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La versione ingenua della teoria illusionista

Nel documento Immagine (pagine 36-40)

Vedere qualcosa come qualcos’altro

1. La versione ingenua della teoria illusionista

Se si pensa che in un’immagine raffigurare significhi somigliare il più possibile a ciò che essa raffigura, si può altresì ben pensare che il fine del raffigurare consista nel produrre una copia in linea di principio indistinguibile da ciò che è raffigurato. Da quest’idea è molto breve il passo a pensare ulteriormente che la raffigurazione ideale è quella in cui la raffigurazione è tanto fedele al raffigurato da produrre un’illusione

cognitiva a tutto tondo. Chiamiamo così un’esperienza in cui si scambia, integralmente

ma erroneamente, la raffigurazione per il suo raffigurato, in cui cioè si prende a torto un’immagine per il suo soggetto, proprio come si può prendere a torto una corda per un serpente, per stare al famoso esempio di Carneade (214 a.C. – 129 a.C.). Ricordiamo qui Carneade non casualmente, visto che l’antichità è stata attraversata da questo mito della raffigurazione ideale, se possiamo dar credito al famoso aneddoto raccontato ancora una volta da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia. I pittori Zeusi e Parrasio si sfidano a chi fa il quadro più conforme al vero in modo da illudere di più lo spettatore di essere di fronte alla realtà piuttosto che di fronte al quadro che la raffigura; Parrasio vince la sfida perché, sebbene Zeusi avesse prodotto un quadro di grappoli d’uva così verosimile che addirittura degli uccelli avevano cercato di beccare i grappoli dipinti, Zeusi scambia il quadro di Parrasio per un drappo che copre il quadro stesso, tentando erroneamente di sollevare quello che altro non è che un drappo dipinto117.

La versione ingenua della teoria illusionista della raffigurazione sistematizza proprio le idee appena ricordate. Essa infatti dice che un’immagine I raffigura un soggetto S solo se suscita in un percipiente P un’esperienza illusoria posizionale di vedere I come S; vale a dire, un’esperienza falsa – I non è S – ma accompagnata dalla credenza che I sia S.

Si fa normalmente risalire questa versione della teoria a Platone, nella misura in cui nella Repubblica notoriamente Platone tratta le immagini come illusioni, o meglio, come apparenze delle stesse cose di cui sono copie: “il pittore fabbrica [non un letto, ma] … l’apparenza di un letto”118. È tradizione interpretare questa concezione

attribuendo a Platone una svalutazione delle immagini legata al loro basso valore ontologico, in quanto apparenze di oggetti che a loro volta altro non sono che apparenze della vera realtà ideale: il pittore che dipinge un letto produce un’apparenza di un letto il quale a sua volta, in qualità di entità sensibile, è apparenza del Letto ideale ossia dell’Idea di letto119.

Se questa tradizione interpretativa sia corretta, non è questione di cui possiamo occuparci qui120. Peraltro, ai nostri fini possiamo rilevare che se c’è in questi passi

platonici una svalutazione delle immagini: indipendentemente dalla questione della svalutazione ontologica, si tratta di una svalutazione cognitiva. Inoltre, tale svalutazione cognitiva è legata non tanto alla capacità delle immagini di ingannare, di far prendere una cosa per un’altra, quanto al loro raffigurare aspetti illusori delle cose. Qui Platone

ascrive infatti il carattere illusorio delle immagini non tanto al fatto che le immagini possono essere scambiate con i loro raffigurati, quanto al fatto che non danno una conoscenza affidabile dei loro soggetti: esse riproducono un’apparenza prospettica degli oggetti che è a sua volta illusoria, perché gli oggetti non posseggono davvero un’apparenza siffatta – un letto non è come ci appare di fianco o di fronte121. Ora, poiché

nella Repubblica Platone ci parla appunto delle immagini come copie dei loro raffigurati, tradizionalmente si è pensato che egli combini la teoria illusionista con una teoria della somiglianza oggettiva che egli stesso aveva difeso nel Cratilo (cfr. cap. I) – come abbiamo visto prima con l’aneddoto di Plinio, le due cose possono ben andare insieme. Tuttavia, quanto abbiamo appena rilevato sembra piuttosto mostrare che Platone combina la teoria illusionista con una versione della teoria della somiglianza soggettiva della raffigurazione (di cui parleremo nel prossimo capitolo): esperienzialmente, l’immagine ci appare così come ci appare il suo soggetto. Comunque stiano le cose al riguardo, l’idea delle immagini come apparenza dei loro raffigurati ha attraversato l’intero arco della riflessione sul problema dell’immagine: la ritroviamo, per esempio, anche nel Laocoonte di Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781)122.

In realtà, è piuttosto ovvio che nella versione ingenua la teoria illusionista non sia stata difesa pressoché da nessuno. Quasi tutte le immagini costituiscono dei controesempi all’idea che la versione ingenua della teoria illusionista possa fornire, come pretende, condizioni necessarie di raffigurazione. Prendiamo un caso che meglio dovrebbe attagliarsi a questa versione, come quello di un quadro realistico, per esempio una veduta di Canaletto del Canal Grande a Venezia. Ebbene, è ben difficile che, messo di fronte ad un quadro siffatto, un individuo possa scambiare il Canal Grande dipinto nel quadro per quello reale123.

Addirittura, si può sostenere che nessuna immagine si attagli alle condizioni che la versione ingenua propone come necessarie. Nel procedere in questo modo, la versione ingenua fa dei trompe-l’oeils il paradigma delle immagini, nella misura in cui un trompe-l’oeil che davvero funziona ci inganna effettivamente, facendosi erroneamente scambiare per il soggetto che raffigura. Pensate, per fare un esempio classico, ai palazzi la cui facciata presenta finte finestre (se non anche finte persone, come nel caso dell’immagine seguente) che almeno viste da lontano contano come finestre (persone) a tutto tondo.

Fig. 1 – Trompe-l’oeil

Ma non solo i trompe-l’oeils sono una componente minoritaria delle immagini; come abbiamo visto nel precedente capitolo, ci sono buone ragioni per pensare che i trompe-

l’oeils funzionino come immagini solo quando sono riconosciuti come tali e dunque non

producono più alcun inganno.

2. Le versioni sofisticate

Per rivalutare la teoria illusionista, bisogna riconsiderare la sua formulazione. Una prima sofisticazione della teoria, che è sovente attribuito a Ernst Gombrich (1909- 2001)124, recita: un’immagine I raffigura un soggetto S solo se in condizioni appropriate

susciterebbe in un percipiente P un’esperienza illusoria posizionale di vedere I come S. Questa riformulazione vuole esprimere l’idea che il processo di apprensione delle immagini riproduca processi cognitivi simili a quelli che presiedono la produzione di determinate esperienze illusorie.

Per quanto questa versione sofisticata della teoria sia attribuita generalmente a Gombrich125, in realtà proprio essa potrebbe meglio esprimere il pensiero di Platone,

quando nel Sofista scriveva che la pittura “è costruita quasi come un sogno provocato dall’uomo in chi è sveglio”126. Gombrich in effetti era più interessato a vedere come la

pittura sia un modo non tanto per mostrare come la realtà sia, quanto per comprendere il funzionamento del nostro apparato percettivo alla luce delle ipotesi interpretative che esso produce. Il pittore si sforza di innescare mediante strutture bidimensionali quei fenomeni visivi che sono all’opera nella nostra percezione di oggetti tridimensionali (si pensi per esempio a come si rendono in due dimensioni le ombreggiature). Da questo punto di vista, sosteneva Gombrich, si potrebbe vedere la storia della pittura come una storia di esperimenti fatti dai pittori per studiare come il nostro sistema percettivo funziona, indipendentemente dal fatto che esso colga come davvero stanno le cose. Si tratta, come diceva già un secolo prima di lui Hermann von Helmoltz (1821-1894), di realizzare in pittura quelle “traduzioni” da realtà tridimensionale a immagine bidimensionale che consentono al pittore di riprodurre in un quadro quell’impressione soggettiva che si avrebbe se ci si confrontasse direttamente con la realtà riprodotta nell’immagine127. Così Gombrich:

Tutte le scoperte artistiche sono scoperte non di forme di verosimiglianza ma di forma di equivalenza, che ci permettono di vedere la realtà nei termini di un’immagine e un’immagine nei termini della realtà. Questa equivalenza non riposa mai sulla verosimiglianza degli elementi, quanto invece sull’identità delle nostre risposte a certi rapporti128.

La storia dell’arte […] può essere descritta come il lavoro di apprestamento delle chiavi necessarie per aprire le misteriose serrature dei nostri sensi129.

Questo raffinamento della teoria elimina i controesempi macroscopici della versione ingenua ma continua a postulare che ci siano almeno condizioni appropriate in cui, nel

percepire un’immagine, un soggetto svilupperebbe la credenza sbagliata di stare di fronte al soggetto dell’immagine piuttosto che all’immagine stessa. Tuttavia, è dubbio che vi siano condizioni del genere. In quali condizioni un quadro impressionista genererebbe in un individuo la credenza erronea di stare di fronte al suo soggetto?130

Secondo alcuni, non serve neanche trasformare le suddette condizioni appropriate in condizioni ideali, in condizioni che dovrebbero valere almeno per immagini paradigmatiche o super-immagini, cui tutte le altre immagini dovrebbero più o meno avvicinarsi131. È indeterminato infatti sotto quali modi le immagini ordinarie dovrebbero

assomigliare alle super-immagini per poter valere come immagini132. Prendiamo ad

esempio il caso delle fotografie in bianco e nero. In quanto prive di colore, esse certo sono molto lontane da immagini che idealmente ingannerebbero lo spettatore. Il che non varrebbe però se le considerassimo, proprio come ogni altra fotografia, come immagini realistiche: esse potrebbero allora rapirci esattamente come se fossero i soggetti che rappresentano.

Se dobbiamo indebolire adeguatamente la teoria, dobbiamo allora pensare che l’esperienza illusoria richiesta da un’immagine per essere tale non comporti alcuna corrispondente credenza illusoria. Abbiamo in realtà un modello di situazioni esperienziali del genere. Si pensi ai casi classici di illusioni ottiche che non sono più illusioni cognitive a tutto tondo, casi cioè in cui ci confrontiamo con qualcosa che vediamo come F pur ben sapendo che non è F, e quindi non avendo alcuna credenza che sia F. Nel precedente capitolo abbiamo presentato il caso dell’illusione di Müller-Lyer in cui, sebbene ben sappiamo che i segmenti di fronte a noi hanno la stessa lunghezza, non possiamo fare a meno di vederli come aventi lunghezza differente. Ora, si può ben dire che è proprio un’esperienza percettiva del genere quella che è in gioco nella più parte dei casi di percezione di immagine, ossia un’esperienza illusoria riconosciuta

come tale. Così facendo, possiamo ulteriormente indebolire la teoria illusionista

arrivando ad una sua variante iper-sofisticata secondo cui un’immagine I raffigura un soggetto S solo se suscita in un percipiente P un’esperienza non-veridica di vedere I come S, dove quest’esperienza non-veridica è un’esperienza illusoria che non deve essere accompagnata dall’erronea credenza che I è S; si tratterà allora di un vedere I come S sapendo che non è così133.

Anche questa versione iper-sofisticata della teoria illusionista è talora attribuita a Gombrich134. In effetti, Gombrich rileva spesso come l’esperienza pittorica sia

un’esperienza di vedere-come in cui si fa ricadere sotto un concetto, quale uno schema interpretativo dell’esperienza, il veicolo dell’immagine, ossia l’immagine come particolare oggetto materiale, che in realtà ovviamente non ricade sotto quel concetto135.

In questo senso la nostra esperienza è illusoria, anche se non ingannevole, perché dall’esterno dell’esperienza, ben si sa che il veicolo dell’immagine non ricade sotto quel concetto. Il punto è che non possiamo fare a meno di vedere, per esempio, (la parte rilevante de) La Gioconda come una donna, pur ben sapendo che non è così.

Nel capitolo precedente, abbiamo visto che un’esperienza non-veridica siffatta è un modo con cui si può intendere l’aspetto proprio del ‘vedere in’ che secondo Richard Wollheim è uno dei due lati costitutivi dell’esperienza qualificante una raffigurazione: l’esperienza intera di vedere-in, quello che Wollheim chiama l’aspetto riconoscitivo.

Come abbiamo visto, l’esperienza intera di vedere-in è per Wollheim un’esperienza duplice in cui, in virtù del fatto che si vede direttamente l’immagine nella sua materialità, nel veicolo dell’immagine, si esperisce indirettamente il soggetto di tale immagine. La posizione di Wollheim può quindi essere interpretata nella prospettiva dell’indebolimento della teoria illusionista: vedere un soggetto in un’immagine è l’esperienza che costituisce la pittorialità della rappresentazione pittorica se tale esperienza è identificata con quella per cui, vedendo il veicolo della rappresentazione, lo si vede insieme come il soggetto dell’immagine. Un seguace di Wollheim dunque potrebbe non avere obiezioni a questo indebolimento della teoria illusionista, una volta che tale indebolimento sia incorporato all’interno della teoria del vedere-in136. Ma si può

produrre una siffatta incorporazione?

Nel documento Immagine (pagine 36-40)