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Implicazioni Organizzative della Legge 328/2000 Programmazione, Partnership e Partecipazione

3. Come studiare la programmazione

3.1 Dal dibattito italiano: i tre approcci alla programmazione

L’approccio razional-sinottico della programmazione tende ad identificare a priori e con esattezza strumenti, procedure e azioni necessarie a raggiungere gli obiettivi prestabiliti; presuppone, quindi, che un decisore individuale o collettivo identifichi e definisca un problema di policy, costruisca una rappresentazione completa e ottimale delle diverse azioni per la sua soluzione, identifichi tutte le

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policies alternative che possono contribuire al raggiungimento degli scopi,

preveda tutte le conseguenze derivanti dalla selezione di ogni alternativa, scelga l’alternativa che massimizzi il raggiungimento degli obiettivi ed identifichi le competenze e le capacità atte a realizzarla (Leone 2011). Molti definiscono questa concezione “ingegneristica”, sulla base del fatto che la programmazione è intesa come un processo di pianificazione diretto a, e capace di, eliminare il disordine per mantenere ordine, razionalità, linearità. Attraverso le procedure standard è possibile prescrivere norme di comportamento per le persone coinvolte nei processi di lavoro, mentre le competenze professionali sono, sostanzialmente, concepite come programmi di azione predefiniti e standardizzati che definiscono delle routine cognitive, le quali, una volta interiorizzate e memorizzate, non richiedono processi di pensiero per essere eseguite (D’Angella e Orsenigo 1999). Programmare e progettare con questo approccio significa creare una macchina il cui funzionamento è racchiuso in ingranaggi scientificamente ordinati secondo una sequenza logica. Ovviamente, questo è reso possibile da una concezione di fondo secondo cui il contesto organizzativo è un sistema chiuso con confini chiari e precisi che separano l’interno dall’esterno. In questo modello si determina una rigida separazione tra chi pensa e chi agisce, tra chi definisce il processo di lavoro e chi lo deve applicare: la forte distinzione tra chi programma le azioni e chi le esegue genera una forte separazione tra la programmazione delle azioni e le azioni reali e, nel momento in cui gli attori coinvolti avvertono questa separazione, le procedure definite aprioristicamente diventano astratte, lontane dai problemi. Questa distanza genera, peraltro, di problemi di inazione perché la definizione meccanicistica di processi ed attività e la frammentazione delle responsabilità spinge gli attori coinvolti verso atteggiamenti superficiali ed irresponsabili.

Il modello della razionalità assoluta è confacente ed applicabile a contesti organizzativi dove i livelli di complessità ed incertezza sono molto bassi e le situazioni interne ed ambientali molto stabili: la concezione che le è propria risponde all’idea che è possibile rendere lineari i problemi, eliminare le ambiguità e le contraddizioni. Il maggior limite è, quindi, rappresentato dal fatto che chi programma presta molta attenzione ai mezzi, alle procedure e agli obiettivi trascurando il senso ed il significato dei processi di negoziazione e delle decisioni

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come decisioni co-prodotte. Così, il riconoscimento di una certa complessità, endogena ed esogena, ha portato a considerare ingenuo e poco aderente alle realtà organizzative l’approccio razionale.

Le turbolenze ambientali non permettono a chi programma di prevedere e controllare tutte le variabili in gioco nei processi decisionali e lavorativi: i limiti delle possibilità conoscitive del soggetto, l’impossibilità di prevedere tutte le conseguenze delle azioni ed i mutamenti nell’ambiente circostante mettono in evidenza la plausibilità di un approccio basato su una razionalità processuale (Leone 2011): chi programma agisce in base ai criteri della sua razionalità situata e contingente, in modo da adottare una soluzione che sia una tra le molte possibili, ma non l’unica e ottimale del problema. Proprio perché ci potrebbero essere altre soluzioni, altrettanto razionali, non si può dare un valore prescrittivo alla soluzione trovata. Per questo approccio si tratta di trovare le soluzioni migliori ai problemi che via via si pongono, e al fine è necessario affrontare la complessità dei problemi attraverso la loro scomposizione: a differenza di quanto sosteneva l’approccio tradizionale, per la programmazione processuale, la complessità non va ridotta, ma articolata e scomposta fino ad identificare problemi più semplici che possono essere facilmente affrontati (D’Angella e Orsenigo 1999). In tal senso, è una sequenza di scelte razionali sì, ma un processo di ricerca volto a risolvere i problemi che si incontrano durante i processi lavorativi. Secondo questa concezione, chi programma, attraverso un processo cognitivo diretto a individuare le azioni da intraprendere, definisce il problema e la sua soluzione soddisfacente: costruisce, cioè, una rappresentazione del problema attraverso la raccolta e l’elaborazione di informazioni che possano permettere la messa a fuoco della questione; questa rappresentazione è la base su cui strutturare i significati dell’azione, definire i criteri per selezionare le informazioni, valutare l’efficacia e l’efficienza delle azioni intraprese e adottare alcune soluzioni scartandone altre. Ciò che emerge da questo processo è un prodotto di apprendimento aperto finalizzato a comprendere le mosse cognitive da compiere per raggiungere il proprio scopo.

Proprio la scomposizione dei problemi in parti più semplici però, rappresenta un elemento di problematicità della razionalità limitata: se da un lato consente le

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decisioni, dall’altro produce la frammentazione del problema che comporta il rischio di perderne il senso complessivo. Il problema complesso, quindi, non solo non si semplifica dividendolo in piccoli problemi risolvibili, ma non permette la comprensione e l’intervento globale.

La difficoltà di programmare soluzioni soddisfacenti ai problemi non dipende solo dall’incertezza derivante dai continui mutamenti ambientali, ma anche dalla complessità dei processi mentali dell’attore sociale. Questa è la critica maggiore che l’approccio della programmazione definita dialogica muove ai precedenti. Nella programmazione, infatti, entrano in gioco dimensioni cognitive ed emotive che complessificano e pregiudicano il meccanismo della selezione delle azioni da intraprendere. Ciò significa che i processi di elaborazione delle informazioni sono condizionati da una serie di interferenze soggettive di natura affettiva, spesso inconsapevoli, che possono alterare, manipolare i dati della realtà in modo da renderli congruenti con i sistemi personali di giudizio e le attese (Orsenigo 1992). La complessità dei processi mentali, la dimensione inter-soggettiva delle decisioni e delle strategie adottate condizionano la possibilità di adottare un approccio deterministico o quasi, mentre si fa sempre più strada la concezione secondo cui la programmazione è piuttosto un processo inter-soggettivo di ricerca e costruzione collettiva che avviene mediante scambi e negoziazioni tra più soggetti. In ragione del fatto che ciascun soggetto attribuisce significati ad azioni ed eventi a seconda dei processi mentali attivati, che ciascun evento è soggetto a più interpretazioni che possono essere tra loro ambigue e contraddittorie e che le stesse azioni non sono interamente progettabili, è stato sottolineato (D’Angella e Orsenigo 1999; Manoukian 2006) come la programmazione sia un processo che di volta in volta si costruisce con i diversi soggetti coinvolti ed il senso delle azioni da intraprendere: in questo senso, l’approccio dialogico supera i limiti di quello tradizionalmente inteso e rappresenta un’attività di produzione di mondi possibili, di invenzione e realizzazione di artefatti materiali e simbolici, un’attività di scoperta finalizzata ad una comune definizione del problema (Lanzara 1993). Ne deriva che in condizioni complesse, caratterizzate da un elevato grado di incertezza ed ambiguità, la questione centrale non è quale sia la soluzione migliore, ma quale sia il problema: la programmazione dialogica è centrata sulla costruzione di un significato comune

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del problema, dove ciascun attore mette in gioco le proprie opinioni e strategie e dove attraverso la scambio, l’interazione ed il conflitto tra le diverse mappe cognitive si compie lo sforzo di costruire un modo comune di leggere, comprendere ed interpretare il problema. Come processo volto a costruire significati condivisi e co-costruiti, attiva un processo in cui tutti diventano attori attivi della progettualità, tutti emotivamente e cognitivamente co-implicati nelle fasi della programmazione - dalla definizione di ciò che costituisce la situazione- problema alla messa a punto delle strategie per risolverlo, dall’applicazione delle decisioni alla valutazione dei risultati ottenuti. Adottare questo approccio implica che la percorribilità della programmazione è collegata alle rappresentazioni che tutti gli attori coinvolti hanno dei problemi da trattare o delle iniziative da realizzare (Manoukian 2006).

3.2 Conservazione vs innovazione: la programmazione nel settore