispondere ai bisogni diversificati (Ranci 1999; Ascoli e Ranci 2002; Pavolini 2003), hanno posto le basi del welfare mix, il tentativo più importante di ridefinizione dell’assetto del welfare che perfeziona il coordinamento fra Stato e organizzazioni della società civile nella produzione ed erogazione di prestazioni sociali, che il settore pubblico da solo non è più in grado di assicurare (Ascoli 2003). La redistribuzione dei ruoli che caratterizza il welfare mix vede il soggetto pubblico promuovere la co-progettazione, finanziare, coordinare e controllare le prestazioni sociali ed il Terzo Settore essere coinvolto nella progettazione, nella gestione e nell’erogazione degli interventi.

In Italia, lo slancio definitivo verso un welfare mix più maturo si è realizzato con l’emanazione della Legge quadro 328/2000 che istituisce il sistema integrato di interventi e servizi sociali e che contribuisce, almeno in linea teorica, alla

(12)

ri-- 9 ri--

definizione dei rapporti tra Stato e Terzo Settore sulla base di un più maturo coinvolgimento del non-profit anche nella costruzione partecipata delle politiche sociali, entro un quadro di pratiche di partnership che sanciscono pari dignità e ruoli di co-programmazione. Questa legge tende ad un modello di welfare locale, o comunitario, che promuove il protagonismo istituzionale dei comuni e riconosce la centralità del territorio come luogo di sviluppo economico e sociale, ovvero come una rete di soggetti diversi, pubblici e privati, di risorse formali e informali, di relazioni di reciprocità e fiducia, di nuove si(e)nergie e di nuove responsabilità (Franzoni e Anconelli 2006). Nel fondare il sistema sull’integrazione fra ambiti, materie e attori diversi, sull’attivazione di soggetti diversi e sulla localizzazione delle politiche e dei servizi sociali (Bifulco 2003), la legge 328 introduce la programmazione territoriale concertata, basata sullo strumento del Piano di Zona, quale fattore di innovazione capace di promuovere sviluppo locale a più livelli (De Ambrogio 2007). Il concetto di sviluppo si fa, quindi, più complesso: esso non è più misurato attraverso indicatori di crescita e di efficienza economica, ma da indicatori qualitativi in grado di rilevare la qualità della vita e dei servizi di un territorio (Messina 2002): ciò significa che altre variabili profondamente legate al territorio entrano in gioco nei processi di promozione dello sviluppo locale, come le relazioni sociali, la qualità dell’ambiente e la cultura del territorio.

Ripensare criticamente i percorsi ed i processi dello sviluppo locale, e le forme organizzative attraverso cui realizzarlo, sta sullo sfondo di questo lavoro, che ha come obiettivo lo studio e l’analisi dei processi di programmazione sociale intesa come processo di cambiamento sistemico.

È indubbio che l’introduzione di una modalità di programmazione che esalta la dimensione partecipativa e dialogica del processo segna un passaggio importante all’interno del tradizionale modo di concepire potere, ruolo e responsabilità: è il superamento della prospettiva di government, intesa come funzione decisionale esclusiva del soggetto pubblico, in favore di più flessibili strutture di governance (Mayntz 1999) caratterizzate da processi di mobilitazione attiva di diversi soggetti e di costruzione di reti (di relazioni) dirette ad intraprendere azioni e politiche appropriate per la comunità locale (Rodhes 1996). Questo passaggio, che marca anche lo spostamento dal comune alla “zona”, non è indolore e privo di resistenze

(13)

- 10 -

per le amministrazioni pubbliche, abituate da sempre a ragionare in termini razional-lineari e protese verso modelli decisionali a “cascata”. La dimensione partecipativa e dialogica della programmazione rifiuta gli approcci ingegneristici e rigetta i princìpi della gerarchia e della verticalità, esaltando la complessità di un processo caratterizzato da continue negoziazioni tra gli stakeholders sui significati condivisi della questione che la programmazione intende affrontare: ciò significa che, nell’essere una modalità tipicamente bottom-up, la programmazione è un processo intersoggettivo di ricerca e azione, di costruzione collettiva di significati e di ipotesi di lavoro (D’Angella e Orsenigo 1999), piuttosto che l’esercizio di uno stile economicistico e deterministico del decidere.

Valorizzando l’interazione, la processualità, il negoziato e il dialogo con tutti i soggetti che abitano la comunità (Siza 2000), la legge quadro sul sistema integrato di interventi e servizi sociali introduce un approccio sistemico e complesso alla programmazione, che supera il limite dell’autoreferenzialità, cioè di un modo di operare delle scelte che non richiede cooperazione e luoghi di confronto, e libera la programmazione dai legacci di impostazioni e pratiche riduttive che l’hanno qualificata come un atto di natura politica e/o amministrativa e che non hanno prodotto né processi né esiti di cambiamento alcuno: sul piano idealtipico, infatti, la programmazione tradizionale, che corrisponde al modello della razionalità assoluta, utilizza strumenti di misurazione razionale dei bisogni per proporne una lettura quantitativa e, quindi, commensurabile alle risorse messe in campo, entro un quadro caratterizzato da deboli relazioni professionali e (inter)organizzative, segnato spesso dalla presenza di atteggiamenti competitivi e costituito da un sistema di offerta di servizi e prestazioni disarticolato e frammentato.

Le lezioni derivate dalle teorie e dalle pratiche del cambiamento organizzativo (Emery e Trist 1972; Nutt 1984; Chin e Benn 1984; Osborne e Gaebler 1992; Mintzberg 1994; Schein 1999) offrono idee e strumenti di analisi utili a concepire e studiare la programmazione qui definita “dialogica” (termine utilizzato per sottolineare la significatività della dimensione relazionale e comunicativa propria del processo) come un intervento di cambiamento organizzativo sistemico. I soggetti chiamati a co-programmare esplorano e sviluppano nuove visioni del futuro a cui tendono, sperimentano la costruzione di rapporti interattivi basati

(14)

- 11 -

sullo scambio di sapere ed esperienza ed assieme co-producono quelle decisioni che realizzeranno gli obiettivi di cambiamento. Co-produrre è esattamente la sfida che gli attori locali hanno di fronte e che implica uno shift paradigmatico assai significativo (da top slice a whole system change) nei processi dell’organizzare per produrre innovazioni praticabili e sostenibili all’interno del settore dei servizi.

Poiché la cultura organizzativa e dei territori costituisce una forza che ostacola il cambiamento, garantendo la stabilità del sistema attraverso usi e pratiche non riconducibili ad una cultura sistemica della programmazione, l’obiettivo di questo lavoro di studio e ricerca è quello non già di descrivere fenomeni o problemi che gli studi sullo sviluppo locale (tra gli altri, Cersosimo 2001) e sulla governance locale (tra questi, De Vivo 2004) hanno discusso abbondantemente; è piuttosto quello di provare a progettare un intervento utile a sostenere gli attori locali in processi di apprendimento e cambiamento (apprendere facendo e fare

apprendendo) quali modalità tipiche dell’action research.

Come la teoria della complessità suggerisce, il cambiamento è un processo che

emerge localmente, ed emerge attraverso la partecipazione, il coinvolgimento e

l’impegno di tutti i soggetti in ogni fase del processo stesso, ed suoi esiti non possono essere previsti in anticipo. Quest’idea di cambiamento, che mette al suo centro l’incertezza e la complessità delle relazioni dentro e tra le organizzazioni, trova nell’action research, e nei processi di consulenza organizzativa su di essa basati, la sua espressione perché, in quanto processo di sostegno al cambiamento con un forte radicamento dentro un approccio riflessivo e ri-educativo ai problemi, consente al sistema nella sua totalità di sperimentare la transizione dal reale all’ideale.

La tesi è strutturata in tre parti, in modo da offrire al lettore dapprima i riferimenti teorici su cui è basato questo studio, condurlo poi verso la discussione sulle ragioni sottostanti la scelta del metodo e la narrazione degli apprendimenti generati dal processo di ricerca, per lasciare, infine, alla sua riflessione questioni aperte che interrogano sulle possibilità e sulle modalità di realizzare cambiamenti e produrre innovazioni all’interno del sistema locale dei servizi sociali.

(15)

- 12 -

La prima parte esplora il dibattito sul cambiamento organizzativo, discute gli approcci ed identifica la prospettiva teorica privilegiata.

Il primo capitolo mette a fuoco il movimento storico che caratterizza i sistemi di welfare nei suoi faticosi processi di innovazione e descrive il contesto entro cui collocare l’oggetto di questo studio. La programmazione sociale, che in Italia si afferma compiutamente con la legge quadro che istituisce il sistema integrato di interventi e servizi sociali, può essere letta in termini di “attivazione”, che è frutto del rovesciamento di prospettiva proprio della logica passivo-assicurativa dei modelli tradizionali di welfare. Il passaggio dal welfare state al welfare mix, che si riflette nel passaggio da government a governance, obbliga a ripensare le logiche di governo ed il ruolo dei diversi attori, istituzionali e non, coinvolti nella definizione delle politiche socio-assistenziali: in questo senso, la programmazione costituisce l’emblema di un welfare che cambia, che nel tempo si ristruttura, che prova a “ricalibrare” le proprie funzioni, i propri obiettivi ed i propri valori.

Il secondo capitolo introduce e discute le innovazioni organizzative della legge 328 del 2000 (programmazione, partnership e partecipazione) che costituiscono i temi centrali dai quali nasce e matura l’interesse per questo studio. Poiché la legge introduce un approccio sistemico e complesso alla programmazione, l’obiettivo è quello di posizionare l’interrogativo generale all’interno del dibattito che identifica il processo di programmazione come un intervento di cambiamento organizzativo (sistemico), per poi esplorare e comprendere, entro questo rinnovato quadro concettuale ed operativo, le tensioni e le dinamiche proprie dei processi di costruzione delle partnership e l’applicazione reale dei princìpi della governance - tra questi, la partecipazione degli stakeholder ai processi di cambiamento.

Il terzo capitolo introduce e riflette sull’utilità dell’approccio psicodinamico applicato ai gruppi e alle organizzazioni come lente d’osservazione privilegiata e griglia interpretativa per comprendere l’impatto dell’inconscio (o delle emozioni) sui comportamenti organizzativi e sulla capacità dell’organizzazione e dei suoi membri nell’immaginare e realizzare nuovi approcci. L’introduzione di cambiamenti nelle organizzazioni innescano o accentuano risposte quasi mai positive da parte dei membri (come le tendenze regressive che non permettono al gruppo di raggiungere uno stato di maturità tale da affrontarli); la prospettiva dei

(16)

- 13 -

sistemi psicodinamici aiuta, quindi, ad esplorare e considerare l’interplay tra le modalità attraverso cui le persone cercano di far fronte alla loro esperienza di cambiamento ed i modi attraverso cui gli sforzi di cambiamento sono pensati e agiti, ossia l’impatto che le ansie dei membri, e le difese attuate per farvi fronte, hanno su alcuni processi organizzativi come le “deliberazioni”.

Il quarto capitolo è interamente concentrato sulle filosofie e sui modelli del cambiamento organizzativo. La teoria sul cambiamento di Kurt Lewin è stata la prima formulazione esplicita sul tema, alla quale sono seguite una miriade di elaborazioni. Dopo Lewin, infatti, diverse discipline, e studiosi, hanno cercato di identificare strategie e processi per poterlo governare con successo: tra queste, la psicologia delle organizzazioni, la sociologia e gli studi di management; non meno rilevanti sono state le contaminazioni della filosofia, della fisica e delle scienze naturali: si pensi alla rivoluzione epistemologica portata dalla teoria dei sistemi e all’influenza che la teoria del caos e della complessità hanno avuto. È risultata, cioè, una pletora di teorie (e di modelli) sul cambiamento organizzativo, nessuna esaustiva nessuna sostitutiva delle altre; poiché ciascun contributo poggia su specifici paradigmi di lettura e d’interpretazione e focalizza l’attenzione solo su alcune dimensioni del cambiamento, la critical review contenuta nel capitolo ha lo scopo di offrire, in modo sistematico, un’immagine esaustiva della varietà degli approcci e dei modelli, provando a riflettere sulla complementarietà tra essi.

Il quinto capitolo apre alla possibilità di considerare nuovi paradigmi rispetto al modo con cui studiare le organizzazioni ed i suoi processi interni. Le teorie prodotte della scienza della complessità se da un lato hanno prodotto un forte criticismo nei confronti degli approcci programmati al cambiamento, dall’altro hanno generato nuove piste di riflessione sulla natura delle organizzazioni, della vita organizzativa e dei processi di cambiamento. L’obiettivo che il capitolo si pone è, quindi, duplice: dimostrare come il modello di Lewin (seppur considerato da molti quello che più di tutti contiene una visione statica dell’organizzazione ed un approccio hard al cambiamento) costituisca ancora un valido riferimento rispetto ai modi con cui il cambiamento può essere realizzato, ed esplorare il tema della complessità, che è una delle maggiori leve concettuali dell’approccio emergente del cambiamento, per trovare un punto di convergenza tra le idee che

(17)

- 14 -

sono alla base del modello lewiniano ed i princìpi propri della teoria della complessità. Questo tentativo di convergenza condurrà verso l’ampia discussione, teorica e metodologica, sull’action research, quale forma emancipatoria di ricerca capace di realizzare il cambiamento individuale e sociale, per provare a delineare e scegliere, in funzione dello scopo di questo lavoro, il giusto sentiero del cambiamento.

La seconda parte tratta la ricerca empirica, suddivisa in tre capitoli funzionali alla comprensione del processo di ricerca.

Nel sesto capitolo sono affrontate e discusse questioni riferite al metodo di ricerca utilizzato, alle ipotesi di lavoro identificate, alla scelta dei casi studio e ai contesti fisici della ricerca. In particolare, la riflessione sul metodo ha suscitato interrogativi sull’appropriatezza e sulla percorribilità di approcci nuovi alla ricerca

(action research), che si sono tradotti in scelte metodologiche “coraggiose” in

considerazione di un contesto accademico che non guarda ancora con piacere ad approcci diversi da quelli che costituiscono l’orizzonte più tradizionale della ricerca operativa (ricerca qualitativa e ricerca quantitativa).

Il settimo descrive due casi di studio scelti in funzione della centralità assegnata all’action research da questo studio. Entrambi i casi hanno riguardato processi di consulenza organizzativa avviati per sostenere e facilitare cambiamenti sistemici in due regioni del sud-est dell’Inghilterra. La comparazione, parte essenziale di questo studio, è qui riferita non all’identificazione similitudini e/o differenze tra i casi per avanzare interpretazioni che possano giustificarle, ma è stata utile a sostenere un processo di riflessione ed apprendimento circa la possibilità di sperimentare modalità e strumenti di lavoro nuovi (una relazione consulenziale basata su un’action research) che potessero, nel caso italiano, motivare l’energia degli attori locali ad impegnarsi in processi di programmazione più genuini e responsabili.

Infine, l’ottavo capitolo è interamente dedicato alla minuziosa descrizione del processo di ricerca e al racconto degli apprendimenti, individuali e professionali, che questo ha prodotto. Una riflessione profonda che ha coinvolto la stesura del capitolo, in modo particolare, ha riguardato il senso e la forma di uno stile di pensiero e di scrittura che potesse dare spazio ai significati e alle emozioni,

(18)

- 15 -

positive e negative, della ricerca, e restituire al lettore la complessità appartenuta a ogni sua singola fase. La sperimentazione del processo metodologico dell’action

research, al di fuori di ogni rigida prescrizione (che non vuol dire assenza di

scientificità, ma capacità di lavorare con l’incertezza e la complessità), ha dato agli attori locali la possibilità reale di ripensare la funzione della programmazione in generale, e dei servizi sociali in particolare e attraverso questa nuova consapevolezza motivare la propria energia per dar vita ad una nuova stagione per la programmazione sociale.

La terza parte presenta le conclusioni del lavoro svolto, che rispondono sia all’ipotesi iniziale della ricerca, che assume l’action research quale approccio privilegiato per accogliere l’intrinseca complessità dei processi di cambiamento sistemici, sia alla possibilità di contribuire al dibattito sulla percorribilità di un paradigma/metodo rispetto al quale esiste ancora una scarsa considerazione e poca legittimazione scientifica e culturale.

(19)
(20)

- 17 -

CAPITOLO PRIMO

Lo Scenario della Ricerca.

Welfare e Politiche Sociali in Cambiamento

“Un welfare dei poveri è un welfare povero ”

R. Titmuss

Il motivo per il quale questo primo capitolo è focalizzato sul movimento storico che ha caratterizzato, e sta ancora caratterizzando, i sistemi di welfare risiede nel fatto che discutere di welfare state, delle sue evoluzioni e dei suoi (difficili) processi di cambiamento offre un contesto di comprensione utile entro cui collocare l’oggetto di questo studio e coglierne la sua significatività. Possiamo, infatti, dire che la programmazione sociale, che in Italia si afferma compiutamente solo con l’emanazione della legge quadro che istituisce il sistema integrato di interventi e servizi sociali, letta in termini di “attivazione”, è frutto di un rovesciamento di prospettiva che è propria della logica passivo-assicurativa dei modelli tradizionali di welfare. Il passaggio dal welfare state al welfare mix fino al welfare locale, che si riflette nel passaggio da government a governance, obbliga a ripensare i meccanismi, le logiche di governo ed il ruolo delle diverse realtà istituzionali e non coinvolte nella definizione delle politiche sociali: da questo punto di vista, il processo programmatorio, che ha come suo specifico prodotto il Piano di Zona, sembra essere l’emblema di un welfare che cambia, che nel tempo si ristruttura, che nel tempo “ricalibra” le proprie funzioni, i propri obiettivi ed i propri valori.

Poiché si ritiene che attraverso la programmazione sia possibile costruire un sistema attivo di protezione che, fondato sulla piena partecipazione e sull’empowerment delle comunità locali chiamate a (ri)pensare criticamente i percorsi dello sviluppo locale, riconsegni centralità alle politiche sociali e contribuisca a ri-orientare le politiche pubbliche di sviluppo locale nel loro complesso, diventa indispensabile disegnare lo scenario entro il quale le innovazioni si inseriscono - o faticano ad inserirsi - e comprendere in chiave storica-evolutiva i passaggi che ad esse hanno condotto. In altri termini, studiare la programmazione sociale e collocarla entro l’obiettivo generale di questo lavoro richiede uno studio delle politiche sociali che a loro volta non possono essere pienamente comprese se decontestualizzate.

1. Introduzione

La prospettiva storico-evolutiva (Ferrera 2006) identifica le fasi lungo le quali il processo di sviluppo del welfare si dispiega. La sua instaurazione si realizza attraverso l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria in tutti i paesi europei negli ultimi anni del diciannovesimo secolo; è a partire da questa epoca che si può

(21)

- 18 -

parlare di welfare state moderno: sebbene attorno al diciassettesimo secolo lo Stato moderno fa la sua prima apparizione nella sfera sociale, le azioni attraverso le quali interviene rimangono confinate ad interventi occasionali, residuali e discrezionali verso persone considerate immeritevoli che avevano come conseguenza diretta l’emarginazione politica e civile dei soggetti beneficiari (Ferrera 1984). Il consolidamento del welfare avviene con l’ampliamento del catalogo dei rischi coperti dai vari schemi assicurativi e del raggio di azione di questi schemi, che iniziano ad includere oltre ai lavoratori anche altri segmenti della popolazione; è questa la fase che segna il passaggio dalla nozione ristretta di “assicurazione dei lavoratori” a quella di “assicurazione sociale”, riferita ad una categoria più ampia di beneficiari ed ad una definizione più estesa della categoria di “rischio sociale” in considerazione del riconoscimento del fatto che il diritto al risarcimento in base ai contributi versati non è sufficiente: è necessaria la certezza di una protezione minima stabilita in base ai bisogni. L’idea di questa protezione minima si afferma compiutamente nel periodo definito di espansione, dove sotto l’influenza del Piano di Beveridge in Inghilterra compare il termine di sicurezza

sociale, ovvero protezione a tutti i cittadini attraverso prestazioni corrispondenti

ad un minimo indipendentemente dai contributi assicurativi versati, ritenuta irrinunciabile per condurre una vita dignitosa; questo è il momento storico in cui l’attenzione al quanto, al come e al chi della protezione diventano determinanti per l’assetto del welfare e per la sua capacità di incidere sulle condizioni di benessere dei suoi cittadini.

A partire dagli anni settanta l’interesse per la ricerca comparata dei sistemi di welfare inizia a diventare importante e più sistematica; fino a quel momento, infatti, il tema era considerato solo marginalmente nell’ambito degli studi accademici. Le tipologie di welfare costruite, dai modelli tradizionali (Titmuss 1974; Esping-Andersen 1990) a quelli recenti, che complessificano le precedenti ed aggiungono ulteriori dimensioni di analisi (Leibfried 1992; Ferrera 1993, 1996, 1998; Mingione 1997), hanno messo in evidenza come lo sviluppo dei moderni sistemi europei di protezione sociale non abbia prodotto l’affermarsi di un modello unico: sebbene esistano caratteristiche e pezzi di processi evolutivi che sembrano suggerire l’esistenza di una certa, più o meno, accentuata affinità, essi

(22)

- 19 -

presentano comunque caratteristiche diverse che riflettono i legami esistenti tra i diversi itinerari di sviluppo e le esperienze storiche, economiche, politiche e culturali dei singoli paesi. In altri termini, i sistemi di welfare hanno presentato e presentano notevoli differenze rispetto alla dimensione e alla composizione della spesa pubblica, agli aspetti istituzionali, ai tipi di prestazioni erogate ed ai meccanismi di finanziamento.

2. Tipologie e modelli tradizionali

La prima compiuta identificazione e caratterizzazione dei modelli di welfare state, volta a metterne in evidenza le differenze strutturali, definirne le logiche politiche e i livelli di responsabilità collettiva nelle sue fasi evolutive, si deve allo studioso Richard Titmuss (1974), per il quale il senso più profondo del welfare consiste nel promuovere un cambiamento della coscienza collettiva, cioè nel rafforzare il sentimento dell’altruismo che si esprime attraverso l’atteggiamento del dono, sia verso i prossimi noti sia verso ogni membro della società (1970).

La sua classificazione si articola su tre livelli, dove all’estremo inferiore è posto il modello definito residual welfare, caratterizzato da un intervento pubblico volto a garantire, qualora fosse venuta meno la possibilità di ricorrere ai canali di risposta naturali (la famiglia, il mercato e le associazioni volontarie), la soddisfazione dei bisogni primari dell’individuo in condizione di particolare indigenza e bisogno. Si tratta di un intervento, dunque, a posteriori fondato su assegnazioni discrezionali di risorse minime, riparative e limitate nel tempo ad individui in stato di provata necessità da parte delle istituzioni pubbliche. Com’è stato rilevato da Girotti (1998) questo modello è basato sul criterio della selettività in un’accezione negativa: si tratta di interventi e prestazioni che non soltanto sono di norma minori rispetto agli standard socialmente riconosciuti come accettabili, ma vengono peraltro concessi solo a chi si sottopone alla prova dei mezzi, che si presenta essere non meno stigmatizzante dei means tests della vecchia legge sui poveri. A livello intermedio, vi è il modello definito industrial

achievement-performance, dove i programmi pubblici di welfare costituiscono una parte

(23)

- 20 -

di protezione riflette i livelli di reddito e la posizione conseguita attraverso il lavoro. In questo caso, le prestazioni assumono un duplice significato: da un lato, funzionano da meccanismo di integrazione del reddito, dall’altro, come correttivo delle ingiustizie prodotte dal mercato nella remunerazione del lavoro. All’estremo superiore della scala si trova il modello institutional redistributive, capace di temperare efficacemente le disuguaglianze sociali mediante prestazioni applicate secondo criteri universali, cioè a tutti i cittadini sulla base del criterio di cittadinanza indipendentemente dal mercato e dal reddito, e attraverso interventi redistributivi verticali dai gruppi privilegiati a quelli sottoprivilegiati.

La tipologia di Titmuss costituisce un lavoro molto importante per gli sviluppi successivi nel campo della ricerca comparativa sul welfare: come rileva Esping-Andersen (1990), è un approccio che permettere lo spostamento dalla black box della spesa sociale al contenuto vero e proprio del welfare state: programmi selettivi vs programmi universalistici, le condizioni di eleggibilità, la qualità di benefici e servizi e la concettualizzazione e l’inclusione del lavoro e della vita lavorativa nella definizione di diritti sociali di cittadinanza. La sua tipologia è, infatti, costruita tenendo in considerazione due dimensioni di analisi, quella dei diritti sociali e quella gli entitlements, cioè delle condizioni che danno la titolarità al diritto: il bisogno per il modello residuale, il lavoro per il modello remunerativo i diritti universali per il modello istituzionale. Essa richiama anche implicitamente una sequenza evolutiva attraverso la quale si può identificare nell’universalismo redistributivo non solo un valore positivo, ma anche il punto di approdo di un percorso di lungo periodo che consente di identificare gli assetti di welfare che nel corso del tempo sono stati predominanti (Girotti 1998): da un intervento residuale con le caratteristiche tipiche dell’assistenza (programmi means-test) nel primo modello, a politiche meritocratiche che strutturano i programmi di assicurazione sociale nel secondo, fino a politiche dirette al conseguimento dei più elevati livelli di sicurezza sociale e benessere del terzo modello.

(24)

- 21 -

Tabella 1. Tipologia dei modelli di welfare state di Titmuss. Fonte: (adattata da) Ferrera (1993),

op. cit. p. 66 e Naldini (2010), op. cit. p.44

Una classificazione più recente, che ha molto influenzato la ricerca comparata sui sistemi di welfare e la costruzione di tipologie, è quella proposta da Esping-Andersen (1990). I modelli che identifica, a partire dalla rielaborazione della tripartizione di Titmuss e (r)accogliendo l’eredità polanyiana sulle diverse forme di regolazione, permettono l’analisi comparata dei diversi regimi di welfare dei paesi occidentali, all’interno di una prospettiva in cui la visione di welfare state, come esito delle sole azioni pubbliche, si dilata fino a comprendere un sistema totale del benessere in cui la funzione di distribuzione e redistribuzione delle risorse è divisa nel tempo e nello spazio tra Stato, mercato e famiglia (Esping-Andersen 1999) - istituzioni che “impersonificano” le funzioni idealtipiche di allocazione, ovvero redistribuzione, scambio e reciprocità (Polanyi 1974). Le dimensioni analitiche utilizzate dall’autore per misurare l’impatto delle politiche sociali nei diversi welfare state sono quella della demercificazione, che indica il grado con cui la conformazione delle prestazioni sociali riesce ad attenuare la dipendenza dal mercato, consentendo agli individui di disporre di risorse e opportunità anche senza avere un reddito da lavoro, e quella della

destinatari copertura finanziamento requisiti Ruolo Stato livello spesa

poveri lavoratori cittadini marginale occupazionale universale

fiscale contributivo

fiscale

cittadinanza partec. assicurat.

prova dei mezzi

basso medio elevato sostitutivo complementare

minimo

Criterio

Bisogno Lavoro Cittadinanza

Modelli di Welfare State

Residuale Remunerativo Istituz-Redistr.

Come Quanto Effetti P R O T E Z I O N E

(25)

- 22 -

destratificazione, riferita alla capacità delle prestazioni sociali di contrastare e

attenuare, fino ad annullarle, le disuguaglianze basate sullo status occupazionale o sulla classe sociale. Le specifiche forme di interrelazione fra Stato, mercato e famiglia e, dunque, il livello di demercificazione e di destratificazione, producono forme di cittadinanza sociale (Marshall 1950) che differiscono fra paesi e definiscono i diversi mondi del welfare.

Il regime liberale (tipico di Stati Uniti, Australia, Gran Bretagna, Canada) è caratterizzato da un intervento pubblico limitato ad interventi di maggiore necessità: i principali destinatari sono i bisognosi, i poveri, i lavoratori a basso reddito; l’obiettivo dello Stato non è tanto l’eliminazione della disuguaglianza, quanto il contenimento delle povertà estreme e dei fenomeni di emarginazione sociale. Questo modello trova il suo fondamento in misure di assistenza basate sulla prova dei mezzi, su trasferimenti di reddito di bassa entità e su schemi di assicurazione circoscritti e caratterizzati da prestazioni poco generose - non corrispondenti o poco rilevanti per la soddisfazione dei bisogni. In questi paesi, l’esito finale degli esigui trasferimenti, corrisposti sulla base di uno stato di necessità documentabile, si traduce in un rafforzamento del mercato ed in una conseguente riduzione dell’effetto demercificante delle prestazioni. Il welfare state incoraggia, in altri termini, il ricorso al mercato, sia passivamente garantendo prestazioni minime sia attivamente sostenendo schemi di protezione privati, che assume come strumento di emancipazione dalle ingiustizie, dalle disuguaglianze di classe e dai privilegi protezionisti costruiti dalle autorità politiche, con conseguente bassa demercificazione e bassa destratificazione. Nel regime

corporativo (Germania, Austria, Francia, Olanda, Italia) gli interventi di welfare

sono strettamente connessi al mercato del lavoro. In questo modello, le prestazioni sociali sono basate su schemi assicurativi pubblici collegati alla posizione occupazionale e su formule di computo legate ai contributi o alle retribuzioni: i destinatari principali sono, quindi, i lavoratori adulti maschi e capofamiglia. Gli interventi sono concepiti secondo il principio di sussidiarietà: ciò significa che la famiglia è riconosciuta come il soggetto primo a rispondere ai bisogni dei suoi componenti, lasciando l’intervento allo Stato qualora questa non sia più in grado di farsi carico della cura e del benessere dei propri membri. Conseguentemente, si

(26)

- 23 -

ritrovano livelli medi di demercificazione e di destratificazione: la dipendenza dal mercato è attenuata, sebbene non annullata, ed il welfare tende a preservare le differenze di status, di classe e di genere. Il regime socialdemocratico (tipico di Svezia, Danimarca e Norvegia) presenta i livelli più alti di spesa per la protezione sociale, considerata un diritto di cittadinanza. Questo è il modello con il più alto livello di demercificazione, essendo caratterizzato da un intervento pubblico che sostituisce mercato e famiglia e che garantisce l’universalità delle prestazioni: lo Stato, attraverso prestazioni di carattere universale, mira a marginalizzare il mercato come fonte di soddisfazione dei bisogni e finalizza l’azione verso la promozione di un’eguaglianza degli standard di vita più elevati.

Tabella 2. Tipologia dei regimi di welfare state di Esping-Andersen

3. Sviluppi recenti

Il dibattito sui modelli di welfare si è arricchito notevolmente riguardo ai processi di sviluppo del welfare nei paesi del Sud Europa: alcuni autori a tal proposito (Leibfried 1992; Ferrera 1996; Mingione 1997) hanno sostenuto la necessità di distinguere i sistemi di welfare dei paesi dell’Europa meridionale in un modello autonomo, in considerazione del ruolo centrale della famiglia come

Regimi Relazione

Stato-Mercato Stratificazione

Cittadinanza sociale Demercificazione

Più peso al mercato e intervento residuale e

stigmatizzante

Dualismo sociale tra gli inclusi nel mercato e una

minoranza che deve affidarsi al welfare Condizionata da means-test e/o schemi contributivi LIBERALE SOCIAL-DEMOCRATICI

Più peso allo Stato e intervento pro-attivo e

preventivo

Promozione della solidarietà Elevata inclusione di tutti

i cittadini Elevata redistribuzione

Alta. Misure generose Molti schemi universali

Accesso inclusivo CONSERVATORI-CORPORATIVISIT La differenziazione occupazionale è rinforzata da schemi di protezione separati per status occupazionale

Forte cittadinanza sociale, con accesso condizionato alle misure attraverso la partecipazione al mercato

del lavoro (schemi contributivi)

(27)

- 24 -

erogatrice dei servizi di welfare, delle specificità dell’assetto produttivo e dell’atrofia dei programmi pubblici di welfare.

3.1 Il welfare latino

Tra gli studiosi che si sono occupati del modello mediterraneo di welfare, Leibfried (1992) è tra i primi ad avere elaborato una tipologia riflettendo su due dimensioni: il modo con cui è stato sviluppato il principio della cittadinanza ed il ruolo delle istituzioni nel contrastare la povertà, all’interno di una riflessione più ampia che prova ad ipotizzare l’esistenza di un modello unico di welfare verso il quale i paesi della sponda latina del Mediterraneo potrebbero convergere. Nella sua classificazione, Leibfried aggiunge un nuovo tipo alla classica tripartizione di Esping-Andersen.

Il modello scandinavo (Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia) radica la sua politica sul diritto al lavoro; la non preferenza per strategie di trasferimento di reddito è la caratteristica che lo rende moderno: basato sul diritto al lavoro e sull’istituzionalizzazione della cittadinanza sociale, è un modello che garantisce la piena occuccupazione all’interno di una generale concezione che considera il welfare employer piuttosto che compensator. Il modello bismarckiano (Germania, Austria), è definito istituzionale perché è caratterizzato dall’istituzionalizzazione della cittadinanza come nel modello scandinavo, ma se ne differenzia sotto due aspetti: è basato sul diritto alla sicurezza sociale (e non sul diritto al lavoro) ed il ruolo dello Stato è principalmente quello di compensator, e solo eventualmente di

employer. Il modello anglosassone (tipico di paesi come la Gran Bretagna,

l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti) è definito residuale nei termini di Titmuss, ovvero storicamente orientato al mercato e basato su trasferimenti di reddito di tipo compensatorio, non in una logica del riconoscimento del diritto di cittadinanza sociale. Infine, il modello latino, che costituisce l’aggiunta alle tradizionali classificazioni e che raggruppa paesi come l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia, è descritto come rudimentale in funzione della loro storia sociale ed economica, dove il tardivo processo di industrializzazione ha frenato i processi di sviluppo di un moderno sistema di protezione sociale; qui, il diritto al

(28)

- 25 -

lavoro e al welfare assumono più la forma di mere enunciazioni che non la realtà: l’istituzionalizzazione della cittadinanza sociale risulta essere solo in parte inverata, ed il compito della famiglia è preminentemente quello di supplire alle carenze di un sistema di welfare inadeguato ed arretrato.

3.2 Modelli di solidarietà

Successiva alla proposta tipologica di Leibfried è quella di Ferrera (1993), che propone una lettura comparata delle varie esperienze europee ponendo l’accento sui destinatari della protezione sociale, cioè focalizzando le scelte di inclusione ed esclusione dentro il sistema di protezione che derivano dai modelli di welfare precedenti. Come rileva lo stesso autore, tradizionalmente lo studio dei differenti sistemi di welfare ha quasi sempre riguardato la dimensione quantitativa della protezione, creando classificazioni in funzione della quantità delle prestazioni, della spesa e dei destinatari. Partendo dal presupposto che il welfare state è una forma istituzionalizzata di solidarietà che può essere realizzata in forme variabili, definisce i modelli di solidarietà spostando il focus dal “quanto” si protegge al chi e perché, con la conseguente esaltazione della dimensione qualitativa dell’analisi.

Il modello universalistico è basato sul principio di cittadinanza ed incarna un sistema di protezione che garantisce l’intera popolazione indipendentemente dalla posizione lavorativa; invera il principio dell’universalismo delle prestazioni ed introduce un forte elemento redistributivo del reddito e della ricchezza fra le generazioni e classi sociali diverse, essendo le risorse raccolte dai redditi delle imprese e dei cittadini attraverso un prelievo fiscale progressivo. Nella sua forma pura, questo modello corrisponde ai sistemi di sicurezza sociale sviluppati nei paesi scandinavi.

Il modello occupazionale, basato sulla performance di lavoro, è caratterizzato da un sistema di protezione rivolto solo ai lavoratori. A differenza del precedente, in esso sono presenti una pluralità di bacini di rischio che corrispondono alle categorie dei lavoratori protette dai sistemi assicurativi. Questo modello è caratteristico dei paesi dell’Europa continentale, che basano la protezione sociale sulla presenza di istituti previdenziali, in base ai rischi e alle categorie assicurate.

(29)

- 26 -

3.3 Il welfare mediterraneo

Oltre alla definizione dei modelli di solidarietà, Ferrera (1996; 1998) avanza nel dibattito la necessità di considerare i paesi dell’Europa meridionale un caso separato rispetto ai modelli identificati da Esping-Andersen. A partire dagli studi precedenti che avevano portato a definire rudimentale il modello di welfare sud europeo (Leibfried 1992), e che avevano evidenziato il suo carattere familistico e l’influenza esercitata dal cattolicesimo (Castles 1995), Ferrera individua ulteriori elementi caratteristici di questi sistemi. Sulla base di precisi criteri distintivi, come le regole di accesso alle prestazioni sociali, le modalità di finanziamento e gli assetti organizzativo-gestionali, mette in evidenza i tratti salienti della quarta

Europa sociale, che differenziano i paesi dell’Europa Meridionale (Grecia, Italia,

Portogallo e Spagna) dal resto dei paesi conservatori-corporativi ai quali questi vengono tradizionalmente associati.

La prima caratteristica che segna tale diversità, e giustifica il raggruppamento dei quattro welfare latini in una famiglia a sé stante, attiene ai meccanismi di trasferimento del reddito e, particolarmente, alla dualità dei sistemi di protezione che produce una particolare polarizzazione entro le clientele sociali: da un lato, in questi paesi esistono gruppi di beneficiari iper-protetti - tipicamente le categorie centrali del mercato del lavoro che ricevono generosi benefici in risposta a rischi a breve termine ed alte remunerazioni sotto forma di pensioni al momento del ritiro dal lavoro; dall’altro lato, esiste un’ampia porzione di soggetti sotto-protetti, cioè categorie più periferiche che solo occasionalmente ottengono dei benefici, e per questo vivono gravi forme di disagio. Il divario esistente tra prestazioni generose e prestazioni deboli determina un iper-garantismo selettivo (Ferrera 1996) che contrappone gli insider, cioè gli strati della popolazione che godono pienamente delle prestazioni sociali, agli outsider, cioè porzioni di popolazione virtualmente escluse dal sistema quali beneficiari diretti.

Il secondo elemento distintivo riguarda un’evoluzione in senso universalistico riferita all’istituzione dei Servizi Sanitari Nazionali: l’universalizzazione dell’accesso e la standardizzazione delle prestazioni, basati sul riconoscimento dei diritti sociali di cittadinanza, hanno determinato una configurazione mista del modello di copertura sud-europeo, cioè, frammentata e dualistica nel campo

(30)

- 27 -

previdenziale ed universalistica in quello sanitario. Nonostante la salute sia stata, fin dall’inizio, concepita nelle carte costituzionali di questi paesi come diritto del cittadino in quanto tale, e non come lavoratore, l’eredità storica dei loro sistemi è stata frammentata professionalmente, e solo recentemente questi paesi hanno cercato di riformare i loro sistemi attraverso, appunto, servizi sanitari nazionali caratterizzati da un accesso aperto e gratuito per tutti, con regole standardizzate e sistemi di finanziamento fiscale generale.

Ultimo tratto identificato come peculiare attiene all’esistenza di meccanismi e procedure di eleggibilità ed erogazione dei benefici fortemente particolaristici, discrezionali, controllati da partiti e sindacati a fini elettorali e di consenso, ed influenzate dal clientelismo. Il clientelismo è considerato dall’autore come un derivato del deficit di statualità che si realizza sia attraverso la scarsa capacità di penetrazione del governo nel funzionamento del welfare sia attraverso l’esercizio di pressioni e manipolazioni esterne sull’amministrazione pubblica e sul sistema politico. Ferrera rileva come il particolarismo in questi paesi abbia assunto la forma di corruzione politica (favori illegali in cambio di tangenti) e come, molto più tipicamente, la manipolazione sociale assuma la forma di clientelismo politico che si manifesta in favori scambiati per il sostegno ad un’organizzazione pubblica (preferenza di voto per un determinato partito politico). Il voto di scambio in questi paesi, nella forma di voto individuale per ottenere un beneficio individuale, ha determinato un uso politico del welfare state entro il quale la debolezza del mercato del lavoro, (la sua carenza strutturale di domanda di lavoro e la presenza di forme di lavoro irregolari e sommerse) ha giocato un ruolo importante nei processi di sviluppo e di espansione di un “mercato clientelare”, caratterizzato da scambi tra trasferimenti monetari volti ad integrare un basso reddito e sostegno, sottoforma di voto elettorale, dato ai partiti.

(31)

- 28 -

4. Welfare a confronto

Dopo aver sinteticamente esplorato il dibattito sui tipi di welfare che la ricerca comparativa ha sviluppato, è opportuno richiamare le caratteristiche specifiche che danno forma ai sistemi di welfare attuali, che costituiscono lo scenario all’interno del quale le politiche socio-assistenziali studiate si collocano.

Il welfare inglese

Sebbene il piano Beveridge abbia consegnato al Regno Unito nel suo momento fondativo un welfare universalistico, basato sul diritto sociale del cittadino di avere dei livelli minimi di sussistenza garantiti dallo Stato che deve tutelare e garantire una vasta gamma di diritti (“from the cradle to the grave”), verso la metà degli anni settanta la politica thatcheriana diede avvio allo smantellamento del welfare state, come originariamente inteso, in seguito ad una delle peggiori crisi economiche della storia dell’Inghilterra e di tutto il mondo: l’insostenibilità economica del debito pubblico e la diffusione di una nuova concezione ideologica di tipo liberista, che considerava di esito dubbio ai fini della riproduzione della ricchezza una società troppo assistita dai sistemi di protezione sociale, posero le basi per il definitivo superamento del modello alla Beveridge, che all’inizio degli anni novanta divenne molto più residuale rispetto ai concetti di universalità ed eguaglianza lanciati dallo stesso Lord Beveridge sotto l’immagine efficace dei “cinque giganti” (Fraser 2009). L’intervento pubblico iniziò ad essere limitato ad interventi di maggiore necessità, rispetto ai quali i principali destinatari erano individuati nei bisognosi, nei poveri e nei lavoratori a basso reddito; l’obiettivo dello Stato cambiava in modo significativo, perché non era più l’eliminazione della disuguaglianza, ma il contenimento delle povertà estreme e dei fenomeni di emarginazione sociale. In ragione di ciò, la prova dei mezzi fu reintrodotta e le prestazioni erogate assunsero la forma di trasferimenti di reddito di bassa entità e schemi di assicurazione circoscritti caratterizzati da prestazioni poco generose, non corrispondenti o poco rilevanti per la soddisfazione dei bisogni. Come rileva Esping-Andersen (1990), l’esito finale di questo modo di concepire gli interventi di welfare si tradusse in un rafforzamento del mercato ed in una conseguente riduzione dell’effetto demercificante delle prestazioni.

(32)

- 29 -

Alla fine degli anni novanta, i laburisti fecero della modernizzazione del welfare il proprio obiettivo politico chiave. Il governo Blair promise un nuovo welfare, né troppo socialista né troppo liberista, che avrebbe dovuto segnare il passaggio dallo stato assistenziale del passato ad una società del futuro capace di creare opportunità per tutti. La sua visione e i suoi obiettivi, resi con l’espressione di Third Way, segnavano i tratti di una riforma che costituiva un piano ambizioso per ridisegnare in un modo profondamente diverso il rapporto tra Stato e cittadini: in una società profondamente cambiata non basta dare un minimo vitale ai poveri, ma occorre dare a tutti la possibilità di realizzare appieno il proprio potenziale. Era un’idea di cambiamento, quella dei laburisti, che avrebbe favorito opportunità ed empowerment, invece che dipendenza, perché trovava fondamento in una concezione del lavoro come unico mezzo attraverso cui sollevare le persone dal rischio e dalla condizione di povertà. La priorità fu quella di portare la gente dal welfare al lavoro (“from welfare to work”), di trasformare i cittadini assistiti in cittadini produttori perché l’assistenza deprime il personale livello di autostima. Questa filosofia venne fissata nell’atto “New ambitions for our country: A new

contract for welfare” (Green Paper 1998), nel quale furono espressamente sanciti:  il bisogno di porre fine ad un modello di welfare che incatena le persone in una dipendenza passiva invece di sostenerle nei processi della piena realizzazione del sé,

 il bisogno di rendere i servizi alle persone più attivi e partecipativi nel sostenere gli individui verso la loro piena indipendenza,

 la necessità di valorizzazione le responsabilità individuali e familiari nei processi di cura e sostegno

 il rigetto di un welfare residuale per coloro che vivono in condizioni di povertà.

L’attuale governo, guidato da David Cameron che sembra aver pienamente raccolto l’eredità di Margaret Thatcher, ha in mente una riforma del welfare che avrà l’obiettivo di ripristinare i limiti delle possibilità e della ragionevolezza da cui si è distaccato sotto i governi precedenti; per la nuova coalizione di governo, conservatrice-liberaldemocratica, l’attuale sistema, così com’è, è finanziariamente insostenibile, intrappola le persone in stato di povertà ed incoraggia verso

(33)

- 30 -

l’irresponsabilità. Nelle intenzioni, questa riforma, quindi, sarà la più radicale dai tempi di Beveridge: il documento Dynamic benefits: Towards welfare that works,

(Centre for social justice 2009), contenente un’analisi dettagliata delle riforme

necessarie per rendere lo stato sociale inglese più dinamico e le persone meno dipendenti dal sistema assistenziale, è stato inserito in una legge di riordino complessiva, il Welfare Reform Act (2012)1, che si pone l’obiettivo di:

eliminare il complesso sistema di sussidi, rimborsi e benefit a favore di un sussidio unico di entità inferiore (contributo all’indipendenza personale) per combattere la dipendenza che questo ha prodotto nel tempo

 proteggere solo i più vulnerabili

 introdurre incentivi sostenibili per promuovere l’inserimento lavorativo delle persone.

Il welfare italiano

Le elaborazioni sul modello di welfare italiano hanno notevolmente arricchito il dibattito ed allargato i criteri o le dimensioni tipologiche utili a descriverne i tratti salienti. Autori come Leibfried (1992), Ferrera (1996) e Mingione (1997), guardando ai processi di sviluppo del welfare nei paesi del Sud Europa (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo), hanno sostenuto la necessità di collocare i sistemi di welfare dell’Europa meridionale in un modello autonomo in considerazione del ruolo centrale della famiglia come welfare provider, delle specificità dell’assetto produttivo e dell’atrofia dei programmi pubblici di welfare.

In Italia, la disuguaglianza derivante dalla contrapposizione tra soggetti forti e soggetti deboli, di cui parla Ferrera, viene smussata ed attenuata dalla famiglia quale sistema di compensazione sociale e rispetto alla quale le istituzioni ne danno per scontata l’esistenza e la resistenza. Il senso e la concezione di indispensabilità della famiglia diviene specificamente tratto caratteristico dei welfare del Sud (Ferrera 1996). Mingione (1997), ad esempio, in riferimento al modello italiano, evidenzia come esso si sia storicamente caratterizzato per la sua impostazione “intensivo familista” in cui il sistema complessivo di protezione si è basato sulle

(34)

- 31 -

responsabilità familiari, accompagnate nel caso da un intervento pubblico orientato più verso trasferimenti di reddito che non servizi, producendo una sorta di auto-addossamento familiare dei compiti di cura. La stessa Naldini (2002) parla di modello “delle solidarietà familiari e parentali” per indicare come il sistema famigliare funzioni, lungo tutto l’arco della vita, attraverso forti relazioni intergenerazionali e di parentela che fungono da ammortizzatore sociale e meccanismo di compensazione rispetto a rischi e bisogni. Famiglia e parentela emergono, quindi, come rete di scambi che rivelano forme di solidarietà e obbligazioni familiari lungo le linee del genere e della generazione. La sottolineatura del ruolo della famiglia come provider di welfare emerge, infatti, anche in relazione ad alcuni studi di genere (Trifiletti 1999; Gonzalez, Jurado e Naldini 2000) che, nel denunciare le disuguaglianze di genere nei sistemi di protezione sociale, hanno proposto una classificazione che mette in evidenza politiche e prestazioni sociali basate su una vera e propria aspettativa istituzionale delle solidarietà familiari. Il welfare mediterraneo, in questa prospettiva, si distinguerebbe proprio in funzione della bassa protezione sociale e della caratterizzazione delle donne come mogli e madri. Incrociando la dimensione della considerazione che lo Stato ha delle donne (mogli/madri oppure lavoratrici) e quella della protezione statale dal mercato (presente o assente) emerge una tipologia di sistemi di welfare, che vede l’Italia ricadere nel modello in cui alla donna è demandato in via pressoché esclusiva il lavoro di cura, non retribuito e non riconosciuto, affidandole un ruolo imprescindibile nell’equilibrio sociale in un contesto più generale in cui l’occupazione delle donne è per lo più full time.

I tratti salienti del welfare italiano consegnano un’immagine capace di determinare lo scenario entro il quale le politiche socio-assistenziali si collocano e, per certi versi, esitano ad innovare: il clientelismo, inteso come scambio politico sulla cui base le prestazioni vengono erogate, il suo carattere dualistico nella sua dimensione territoriale che si esprime in una precisa differenziazione tra le varie Regioni rispetto alla capacità di protezione sociale e di tutela, la prevalenza dei trasferimenti di reddito sulla predisposizione ed erogazione dei servizi, costituiscono gli elementi critici su cui il welfare italiano è stato costruito. Proprio in considerazione del fatto che la gran parte delle risorse pubbliche

Figura

Tabella 1. Tipologia dei modelli di welfare state di Titmuss. Fonte: (adattata da) Ferrera (1993),
Tabella 2. Tipologia dei regimi di welfare state di Esping-Andersen
Tabella 3. I cambiamenti  nel  modello italiano di  welfare mix. Fonte:  Ascoli e Ranci (2003), op
Figura  1.  Who  plans  and  buys  treatments  for  patients.  Fonte:  http://www.bbc.co.uk/news/health-
+7

Riferimenti

Documenti correlati

Lo sport ci insegna che l’unica strada per raggiungere una meta sfidante è quella in salita del sacrificio, quella difficile della collaborazione con altri e quella alta dei valori

C on questo numero di Visioni LatinoAmericane, il primo del 2017, vogliamo dedicare con affetto un ricordo speciale al professor Giuliano Giorio, componente del

Si tratta quindi di una doppia sfida (la gestione delle malattie croniche nel Paese più anziano d’Europa e la svolta digitale) che non merita fibrillazioni politiche o scelte

Le variabili presenti sono: atti organizzativi interni (regolamenti) ed i controlli interni. Le conseguenze sono di tipo economico e

Intendiamo promuovere in un’ottica di tutela e graduale miglioramento dei servizi pubblici una gestione più efficiente ed economica delle società partecipate del Comune

attivo all‟interno del complesso sistema sanità. Utile, per avere un quadro generale della situazione, una breve analisi dell‟evoluzione storica della professione

L’evoluzione delle relazioni tra Unione Europea e i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, e nello specifico quelli dell’Isola del Maghreb presi in esame in questo

Il percorso formativo proposto è andato dunque nella direzione di consentire uno spazio di ricerca, confronto e revisione da parte dei nuovi CU delle pratiche mana- geriali relative