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Academic year: 2021

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Alberto Voltolini

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Indice

Introduzione

1. Alcune distinzioni fondamentali

2. Le teorie dell’immagine

I Somiglianza tra le cose

1. La teoria ingenua

2. Le versioni raffinate I: raffigurare come rappresentare e somigliare

a qualcosa che può non esistere

3. Le versioni raffinate II: i parametri di somiglianza

II Vedere qualcosa in qualcos’altro

1. Le basi naturali del vedere-in

2. L’esperienza sui generis di vedere-in e la teoria di Wollheim

3. Le critiche alla teoria di Wollheim

4. Il limite della teoria

III Vedere qualcosa come qualcos’altro

1. La versione ingenua della teoria illusionista

2. Le versioni sofisticate

3. La controversia Gombrich – Wollheim

IV Fingere di vedere qualcosa

1. Immaginazione e raffigurazione

2. La teoria del far finta

3. Le critiche alla teoria di Walton

V Percepire somiglianze

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2. La teoria della somiglianza come somiglianza tra esperienze

3. La teoria della somiglianza come mera somiglianza ‘esperita come’

VI Riconoscere in immagine

1. La questione del riconoscimento

2. La teoria della generatività naturale

3. La teoria matura del riconoscimento

VII L’immagine come tipo particolare di segno

1. La teoria raffigurativa del linguaggio

2. Le immagini hanno un contenuto peculiare?

3. La teoria semiotica di Goodman

4. L’emendamento di Kulvicki

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Introduzione

1. Alcune distinzioni fondamentali

In questo libro ci occuperemo di una realtà simbolica che ci accompagna dalla notte dei tempi, almeno da quando i nostri antenati hanno cominciato ad affrescare le caverne in cui vivevano, e che oggi, coll’avvento della pubblicità, di internet e dei tablet che ci accompagnano tutti i giorni, ci circonda sempre più: le immagini. Scopo di questo volume è infatti quello di analizzare tutta una serie di teorie che ci dicono che cosa sono le immagini e come fanno a simboleggiare quello che simboleggiano. In questa Introduzione cercheremo prima di tutto di focalizzare l’oggetto del nostro interesse per capire a che cosa le teorie in questione si applicano.

Nella vita quotidiana, chiamiamo immagine moltissime cose, tra cui probabilmente intercorre un’aria di famiglia. Tra tutte queste cose ne vogliamo qui selezionare alcune. Prima di tutto, cominciamo a dire che in questo libro ci occuperemo di quelle che sono immagini pubbliche, oggetti del mondo esterno condivisibili da una pluralità di individui e che nella maggioranza dei casi sono artefatti, cioè risultato dell’opera di qualcuno, piuttosto che immagini che si trovano già in natura – orme, riflessi, ombre. Tutte queste immagini pubbliche sono caratterizzate da due elementi, la cui relazione sarà oggetto di molte indagini in questo libro: il veicolo dell’immagine, ciò per cui l’immagine è un oggetto tra i tanti altri oggetti che popolano il mondo esterno, e il soggetto dell’immagine, ciò che l’immagine, nel suo modo peculiare, simboleggia. Il veicolo è tipicamente, ma non necessariamente, un oggetto materiale1. Alcuni veicoli

risultano dalla particolare distribuzione della luce per effetto di rifrazione su una certa superficie – le immagini speculari – o in un ambiente ‘vuoto’ tridimensionale – gli ologrammi, ma anche le immagini ‘virtuali’ prodotte da stereoscopi (a partire da immagini date). Quando è un oggetto materiale, spesso il veicolo è un oggetto bidimensionale – quadri, fotografie ecc. – ma talvolta è anche un oggetto tridimensionale – le sculture. Non molti degli autori che considereremo sono disponibili ad annoverare le sculture tra le immagini, ma bisognerebbe seriamente considerare il fatto che, come dimostra l’esistenza dei bassorilievi, la bidimensionalità nei casi di veicoli cosiddetti bidimensionali è un’astrazione dalla loro tridimensionalità. Nessun quadro, nessuna fotografia è veramente bidimensionale, nella misura in cui la profondità anche minima dell’oggetto su cui in tal caso si depositano forme e colori influenza certamente il valore raffigurativo dell’oggetto. Per “soggetto”, invece, intendiamo in maniera indifferenziata l’oggetto su cui l’immagine verte o il suo contenuto, ciò per cui si può ascrivere all’immagine una dimensione di correttezza, che rende sensato dire che l’immagine rappresenta fedelmente o infedelmente ciò che raffigura. Così, per esempio, nel celebre quadro di Jacques-Louis David Il Primo Console supera le Alpi al Gran San

Bernardo, Napoleone è l’oggetto del quadro; che Napoleone supera le Alpi al Gran San

Bernardo è il suo contenuto, nella fattispecie un contenuto corretto perché Napoleone ha effettivamente oltrepassato le Alpi per quel valico. Ogni immagine che abbia un oggetto avrà certamente anche un contenuto, come nell’esempio del quadro di David. Che ogni

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immagine che ha un contenuto abbia anche un oggetto su cui verte, invece, è discutibile, data la presenza, di cui parleremo nel libro, di immagini generiche, di immagini che non vertono su qualcosa di particolare ma sono solo immagini di un qualche tipo di cosa (come i quadri di genere, per esempio Rain, Steam, and Speed di Joseph Turner in cui si raffigura una locomotiva qualsiasi che avanza su un ponte qualsiasi sullo sfondo di un paesaggio qualsiasi).

La caratterizzazione delle immagini come immagini pubbliche mette già fuori gioco dalla trattazione di questo libro le cosiddette immagini mentali, quelle immagini che ciascuno di noi esperisce nel foro interno della propria mente. Ora, un lungo dibattito sulla natura delle immagini mentali accompagna da sempre la riflessione filosofica2. I cosiddetti pittorialisti metterebbero in discussione questa esclusione delle

immagini mentali. Secondo loro, le immagini mentali sono, più o meno letteralmente, immagini come quelle pubbliche, semplicemente depositate nell’ambito della nostra mente (o del nostro cervello). Questa loro opinione, però, non è data per scontata in letteratura, perché al contrario i descrittivisti pensano che le immagini mentali abbiano una natura (para-)linguistica, siano come enunciati o meglio descrizioni strutturali nuovamente depositate nella nostra mente (o nel nostro cervello)3. È importante che

esista un’alternativa teorica del genere visto che, come vedremo, alcuni dei teorici che prenderemo in considerazione pensano che sia l’attività mentale di immaginazione a stare a fondamento della pratica di raffigurazione che facciamo con immagini pubbliche. Difficilmente si potrebbe prendere quest’idea in considerazione, se le immagini mentali fossero parassitarie rispetto alle immagini pubbliche, come i pittorialisti in qualche modo vogliono: in tal caso infatti la spiegazione delle immagini pubbliche mediante le immagini mentali avrebbe inevitabilmente un sapore di circolarità. Ai nostri fini, peraltro, l’esistenza di tale dibattito giustifica la nostra scelta di esclusione. Visto che non è chiaro se e fino a che punto le immagini mentali siano come le immagini pubbliche, in questo libro parleremo di esse solo marginalmente.

Ma ci sono altre cose che vengono escluse dalla nostra trattazione. Un criterio minimo per stabilire di che cosa vogliamo parlare, nell’ambito di oggetti tutti pubblicamente disponibili, è il fatto che le immagini siano quelle cose entro cui si possano vedere altre cose: quanto abbiamo appena chiamato i soggetti delle immagini. Dato il fatto che la maggior parte delle immagini è (grosso modo) bidimensionale, è ovvio che non vada presa alla lettera l’idea che il soggetto di un’immagine si possa vedere in essa, come diremo meglio nel II capitolo, come se il soggetto dell’immagine fosse una parte interna dell’immagine stessa, come il nocciolo di un frutto. Nel vedere un soggetto in un’immagine, l’immagine consente di esperire uno spazio che recede a partire dalla sua superficie. Questo spazio non è lo spazio fisico – è ovvio che nel caso bidimensionale il soggetto in questione non sta dietro il veicolo dell’immagine, ma neanche nel caso tridimensionale il soggetto sta dentro il veicolo. Tale spazio si crea piuttosto non appena la dimensione della profondità ad esso inerente viene opportunamente visualizzata – nel caso di un’immagine bidimensionale, che come abbiamo visto manca (grosso modo) di profondità – oppure opportunamente focalizzata – nel caso di un’immagine tridimensionale, che quella profondità già possiede. Senza

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l’idea che il soggetto dell’immagine sia, tra le altre cose, costituito da qualcosa che sta

davanti qualcos’altro non si vedrebbe tale soggetto in un’immagine.

Facciamo un esempio. Prendiamo il famoso triangolo di Kanizsa, quella figura in cui si vede un triangolo che in un certo senso non c’è, poiché i suoi confini sono esperiti ma non tracciati, neppure parzialmente.

Fig. 1 – Triangolo di Kanizsa

Ebbene, della figura in questione si può dare una descrizione per cui il triangolo ‘illusorio’ è inserito tra altre figure bidimensionali – tre cunei triangolari differentemente orientati, tre quasi-cerchi neri posti alle estremità della figura. Ma è più naturale darne una descrizione tridimensionale, per cui il triangolo in questione è

davanti sia un’altra figura triangolare, che occlude parzialmente, sia tre figure circolari

nere, anch’esse parzialmente occluse. È a partire da una descrizione siffatta che possiamo dire di vedere qualcosa nella figura, ossia ‘corpi’ geometrici, uno dei quali copre in parte gli altri.

Se avessimo voluto essere più schematici, avremmo potuto dire: parleremo qui solo delle cosiddette immagini figurative, quelle che per l’appunto presentano un soggetto che raffigurano, escludendo da una parte i cosiddetti arabeschi (e più in generale tutte le decorazioni ornamentali, quelle circonvoluzioni di figure geometriche o parageometriche di cui per esempio l’arte araba è piena) e dall’altra le immagini astratte, tutti quei disegni o quadri dopo le avanguardie che non presentano più un soggetto riconoscibile da raffigurare4. Ma per l’appunto, saremmo stati più schematici.

Perché non è affatto detto che in un arabesco o in un cosiddetto quadro astratto non si possa vedere un soggetto, nella misura in cui si possono percepire al suo interno dei rapporti di figura-sfondo, come appunto nel triangolo di Kanizsa appena ricordato, che consentono l’apertura di uno spazio ulteriore rispetto a quello occupato dal veicolo dell’immagine – uno spazio, si direbbe, recedente rispetto a quest’ultimo5.

Se escludendo dalla nostra considerazione immagini mentali e immagini ‘non figurative’ abbiamo effettivamente ridotto l’estensione della nostra trattazione, la riduzione è invece solo apparente se non prendiamo in considerazione le cosiddette immagini trasparenti. A differenza delle immagini di cui abbiamo parlato finora e cioè le immagini opache – quadri, disegni, schizzi – cioè le immagini in cui non solo si vede

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un soggetto ma anche il suo veicolo resta a portata della nostra percezione, le immagini trasparenti sono le immagini il cui soggetto è visto attraverso di esse, in modo che il loro veicolo non fa da supporto all’esperienza del soggetto ma lascia che il soggetto traspaia per il suo tramite – un po’ come le lenti degli occhiali fanno con le cose del mondo circostante, che lasciano vedere senza essere esse stesse viste. Ora, se davvero ci fosse questa distinzione tra immagini opache e immagini trasparenti, facendo del criterio per riconoscere un’immagine il fatto che il suo soggetto si veda in ma non

attraverso essa, la nostra trattazione perderebbe effettivamente molti elementi di

discussione. Infatti chi crede alle immagini trasparenti annovera sotto di esse moltissime cose, ossia tutte le immagini la cui produzione è il risultato di un processo meccanico e non intenzionale: dunque tutte le fotografie, statiche come dinamiche, e quindi anche le immagini televisive e filmiche. Il punto però è che una siffatta distinzione tra immagini opache e trasparenti produce una divergenza tra generi di immagini soltanto in alcune concezioni di tale distinzione. Sinteticamente, produce una divergenza se la distinzione è concepita come distinzione tra tipi di segni o tra tipi di contenuti per segni siffatti. Ma non produce tale divergenza se la distinzione ha a che fare soltanto col modo in cui quei segni acquisiscono i loro contenuti, dal momento che, a differenza delle precedenti, questa caratterizzazione non attiene all’essenza di un tipo iconico. Nella distinzione tra tipi di segni, le immagini trasparenti si distinguono dalle immagini opache perché segni naturali, ossia segni che instaurano un rapporto di co-variazione non intenzionale col loro significato: non solo se un certo evento non ci fosse stato, non ci sarebbe stata neppure quella determinata immagine, ma quell’immagine è tale in virtù del mero rapporto causale con quell’evento (se il piccione non fosse finito di fronte all’obiettivo mentre stavo per fare una foto al golfo di Napoli, non ci sarebbe stata la foto del piccione ma una foto del golfo di Napoli, ma la mia foto è foto del piccione checché io ne pensi; il mio dipinto di un piccione che vola continuerebbe invece ad essere quel dipinto anche se il piccione non avesse mai volato, o addirittura non ci fosse stato alcun piccione; è vero altresì che il mio ritratto del piccione volante non ci sarebbe stato se il piccione non avesse volato, ma quel ritratto è ritratto del piccione in virtù delle mie credenze in merito, non di un rapporto causale)6. Anche nel caso della distinzione tra

tipi di contenuti, le immagini trasparenti si distinguono effettivamente dalle immagini opache perché hanno un contenuto fattivo: una foto che ha p per contenuto implica p (se fotografo mia nipote che si laurea, effettivamente mia nipote si laurea; non così se la ritraggo in un dipinto)7. Nella distinzione tra modi di acquisizione dei loro contenuti,

invece, un’immagine è trasparente solo nella misura in cui, a differenza di un’immagine opaca, la sua intenzionalità è originaria, cioè l’immagine possiede il suo significato in se stessa e non in virtù di un’attribuzione estrinseca8. Perché un quadro di un piccione sia

un quadro di un piccione occorre un atto di interpretazione che assegna proprio quel significato al quadro in questione; non è così per una foto di piccione, che è immediatamente foto del piccione in virtù del rapporto causale con esso. In quest’ultima concezione, non c’è più una distinzione di principio tra immagini opache e trasparenti, nella misura in cui possiamo vedere il suo soggetto tanto in un quadro quanto in una foto e ciò che rende diversa la foto dal quadro è semplicemente il modo in cui essa è immagine del suo soggetto. Rispetto a questa concezione, se scoprissimo (ma non

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l’abbiamo già scoperto?) che la Santa Sindone di Torino non è un’impronta causata dal contatto col corpo dotato di poteri sovrannaturali di Cristo ma è semplicemente un dipinto medioevale di Cristo, tranne il modo in cui Cristo viene ad essere il soggetto di tale immagine, nulla cambierebbe: Cristo continuerebbe ad essere ciò che su cui l’immagine verte (e che si può vedere nel, anche se non più attraverso, il sacro lino). Ora, se questa caratterizzazione della distinzione tra immagini opache e immagini trasparenti è corretta, non vi è nessuna ragione per escludere queste ultime dalla nostra considerazione. Di conseguenza, tutti i tipi di fotografia saranno oggetto della presente indagine.

2. Le teorie dell’immagine

Focalizzato dunque l’obiettivo della nostra indagine, domandiamoci adesso: che tipo di cose sono le immagini – le raffigurazioni – di cui parleremo in questo libro? Per affrontare questa domanda ci sono due approcci fondamentali. Secondo il primo, una raffigurazione è un tipo particolare di rappresentazione: è una rappresentazione di tipo pittorico. In questa prospettiva si dà già come presupposta l’analisi generale di che cos’è una rappresentazione, cioè la capacità di simboleggiare un soggetto nel senso precedentemente chiarito di avere intenzionalità, vertere su qualcosa o avere un contenuto che determina una dimensione di correttezza. In questo caso è chiaro che le immagini, come gli enunciati linguistici, sono immediatamente delle rappresentazioni e il problema non è capire che cosa le qualifica in quanto tali, ma spiegare che cosa conferisce loro non solo la qualità di rappresentazione, ma anche quella di raffigurazione. Il problema si riduce quindi semplicemente a spiegare che cosa conferisce loro un valore pittorico (a differenza di altre rappresentazioni non pittoriche, ad esempio gli enunciati linguistici). Non è dunque un caso che molte delle teorie che si conformano a quest’approccio si focalizzano su quest’aspetto, ossia sulla spiegazione della pittorialità dell’immagine. Il secondo approccio, viceversa, ritiene che occorra invertire l’ordine di priorità esplicativa: capire che cosa fa di qualcosa una raffigurazione spiega altresì in che senso un’immagine è una rappresentazione9.

Secondo le teorie del secondo tipo, l’analisi dell’intenzionalità dell’immagine è imprescindibile perché essa dipende dall’analisi della sua pittorialità, o altrimenti detto, ciò che assegna all’immagine il suo valore figurativo spiega anche il fatto che l’immagine verta su qualcosa o abbia un contenuto. Quanto appena detto mostra peraltro che, nelle loro differenze, entrambi gli approcci condividono l’idea che avere intenzionalità e avere pittorialità sono condizioni necessarie e congiuntamente sufficienti perché qualcosa sia una raffigurazione. Ora ai nostri fini, la parte più caratterizzante in entrambi i casi è la spiegazione della pittorialità dell’immagine: in altre parole, ci interesserà primariamente sapere quali sono le condizioni necessarie e sufficienti di quella che a sua volta è la condizione necessaria della raffigurazione che rende conto del suo valore figurativo.

Ma quali sono le teorie dell’immagine di cui ci occuperemo qui? Complessivamente, abbiamo due grossi gruppi di teorie. Da un lato, il gruppo più cospicuo delle cosiddette teorie percettiviste, secondo le quali la pittorialità di

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un’immagine consiste o in una proprietà percettivamente rilevante dell’immagine stessa o in un qualche tipo di esperienza o comunque di processo cognitivo relativo al soggetto dell’immagine che individui percipienti hanno quando si confrontano con un’immagine. Nella prima parte di questo gruppo abbiamo le teorie della somiglianza oggettiva, secondo cui quel che conta per la pittorialità è una proprietà percepibile che l’immagine e il suo soggetto grosso modo condividono10. Nella seconda parte del gruppo troviamo

le teorie della somiglianza soggettiva, per cui ciò che conta è una somiglianza esperita, ossia o una somiglianza che sussiste tra l’esperienza dell’immagine e l’esperienza del suo soggetto, oppure il fatto che l’immagine è esperita come simile in qualche modo al suo soggetto. Ma troviamo anche teorie per cui il fattore rilevante non ha a che fare con una somiglianza, oggettiva o meno. Le teorie del ‘vedere in’ sostengono che questo fattore consiste nell’esperienza sui generis di vedere nell’immagine un determinato soggetto; le teorie illusioniste sostengono che esso consiste nell’esperienza di vedere (illusoriamente) l’immagine come il suo soggetto; le teorie finzionaliste sostengono che esso consiste nel far finta, e dunque immaginare, che la percezione dell’immagine sia la percezione del suo soggetto; le teorie ricognizionali sostengono che il fattore consiste nel fatto che le immagini consentono di riconoscere il loro soggetto così come un’esperienza diretta di quel soggetto consentirebbe. Dall’altro lato, il secondo gruppo teorico è un gruppo assai più piccolo di teorie, le teorie semiotiche o strutturaliste; queste teorie dicono che ciò che fa la differenza tra immagini e altri segni non ha a che fare con proprietà percettivamente rilevanti delle immagini o con l’esperienza di immagine, ma è il modo peculiare in cui certi segni significano, una volta posti in sistemi pittorici dotati di una certa struttura simbolica.

Ora, tutte queste teorie occupano a vario titolo il dibattito contemporaneo sulla raffigurazione. In questo volume, cercheremo di rendere conto di questo dibattito, facendo presente come molte di queste teorie, se non tutte, abbiano antecedenti nella storia della filosofia e più in generale nel dibattito sulle immagini nelle arti e nella storia delle idee. Qualcuno si domanderà il perché di questa scelta. Una risposta banale potrebbe essere che dalla notte dei tempi tutti hanno parlato di immagine, dentro e fuori la filosofia, e sarebbe impossibile rendere conto in maniera sensata di tutte queste posizioni in una breve introduzione al tema. Una risposta più articolata direbbe invece che questa è un’introduzione filosofica al tema dell’immagine, e sta di fatto che dal punto di vista filosofico questo tema è stato direttamente tematizzato solo di recente, nel vasto alveo della cosiddetta filosofia analitica di matrice (austro)anglosassone, con qualche sporadica eccezione nel precedente corso della storia della filosofia. Per esempio, è certo che nel mondo antico (e non solo) si è svolta molta discussione sul problema della mimesi, su come l’arte abbia per scopo primario l’imitazione della realtà11. In tale contesto si è certamente ed ovviamente parlato di immagini, ma senza

l’obiettivo primario di spiegare che cosa rende le immagini delle rappresentazioni di tipo particolare diverse da ogni altro tipo di rappresentazioni, delle rappresentazioni

pittoriche appunto12. Introdurre dunque il lettore italiano ad un dibattito filosofico che

finora ha avuto poco seguito in Italia è una chiave di questo libro. Se sarà uno dei suoi meriti, lo lascio ai lettori giudicare.

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La gestazione di questo libro è frutto di svariate discussioni svolte in questi ultimi anni sul problema dell’immagine con molteplici interlocutori. Tra tutti, vorrei ringraziare Edoardo Acotto, Ben Blumson, Clotilde Calabi, Roberto Casati, Gianluca Cuozzo, Maurizio Ferraris, Robert Hopkins, John Kulvicki, Dominic Lopes, Paolo Leonardi, Kevin Mulligan, Paolo Spinicci, Enrico Terrone, Kendall Walton. Devo a Pietro Kobau vari suggerimenti che hanno tra l’altro contribuito ad approfondire il contesto storico delle teorie presentate. Diego Marconi ha letto parte del manoscritto e lo ha commentato con la consueta precisione e perizia. Un grazie particolare va ad Elisabetta Sacchi per essersi sobbarcata la lettura dell’intero manoscritto e averlo commentato in modo lucido e puntuale. Quanto alla redazione del testo, ringrazio infine il curatore di questa collana per la sua guida attenta e preziosa, che ha permesso di rimuovere varie imprecisioni e oscurità.

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I capitolo

Somiglianze tra le cose

1. La teoria ingenua della somiglianza oggettiva

Il primo pensiero che attraversa la testa di molti quando ci si interroga su come un’immagine può significare qualcosa nel modo tipico di un’immagine è che l’immagine raffigura un determinato soggetto nella misura in cui somiglia a quel soggetto. Questo primo pensiero è comune a molti; ne dà una formulazione lampante lo psicologo cognitivo Stephen Kosslyn: “le rappresentazioni pittoriche comunicano un significato mediante la loro somiglianza a un oggetto, con parti della rappresentazione che corrispondono a parti dell’oggetto”13.

Tale pensiero ha una sua immediata plausibilità. Se significhiamo quel soggetto attraverso immagini anziché attraverso segni linguistici, è perché vogliamo significare quel contenuto attraverso qualcosa che sia somigliante ad esso. In quest’ottica, di un’immagine che scarseggi in somiglianza con il suo soggetto tenderemo a dire che è una cattiva immagine – alcuni ricorderanno la recente polemica contro la statua di Giovanni Paolo II, opera dello scultore Oliviero Rainaldi, da poco collocata alla stazione Termini di Roma ma immediatamente giudicata male dai più perché poco somigliante al passato pontefice. Una tale prassi di giudizio ha probabilmente inconsapevoli reminiscenze del Cratilo platonico: “chi attribuisce alle pitture e alle immagini tutti i colori e le forme convenienti le rende belle, mentre chi aggiunge o toglie, produce anch’egli pitture e immagini, ma cattive”14.

Tra i filosofi, Charles Sanders Peirce (1839-1914) è spesso ricordato come il sostenitore prototipico di questa teoria della raffigurazione come somiglianza oggettiva tra l’immagine e il suo soggetto, così formulata nella sua versione più ingenua possibile: un’immagine I raffigura il suo soggetto S se e solo se I somiglia a S. Egli non è peraltro l’unico cui si possa ascrivere una versione siffatta della teoria; tendenzialmente, essa si trova in tutti quelli che si occupano occasionalmente o marginalmente di immagini, com’è il caso per esempio di Charles Ogden e Ivor Richards, per cui le immagini sono “pressappoco direttamente come il loro referente”15. Tornando a Peirce, nella sua

tassonomia semiotica egli distingue tre tipi di segni: indici, icone e simboli. Il primo tipo di segni si contrappone agli altri due in quanto a differenza di questi gli indici sono segni naturali: hanno il loro significato in virtù di una correlazione naturale – un legame causale – con il loro soggetto (in questo senso, lo spostamento d’aria in una metropolitana è indice dell’arrivo del treno). Icone e simboli sono invece segni non naturali, ossia dipendono per la loro significazione dall’intenzione di qualcuno. Tuttavia i simboli, ossia i segni linguistici, traggono il loro significato da una stipulazione convenzionale che li rende segni del loro soggetto. Non c’è alcuna ragione intrinseca per cui il segno “cane” significhi l’animale che abbaia, anziché quello che miagola o un frutto che mangiamo o nessuna cosa affatto; in altri termini, la correlazione tra quel segno e il suo significato è arbitraria, come mostra altresì il fatto che in altre lingue sono differenti termini – “dog”, “Hund”, “perro” ecc. – ad avere quello stesso significato.

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L’unica ragione al riguardo è estrinseca, consistente nel fatto che si è deciso di usare quella stringa di lettere in quel modo (quando la stessa stringa di lettere compare nella parola “canestro”, essa non impone affatto a tale parola di fare in qualche modo riferimento ai cani, visto che essa ha tutt’altro significato). Viceversa le icone, ossia le nostre “immagini”, a differenza dei simboli, hanno in comune con gli indici l’essere segni motivati del loro soggetto. Diversamente dai simboli, le icone, hanno dunque una ragione per significare ciò che significano, al pari degli indici. La differenza consiste solo in ciò: negli indici tale motivazione consiste nel fatto che essi hanno nel loro significato la loro causa, nelle icone, ossia nelle immagini, esse hanno il loro significato in virtù del loro somigliare ad un significato siffatto16.

2. Le versioni raffinate I: raffigurare come rappresentare e somigliare

a qualcosa che può non esistere

In realtà però nessun filosofo, neppure Peirce, ha mai sostenuto la teoria della somiglianza oggettiva in questa versione così ingenua. Questa versione presta infatti il fianco ad un’importante obiezione, formulata per la prima volta da Nelson Goodman (1906-1998) in tempi recenti: rappresentare e in particolare rappresentare come un’immagine, ossia raffigurare, da una parte, e somigliare, dall’altra parte, sono relazioni di tipo diverso. Somigliare è una relazione riflessiva – tra le varie entità cui una certa cosa somiglia, c’è prima di tutto quella stessa cosa – e simmetrica – se qualcosa somiglia a un’altra cosa, allora quest’altra cosa somiglia a quel qualcosa (e viceversa). Ma raffigurare non è né riflessivo né simmetrico: un’immagine non raffigura se stessa, e se raffigura qualcosa, quel qualcosa non raffigura l’immagine stessa17. Un

esempio servirà a chiarire la situazione. Un quadro non ritrae se stesso; può invece ritrarre Berlusconi mentre attraversa le Alpi a dorso di un elefante, ma Berlusconi non ritrae il quadro. Data questa situazione concettuale, è impossibile che somigliare sia condizione sufficiente del raffigurare: un gemello somiglia tantissimo a un altro gemello, ma il primo non è certo immagine del secondo18.

Per quanto potente, quest’obiezione viene smontata facilmente se il teorico della somiglianza oggettiva considera la pittorialità, come abbiamo detto nell’Introduzione, come il marchio distintivo della raffigurazione, ossia come ciò che fa di una rappresentazione una rappresentazione pittorica, una raffigurazione per l’appunto. Così facendo, il teorico della somiglianza oggettiva assume che sia spiegato altrimenti che cosa dà a una rappresentazione pittorica la sua intenzionalità, il suo vertere su qualcosa o avere un certo contenuto, ossia presuppone che quello che rende la rappresentazione pittorica, come ogni altra rappresentazione, una rappresentazione per l’appunto, non debba esser spiegato in termini di somiglianza – in questo senso, il teorico in questione può adottare una spiegazione dell’intenzionalità dell’immagine non dissimile da una spiegazione dell’intenzionalità di un’espressione verbale, nella misura in cui entrambe sono rappresentazioni di qualcosa. Esemplificando, un conto è il fatto che il già ricordato quadro di David sia un quadro di Napoleone, come ogni altra rappresentazione che verte su Napoleone, ivi incluso il nome “Napoleone”; un altro conto è che il quadro in questione sia un quadro di Napoleone piuttosto che una sua rappresentazione verbale,

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ed è di questo che il teorico della somiglianza oggettiva vuol dar conto in termini di somiglianza tra l’immagine e il suo soggetto.

Se è così, la non riflessività e soprattutto l’asimmetricità della raffigurazione saranno conseguenza immediata del suo essere, prima di tutto, una rappresentazione. Ogni rappresentazione infatti, tanto pittorica quanto non, è tendenzialmente non riflessiva – sta per altro, ma non per se stessa19 – e sicuramente non simmetrica. La

rappresentazione rappresenta qualcos’altro, ma questo qualcos’altro non rappresenta la rappresentazione – “Casini” è il nome che rappresenta Casini, ma Casini non rappresenta il suo nome. Se così stanno le cose, il teorico della somiglianza oggettiva può facilmente spiegare l’apparente controesempio dei gemelli: un gemello non è rappresentazione dell’altro gemello, a fortiori non ne è una raffigurazione. Così facendo, la teoria della somiglianza oggettiva si raffina un poco rispetto alla versione ingenua, perché concede ai suoi avversari che la somiglianza tra immagine e raffigurato non sia una condizione sufficiente della raffigurazione – per raffigurare qualcosa non basta esservi simili, bisogna prima rappresentarlo – ma si limita a sostenere che ne è una condizione necessaria, la condizione che rende conto della pittorialità di una raffigurazione: un’immagine I raffigura il suo soggetto S solo se I somiglia a S20. In altre

parole, l’idea è ora che la somiglianza oggettiva dà condizioni necessarie di raffigurazione dando condizioni necessarie e sufficienti per la sua pittorialità, nei termini di una somiglianza oggettiva tra l’immagine e il suo soggetto.

Goodman però ha ben presente questa facile via d’uscita21; ad essa ribatte subito

che la somiglianza non può essere neppure una condizione necessaria della raffigurazione. Ci sono infatti miriadi di casi in cui si dà raffigurazione senza somiglianza: tutte le volte in cui il soggetto della raffigurazione non esiste. In tutti questi casi, infatti, mancando il membro destro della relazione, non c’è nulla cui l’immagine possa somigliare. Ma ovviamente l’immagine continua ad essere un’immagine. Prendiamo un quadro di Pegaso, il cavallo alato che non esiste, o uno schizzo di Nessie, il famoso mostro di Loch Ness; oppure prendiamo un quadro di un immaginario paesaggio con rovine romane, come un classico dipinto di Claude Lorrain, se non addirittura uno schizzo infantile di un omino. In tutti questi casi, non c’è nulla che faccia da membro destro di una relazione di somiglianza, eppure non c’è dubbio che si tratta di raffigurazioni22.

Come è stato però fatto ben notare23, qui Goodman fa collassare insieme due casi

diversi: il caso di una raffigurazione di un soggetto particolare ma non esistente – il quadro di Pegaso, oppure il disegno di Nessie – con il caso di una raffigurazione di

genere, l’immagine che raffigura qualcosa di un qualche genere senza raffigurare

nessun soggetto particolare – il quadro di un paesaggio con rovine romane, ma anche lo schizzo stilizzato di un omino. In realtà, questi casi vanno trattati separatamente; cosa che potrà fare anche il teorico della somiglianza oggettiva.

Nel primo caso, immaginiamo di presupporre un’ontologia allargata ad entità non esistenti (almeno nel senso che non sono disponibili spaziotemporalmente), sostenendo, come paradigmaticamente ha fatto il filosofo austriaco Alexius Meinong (1853-1920), che il generale inventario di ciò che c’è comprende anche cose che non esistono. Il teorico della somiglianza oggettiva potrà allora ben dire che c’è un’entità

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che fa da membro destro alla relazione di somiglianza di cui l’immagine è il membro sinistro; semplicemente, si tratta di un’entità non esistente (almeno in senso spaziotemporale). Perché qualcosa sia una relazione, occorre banalmente che vi siano delle entità che tale relazione mette per l’appunto in relazione. Ma che queste entità debbano essere delle entità esistenti sembra essere soltanto un pregiudizio ontologico – un pregiudizio a favore del reale, come Meinong lo chiamò24. In questi termini, la

somiglianza può ben essere vista come una relazione che coinvolge entità in generale, anche se alcune di esse non esistono; possiamo dire per esempio che Penelope Cruz, che certamente esiste, somiglia alla conturbante fanciulla sognata la notte scorsa, che ahimè non esiste per niente. Di conseguenza, il caso delle immagini di non esistenti non mette affatto in crisi la teoria della somiglianza come condizione necessaria della raffigurazione, perché si può ben dire che l’immagine raffigura un soggetto non esistente nella misura in cui gli somiglia25.

Prendiamo esattamente il caso di Pegaso, che è un’entità fittizia. Le entità fittizie sono il prototipo di entità che non esistono, almeno in senso spaziotemporale; chi si proponesse di cercare Pegaso da qualche parte dell’universo commetterebbe lo stesso errore che commette il bambino che, credendo ancora a Babbo Natale, pensa che egli stia da qualche parte nel nostro mondo spaziotemporale – nella fattispecie, in Lapponia. Ebbene, nulla vieta a un quadro di Pegaso di somigliare in qualche modo a Pegaso, anche se questo non esiste. Se faccio uno schizzo con un soggetto a forma di limone e dico, ecco, questo è Pegaso, molti storceranno il naso non meno di come l’hanno storto di fronte alla statua romana di Giovanni Paolo II: come fa questo schizzo (quella statua) ad essere un’immagine di Pegaso (di Woytila), visto che non gli somiglia per niente? La non esistenza (Pegaso) o l’esistenza passata (il Papa) del soggetto non modificano il rapporto di possibile somiglianza. Così, dirà il teorico della somiglianza oggettiva, il quadro è un’immagine di Pegaso in quanto gli somiglia, seppure quest’ultimo non esista (almeno spaziotemporalmente)26.

Per quanto riguarda invece il secondo caso, quello delle immagini generiche, anche qui il teorico della somiglianza oggettiva ha ancora varie carte da giocare. Può dire prima di tutto che a un senso relazionale di somiglianza – quello che è messo in gioco quando la somiglianza coinvolge entità particolari – si affianca un senso non

relazionale, che è proprio quello che le immagini generiche coinvolgono. Un’immagine

di paesaggio con rovine romane somiglierà allora in quest’ultimo senso a un siffatto paesaggio, nello stesso senso in cui diciamo per esempio che una persona somiglia a una sirena, intendendo dire non che c’è una sirena cui tale persona somiglia, ma (grosso

modo) che tale persona ha una forma sirenosa27. Questa mossa ha uno svantaggio,

perché, una volta applicata alla nozione di raffigurazione, comporta una corrispondente duplicazione della nozione di raffigurazione, una relazionale – basata sulla nozione relazionale di somiglianza – e una non relazionale – basata sulla nozione non relazionale di somiglianza. Ma il teorico della somiglianza oggettiva non è costretto a questa mossa, nella misura in cui anche la somiglianza generica si può trattare in termini relazionali come somiglianza di qualcosa – nella fattispecie, un’immagine – alle istanze di un genere. Così, un quadro di paesaggio romano con rovine può raffigurare un siffatto paesaggio nella misura in cui somiglia a tutti i paesaggi di quel genere28.

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Anche così, però, Goodman avrebbe ancora da obiettare. La nozione di somiglianza, egli commenta, è solo apparentemente una relazione binaria tra due termini; in realtà è una relazione a tre posti, la cosa somigliante, la cosa somigliata, e un

parametro di somiglianza. Niente è mai simile ad altro tout court, ma è sempre simile

ad altro sotto un certo rispetto. Un Rolex e una Ferrari si assomigliano in quanto oggetti di lusso, ma non si somigliano quanto alla loro funzione – il primo è un orologio, la seconda un’automobile. Ma se così stanno le cose, continua Goodman, ogni cosa può somigliare ad ogni altra cosa sotto un qualche punto di vista. Essendo in questo senso la somiglianza ubiqua, non può essere di alcuna utilità per spiegare la raffigurazione. Se la nostra nozione di somiglianza è proprio quella di una relazione tra tre termini uno dei quali è per l’appunto un parametro di somiglianza, ne viene infatti che una raffigurazione può essere addirittura più simile ad un’altra raffigurazione, che essa sicuramente non raffigura, proprio in quanto raffigurazione, di quanto sia simile al suo soggetto29. Da questo punto di vista, quindi, raffigurare un soggetto non può neppure

essere rappresentare un tale soggetto più l’esservi somigliante, visto che, fissato un determinato parametro di somiglianza, un’immagine sarà meno simile al suo soggetto di quanto sia simile a un’altra immagine30.

3. Le versioni raffinate II: i parametri di somiglianza

Ma a questa contro-obiezione di Goodman si trova una facile risposta. Nella storia della filosofia nessuno ha mai veramente sostenuto che un’immagine dovesse somigliare tout

court al suo soggetto per raffigurarlo, ma si è sempre sostenuto che dovesse somigliare

al suo soggetto precisamente sotto un qualche aspetto31. Dunque, la versione più

sofisticata della teoria della somiglianza oggettiva dirà che un’immagine I raffigura il suo soggetto S solo se I somiglia a S sotto un certo parametro P.

Che la somiglianza di un immagine a un soggetto si riferisca non al soggetto nella sua interezza ma a un definito parametro di somiglianza, cioè solo a determinate qualità, lo aveva già sostenuto Peirce: “un’icona è un representamen di ciò che rappresenta […] in virtù di caratteri che le appartengono in quanto oggetto sensibile. […] Si dà semplicemente il caso che le sue qualità somiglino a quelle dell’oggetto [rappresentato]”32. In maniera più rilevante, questa tesi è presente fin dalla prima

consistente riflessione sul tema della raffigurazione che troviamo in Platone (428/7a.C.-348/7a.C). Nel Cratilo Platone sostiene la tesi seguente. A differenza dei termini linguistici, che sono le immagini vere oltre che possibilmente corrette delle cose, perché rappresentano le essenze delle cose stesse, le immagini ordinarie esplicano la loro funzione rappresentativa nel loro rappresentare, in modo possibilmente corretto, le cose che rappresentano secondo certe proprietà visive, o comunque sensibili, le quali sono

grosso modo condivise sia dalle immagini sia dalle cose da esse rappresentate. In altri e

più precisi termini, le immagini raffigurano le cose che rappresentano in quanto vi somigliano in certe proprietà visive, o comunque sensibili: colore e forma33. Colore e

forma sono i parametri rilevanti di somiglianza; se una rappresentazione pittorica cercasse di raffigurare ciò che raffigura sotto ulteriori rispetti, finirebbe per non essere neanche più un’immagine, ma un duplicato della cosa raffigurata:

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Ma attento che di una certa qualità o di un’immagine completa […] se vuole essere un’immagine, non abbia assolutamente bisogno di assegnare tutti gli elementi quali sono in ciò che raffigura. Considera se dico qualcosa. Non potrebbero forse esserci due cose quali queste, Cratilo e un’immagine di Cratilo, se qualcuno degli dei non solo raffigurasse il tuo colore e la tua forma come i pittori, ma facesse anche l’interno tutto tale quale il tuo, e assegnasse le stesse morbidezze e gli stessi calori, e vi ponesse dentro moto, anima e ragionevolezza tali quali sono in te e, in una parola, ne ponesse altre tali e quali vicino a te?34

Quest’idea platonica sembra intuitivamente molto convincente e per questo fu spesso ripresa, già da Aristotele (384/3a.C.-322a.C.) nella Poetica35: in che cosa possono delle

immagini bidimensionali somigliare ai loro soggetti tridimensionali se non nelle proprietà visibili o sensibili di entrambi che l’occhio cattura indipendentemente dalle loro diverse dimensioni, cioè il colore e la forma (con maggiore enfasi sulla seconda che sulla prima36)?

Tuttavia, come molti hanno ricordato a partire almeno da Cartesio (1596-1650) nella Diottrica, in questa formulazione la teoria di Platone non funziona, né funzionerebbe una sua versione annacquata che sostenesse che le immagini raffigurano le cose che rappresentano in quanto vi somigliano in colore o forma, cioè in almeno uno dei due rispetti in questione. Vi sono infatti immagini che non condividono con quanto rappresentano né il colore né la forma. Si pensi a una caricatura in bianco e nero dell’ex-première dame francese, Carla Bruni. Pur essendo un’immagine di Carlà, l’immagine non condivide con l’illustre personaggio né il colore, né la forma. O nell’esempio di Cartesio, si pensi a quelle stampe in bianco e nero che non rispettano la forma degli oggetti raffigurati:

Dobbiamo notare che non v’è nessuna immagine che almeno debba assomigliare in tutto e per tutto agli oggetti che rappresenta […], ma che è sufficiente che assomigli agli oggetti in poche cose e che spesso la perfezione di tali immagini dipende perfino dal fatto che non assomigliano loro quanto potrebbero. Come vedete nelle stampe che, pur risultando da un po’ d’inchiostro sparso qua e là sulla carta, ci rappresentano foreste, città, uomini e financo battaglie e tempeste, anche se delle innumerevoli diverse qualità che esse ci fanno immaginare non ve n’è alcuna, se si eccettua la figura, cui propriamente rassomiglino. Tale somiglianza è poi anche imperfetta, giacché su una superficie completamente piana esse ci rappresentano, posti in vario modo, corpi in rilievo e sul fondo e, secondo le regole della prospettiva, spesso rappresentano meglio cerchi con ovali, che non con altri cerchi, e quadrati meglio con rombi che non con altri quadrati, e così per ogni altra figura: in tal modo spesso, per essere più perfette come immagini e rappresentare meglio un oggetto, non debbono in alcun modo rassomigliargli37.

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Una critica di questo genere mostra però soltanto che i parametri di somiglianza proposti da Platone non sono quelli giusti, non che ogni teoria della raffigurazione in termini di somiglianza oggettiva tra l’immagine e il suo raffigurato è sbagliata. Forse lui stesso insoddisfatto della sua proposta, o forse sentendo i limiti di una concezione che definisce l’immagine solo in relazione alle proprietà sensibili di un oggetto – come già si può intravedere dal passo del Cratilo successivo a quello poc’anzi citato, in cui si allude alla ricerca di un’“altra correttezza dell’immagine”38 – Platone cercò di andare in

una direzione differente. La somiglianza tra immagine e raffigurato non deve essere cercata esclusivamente nei termini di proprietà sensibili, relative quindi all’osservatore, che riducono la somiglianza a un tipo di relazione sussistente solo in un mondo fenomenico, un mondo il cui valore ontologico è per Platone notoriamente poco consistente. Nel Sofista39, Platone ci presenta una distinzione tra due tipi di mimesi

caratterizzante le immagini rispetto a ciò che raffigurano: si potrebbe chiamare la prima la mimesi fantastica, che considera come parametri di somiglianza soltanto proprietà relative ad un osservatore, proprietà di apparenza (che sono forse addirittura proprietà soggettive e non oggettive: qualcosa, dice Platone, può apparire simile ad altro senza esserlo), e la seconda mimesi icastica, che cerca di cogliere la somiglianza in termini di corrispondenza di simmetria, o di proporzioni, tra le immagini e i loro soggetti40.

Un’idea, questa, che piacque parecchio in epoca neoplatonica. Proclo (412-485), seguendo nei suoi commentari a Platone la svalutazione ontologica delle immagini apparentemente proposta da Platone nella Repubblica, rilancia la tesi per cui le immagini hanno un grado di realtà ancora più povero di quello delle realtà sensibili che pretendono di imitare, già inferiore rispetto a quello delle Idee di cui queste ultime realtà sono copie. Pertanto Proclo sottolinea come la mimesi davvero rilevante per spiegare la raffigurazione in termini di somiglianza sia solo quella icastica41. Tracce di

quest’idea si ripresentano in epoca contemporanea nella tesi che un’immagine debba condividere con il suo soggetto una certa proporzione di parti, come mostra questo passo di Susanne Langer: “la sola caratteristica che un’immagine deve avere per essere un immagine […] è una disposizione di elementi analoga alla disposizione di elementi visivi salienti nel [suo] oggetto”42.

Per un teorico della somiglianza oggettiva non è necessario però seguire Platone in questa direzione. Il ragionamento da cui muove Platone è infatti viziato da un pregiudizio, ossia che se una proprietà è relativa all’osservatore, allora essa è propria soltanto del soggetto di esperienza (o come direbbe Platone, è soltanto una proprietà del mondo sensibile) e non è una proprietà oggettiva. Come sottolinea Michael Newall, vi sono proprietà dipendenti da un osservatore che sono costitutivamente soggettive – un esempio tipico di una proprietà del genere potrebbe essere la sfocatezza: se vedo qualcosa sfocato, è il mio campo visivo ad avere tale caratteristica, non è l’oggetto che vedo ad avere un grado di vaghezza – ed altre proprietà che, seppure sempre dipendenti da un osservatore, sono comunque proprietà oggettive – la proprietà di avere una forma prospettica, come vedremo subito, è un caso del genere43. Se rinunciamo al pregiudizio

platonico, possiamo notare non solo che l’eventuale dipendenza da un osservatore non rende automaticamente il colore e la forma di un oggetto delle proprietà soggettive, come temeva Platone, ma anche che vi è una varietà di proprietà che sono sì dipendenti

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da un osservatore ma oggettive. Di conseguenza, dal punto di vista di un teorico della somiglianza oggettiva l’immagine può raffigurare il suo soggetto nella misura in cui somiglia a quest’ultimo in altre proprietà oggettive del genere, ancorché siano relative ad un osservatore. In questo quadro si tratta quindi solamente, per un teorico della somiglianza oggettiva, di concepire in un modo più complesso, rispetto a Platone, il parametro di somiglianza.

Nel Della pittura, Leon Battista Alberti (1404-1472) muove dal sostenere che soltanto ciò che può essere visto, dunque solo ciò che è dotato di proprietà visuali (relative dunque ad un osservatore) può essere raffigurato44. Questo orienta nuovamente

la ricerca del parametro di somiglianza all’interno di proprietà di questo tipo. Quale possa essere per Alberti un siffatto parametro è indicato dalla sua idea che l’immagine migliore di un determinato soggetto è quella che l’osservatore potrebbe tracciare su una finestra, o comunque su un vetro trasparente per mezzo del quale egli vede quel soggetto. Rispetto al soggetto, infatti, l’immagine conserverebbe la stessa prospettiva che esso ha nei confronti dell’osservatore. Più precisamente, conserverebbe lo stesso angolo solido che quel soggetto sottende nei confronti dell’osservatore. Vale a dire, fissato idealmente un punto di vista nell’occhio dell’osservatore, cioè nel punto geometrico di origine della visione, da quel punto si possono tracciare delle linee rette che delineano i confini del soggetto dell’immagine con lo stesso angolo solido – Alberti dice con la stessa “piramide visiva” – che si avrebbe se si tracciassero delle linee rette che vanno dal punto geometrico di osservazione ai confini della finestra entro cui l’immagine appare.

Adunque prego li studiosi pictori non si vergognino d’udirci […] et sappiano che con sue linee circuiscono la superficie et quando empiono di colori e luoghi descritti niun altra cosa cercarsi se non che in questa superficia si presentino le forme delle cose vedute, non altrimenti che se essa fusse di vetro tralucente tale che la pirramide visiva indi trapassasse, posto una certa distantia, con certi lumi et certa posizione di centro, in aere et ne suoi luoghi altrove. […] Sarà adunque pictura non altro che intersegatione della pirramide visiva secondo data distantia, posto il centro e constituiti i lumi in una certa superficie con linee et colori artificioso rappresentata45.

L’idea è allora che un’immagine raffiguri il suo soggetto nella misura in cui, oltre a rappresentarlo, condivide con esso la stessa “piramide visiva” ovvero quella che oggi viene considerata come la stessa forma di occlusione oppure come la stessa forma di

contorno – a seconda che la si voglia caratterizzare, con John Hyman, nei termini della

forma che preclude all’osservatore di esperire direttamente il soggetto raffigurato (o le sue parti rilevanti), oppure, con Robert Hopkins, nei termini della forma che si determina a partire dal contorno dell’immagine e del suo soggetto in relazione ad un certo punto di vista46. Come risultante dell’incontro tra le rette che vanno dal punto di

vista all’oggetto e una superficie planare posta perpendicolarmente ad una linea di visione che va sempre da quel punto di vista all’oggetto, la forma di occlusione viene ad avere una natura tridimensionale. Quanto alla forma di contorno, dal momento che è

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relativa a un punto di vista, Hopkins dice che “non è direttamente bidimensionale”47. In

seguito preciserà che, essendo una proprietà che può essere posseduta tanto da realtà bidimensionali (le immagini) quanto da realtà tridimensionali (i loro soggetti), la forma di contorno di un oggetto differisce dalla sua forma reale nel mancare di profondità48. Si

veda il suo stesso esempio49.

Fig 1 – Forma di contorno

L’avere una certa forma di occlusione, o di contorno, è esattamente una proprietà relativa a un osservatore, o più esattamente ad un punto di vista. Se si cambia il punto di vista – se l’osservatore si sposta dalla finestra da cui percepisce l’oggetto da essa circoscritto – cambierà anche l’angolo solido sotteso da questo nuovo punto di vista tanto all’immagine quanto al soggetto da essa raffigurato. Ma tale dipendenza da un punto di vista non rende l’avere una certa forma di occlusione, o di contorno, una proprietà dell’osservatore. In quanto proprietà geometrica, la proprietà in questione resta una proprietà oggettiva, tanto dell’immagine quanto del soggetto da essa raffigurato; sia pur bidimensionale, l’immagine condivide questa proprietà con un soggetto tridimensionale, come il disegno precedente mostra (l’immagine sulla finestra ha la stessa forma di occlusione o di contorno del soggetto visto attraverso la finestra medesima)50.

Nel corso del pensiero umanistico e rinascimentale, questo modo di declinare la versione sofisticata della teoria della somiglianza oggettiva ritorna in diverse forme e sotto diverse metafore – per esempio, lo ritroviamo in Leonardo (1452-1519), a volte ripresentato nella concezione per cui il modello della raffigurazione è l’immagine speculare di un oggetto, la quale condivide con quest’ultimo esattamente proprietà relative all’osservatore del genere della forma di contorno51. L’idea ritorna più avanti in

Thomas Reid (1710-1796) il quale, parlando di figura visibile o di apparenza visibile come qualcosa di dipendente dal punto di vista geometrico di un osservatore (e quindi mutevole al mutare di tale punto di vista), sostiene che tale figura è quanto l’immagine condivide col suo soggetto52. Nel secolo scorso, la stessa concezione ricompare in James

Gibson (1904-1979), per cui la relazione tra un’immagine e il suo soggetto va intesa nei termini di una proiezione geometrica di un solido tridimensionale su un piano (tale proiezione geometrica viene detta polare perché il piano di proiezione passa attraverso

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uno dei circoli polari); la somiglianza rilevante tra l’immagine e il suo soggetto sarà catturata allora dalla similarità dell’ordine di adiacenza dei punti cromatici che stanno nelle rispettive sezioni dell’angolo solido formato rispettivamente dall’insieme di raggi proiettati dal soggetto dell’immagine su un certo punto di vista e dall’insieme di raggi proiettati dall’immagine medesima su quello stesso punto53. Oggi si fa portavoce di

quest’idea il già ricordato Hyman.

L’idea è bella e suggestiva, ma sembra avere un grande limite: si applica soltanto a quelle immagini che seguono la teoria umanistico-rinascimentale della prospettiva classica. Ma che dire di tutte quelle immagini che non si conformano a tale teoria, perché sono dipinte in un differente stile pittorico – a partire dalle pitture egizie, per passare a quelle medioevali fino ad arrivare a quelle post-impressioniste? Difficilmente tutte queste immagini potranno condividere la forma di occlusione (nella caratterizzazione di Hyman) con i soggetti da esse raffigurati.

La risposta di Hyman a questa critica consiste nel dire che la somiglianza in forma di occlusione non sussiste direttamente tra l’immagine e il suo soggetto, ma tra l’immagine e il suo soggetto in quanto rappresentato come avente quella forma54. Con

questa precisazione, tutte le immagini che costituiscono una deviazione dalla prospettiva umanistico-rinascimentale classica non faranno più da controesempi alla teoria. Anche per tutte queste immagini, infatti, si dà una coincidenza tra la forma di occlusione propria dell’immagine e la forma di occlusione che il soggetto dell’immagine è rappresentato avere. Prendiamo una pittura egizia di un faraone. Ovviamente, il faraone non può avere la forma di occlusione di quella immagine, che rappresenta il faraone secondo diverse prospettive (testa e arti inferiori di lato, tronco e arti superiori da davanti). Ma avrà la forma di occlusione del faraone così

rappresentato, del faraone come avente testa e piedi laterali e tronco e mani frontali.

Tuttavia questa risposta solleva più problemi di quanto ne risolva. Che cos’è il soggetto di un’immagine in quanto rappresentato come avente una determinata forma di occlusione? Ebbene, o è il soggetto che si conviene di ascrivere a un’immagine, rappresentato come avente una proprietà, una certa forma di occlusione, che può ben non avere di fatto, come in tutti i casi delle immagini non classiche in questione, o è un’altra entità che sta in una certa relazione con quel soggetto – un oggetto opportunamente distorto rispetto a quel soggetto55. Nel primo caso, la teoria scivola

verso una forma di teoria della somiglianza soggettiva, in cui i termini di somiglianza coinvolti non sono più l’immagine e il suo soggetto, bensì primariamente le esperienze che si hanno di tali entità (di questo tipo di teorie si tratterà nel V capitolo). Nel secondo caso, non solo si ascrive all’immagine un soggetto che non sembra avere – non si capirebbe lo scopo delle caricature se si ascrivesse loro un soggetto differente da quelle che esse vogliono avere, se si dicesse per esempio che una caricatura di Carlà è l’immagine di una Carlà-distorta – ma si finisce per incappare nella violazione di quello che Dominic Lopes ha chiamato il vincolo dell’indipendenza, ossia il vincolo per cui non bisogna fissare che cosa un’immagine rappresenta per stabilire a che cosa quell’immagine somiglia56. Se Hyman avesse ragione, infatti, nell’esempio appena fatto

bisognerebbe fissare che la caricatura è un’immagine di Carlà-distorta per stabilire che tale immagine somiglia a quest’entità (invece che a Carlà in carne ed ossa).

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Per evitare in modo radicale queste critiche, un’alternativa immediatamente disponibile al teorico della somiglianza oggettiva consiste nel sostenere che l’immagine è tale non perché somiglia al suo soggetto rispetto ad una proprietà mente-dipendente come quelle appena considerate, ma perché essa è in realtà somigliante ad un soggetto che è esso stesso mente-dipendente: non un oggetto ordinario, ma un aspetto di esso, un

oggetto visivo come lo chiama Roberto Casati; qualcosa che non esisterebbe se

l’osservatore cambiasse posizione57. Nel presentare un aspetto di un oggetto, ossia un

insieme di proprietà e parti materiali di un oggetto visto da qualcuno, l’immagine raffigura in quanto somiglia a tale aspetto58. Il problema con questa strategia non è solo

che essa nel mobilitare aspetti rischia di essere una teoria della somiglianza soggettiva camuffata, una teoria come quelle di cui parleremo nel V capitolo per cui la somiglianza rilevante è la somiglianza tra come si esperisce l’immagine e come si esperisce il suo soggetto59, quanto piuttosto che essa sembra ripresentarci un vecchio problema soltanto

un passo dopo: se somiglianza effettiva tra immagine e aspetto dev’esserci, questa dovrà essere a sua volta una somiglianza sotto un qualche rispetto; ma qual è il rispetto rilevante qui? Il problema è particolarmente pressante, visto che, come Casati rileva, data la natura mente-dipendente degli aspetti non ci possono essere aspetti di aspetti60.

Ma il teorico di una somiglianza oggettiva sofisticata tra l’immagine e il suo soggetto ha un modo più moderato di rispondere a quelle critiche, visto che può disporre in linea di principio di una via d’uscita corrispondente all’annacquamento della teoria platonica già vista in precedenza. Vale a dire, il teorico in questione può sostenere che l’immagine raffigura il soggetto che rappresenta nella misura in cui vi somiglia non in un singolo rispetto, ma nell’uno o l’altro di rispetti differenti. Hyman sembra andare proprio in questa direzione quando suggerisce, in conformità all’annacquamento platonico, che l’immagine può somigliare al suo soggetto o nella forma di occlusione o nel cosiddetto colore di apertura. Il colore di apertura è una proprietà di oggetti nuovamente dipendente dal loro osservatore, che in questo differisce dal cosiddetto

colore di superficie, una proprietà degli oggetti in verità non dipendente

dall’osservatore. Il colore di superficie è il pigmento che una superficie ha effettivamente. Tale colore resta insensibile alla variazione di luminosità dovuta al fatto che su tale superficie si depositino delle ombre; un muro bianco continua ad essere percepito nella sua bianchezza anche se viene in parte oscurato da ombre che gli cadono addosso. Il colore di apertura è invece il colore che viene attribuito a una superficie per il fatto di essere vista attraverso una piccola apertura, come può essere un tubo di cartone. A differenza del colore di superficie, il colore di apertura è sensibile alla variazione di luminosità, nel senso che una siffatta variazione induce differenti colori di apertura – un muro bianco ombreggiato, che ha lo stesso colore di superficie, visto attraverso un tubo di cartone risulterà avere differenti colori di apertura. Ora, dice Hyman, la somiglianza in colore di apertura tra l’immagine e il suo soggetto rende conto del fenomeno dell’ombreggiamento, assente nella pittura egizia pre-ellenista ma diffusissimo in tutta la pittura posteriore. L’ombreggiamento consiste nel riprodurre in forma pittorica proprio l’effetto di variazione di luminosità che si dà nella realtà in casi come quelli appena considerati del muro bianco. Ebbene, un quadro che presenti un ombreggiamento siffatto ovviamente differirà in colore di superficie rispetto alla realtà

(22)

che esso rappresenta: per riprodurre in forma pittorica quell’effetto di variazione, il quadro dovrà differire in pigmentazione dalla pigmentazione dell’oggetto rappresentato (provate a pensare con quali colori dipingereste un muro bianco su cui cada un’ombra). Ma non differirà in colore di apertura: il quadro e il suo soggetto condividono le stesse differenti pigmentazioni viste attraverso un’apertura61.

In realtà, come Newall ha mostrato, c’è un’infinità di casi in cui anche il colore di apertura di un’immagine differisce dal colore di apertura del suo soggetto. Nel suo esempio, il dipinto tutto rosso di una mela che potrebbe figurare come insegna di un negozio differisce in colore di apertura dal colore di apertura di una mela raffigurata da quel dipinto: il dipinto risulterà avere alla vista attraverso un tubo di cartone una differente colorazione rispetto a quello che la mela raffigurata risulterà avere alla stessa vista – il dipinto risulterà avere rosso puro anche come colore di apertura, la mela raffigurata risulterà avere differenti sfumature di rosso anche come suoi differenti colori di apertura.

Come lo stesso Newall rileva, Hyman replicherebbe a questo controesempio nel solito modo: dipinto e soggetto continuano a concordare rispetto al colore di apertura che il soggetto è rappresentato avere62. Naturalmente, questa risposta solleverebbe i

problemi già visti poc’anzi. Ma indipendentemente da questi problemi, c’è un problema più serio che si impone a tutti i teorici della somiglianza oggettiva che scelgano un annacquamento della teoria lungo queste stesse linee, ossia un annacquamento che proponga una nuova disgiunzione di rispetti di somiglianza. Secondo Lopes, proporre una disgiunzione di rispetti di somiglianza è in generale l’unica strada percorribile per il sostenitore di una teoria della somiglianza oggettiva. Troppi sono infatti i differenti stili pittorici che si sono succeduti nella storia dell’umanità per pensare ragionevolmente che ci sia un solo parametro secondo cui qualunque cosa sia un’immagine somiglia oggettivamente al suo soggetto. Anzi, una siffatta varietà per Lopes deve rappresentare un altro vincolo per un teorico della somiglianza oggettiva, quello che lui chiama il

vincolo della diversità dei parametri di somiglianza63. Il guaio è, aggiunge Lopes, che

non si può soddisfare il vincolo della diversità contemporaneamente all’altro vincolo che a suo dire il teorico della somiglianza oggettiva deve rispettare, il già visto vincolo dell’indipendenza per cui non bisogna fissare che cosa un’immagine rappresenta per stabilire a che cosa quell’immagine somiglia. Infatti, continua Lopes, se si soddisfa il primo vincolo, il secondo vincolo non può essere soddisfatto: bisogna infatti sapere qual è il soggetto di un’immagine per sapere sotto quale rispetto tale immagine somiglia al suo soggetto64.

Per Lopes, l’impossibilità di soddisfare simultaneamente i due vincoli è ciò che fa sì che le teorie della somiglianza oggettiva non siano oggi più praticabili, ma siano mere “curiosità storiche”65. Un giudizio molto duro, che sarebbe fondato se il teorico

della somiglianza oggettiva fosse costretto a seguire la via dell’annacquamento e quindi a soddisfare il vincolo della diversità66. Ma se si percorresse una strada alternativa a

questa strategia, se si riuscisse cioè a trovare un ulteriore parametro unitario di somiglianza, non ci sarebbe più ragione di pensare che il vincolo della somiglianza debba essere soddisfatto e dunque il problema appena presentato da Lopes non avrebbe più ragione di sussistere.

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Ora, è proprio vero che la ricerca del parametro unitario di somiglianza si avvita lungo un vicolo cieco? Recenti strategie teoriche sembrano mostrare che non è così. Già Gibson provò a sostenere che un’immagine deve presentare la stessa informazione che il suo soggetto possiede. Tale identità di informazione consiste in un’identità tra gli

invarianti degli assetti ottici che, nella mutevolezza di tali assetti, il soggetto

dell’immagine conserva e gli invarianti dell’assetto ottico che si trova per così dire congelato nell’immagine a causa della staticità di quest’ultima67. L’idea è certamente

vaga, ma cattura i casi che fanno da controesempi alla teoria platonica, in cui cioè non c’è somiglianza né di forma né di colore tra un’immagine e il suo soggetto, come le caricature. Tornando a un esempio già fatto in precedenza, una caricatura in bianco e nero di Carla Bruni, vista di profilo e rappresentata come avente un naso lungo, conterrà comunque una linea che si snoda dall’alto al basso presentando prima una piccola curva convessa cui segue una rientranza a sua volta seguita da una più larga curva sempre convessa; questa distribuzione di curve sulla linea dipinta informerà sull’analoga distribuzione che intercorre tra la fronte e il naso lungo il profilo di Carlà medesima68.

Lungo questa linea, una strategia praticabile va nella direzione di individuare

modelli gestaltici come ciò che l’immagine e il suo soggetto hanno in comune. Come

suggerisce Stephen Davies:

Il riconoscimento di forme o modelli gestaltici potrebbe comportare il prender nota di certe similarità. Anche se noi non riconosciamo lo schizzo stilizzato di un uomo come [l’immagine] di un uomo in virtù del prendere nota di somiglianze tra singole linee dello schizzo e singole parti di un corpo [umano], ciò nondimeno potremmo realizzare quel riconoscimento sulla base di una somiglianza percepita tra la generale disposizione delle varie linee e tratti e un’astrazione schematizzata della forma umana69.

Se una strategia del genere è percorribile, allora è ancora aperta la strada per una teoria che, sulla scia di Platone, difenda l’idea che una somiglianza oggettiva tra l’immagine e il suo oggetto articolata secondo un determinato parametro è condizione necessaria, seppur non sufficiente, per la raffigurazione.

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