Il Cambiamento Organizzativo Filosofie e Modell
3. Gli approcci al cambiamento organizzativo
3.1 Il cambiamento programmato
Il termine planning fu coniato da Kurt Lewin per distinguere il cambiamento consapevolmente intrapreso da un’organizzazione dal cambiamento non intenzionale, quale potrebbe essere quello provocato da un incidente o forzato in qualche modo (Marrow 1969). Il programmare è, dunque, nei termini di Lewin, un’attività riferita al fatto che l’organizzazione tenta di identificare un’area rispetto alla quale avverte la necessità di cambiare ed inizia un processo di riflessione e di valutazione sulla possibilità di intraprendere il cambiamento attraverso l’ausilio di un agente di cambiamento che, servendosi di conoscenze valide, entra in un rapporto di collaborazione col sistema-cliente per risolverne i problemi (Lippitt et al. 1958; Bennis 1966). Questo approccio identifica, quindi, un processo in cui il cambiamento è proattivo, nel senso che i membri dell’organizzazione lo promuovono e lo implementano in modo deliberato allo scopo di anticipare, più che rispondere, le modificazioni intervenute nell’ambiente esterno che possono esercitare una certa pressione all’interno dell’organizzazione
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(Porras e Robertson 1992). Anziché essere una risposta adattativa a problemi che si sono già verificati, l’approccio programmato suggerisce di anticipare gli eventi cercando di migliorare la performance organizzativa (French e Bell 1999; Cummings e Huse 1989; Cummings e Worley 2005; Kotter 1996). In esso risalta l’importanza della leadership e del top management: com’è stato rilevato (Burnes 1996), nel cambiamento pianificato quest’ultimo è responsabile sia per l’avvio del processo sia per la sua pianificazione ed implementazione in modo centralizzato.
In un loro oramai classico articolo volto alla sistematizzazione delle strategie utilizzate nel sostenere i processi di implementazione del cambiamento nei contesti sociali ed organizzativi, Chin e Benne (1984) costruiscono una framework teorico- concettuale contenente i tre maggiori approcci (o strategie) al change management utilizzati nell’ambito delle scienze sociali e comportamentali, ancora oggi considerata valida ed utile sia come guida per indirizzare il cambiamento nei processi e nelle pratiche organizzative sia come strumento per l’analisi dei potenziali approcci allo sviluppo delle strategie per il cambiamento. Nella loro
framework sono contenute tre generali strategie di cambiamento, ognuna delle
quali ne approccia la programmazione e l’implementazione in maniera differente, sulla base cioè di una profonda diversità tanto negli assunti filosofici quanto nelle pratiche concrete. La strategia empirico-razionale è così definita perchè costruita sull’assunto secondo cui le persone sono esseri umani preminentemente razionali, ed in quanto tali sono mossi solo ed esclusivamente dai loro propri interessi. L’implicazione logica è che una volta dimostrato che un particolare cambiamento è certamente favorevole ai personali interessi, i soggetti lo accetteranno come mezzo per realizzarli. Nella sua implementazione, questa strategia funziona nel seguente modo: il cambiamento è proposto da un individuo o da un gruppo che crede che esso sia desiderabile e coerente con gli interessi del gruppo che dovrà cambiare; il promotore giustifica razionalmente il cambiamento identificando gli elementi in stretta connessione con gli interessi del gruppo e dimostrando i benefici che sia i singoli sia il gruppo otterranno. L’assunto implicito è che se le argomentazioni e i dati razionali sono presentati in maniera efficace, attraverso l’informazione, il gruppo sosterrà il cambiamento perché cambiare consentirà loro di realizzare i propri interessi. In questo approccio, l’impegno al cambiamento è
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sostenuto dalla disponibilità di dati e di informazioni e guidato da ciò che è visto come più logico ed efficace rispetto al raggiungimento della visone su come il sistema dovrebbe funzionare, anche se il prodotto finale potrà contraddire alcuni valori profondi dei membri. Dal punto di vista del processo, emerge il suo carattere lineare, con fasi scandite da un chiaro inizio ed una chiara fine e con una direzione assolutamente di tipo top-down, poiché la decisone del cambiamento e la gestione dell’intero processo è affidata a manager che assumono il ruolo di decisori, pianificatori ed implementatori. Per questo è descritto come approccio manageriale, basato sull’assenza dei processi di empowerment, sulla mancanza di partecipazione degli stakeholders e da un’inflessibilità nell’implementazione del cambiamento (Carnall 2007). La seconda strategia è basata su un approccio
normativo-rieducativo al cambiamento. Sebbene la razionalità e l’intelligenza
delle persone non siano negate, essa differisce dalla precedente perché pone al centro dell’analisi l’importanza delle norme socio-culturali e dei valori che sostengono i modelli comportamentali degli individui e, di conseguenza, il loro impegno attivo nella ricerca della soddisfazione dei loro bisogni e della propria realizzazione. Il cambiamento è, in questa visione, insito nella rielaborazione delle norme culturali apprese, implicite ed esplicite, ed innescato da un processo di attivazione riguardante la sperimentazione ed il diretto coinvolgimento nella modifica dei vecchi orientamenti normativi e modelli di azione. L’assunto a fondamento di questo approccio è che l’intelligenza è sociale e non razionale: i comportamenti posti in essere dagli individui sono informati e guidati dai significati, dalle attitudini e dai valori interiorizzati nel corso del tempo; ne consegue che il cambiamento nelle azioni e nelle pratiche non è solo una modificazione delle informazioni razionali, ma è, particolarmente, un’alterazione delle strutture normative, dei ruoli istituzionalizzati e delle relazioni, così come degli orientamenti cognitivi e della dimensione percettiva. Emergono, dunque, gli elementi che differenziano queste due prime famiglie teoriche del cambiamento: da questo approccio emerge un concetto di cambiamento che supera lo sviluppo di una comune comprensione che le persone possono raggiungere nella prospettiva razionale - attraverso dati razionali generati dalla ricerca basata sui fatti -, per includere i più profondi significati e valori che ciascuno porta con sé, e che
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esprime attraverso i propri modi comportamentali. A livello organizzativo, dunque, il cambiamento che emana dall’approccio normativo-rieducativo è la modifica delle modalità attraverso cui le organizzazioni definiscono il normativo (o corretto) modo di strutturare relazioni, ruoli e significati personali. Per questo motivo richiede un alto grado di riflessività, perché l’attenzione è focalizzata su un problema organizzativo da risolvere attraverso un’azione collettiva che richiede, a sua volta, apprendimento per facilitare il cambiamento (Grieves 2010). La strategia autoritario-coercitiva del cambiamento enfatizza un approccio molto diverso. In termini generali, cerca di accumulare potere politico ed economico dietro agli obiettivi di cambiamento, imposti come desiderabili e perseguibili da coloro che detengono il potere decisionale; ma evidenzia anche la minaccia e l’uso di sanzioni politiche, o economiche, come principio strategico per realizzare il cambiamento. Il potere politico, o posizionale, comprende l’abilità di creare politiche, dare direzioni, emanare leggi o produrre accordi legali che conducono a legittimare l’esistenza e l’applicazione di sanzioni in caso di trasgressione. La minaccia della sanzione impatta sull’incremento della disposizione dei membri a seguire la direzione imposta da coloro che detengono il potere, e conseguentemente di impegnarsi nel cambiamento che essi hanno disposto. A tale riguardo, occorre precisare che molti individui sono influenzati da credenze culturali molto radicate riguardo la legittimità delle scelte operate dei membri
senior della gerarchia organizzativa: questa aura di legittimità è sufficiente a
ridurre la potenziale resistenza al cambiamento imposto, e il potere coercitivo, in questo caso come modo attraverso cui prendere delle decisioni, è accettato come la natura del modo con cui il sistema opera.
L’importanza della classificazione di Chin e Benne sta tutta nel distinguere i “percorsi” del cambiamento pianificato, ovvero il contenuto che caratterizza ciascun approccio: se le strategie empirico-razionali sono di tipo prescrittivo, cioè focalizzate sulle soluzioni razionali ai problemi, quelle di tipo normativo- rieducativo sono essenzialmente diagnostiche, dunque, basate su soluzioni di apprendimento collaborativo, che nelle pratiche di sostegno ai processi di cambiamento si traducono in: a) una relazione dialogica tra cliente e ricercatore- consulente (o pianificatore dell’intervento), b) la consapevolezza secondo cui il
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problema del cliente potrebbe aver bisogno di qualcosa che non sia un intervento tecnico, ma che si esprima in un approccio psico-sociale, c) la necessaria collaborazione tra cliente e ricercatore-consulente nella definizione e nella risoluzione del problema. In altri termini, rileva come “programmato” non è necessariamente sinonimo di lineare e asettico, e pertanto permette di sfatare il mito della razionalità associata a meccanicità e staticità: più che di linearità, infatti, la programmazione di un processo di cambiamento rimanda ad un processo gestito e governato. Come rileva Schein (1992), il governo dei processi di cambiamento è un’attività indispensabile perché questi non possono essere affidati al caso: gli effetti possono essere casuali, ma non il processo in sé.
3.1.1 Il modello a tre fasi di Kurt Lewin
Il modello di Lewin è il primo approccio programmato al cambiamento che si inserisce pienamente entro la strategia normativa-rieducativa (Chin e Benne 1984) in considerazione del fatto che Lewin riteneva indispensabile la partecipazione attiva delle persone nei processi volti alla loro rieducazione. Lewin è ancora oggi considerato il fondatore del Modello di Cambiamento a Tre Fasi (Schein 1988; Cummings e Huse 1989). Il suo lavoro ha dominato la teoria e la pratica del
change management per più di quaranta anni (Burnes 2004), e sebbene molte
siano le critiche mosse al suo lavoro, che spingono verso il suo potenziale superamento, una parte del dibattito attuale sul cambiamento organizzativo rivendica l’importanza delle sue idee rispetto agli sviluppi teorici e pratici dello sviluppo organizzativo e della consulenza organizzativa.
L’idea soggiacente al modello di Lewin è quella secondo cui la motivazione al cambiamento deve essere generata prima che il cambiamento si verifichi, cosicché una volta identificato il bisogno di cambiamento, la prima fase (unfreezing) può iniziare. Il suo modello prevede la pianificazione ed il susseguirsi di tre fasi.
Step 1: Unfreezing. Muovendo dalla concezione secondo cui la stabilità del
comportamento umano è basata su un equilibrio quasi-stazionario, sostenuto da un complesso campo di forze, guidanti e resistenti, questo step consiste nella rottura dell’equilibrio che sostiene la stabilità del comportamento organizzativo e nella
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creazione di motivazione e disponibilità a cambiare lo status quo attraverso l’introduzione di un’informazione capace di mostrare delle discrepanze tra i comportamenti desiderati e quelli correntemente esibiti. È una fase che richiede un vero e proprio processo rieducativo per coloro che ne sono coinvolti al fine di comprendere il bisogno del cambiamento, e si rivela come preparatoria (una sorta di pre-stage) alla successiva perché l’equilibrio necessita di essere destabilizzato
(unfrozen) prima che un vecchio comportamento sia abbandonato (unlearnt) ed
uno nuovo efficacemente appreso. Considerando l’analisi del campo di forze, questa è la fase in cui tutte le forze, resistenti e guidanti, emergono e necessitano d’essere valutate e investigate.
Step 2: Moving. Questa è la fase in cui si agisce sulla base dei risultati emersi
dal primo stadio ed in cui si realizza il cambiamento vero e proprio: dopo aver compreso le forze in gioco, identificato e valutato tutte le opzioni disponibili, l’azione è necessaria per muoversi verso il nuovo stato desiderato, un movimento in avanti che richiede lo sviluppo di nuovi comportamenti, nuovi valori e nuove attitudini attraverso le strutture ed i processi organizzativi. È l’apprendimento a cui pensa Lewin, la cui percorribilità è data attraverso l’uso dell’action research come strategia educativa e potenziante.
Step 3: Refreezing. È lo stadio finale del processo in cui il cambiamento viene
reso permanente attraverso l’integrazione delle nuove pratiche con quelle in uso. È una sorta di re-stabilizzazione che avviene mediante il raggiungimento di un nuovo punto di equilibrio quasi-stazionario al fine di assicurare che i nuovi comportamenti siano appresi e interiorizzati, ed in tal senso salvi rispetto a potenziali regressioni.
Figura 1. Lewin’s three-steps model of change
CHANGE