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Le immagini hanno un contenuto peculiare?

Nel documento Immagine (pagine 85-88)

L’immagine come tipo particolare di segno 1 La teoria raffigurativa del linguaggio

2. Le immagini hanno un contenuto peculiare?

Com’è noto, nella cosiddetta seconda fase della sua filosofia, a partire dalla fine degli anni venti del secolo scorso, Wittgenstein rinuncerà alla teoria raffigurativa del linguaggio, a favore di una concezione della significazione improntata all’idea del significato come uso, in forme svariate, delle espressioni264. Ma a proposito delle

immagini un’idea dei tempi del Tractatus sicuramente resterà anche nella matura filosofia wittgensteiniana, ossia che, sia che si tratti di un’immagine pubblica sia che si tratti di un’immagine mentale, tra elementi dell’immagine e elementi di quella porzione di realtà che una tale immagine raffigura sussista un rapporto convenzionale, determinato dall’uso degli elementi iconici come segnaposto degli elementi reali:

che cosa fa della mia rappresentazione [Vorstellung] di lui una rappresentazione di lui? Non la somiglianza dell’immagine265.

Come faccio a sapere che quest’immagine è la mia rappresentazione del Sole? La chiamo una rappresentazione del Sole. L’impiego come immagine del Sole266.

Un’idea, questa, che si affermerà come un caposaldo della teoria della raffigurazione dopo Wittgenstein: non è la somiglianza a fare di un’immagine un’immagine di qualcosa, ma il modo in cui viene usata per fare le veci di, per stare per, un tale qualcosa. Almeno da questo punto di vista, rappresentazioni iconiche e rappresentazioni linguistiche sono esattamente alla pari. Come magistralmente sostenuto da Hilary Putnam un bel po’ di anni dopo la scomparsa di Wittgenstein: se una formica dovesse tracciare nel suo percorso sulla sabbia una configurazione che assomiglia moltissimo al profilo di Winston Churchill, purtuttavia, non essendoci alcun uso siffatto di quella configurazione, essa non sarebbe affatto un’immagine di Churchill267.

Anche per chi accetta la soluzione del secondo Wittgenstein al problema di che cosa faccia sì che un’immagine verta su qualcosa, una volta incrinato il quadro della teoria raffigurativa del Tractatus, nella teoria della raffigurazione si ripropone però, come abbiamo abbondantemente visto in questo lavoro, la questione di che cosa renda le immagini diverse dalle rappresentazioni verbali, dunque la questione della loro pittorialità. Nella riflessione contemporanea al riguardo, alcuni autori che si collocano al di fuori del paradigma percettivista sono stati tentati dal dire che l’elemento decisivo che fa di un’immagine una rappresentazione pittorica è in realtà l’intenzionalità stessa dell’immagine, una volta che siffatta intenzionalità sia presa nel suo complesso, ossia come costituita non solo dal vertere dell’immagine su qualcosa, ma anche dal suo avere un contenuto che rende l’immagine semanticamente valutabile: corretta o scorretta, vera o falsa. L’idea sarebbe infatti quella di dire che ciò che fa di un’immagine un’immagine è il suo specifico tipo di contenuto; anche se il fatto generale di avere un contenuto non distingue tra le immagini e le rappresentazioni verbali, ma semplicemente rende tutte queste rappresentazioni semanticamente valutabili, il tipo di contenuto delle immagini è diverso dal tipo di contenuto proprio delle rappresentazioni verbali.

Così secondo Jerry Fodor, a differenza di una rappresentazione verbale, il contenuto di un’immagine è prima di tutto non concettuale: un’immagine ascrive sì, correttamente o scorrettamente, proprietà a elementi del mondo, ma questi elementi non sono concepiti come ricadenti sotto determinati concetti. Ad esempio, mentre un enunciato come:

(2) Questa lettera è marroncino chiaro

è fatalmente costretto a far ricadere la lettera di cui parla sotto un concetto, nella fattispecie il concetto di marroncino chiaro, il già ricordato dipinto di Vermeer La

lettera d’amore raffigura una lettera sotto una sfumatura di marrone a griglia così fine

che può ben mancare di essere concettualizzata. Ancora, sebbene il contenuto iconico abbia dei costituenti, la relazione tra esso e i costituenti (come, si ricorderà dal capitolo

precedente, aveva già notato Schier) non è la relazione di composizionalità che deve sussistere tra un enunciato linguistico e i suoi costituenti: il significato dell’immagine non è determinato dal significato di tali costituenti (posta una certa struttura sintattica). Questa differente relazione viene mostrata dal fatto che non si possono compiere sul contenuto dell’immagine quelle operazioni logiche che il contenuto di un enunciato linguistico consente.

Prendiamo prima di tutto le operazioni di quantificazione. Torniamo all’enunciato (1), relativo al rapporto spaziale tra Clinton, Arafat e Rabin. Da (1) possiamo legittimamente inferire:

(3) Ci sono tre individui x, y, z tali che x sta tra y e z.

Ma, dice Fodor, nonostante le apparenze nessun’operazione del genere è legittimata da un’immagine, per esempio dalla foto di Arafat, Clinton e Rabin. Una tale operazione presupporrebbe che sia fissato una volta per tutte quali sono i costituenti di un’immagine. Ma una stessa immagine può esprimere una pluralità di contenuti ed essere per così dire segmentata in molti modi diversi, a seconda di quali elementi vi si vogliono rintracciare268. Inoltre, mentre un enunciato si può negare e ottenere così un

nuovo enunciato che è la negazione del precedente, le immagini non possono essere negate iconicamente. Se per ipotesi tracciassimo una linea rossa in diagonale sulla foto di Arafat, Clinton e Rabin, l’interpretazione iconica di quest’aggiunta non sarebbe che Clinton non sta tra Arafat e Rabin quanto piuttosto che i tre personaggi politici sono parzialmente occlusi da una barra rossa269.

Ad altri è parso però che una siffatta caratterizzazione del contenuto dell’immagine non basti a catturare la pittorialità dell’immagine. Anche molti pensieri – sostengono vari filosofi a partire da Gareth Evans – hanno un contenuto non concettuale270; inoltre, si è ribattuto, il fatto che non si possano compiere sulle immagini

certe operazioni logiche non basta a mostrare che esse abbiano una natura non linguistica271.

In favore di una soluzione ‘contenutista’ al problema della pittorialità, John Haugeland ha tentato di approfondire il punto della differenza logica tra enunciati e immagini. Secondo Haugeland, tutti i tipi di rappresentazione condividono una distinzione tra contenuto essenziale (bare bones content) e contenuto arricchito (fleshed

out content). Nel caso di una rappresentazione verbale, la distinzione allude alla

differenza tra ciò che un enunciato a rigore dice e ciò che un suo fruitore competente effettivamente comprende nel leggerlo o udirlo, implicando tutto ciò che, dato un certo contesto sociale, tale fruitore inferisce per mezzo di quell’enunciato; se per esempio in un resoconto di un fatto criminoso un fruitore competente del linguaggio legge che tutti i cassetti di una stanza sono stati aperti, capirà che la stanza in questione è stanza buttata all’aria. Nel caso di una rappresentazione pittorica, invece, la distinzione allude alla differenza tra ciò che tale rappresentazione rappresenta direttamente – in ultimo, nulla più che variazioni di luce incidente rispetto alla direzione, dice Haugeland – e ciò che essa effettivamente rappresenta per un interlocutore competente272. Tornando al quadro

mano una lettera, ma questo non è ciò che esso rappresenta direttamente (un fruitore di cultura diversa dalla nostra non comprenderebbe che il quadro ‘parla’ di musiciste, serve, e lettere). Ma allora, come l’esempio fa capire, ciò che per Haugeland distingue una rappresentazione verbale da una pittorica è il tipo diverso di contenuto essenziale. Una rappresentazione verbale è in ultimo composta da elementi assoluti, nomi propri e predicati che si comportano come nomi nello stare rispettivamente per oggetti e proprietà. Ciascuno di questi elementi è assoluto perché è logicamente indipendente da ogni altro: un nome proprio significa quel che significa indipendentemente da ogni altro nome proprio. Un’immagine è invece composta da elementi relativi, non logicamente indipendenti, in quanto essi indicano “variazioni di valori in certe dimensioni rispetto a posizioni in altre dimensioni”273; nel caso più semplice, quello di una fotografia in

bianco e nero, abbiamo variazioni di valori nel gradiente di luminosità rispetto a quello che possiamo considerare come un unico pattern monocromatico. In ultimo, quindi, ciascuna immagine è l’immagine che è in virtù della particolare assegnazione di valori in una dimensione (poniamo, la dimensione cromatica), nella misura in cui quell’assegnazione può essere compresa solo in riferimento a ogni altra determinabile assegnazione di valori in un’altra, o in quella stessa, dimensione274.

Difficile però che questo approfondimento porti il risultato voluto. Se torniamo a Wittgenstein, è ben noto che una delle ragioni che portò il filosofo austriaco a rinunciare alla teoria raffigurativa del linguaggio del Tractatus fu proprio la scoperta che non esistono proposizioni elementari, da lui concepite nel Tractatus come logicamente indipendenti l’una dalle altre nel senso che una proposizione elementare può essere vera del tutto indipendentemente dai valori di verità di ogni altra proposizione siffatta275. Se

prendiamo infatti un candidato apparentemente ideale, per la sua semplicità, al ruolo di proposizione elementare, l’enunciato in cui si predica il colore di una certa macchia data nell’esperienza – in cui per esempio si dice della macchia A che è rossa – ebbene, tale enunciato ha senso solo nella misura in cui esso implica la negazione di altri enunciati, nella fattispecie quello che dice per esempio che A non è verde. Altrimenti detto, dati i due enunciati:

(4) A è rosso (5) A è verde

se il primo è vero il secondo è falso, dunque i loro valori di verità non sono indipendenti276. Ma se così stanno le cose non solo le immagini, ma anche il linguaggio

è in ultimo composto di elementi relativi e non assoluti, per metterla nei termini di Haugeland.

In conclusione, se si vuole trovare l’elemento di distinzione tra linguaggio e immagini senza far riferimento a elementi percettivi ma alle differenti proprietà di questi mezzi rappresentazionali, non si deve andare nella direzione di un loro differente contenuto quanto piuttosto di una loro differente forma, o struttura segnica. Questo è stato l’obiettivo lucidamente perseguito da Nelson Goodman.

Nel documento Immagine (pagine 85-88)