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La questione del riconoscimento

Nel documento Immagine (pagine 68-70)

Riconoscere in immagine

1. La questione del riconoscimento

Il precedente capitolo si è concluso rilevando che devono esserci vincoli nel sistema percettivo per determinare in che modo qualcosa possa essere visto come simile sotto un determinato rispetto al suo soggetto e quindi valere come immagine di quel soggetto. Il punto potrebbe essere riformulato così: dobbiamo al nostro sistema percettivo, se non al sistema cognitivo più in generale, la capacità di identificare e riconoscere un oggetto, di distinguerlo dall’ambiente in cui si presenta e reidentificarlo come la stessa cosa; se qualcosa vale come un’immagine di un oggetto, ciò è dovuto al fatto che per suo mezzo si può compiere quello stesso tipo di identificazione e riconoscimento dell’oggetto che si realizzerebbe nel percepire l’oggetto direttamente. In questa idea sta il nucleo delle cosiddette teorie riconoscitive della raffigurazione.

Partiamo dal fatto, facilmente riscontrabile, che in vari compiti cognitivi noi usiamo immagini di oggetti come se fossero gli oggetti stessi. Per esempio, consideriamo i compiti della cosiddetta competenza referenziale relativa al nostro uso di espressioni linguistiche, la competenza consistente nel fatto che sappiamo a quali oggetti associare una certa espressione, sia nel senso che sappiamo rintracciare oggetti a partire dall’espressione (la capacità di applicazione) sia nel senso che, in direzione contraria, sappiamo usare l’espressione in presenza di quegli stessi oggetti (la capacità di denominazione)215. Ebbene, in tali casi è indifferente che nell’esibire tale competenza

noi mobilitiamo gli oggetti stessi o le loro immagini: se ci chiedono per esempio di mostrare una cosa denominata da un nome comune come “delfino” (“mi mostri un delfino?”), il compito è riuscito sia che indichiamo l’oggetto denotato dal nome, sia che indichiamo una sua immagine; analogamente, se usiamo il nome corretto (“un delfino!”), rispondiamo adeguatamente alla domanda su cos’è un determinato oggetto, sia se ci troviamo in presenza dell’oggetto in questione sia se ci troviamo in presenza di una sua immagine.

Ora, la domanda è: in queste pratiche coinvolgenti l’immagine pubblica di qualcosa, mediante le quali identifichiamo e riconosciamo quel qualcosa in rapporto ad un determinato nome – in particolare (ma non solo) nel caso in cui questo termine sia un nome comune, in cui identifichiamo quel qualcosa come un oggetto ricadente sotto un determinato concetto (come un delfino) – come mai possiamo trattare una tale immagine pubblica come se fosse l’oggetto da essa raffigurato? Una risposta semplice sarebbe: perché in queste pratiche ci facciamo un’immagine mentale dell’oggetto in questione, di cui l’immagine pubblica che usiamo nei nostri compiti di identificazione è una mera esternalizzazione; tracciamo su carta o altro quel che esperiamo dentro di noi216. È l’immagine mentale, dunque, a guidarci nell’applicazione di un’espressione a

qualcosa o nella denotazione di tale qualcosa con quell’espressione. Questa risposta, naturalmente, non sposta il problema che un passo più in là. L’immagine mentale non è a sua volta che una cosa tra le tante, semplicemente collocata non nel mondo esterno ma

all’interno della mente di un individuo: come può guidarci in tali usi di un’espressione? Come oggetto singolo, essa non può determinare le condizioni d’uso di un’espressione.

Il problema è particolarmente evidente fin dai tempi di George Berkeley (1685- 1753), quando, come nell’esempio precedente, il nome che dobbiamo usare nei compiti di individuazione è un nome comune: che cos’ha a che fare la particolare immagine mentale di un delfino con l’identificazione di delfini in generale? Quell’immagine, rileva Berkeley, sarà sempre l’immagine mentale di un delfino specifico: “qualunque sia la mano o l’occhio che immagino, deve avere una forma e un colore determinato. Del pari, l’idea di uomo che compongo, deve essere idea d’un uomo bianco o nero ovvero brunastro, diritto ovvero storto, alto o basso ovvero di statura mezzana”217. Ma le cose

non migliorerebbero se si avesse a che fare con l’identificazione di un oggetto particolare: nel suo essere semplicemente un altro oggetto particolare tra i tanti, nulla nell’immagine mentale permetterebbe di concludere che è l’immagine di quell’oggetto. Come notoriamente osservò Ludwig Wittgenstein (1889-1951): “che cosa fa della mia rappresentazione [Vorstellung] di lui una rappresentazione di lui? Non la somiglianza dell’immagine”218.

Qui entra in gioco Kant, che può essere considerato in qualche modo l’antecedente naturale delle teorie riconoscitive di cui stiamo parlando. La risposta che troviamo nella Critica della ragion pura kantiana al problema suddetto è che nella mente vi sono degli schemi che fungono da regole generali per la costruzione di immagini mentali. Per mezzo degli schemi è possibile applicare un concetto empirico – nella fattispecie, il concetto di delfino – non solo a ogni oggetto denotato dal nome rilevante – “delfino” – che cada dunque sotto quel concetto, ma anche a ogni sua immagine pubblica che ne faccia le veci ai nostri scopi. Così dunque possiamo identificare e riconoscere le cose come oggetti che cadono sotto un determinato concetto sia che abbiamo a disposizione gli oggetti stessi sia che abbiamo a disposizione solo le loro immagini pubbliche, perché in entrambi i casi è all’opera la stessa procedura di riconoscimento, che consiste appunto nell’applicazione dello schema:

Il concetto del cane designa una regola, secondo la quale la mia immaginazione può descrivere la figura di un quadrupede in generale senza limitarla ad una forma particolare che mi offra l’esperienza, o a ciascuna immagine possibile che io possa in concreto rappresentarmi219.

Non è detto che questa sia una buona risposta al problema in questione220, ma essa sta

alla base degli sviluppi contemporanei delle teorie del riconoscimento. Infatti, tali teorie sostengono che la soluzione kantiana possa essere utile anche attualmente per risolvere il problema della raffigurazione, purché se ne dia una versione aggiornata alla luce degli sviluppi delle scienze cognitive. Secondo queste teorie infatti, è nella mente, o nel nostro cervello, che bisogna trovare la risposta al perché le immagini di oggetti valgono come quegli oggetti stessi nelle nostre procedure di riconoscimento. Con una aggiunta: è in questo loro valere come quegli oggetti in tali procedure che si esplica il loro valore figurativo, la loro pittorialità.

Nel documento Immagine (pagine 68-70)