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Immaginazione e raffigurazione

Nel documento Immagine (pagine 44-46)

Fingere di vedere qualcosa

1. Immaginazione e raffigurazione

Avevamo concluso il II capitolo dicendo che l’esperienza indiretta del soggetto di un’immagine, che per Wollheim costituisce il lato del ‘vedere in’ vero e proprio all’interno della duplice esperienza complessiva di vedere-in – il cosiddetto aspetto ricognitivo – nonostante le aspettative di Wollheim sul carattere genuinamente percettivo di tale esperienza duplice può limitarsi ad essere un’esperienza di immaginazione. Una conseguenza importante di questo risultato, considerato positivamente, è che l’immaginazione mentale viene a fondare la raffigurazione: è un’immagine mentale che spiega che cosa significa per un’immagine pubblica essere un’immagine. Questa è un’idea resa popolare da Immanuel Kant, il quale nella Critica

della ragion pura tratta l’arte di produrre rappresentazioni pittoriche (imaginatio plastica) come una delle tre forme in cui si articola la facoltà empirica

dell’immaginazione produttiva150. In generale, se prendiamo per buono ciò che egli

scrive al riguardo, le immagini sono per lui un precipitato di tale facoltà: “l’immagine è un prodotto della facoltà empirica, della immaginazione produttiva”151.

In questa chiave, la raffigurazione funge, possiamo dire, da mero appoggio esterno all’attività di immaginare. Nella tradizione fenomenologica, Jean-Paul Sartre ha sostenuto che non c’è soluzione di continuità tra il mero immaginare mentalmente un soggetto, averne un’immagine ipnagogica (sognando ad occhi aperti o immaginando all’interno di un vero e proprio sogno), avere un’immaginazione mentale di quel soggetto sulla base di qualche scarna traccia esteriore, come negli schizzi, e infine il vedere-in vero e proprio, in cui si fa di un oggetto esterno, attraverso quell’immaginazione mentale, una vera e propria raffigurazione di quel soggetto. Nell’ultimo caso, semplicemente, un oggetto esterno per così dire si attaglia all’intenzione significante di un dato soggetto contenuto nell’immaginazione, diventando così un’immagine pubblica di quello stesso soggetto con lo scopo di renderlo presente anche se è di fatto assente152. Così, l’immagine mentale possiede in sé

quel significato, è intimamente immagine mentale di un certo soggetto – come si direbbe oggi, ha intenzionalità originaria – e presta tale significato a un oggetto che di per sé non verterebbe su quel soggetto – sempre nella terminologia contemporanea standard, ha intenzionalità derivata153. L’oggetto a sua volta, una volta investito di

intenzionalità in questo modo, grazie alle sue caratteristiche riempie quella significazione, rende cioè pienamente visibile il soggetto di quella significazione, di fatto assente dalla scena percettiva dell’individuo che ne ha l’immagine mentale, in modo da rendere il soggetto presente come se fosse effettivamente di fronte all’individuo154.

In questa prospettiva le immagini mentali non sono l’internalizzazione delle immagini pubbliche, la traduzione in un foro interno di quella capacità di raffigurare che con le immagini pubbliche avviene all’esterno della mente, ma sono ciò che consente

alle immagini pubbliche di svolgere il loro potere tanto rappresentativo – l’avere una certa intenzionalità – quanto raffigurativo – l’avere una certa pittorialità. Prova ne sia che, a differenza di quelle pubbliche, le immagini mentali non possono essere ambigue. Le immagini pubbliche sono ambigue nella misura in cui possono essere interpretate ora in un modo ora in un altro, come la figura anatra-coniglio mostra paradigmaticamente: ora è vista come un’anatra, divenendo così immagine di anatra, ora è vista come coniglio, divenendo così immagine di coniglio. Ma le immagini mentali non possono essere ambigue nella misura in cui contengono in sé la propria interpretazione. Immaginare mentalmente è già immaginare un determinato contenuto; per questo è alquanto difficile, se non impossibile, attribuire a una propria immaginazione mentale una diversa interpretazione155.

Ma come fa il veicolo dell’immagine, l’immagine nella sua materialità, a rendere presente il soggetto assente dell’immagine? Nella tradizione fenomenologica, la risposta viene dalla teoria della raffigurazione di Edmund Husserl (1859-1938), che mette insieme percezione e immaginazione. Nell’essere direttamente percepito, il veicolo dell’immagine (Bildding) fa quello che un segno verbale dal medesimo significato non farebbe, ossia lascia apparire al suo interno un contenuto. Quest’ultimo è il contenuto dell’immagine mentale corrispondente che l’individuo percipiente potrebbe avere del tutto indipendentemente da quella percezione; è uno scenario al cui interno noi ci proiettiamo emotivamente. Husserl chiama questo contenuto “oggetto dell’immagine” (Bildobjekt). A sua volta, questo oggetto dell’immagine lascia trasparire ciò che Husserl chiama il soggetto dell’immagine e per l’appunto distingue dall’oggetto dell’immagine come suo contenuto. Nel senso di Husserl, il soggetto dell’immagine non è, come abbiamo finora sostenuto qui, in modo indifferenziato tanto il contenuto dell’immagine quanto ciò su cui (quando esiste) l’immagine verte; è solo quest’ultima cosa, come distinta appunto dall’oggetto dell’immagine156. Guardo un ritratto di Vittorio Emanuele

II; esso mi fa vedere, ossia per il suo tramite mi immagino, quello che mi potrei immaginare del tutto indipendentemente: un determinato oggetto dell’immagine, l’apparenza mentale iconica del re sabaudo. Quest’oggetto dell’immagine, a sua volta, mi fa così trasparire il re in persona, ciò su cui il ritratto verte, rendendolo così presente anche se è assente (in questo caso definitivamente, in quanto il re non c’è più). L’esistenza di questo complicato gioco di percezione e immaginazione è responsabile del carattere raffigurativo di un’immagine in quanto determina un’immagine qua immagine interpretata, immagine del suo contenuto. Quest’ultima è intesa da Husserl come una sorta di oggetto ideale: qualcosa di ibrido, un’entità-con-significato come si potrebbe anche dire157.

Rispetto alla teoria wollheimiana del vedere-in, la teoria di Husserl introduce una complicazione ulteriore attraverso la distinzione tra oggetto e soggetto dell’immagine. Questa distinzione non è infatti presente in Wollheim, in cui oggetto e soggetto dell’immagine collassano in quell’unica entità che è propriamente ‘vista in’ nell’aspetto ricognitivo del vedere-in in virtù di quanto succede nell’aspetto configurativo di tale esperienza, ossia in virtù del percepire direttamente il veicolo dell’immagine. Wollheim si limita a distinguere tra casi in cui l’entità ‘vista in’ è un’entità specifica e casi in cui essa semplicemente è un’entità di un certo tipo, come

nelle immagini generiche158. La distinzione husserliana tra oggetto e soggetto

dell’immagine pone invece ovviamente il problema della loro relazione; dire, come Husserl suggerisce, che il soggetto dell’immagine è visto nell’oggetto dell’immagine così come quest’ultimo è visto nel veicolo dell’immagine159 non è altro che un modo per

spostare il problema, visto che a differenza del veicolo dell’immagine l’oggetto dell’immagine nel senso di Husserl non è un’entità materiale in cui qualche altra cosa si può vedere, ossia non è qualcosa di afferrabile da un aspetto configurativo che viene poi accompagnato da un aspetto ricognitivo con cui quell’altra cosa potrebbe essere colta a sua volta.

Non è detto però che la teoria di Husserl debba addossarsi questa complicazione. Husserl rileva anche come la percezione di immagine sia una percezione come-se; nel percepire il veicolo dell’immagine non percepiamo altrettanto direttamente l’oggetto dell’immagine, ma è come se lo percepissimo, in quanto per mezzo dell’immaginazione che sviluppiamo in virtù di quella percezione del veicolo veniamo come trascinati nel mondo immaginario che l’immagine ci presenta160. Dunque alla percezione reale del

veicolo dell’immagine l’immaginazione fa corrispondere una percezione fittizia dell’oggetto dell’immagine, il quale è costituito a questo punto da uno stato di cose del mondo immaginario in cui tale percezione fittizia ci proietta. Ora, quello stato di cose può (non deve, ovviamente) ben avere ciò su cui l’immagine verte, il suo soggetto nel senso husserliano, come protagonista: l’immagine ci presenterà allora come il suo soggetto sarebbe in un mondo immaginario, non come esso è. Nel vedere il già ricordato quadro di David Il Primo Console supera le Alpi al Gran San Bernardo, faccio finta di vedere Napoleone che così passa le Alpi; su quella base percettiva mi immagino cioè un contenuto, uno stato di cose di un mondo immaginario che ha Napoleone per protagonista, indipendentemente dal fatto che le cose siano andate davvero così come il quadro le presenta. Di fatto, Napoleone, soggetto husserliano di quel quadro, ha davvero passato le Alpi al Gran San Bernardo; ma nulla cambierebbe quanto al contenuto del quadro che mi immagino se le cose non fossero andate così. Pensate a un quadro che presentasse una scena dal titolo Napoleone vince a Waterloo; tale stato di cose sussisterebbe solo nel mondo immaginario in cui la percezione fittizia dell’imperatore francese vincente ci proietta. Produrre immagini diventa allora un modo peculiare di far finta, come meglio articolato nella teoria di Kendall Walton che andiamo adesso a considerare161.

Nel documento Immagine (pagine 44-46)