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Per un quadro del conflitto sociale in Lucchesia.Il caso della Cucirini Cantoni Coats da un primo studio del fondo archivistico della Federazione lucchese del PCI, custodito presso l'Istituto storico della Resistenza e dell'Eta Contemporanea di Lucca.

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Per un quadro del conflitto sociale in Lucchesia

Il caso della Cucirini Cantoni Coats da un primo studio del fondo della Federazione

lucchese del PCI, custodito presso l'Istituto storico della Resistenza e dell'Età

Contemporanea di Lucca

Relatori Candidato

Prof. Luca Baldissara Federico Creatini

Dott. Gianluca Fulvetti

(2)
(3)

III

Indice

p. VIII

La cornice. Problematizzare il quadro: il conflitto sociale come processo di rottura

p. 3

Il particolare. “Una lotta di tutti”: il singolare caso della Cucirini Cantoni Coats

PARTE I

“La riscossa operaia arriva in Lucchesia: dalle prime lotte sociali al “bellissimo”

1963 della Cucirini Cantoni Coats

Capitolo I. La nascita della grande fabbrica: i primi anni della Cucirini

Cantoni tra paternalismo e dissensi

p. 8 I.I - Perché Lucca?

p. 10 I.II - I primi, embrionali, contrasti in fabbrica

p. 12 I.III - Operai e organizzazione: un primo bilancio

p. 16 I.IV - L’arrivo di James Henderson i nuovi scioperi del 1919

p. 23 I.V - Tra sovversivi e inattaccabili

p. 25 I.VI - Cresta, il “filobolscevico”

p. 28 I.VII - Il ventennio fascista alla Cantoni

Capitolo II. Il lungo e difficile dopoguerra: dalla ricostruzione alle lotte negli

anni Cinquanta

p. 34 II.I - Nelle maglie della politica

(4)

IV

p. 39 II.III - Focalizzazione partitica: una sinistra invertebrata?

p. 45 II.IV - Verso gli ambigui anni Cinquanta: dentro la fabbrica

p. 48 II.V - Tra rivendicazione e repressione

p. 62 II.VI - Il “prezzo” da pagare

p. 65 II.VII - Rotta sui Sessanta

p. 66 II.VIII - Oltre l’ovvietà della tradizione: un problema di radicamento

Capitolo III. Dopo l’illusione del miracolo: “la lunga lotta dei tremila della

Cucirini” nell’indimenticabile 1963

p. 72 III.I - Il 1963 della Cantoni: ricostruirne il turbolento retroterra

p. 84 III.II - Il 1963 della Cantoni: una cronaca

p. 121 III.III - Il 1963 della Cantoni: un’interpretazione storica

PARTE II

“Il padrone ha ceduto, ma non troppo”: l’intenso ’69 della Cucirini Cantoni Coats

Capitolo IV. Un risveglio difficile: l’ingresso negli anni di transizione

p. 146 IV.I - Una panoramica d’insieme

p. 149 IV.II - Tra discordie e concordie: una lotta su due piani

Capitolo V. Condizioni di lavoro, contrasti e rappresentanze nel microcosmo

della Cantoni: il fil rouge tra il 1963 e il 1969

p. 156 V.I - “La Direzione ti fa rimettere la salute, ma almeno ti pagasse bene!”

p. 167 V.II - Dal sindacato per i lavoratori al sindacato dei lavoratori: un primo passo

p. 174 V.III - La parola “unità” torna protagonista

(5)

V

Capitolo VI. “Lucca: vincono gli operai perché sono uniti e forti”:

il ’69 della Cantoni

p. 179 VI.I - L’anticamera della vertenza: rivendicazioni

p. 183 VI.II - La metodologia del sindacato: “lotta di fabbrica, lotta di tutti”

p. 198 VI.III - L’aspetto politico della vertenza: tra partiti ed enti locali

p. 214 VI.IV - “La lotta è l’unica democrazia degli sfruttati”: la vittoria

p. 226 VI.V - Il retaggio di una frattura

p. 237 VI.VI - La lotta della Cantoni nel ’68 lucchese

PARTE III

Tra “conflittualità permanente”, partecipazione e “riflusso”: uno sguardo agli

anni Settanta della Cantoni

Capitolo VII. “Ce ne sono state ed altre ne verranno”: radicalizzare la lotta nel

consolidamento della democrazia (1969-1972)

p. 256 VII.I - Il secondo ’69 della Cantoni

p. 259 VII.II - Mettere a tacere il consenso

p. 266 VII.III - “Combattere per, combattere contro”: lotte e conquiste negli anni della conflittualità permanente

p. 284 VII.IV - Nuovi protagonisti, nuove modalità: per una fabbrica moderna e democratica

p. 297 VII.V - Politica dentro, politica fuori: “sfruttare la lotta, radicare il consenso”

p. 311 VII.VI - L’onda lunga del sessantotto bagna anche la Cantoni

Capitolo VIII. “Materiali per un’analisi di fabbrica”: sindacato, politiche

sociali ed enti locali tra crisi e territorio

p. 327 VIII.I - Dentro la fabbrica: quantificare una crisi

p. 338 VIII.II - “L’isola” e il territorio: dalla fabbrica alla società

p. 346 VIII.III - “Guardammo avanti, non capimmo il presente”. Tra piattaforme unitarie e limiti del sindacato

p. 353 VIII.IV - Una società in movimento e la nascita di una sezione: la crescita del PCI e la Cantoni

(6)

VI

p. 366 VIII.V - Attese disattese: “quei giorni di marzo, in sala mensa…”

p. 382

La tela. Tirare le somme

p. 406

Nota archivistica. Il fondo della Federazione provinciale di Lucca del

Partito comunista italiano (1969-1989)

(7)

VII

Ad Emanuele, affinché il suo futuro possa brillare per come merita

Giovani giovani corsari

per voi rapisco e arrangio come addizionali ali d’inchiostro queste lettere di corsa

Perché vi facciano tremare barcollare guaire sciogliere baciare

rompere ribellare liberare incedere

Perché il caos vi inondi e vi esondi da dentro

Perché esplodiate in mille pezzi inafferrabili forse cenere

e non capiate mai cosa significhi finire Siate giovani e violenti

almeno per sempre con l’ingenuità minima per fare tutto sul serio e non dare spiegazioni Riscrivete vivete amate questi tentativi di suicidio in anticipo

o ritardo non so

prima che i vostri capelli sfioriscano Tutto ciò che ho

astri e disastri

sulla corda tesa tra la pelle e il mare della memoria trafiggono l’istante invisibili Tutto questo per amore io corsaro

(8)

VIII

La cornice

Problematizzare il quadro: il conflitto sociale come processo di rottura

“Uno per uno vengono al pettine i nodi dell’economia lucchese”, si legge su “l’Unità” del 13 settembre 1980. A scrivere, Renzo Sabbatini: chi risponde alle sue domande è invece Enrico Cecchetti, responsabile economico della Federazione provinciale del PCI. “Aspetti nuovi e preoccupanti sembrano caratterizzare la crisi economica che colpisce la Lucchesia –annota il giornalista: a vecchi nodi mai risolti si aggiungono oggi prospettive buie per settori produttivi che hanno guidato lo sviluppo locale, retto i livelli di occupazione e che si sperava fossero destinati a navigare sopra la crisi. A differenza di quanto è successo anche in un recente passato, la nuova fase recessiva che vive l’economia nazionale non appare destinata ad attenuarsi a livello locale, ma invece a colpire in profondità l’apparato industriale di Lucca”1

.

“Come possono incidere – chiede allora al suo interlocutore – il movimento operaio lucchese e il nostro partito per far pesare le loro proposte sulle scelte per uscire in positivo da questa crisi, per molti aspetti nuova, della struttura produttiva Lucchese?”. La risposta che Cecchetti fornisce ci appare quantomai significativa: “In questi anni, il movimento operaio e sindacale lucchese ha dimostrato impegno e sensibilità crescente su questi problemi, e oggi, di fronte alla crisi, questo patrimonio è certamente una leva decisiva. C’è bisogno di accrescere la partecipazione, la capacità di analisi, di proposta e di lotta dei lavoratori su questi temi. Come partito sentiamo con forza l’esigenza di superare limiti di partecipazione registrati anche recentemente; lavoreremo per estendere la presenza delle organizzazioni dei lavoratori comunisti nelle fabbriche, cercando sempre il confronto per l’unità con i lavoratori di altri orientamenti politici e con il sindacato unitario” 2.

Lotta per l’occupazione, prospettive di rappresentanza, ruolo degli Enti locali, impegno dei sindacati; in questo scorcio di intervista sono presenti molti dei caratteri di un’epoca che implicitamente, oramai, sente di essere arrivata al termine. “Di fronte agli elementi nuovi della crisi – ribadisce Sabbatini – le <<vecchie>> soluzioni non bastano”: e già nella contrapposizione tra “vecchio” e “nuovo” si colloca una frattura, una prospettiva di incertezza, perché, a quel problema della novità, pur figlio di un continuismo, non sembra esserci soluzione. È la resa dei tempi: emerge la prospettiva di forme di lotta diametralmente opposte a quelle conosciute sino a quel momento, non più in antagonismo ad un sistema, ma costrette a lottare dentro di esso; distanti, insomma, dal rivendicazionismo partecipativo, intente, ora, a gestire quei nuovi processi di svolta macroeconomica che con il locale -tra ridimensionamento del ruolo municipale e frattura parziale del collettivismo classista- sembrano avere sempre meno a che fare.

1

Cfr. “l’Unità”, 13/11/1980, Uno per uno vengono al pettine i nodi dell’economia lucchese, di Renzo Sabbatini.

2

(9)

IX

Dove nella ricerca storiografica si individua un punto di svolta (databile, per la crisi degli anni Settanta, col 1974), tuttavia, non si può evitare di volgere lo sguardo al processo che vi ha condotto: e un simile osservatorio, talvolta, sembra necessitare proprio di una dimensione ristretta –appunto, locale- per riacquisire quella capacità dinamica e particolaristica così significativa nel tracciare un quadro quanto più approfondito del percorso nazionale, capace al contempo di risentire dei mutamenti del sistema mondo.

Si staglia dunque un “bucolico” detto virgiliano, quello del “sic parvis, componere magna solebam” (“andare comparando il piccolo col grande”), assunto in questo lavoro come punto di partenza per studiare localmente (e non solo) le dinamiche di trasformazione intercorse nella società tra anni Sessanta ed anni Settanta, ponendo al centro dell’indagine il ruolo del conflitto sociale nella sua accezione di “mezzo per l’estensione della rappresentanza”. Tutto ciò senza fuggire da uno sguardo retrospettivo e proiettivo della vicenda in una dimensione consequenziale e continuista, toccando con mano le storture introdotte dal boom negli anni Cinquanta e l’incapacità delle istituzioni nel fornire risposte adeguate (attraverso un programma riformista a livello nazionale e di un piano economico a livello provinciale) alle sempre più pressanti richieste dal basso: anche in quest’ottica, lo studio della modernizzazione “senza sviluppo” e dei processi di trasformazione all’interno di una così singolare zona bianca può quindi divenire un importante strumento di analisi, sia operativa (cercando di intuire il ruolo che le forze al potere, quindi la DC, ebbero nel plasmare una democrazia per certi versi “distorta”)3 che comparativa (indagando sulle modalità di estensione democratica che, in zone a maggioranza rossa, altre forze politiche sposarono).

Come anticipato, ad ogni modo, l’aspetto politico/istituzionale non rappresenta il nucleo centrale di questa tesi. Prendendo le mosse dal più importante complesso industriale della provincia, la multinazionale Cucirini Cantoni Coats, ho appunto cercato di presentare le infinite sfumature del contesto mettendo in risalto l’evolvere della conflittualità all’interno di un microcosmo (esclusa la Versilia) che più volte era stato definito “socialmente tranquillo”: “dove prima si taceva, adesso si grida”, scriveva significativamente Liborio Guccione sulle pagine de “l’Unità”, durante i grandi scontri del 1969.

Da questo assunto si era mossa la stessa componente aziendale della Cucirini Cantoni Coats per la scelta di Lucca, facendo leva su di una marcata subcultura cattolica e su spiccati caratteri paternalistici, nonché sulla possibilità di imporre bassi salari senza il rischio di intercorrere in pericolose agitazioni. Quello della subcultura, inserendo -forse rischiosamente- una piega sociologica in questa introduzione, è un aspetto comunque importante nella comprensione della civicness lucchese, soprattutto nella lettura del biennio 1968-’69 come “rivolta contro la patria potestas”; in antagonismo, cioè, al connubio padre/potere che fino alla prima metà degli anni Sessanta non solo aveva dipinto lo spaccato familiare, ma anche e soprattutto incasellato perfettamente la subordinazione alla sfera padronale sotto la protezione della componente

3

In una prospettiva ovviamente “faziosa”, si noti quanto Cecchetti riferisse a proposito dell’amministrazione provinciale di centrosinistra: “In provincia è stato riconosciuto il centrosinistra senza nessuna riflessione sui problemi di sviluppo, e senza nessuna analisi autocritica sui gravi limiti dimostrati in materia di coordinamento e programmazione industriale. Al comune di Lucca, nel programma della giunta DC-PSDI.PRI ed in numerose dichiarazioni di vari assessori, c’è la scelta chiara di considerare inevitabile la riduzione della base produttiva ed occupazionale nell’industria lucchese”. In Ivi.

(10)

X

istituzionale. Affrontando questo fattore, pertanto, non si può certo sfuggire dal sottolineare come Lucca, all’interno della Toscana, abbia rappresentato per lunghi tratti dalla prima storia repubblicana una realtà singolare e circoscritta: da un lato, studiandola, è impossibile farne un sostanziale campione d’analisi in riferimento all’aspetto politico, sociale ed economico regionale4; dall’altro, questa sua singolarità ha reso

possibile aprire un’indagine sulle origini di una così radicata subcultura politica bianca5

. Un aspetto, quest’ultimo, a ben vedere facilmente individuabile se si passa al vaglio la storia secolare di un contesto “al cui riparo si è consolidata una mentalità caratteristica nel modo di vivere il complesso intrecciarsi della sensibilità religiosa con la vita sociale”6, ma contemporaneamente capace di fornirci anche quelle caratteristiche imprescindibili per intercettare le ragioni della mancata diffusione delle sinistre, senza tuttavia eludere e sottacere, in questo senso, i demeriti attribuibili alle linee politiche che socialisti e comunisti lucchesi adottarono nella prima e nella seconda metà del Novecento e la stessa incapacità che spesso dimostrarono nel sospingere i processi di rivendicazionismo.

Per questo motivo, esentandomi dalla pretesa di voler fornire verità assolute ed inconfutabili, ci impegneremo rapidamente nel delineare quella che potremmo definire un’analisi trasversale dei fattori economici e socioculturali che portarono la realtà lucchese, fin dal XIX secolo, a maturare connotati genetici che inevitabilmente contribuirono a plasmare il suo robusto habitat identitario. Cercherò di chiarire la questione attraverso due diversi tipi di disamina: l’una di matrice interpretativa, dal respiro teorico-concettuale; l’altra ricostruttiva, attraverso l’indicazione di un percorso di evoluzione storico-sociale. Nel primo caso verrà puntualizzato cosa si intenda più precisamente con subcultura (a), per poi passare al vaglio due questioni di carattere strutturale che, in caso contrario, rischierebbero di restare imperdonabilmente sospese, e cioè: una definizione più precisa di subcultura in relazione al caso lucchese, delineandola nei suoi connotati di trasversalità e trasmissibilità attraverso alcuni, imprescindibili, riferimenti storiografici (b); il

4

Pier Giorgio Camaiani riassume perfettamente questo concetto: “compiere un’analisi della società lucchese non è la stessa cosa che studiare la storia di una città Veneta, cogliendo in essa gli elementi che ne possono fare un campione della realtà regionale. Lucca, all’interno della Toscana, è un po’ un mondo a sé”. Cfr. Pier Giorgio Camaiani, Dallo Stato cittadino alla città bianca. La

“società cristiana” lucchese e la rivoluzione toscana, La Nuova Italia, Firenze 1979, p. IX. Questa dimensione, ad ogni modo, non

deve sottendere il fatto che (specialmente nel campo del comportamento padronale) il ceto imprenditoriale che agì in Lucchesia mantenne comportamenti identici a quello di molte altre zone della Toscana, come si cercherà di dimostrare nelle pagine di questo lavoro. A difettare, semmai, era la propensione ad aprirsi al dialogo nelle trattative e nel riconoscimento della rappresentanza.

5

Nel contesto regionale, quella lucchese fu, infatti, l’unica provincia in cui la Democrazia Cristiana riuscì sempre prevalere, peraltro con scarti importanti. Se si considerano tutte le altre province, la “balena bianca” trionfò una sola volta ad Arezzo, nel 1960 (36,33% dei voti, contro il 32,97 del PCI e il 21,41 del PSI) e a Firenze, nel 1951 ( 36,76% contro il 35,19 del blocco PCI-PSI). fu protagonista, inoltre, di una perdurante alternanza in quel di Massa e Carrara, dove vinse nel 1951 (45,3% contro il 37,07% del PCI), nel 1960 (32,45% contro il 23,64% comunista e il 19,81 socialista), nel 1962 (31,18 %, PCI 22,68%, PSI 19,64%), nel 1966 (31,48%, PCI 24,46%) e nel 1970 (30,92%, PCI 26,98%). Dati reperibili presso l’Osservatorio elettorale della Regione Toscana, http://www.regione.toscana.it/osservatorioelettorale.

6

(11)

XI

modo in cui, tra XIX7 e il XX secolo, questo carattere subculturale assunse occasionalmente veri e propri connotati “controculturali consequenziali” di natura conservatrice, in una dimensione ricollocabile alla sfera nazionale(c).

Descritti in maniera generale i caratteri di questa corposa introduzione, è necessaria, tuttavia, una ulteriore premessa. Siamo a perfetta conoscenza che, in alcuni casi, l’abuso di una terminologia e dei significati ad essa connessi possa portare ad una mistificazione del senso reale: come ci suggerisce Francesco Ramella, “se l’esistenza di solide tradizioni politiche che influenzano la competizione elettorale non può essere sottovalutata, questi elementi tuttavia non devono essere enfatizzati oltre misura”8

. Per sfuggire ad una tentazione così rischiosa, cercheremo allora di eludere da rigidi schemi mentali, adottando il passato, nella sua geografia culturale diversa, come confronto spazio-temporale e non come esclusiva eredità, affinché ci comunichi, nelle sue possibilità, quelle strutture di senso e quei fattori specifici che, nel periodo del predominio democristiano, permisero una riproduzione senza scosse trascendentali degli orientamenti di voto storicamente prevalenti. Un punto imprescindibile se, nel modo in cui ci riferisce Luca Baldissara,

l’interesse per i meccanismi di definizione e rielaborazione attraverso il tempo delle identità non può prescindere dall’attenzione per il contesto in cui tale processo si realizza. Un contesto fisico, di città che crescono e di campagne che si trasformano, di morfologie territoriali che condizionano le morfologie sociali; un contesto politico, di classi dirigenti che si sforzano di governare i mutamenti, che costruiscono o viceversa abbattono egemonie politiche e culturali locali; un contesto economico, di dinamiche che legano lo sviluppo alle condizioni territoriali, produttive e politiche locali, ma che sono strettamente connesse con i processi economici generali; un contesto istituzionale, di governi del territorio stretti tra esigenze di tutela e promozione municipalista delle comunità amministrate e pratiche di mediazione degli interessi, sia in ambito locale, che tra centri e periferie di volta in volta gerarchicamente ridefiniti.9

Questa attenzione contestuale-evolutiva, vista al netto di una molteplicità di fattori collocabili su di un piano comparativo di carattere sovrastrutturale –Stato, regione, provincia-, costituiranno quegli eventi dotati di senso immanente che andranno a plasmare la nostra ricostruzione fattuale.

a) Per una teorizzazione di subcultura politica. La categoria di subcultura politica, intesa come studio dei

caratteri sociopolitici e funzionali del sistema italiano, fu introdotta negli anni Sessanta dai ricercatori della

7 La storia lucchese presenta aspetti secolari che, per ovvi motivi, non potranno essere affrontati in questa mia breve disamina. Ho

scelto, quindi, di prendere come punto di partenza il 1847, anno della dissoluzione del Ducato lucchese e del suo passaggio sotto la sfera di influenza del Granducato di Toscana, soprattutto per delineare, attraverso alcuni esempi, quello che fu il consolidamento di una vera e propria forma mentis.

8

Cfr. Francesco Ramella, La subcultura rossa: tra “apatia” e nuovo civismo, in n. 32 “Meridiana”, 1998, p.124.

9

Cfr. Luca Baldissara, Conflitti d’identità. Municipalismo, localismo e integrazione politica in area padana, pp.64-65, in n. 32 “Meridiana”, 1998, p.124.

(12)

XII

prima generazione dell’Istituto Cattaneo, con l’intento, per usare la parole di Cartocci, di presupporre il voto come “manifestazione finale di una realtà densa e vischiosa, di origine latamente culturale, che contraddistingue gli elettori non come monadi isolate, ma come membri di contesti locali sufficientemente caratterizzati”10

. Un ricerca che, originariamente, dette vita ad un palinsesto frammentato, con l’Italia divisa in sei macrozone tre le quali spiccavano le due politicamente più marcate: quella bianca e quella rossa11. L’obiettivo, centrato, era quello di individuare che cosa si “celasse” dietro ad un comportamento elettorale così territorialmente definito, ovvero, secondo Mario Caciagli, le ragioni retrospettive della “forte struttura della DC e del PCI, con i loro iscritti e militanti, con le loro sezioni e con la moltitudine di organizzazioni collaterali, e poi la presenza di agenzie di socializzazione – la famiglia e la comunità locale, la parrocchia e le case del popolo”12

.

Il concetto di subcultura politica territoriale, nel suo processo evolutivo, è stato così ripreso sia ad oggetto di analisi che a categoria interpretativa, in particolar modo attraverso un tentativo continuo e duraturo di conferirgli una sua sempre più completa definibilità. Come ancora ci ricorda Caciagli, un primo passo in questa direzione fu effettuato da Giordano Sivini, il quale incentrò i suoi studi sulla mancata integrazione delle masse nello Stato post-risorgimentale, ricostruendo “ le modalità e le forme di organizzazione delle stesse masse in opposizione a quello stesso Stato”13. Queste ultime, con alla guida socialisti e cattolici

cercarono le basi del loro contropotere nella politica locale, costruendo gli uni “il socialismo municipale” e richiudendosi, gli altri, nelle loro comunità bianche. Intorno alle sezioni del PSI e delle parrocchie si erano sviluppate le strutture delle subculture, fossero la società Vincenzo de’ Paoli o le camere del lavoro, i circoli laici per la santificazione delle feste o le case del popolo, le associazioni

10

Cfr. R.Cartocci, L’Italia unita dal populismo, in “Rassegna italiana di sociologia; 2: pp. 287-295, in Mario Caciagli, Subculture

politiche territoriali o geografia elettorale?, p.2. Mi trovo costretto a fare una precisazione: quando parliamo di Lucca come contesto

isolato, lo facciamo riferendoci allo scenario toscano, quindi su di una scala “geografica” interpretativa di livello inferiore a quello preso in considerazione da Cartocci, relegabile al sistema Italia. Su scala regionale, difatti, una “quasi” totalità provinciale ci può apparire come convincente comunità, “sufficientemente caratterizzata”.

11

Con “area bianca” si denota la zona geograficamente collocata nel Nord-est peninsulare. Per “area rossa”, invece, si intende il blocco centrale composto da Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e parte delle Marche. Nel Nordest (la “zona bianca”) era predominante il radicamento cattolico, grazie soprattutto alla fitta rette di parrocchie e associazioni, collegabili alla Chiesa, che svolgevano servizi assistenziali. Nelle regioni del Centro (la “zona rossa”) prevaleva invece una subcultura di carattere socialista, che faceva riferimento alla centralità e al ruolo non solo del partito, ma dei giornali, delle cooperative, dei sindacati e degli enti assistenziali e ricreativi.

12

R.Cartocci, L’Italia unita dal populismo, cit. Significativo è già il fatto che, in tutta la Lucchesia, la prima casa del popolo fu inaugurata nel 1980, in quel di Camigliano, nel capannorese. In cfr. “l’Unità”, 29/11/1980, Mattone su mattone due generazioni

hanno costruito in 17 anni la prima Casa del Popolo della Lucchesia, di Renzo Sabbatini.

13

(13)

XIII

confessionali delle donne e dei giovani o le sezione della Federazione giovanile socialista, le società per la lotta contro la bestemmia o le leghe per i funerali civili.14

Un decennio dopo Sivini, fu Carlo Trigilia ad avanzare significative intuizioni: la grande capacità del sociologo siracusano è stata quella di delineare un vero e proprio schema teorico, in cui far confluire tutti quegli aspetti di matrice prettamente economica finallora taciuti. Trigilia, prendendo le mosse dalla correlazione tra società e sistema politico nella sua modalità organizzativa, estese l’oggetto di indagine alle “caratteristiche complessive di un sistema politico territoriale”15

, risalendo diacronicamente i processi storici dello Stato post-unitario e utilizzando, su di un ampia scala temporale, elementi imprescindibili per un’indagine di questo tipo: dati politici, cifre sugli scioperi, disamine sul tessuto economico agrario, anche in contrapposizione alla piccola media impresa. Insisteva, inoltre, “sul ruolo della famiglia e della comunità” e vedeva “una forma di simbiosi fra modello politico e modello di sviluppo economico”16

.

La concezione di subcultura, negli anni, ha continuato ad elaborare specificazioni che, in molti casi, non hanno fatto altro che rinvigorire quella tendenza “al frusto richiamo alla specificità storica italiana della frammentazione delle entità statuali e del policentrismo per rintracciare una delle principali cause della debolezza dell’identità nazionale”17

. Concordando con questo punto di vista, dovremmo forse dire che lo storico, davanti ad un fenomeno di simile portata, debba sentire forte la necessità di sviare da certe segmentazioni, prendendo consapevolezza della pluralità identitaria ad ogni livello, senza per questo motivo privilegiarne alcuna a scapito di altre, fornendo un passato “dotato di senso” anche a quelle collettività formatesi su costruzioni sociali di matrice conflittuale. Soprattutto, per evitare approssimazioni ed una qual certa gratuità nell’usufruire di definizioni pericolosamente omologanti in merito al dovere morale dello scienziato storico - tipico del secondo dopoguerra - di indirizzare la società verso il riconoscimento attorno ad una memoria collettiva repubblicana nell’intento di superare le troppe e gravi divisioni18

, una delle vie migliori per giungere a solide conclusioni è apparsa l’analisi del comportamento elettorale. Quest’ultimo, nel ruolo che riveste in accezione di subcultura politica, può essere concettualmente rappresentato come un

14

Cfr. Giordano Sivini, Socialisti e cattolici in Italia dalla società allo stato, in Id., Sociologa dei partiti politici, Il Mulino, Bologna, 1971, pp. 71-105. Vedremo, nel punto successivo, come questa definizione si faccia premonitrice di un altro punto nodale: il passaggio, in determinate situazioni, del processo di formazione subculturale a controcultura.

15

Cfr. Carlo Trigilia, Le subculture politiche territoriali, Quaderno n.16, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 1981, in Mario Caciagli, Subculture politiche territoriali, cit., p.3.

16 Ibidem, p.4. 17

Luca Baldissara, Conflitti d’identità, cit., p.64.

18

Lo storico, da questo punto di vista, si divide tra un forte dovere civile e morale di riconciliazione –sia a livello nazionale che locale- attorno ai valori di solidarietà e democrazia e un uso pubblico e democratico della storia, concentrato sulla pluralità identitaria ma al contempo capace di farla dialogare, sotto il supremo vessillo di una verità che, come afferma Paolo Pezzino, non deve essere vista in quanto positivista e assoluta, bensì come “esigenza di verità che sta alla base della deontologia dello storico”, in cfr. Paolo Pezzino, seminario “Storia e memoria, ovvero riflessioni su “l’era del testimone””, Macerata, 28-29 aprile 2011.

(14)

XIV

indice di valore assoluto, capace di intercettare le forme temporali di mutamento riferibili a culture e subculture politiche di vario livello.

Una puntualizzazione più approfondita di due ulteriori aspetti, infine, potrebbe aiutarci a costruire un quadro più completo, seppur non definitivo, di cosa si intenda per subcultura. Se con subcultura si fa riferimento, nell’ambito della sociologia, ad un “insieme di elementi culturali che caratterizza e differenzia rispetto alla società globale di riferimento un dato gruppo o segmento sociale”19

, come indicatoci dalla Treccani, risulterà inevitabile spostare il tiro su di un livello interpretativo più completo, delineante la subcultura di una certa area geografica non solo in quanto politica, ma identificandola anche con abbigliamenti, etnie, classi sociali o adesioni ad un credo religioso o ideologico di determinato tipo. Questo aspetto accoglie una ulteriore parcellizzazione che suggerisce ancora una volta l’importanza del particolare per arrivare a definire, contemporaneamente, l’omogeneità e la frammentarietà dei contesti subculturali: mentre da un lato certi caratteri contrastano fortemente con la definizione che di subcultura si è soliti dare –e il fatto che questa, come vedremo per la Lucchesia, rivesta caratteri trasversali e non settoriali che la rendono relegabile ad un’ampia “fetta” societaria -, dall’altro ci aprono una interessante prospettiva su quegli aspetti controculturali che talvolta le stesse subculture hanno assunto, e, contrariamente, in altre occasioni hanno contribuito loro stesse a generare.

In alcuni casi, ad ogni modo, è la stessa subcultura politica ed essere intesa come prodotto di molteplici fattori, non solo economici, come nella intuizione di Trigilia, ma anche religiosi e sociali. In determinate circostanze, allora, questa può definirsi collettivizzata, ovvero radicata fermamente all’interno di una lungimirante memoria sociale, grazie a connotati di trasversalità e trasmissibilità dettati dalla capacità di evolvere empiricamente da parte della subcultura egemone stessa – in questo processo risiede un continuo adattamento, secondo determinate linee rette, della forma mentis alla realtà storica.Metaforicamente, questo tipo di subcultura apparirebbe come un vettore trasversale, capace di esulare dalla costrizioni categorizzanti di “gruppo o segmento sociale” e di generazione, privandosi così di esclusivi legami con una particolare classe sociale e intercettando contemporaneamente alcuni dei fondamentali interessi economici e civili del capitale sociale; non si deve sottovalutare, tuttavia, come ad un carattere di ordine sincronico ne consegua uno diacronico, che porta la pars civile a legarsi strettamente, nel consolidamento storico della subcultura, ad alcuni connotati imperituri: nel caso lucchese, per fare solo un fugace esempio, vedremo quanto una società permeata da forti caratteri cattolici rimarrà a lungo legata, seppur in forme varie e mutevoli, ai proclami pontifici e alla linea politica e sociale indicata da questi ultimi20, senza eludere, per questa via, la formazione di un corposo movimento cattolico di dissenso.

Laconcettualizzazione di subcultura politica, dunque, si scopre terra complessa e ricca di sfumature, punto intermedio tra omologazione e parcellizzazione, prodotto di fattori distanti ma, al contempo, strettamente

19

Enciclopedia Treccani, voce “Subcultura”, www.treccani.it.

20

Il ruolo civile di clero e patriziato, a livello locale, fortemente rispettato e vincolante, dettava l’ordine morale e sociale da mantenere.

(15)

XV

correlati. È nelle parole di Carlo Trigilia, tuttavia, che questa faticosa ricerca di senso sembra riuscire a trovare un rifugio sicuro :

Per subcultura politica si intende un particolare sistema politico locale (storicamente e

territorialmente definito), caratterizzato da un elevato grado di consenso per una determinata forza e da

una elevata capacità di aggregazione e mediazione dei diversi interessi a livello locale. Questo presuppone l’esistenza di una fitta rete istituzionale (partiti, Chiesa, gruppi d’interesse, strutture assistenziali, culturali, ricreative) coordinate dalla forza dominante, che controlla anche il governo locale e tiene i rapporti con il sistema politico centrale. Attraverso questa rete, non solo si riproduce un’identità politica particolare, ma si contribuisce anche all’accordo locale tra diversi interessi.21

b) Lucchesia e subcultura bianca. Come abbiamo appena visto, affinché si possa definire una determinata

area “subculturale”, è necessario trovarsi in presenza di un contesto fortemente permeato da caratteri sociali, economici e politici ben definiti: come ci suggerisce ancora Mario Caciagli, una complessa miscela che “va riferita a collettività e collocata in un contesto storico di lunga o almeno media durata e in un territorio che non è un semplice spazio fisico, un contenitore vuoto, ma il prodotto dell’opera di generazioni che quello spazio fisico hanno trasformato e trasformano”22

. Per sillogismo, possiamo così dedurne che non tutte le zone della penisola in cui, nel secondo dopoguerra, DC e PCI ottennero la maggioranza possano essere identificabili come subculture politiche; tuttavia, sempre per lo stesso tipo di ragionamento dimostrativo, la Lucchesia ci appare al contrario come degno e completo campione d’analisi, sia in comparazione con altre città di provincia italiane che svilupparono, nel corso del Novecento, caratteri simili, sia, soprattutto, come eccezionalità al caso toscano. A mio modo di vedere, il caso lucchese deve così essere esaminato come punto d’incontro tra due rette incidenti: l’una rapportabile al sistema di pratica o preferenza politica che caratterizzò il secondo dopoguerra italiano; l’altra riferibile al settore cui facciamo riferimento, ovvero quello regionale toscano, uno dei centri nevralgici della così epitetata area rossa. La Lucchesia, in questo schema geometrico, costituisce quel punto di scontro/incontro vettoriale capace di essere contemporaneamente, all’interno di un’accezione puramente sociologica-politica, sia cultura politica egemone - se rapportata alla maggioranza che la DC ottenne fin dalle prime tornate elettorali su scala nazionale- che subcultura interregionale, in relazione al panorama toscano e, per certi versi, provinciale23.

21

Cfr. Carlo Trigilia, Grandi partiti e piccole imprese. Comunisti e democristiani nelle regioni ad economia diffusa, il Mulino, Bologna, 1986, pp. 47-48, in Francesco Ramella, La subcultura rossa, cit., p.122.

22

Ivi.

23

La Versilia, a differenza della bianca Lucchesia, come abbiamo accennato ha sempre conosciuto una significativa adesione al mondo delle sinistre. Nelle elezioni provinciali del 1951, ad esempio, con un’affluenza alle urne dell’87,01%, a Viareggio vinse la coalizione PCI-PSI con il 46,82%, a discapito del 24,26% della DC. Lucca, nella medesima occasione, vide la Democrazia Cristiana sbaragliare la concorrenza con un roboante 55,27 %, mentre comunisti e socialisti si fermarono ad un misero 19,84%. Fonte,

(16)

XVI

La nostra teorizzazione di subcultura politica si inserisce pertanto all’interno di una scala topografica che definisce questo carattere a seconda della dimensione geografica presa in considerazione, relazionandolo e inserendolo all’interno di un determinato contesto, sia esso nazionale, regionale o provinciale. Una certa trasposizione su vari livelli ci è resa possibile dal fatto che, nonostante la presenza nel secondo dopoguerra italiano di una cultura egemone a livello nazionale, all’interno di subculture saldamente ancorate in determinate aree omogenee prese piede anche un aspetto “parcellizzante”, capace di creare degli unicum interessanti, riferibili, oltre che ad una relazione con la corrente politica di maggioranza statale, anche a quel concetto di civicness locale differenziabile, nella sua inquadratura, all’interno dell’evoluzione dei rapporti tra società, economia e abitudini mentali: tutto ciò, nella aree di subcultura politica, contribuì a rendere più articolato il discorso sulla sfera pubblica, nell’interpretazione che ne dà ad esempio Robert Putnam.

In una storia territorialmente e storicamente frazionata come quella italiana, nella quale spesso, tutt’oggi, si è spinti a parlare di federalismo culturale, analizzare dei contesti di eccezionalità come quello lucchese in Toscana può spostare il punto di vista di una lettura esclusivamente “culturalista” della civicness, come ci dice ancora Ramella, su di un piano le cui radici e potenzialità di riproduzione risultano al contrario profondamente ancorate al contesto socio-istituzionale delle unità territoriali di volta in volta prese in considerazione, evidenziandole come dipendenti dalle caratteristiche della struttura produttiva e del sistema politico, dal tipo di relazioni sociali e dai modi di regolazione prevalenti24.

Se la subcultura politica, per radicarsi, necessita allora di un percorso storico di media-lunga durata, sarà necessario indagare su come questa si sia originata anche nel contesto da noi preso in esame. Nel suo lavoro,

Dallo Stato cittadino alla città bianca, Pier Giorgio Camaiani pone solide basi alle origini di questa

determinata subcultura lucchese, preoccupandosi di ricostruire, attraverso un’analisi in cui le vicende Risorgimentali forniscono l’occasione per cogliere molteplici espressioni del rapporto tra Chiesa e società,

i momenti di passaggio che dalla fine del ducato borbonico (1847) e della repubblica oligarchica, soppressa dai francesi nel 1799, hanno portato cento e centocinquant’anni dopo, all’affermarsi degli esponenti di un potere politico <<cristiano>> tanto diverso nelle sue forme istituzionali, ma non altrettanto dissimile nelle motivazioni più radicate nella <<cultura>> locale, nelle origini di un così largo e spontaneo consenso popolare.25

Indicativamente, potremmo individuare l’avvio di un simile processo di radicalizzazione culturale nel momento di transizione dall’ancien régime allo Stato liberale: anni in cui la libertas cittadina, garante di ordine e religione, si trovò di fronte ad una serie di stravolgimenti che rimandavano la loro stessa origine ai moti rivoluzionari francesi di fine Settecento. Come sottolinea ancora Camaiani,

24

Francesco Ramella, La subcultura rossa, cit.,p.122. pp.126-7.

25

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XVII

in questo momento di passaggio, dopo la fine di un ducato accettato come male minore (perché, se non salvava la libertà, conservava almeno l’indipendenza) devono subire dapprima la sovranità granducale, invisa soprattutto nel campo della politica ecclesiastica, si trovano poi esposti al clima del ’48, con i suoi slanci patriottici e i suoi tumulti sociali, sono coinvolti, infine, nelle conseguenze della rivoluzione toscana del ’59, che apre le porte allo Stato unitario liberale. In questo momento di passaggio sono impliciti tutti i problemi che verranno alla luce negli sviluppi successivi.26

In queste parole introduttive di Camaiani si nota una sorta di remissività che, tuttavia, non deve assolutamente trarre in inganno. La Lucchesia seppe rispondere al fluire degli eventi storici, ancorata a quei valori civili e religiosi che agivano sulla maggior parte della popolazione come categorie a priori con cui giudicare l’evoluzione del contesto peninsulare. Per questi motivo, un ambiente dotato di una originalità così marcata, la cui cultura rivelava una forte compenetrazione negli atteggiamenti mentali, nei comportamenti e nelle tradizioni, può essere inquadrato in un’ottica di trasversalità subculturale sociale legata ad una serie di fattori vicendevolmente corroboranti.

Definendo i caratteri generali di subcultura politica, nel punto precedente, abbiamo già visto come questo aspetto di trasversalità, nel linguaggio della fisica, possa essere definito una forza vettoriale capace “di esulare dalla costrizioni categorizzanti di <<gruppo o segmento sociale>> e di generazione, privandosi, così, di esclusivi legami con una particolare classe sociale”27

. Certamente, questa forza vettoriale non si lega ad una omogeneità sociale, quanto ad una sensibilità civile e religiosa maturata nell’ambito contestuale della città-stato lucchese ottocentesca. Una storia locale così percepita permette allora di evidenziare quel complesso intreccio di valori religiosi, rapporti sociali e strutture economiche, nonché di atteggiamenti mentali, “che caratterizza gli ambienti di più duratura tradizione cattolica e ne alimenta la comunità”28

: la vera forza del movimento cattolico, difatti, è spiegabile grazie ad una visione interpretativa del movimento stesso, legata agli organi che se ne fecero interpreti –dall’Opera dei congressi e dei comitati cattolici di fine Ottocento alla Democrazia Cristiana- ottenendo successo non tanto a livello di elaborazione ideologica od organizzazione, quanto per la percezione diffusa della loro compenetrazione nella tradizione cittadina civile e religiosa. Il rapporto tra Chiesa e società che andava così formandosi e consolidandosi nel corso del XIX secolo avvolse l’intero contesto, forgiando una “società cristiana” robusta, destinata “a durare a lungo e a disgregarsi solo molto lentamente […]. Dalla sua capacità di sopravvivenza, favorita dalla eredità dello Stato cittadino (cessato nel 1847), nasce il consenso raccolto dalle organizzazioni politico-religiose dell’ultimo Ottocento o dai partiti a cui si affida nel Novecento il mondo cattolico”29

e nella quale gli strati sociali più umili, in particolare i contadini, rimasero saldamente ancorati ad una visione del clero come guida etica e politica e del patriziato in quanto forza predominante dal punto di vista socio-culturale, seguendone consigli

26

Ivi.

27

Vedi sopra, pag.4.

28

Pier Giorgio Camaiani, Dallo Stato cittadino alla città bianca, cit., p. XIII

29

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XVIII

e ammonimenti. Un segnale forte e chiaro di quanto, anche di fronte al progredire storico, nei ceti subalterni fosse radicata l’eredità oligarchica30

.

Simili caratteri aprono la strada ad un altro aspetto di estrema importanza nel processo di formazione subculturale: la trasmissibilità generazionale, che qui indentificheremo in quanto trasversalità temporale31. La Lucchesia, come molte altre zone bianche italiane, conobbe un sostanziale consenso di massa attorno a quelle forze capaci di promettere la restaurazione di un ordine basato su di uno spiccato carattere religioso: ne furono esempi il Partito Popolare, la Democrazia Cristiana, passando per l’intermezzo fascista. Come ci suggerisce ancora Camaiani, nonostante le contraddizioni ideologiche, è inevitabilmente legittimo individuare un filo conduttore che spieghi un consenso così radicato in forze politiche tanto diverse. Questo va ricercato al di là della strutture organizzative cattoliche, nonché oltre lo stretto rapporto economico tra il mondo cattolico e la borghesia capitalistica lucchese di formazione tardo Ottocentesca: il punto focale risiede piuttosto nella capacità trasmissiva di una forma mentis fortemente intrecciata da rigide strutture sociali, capace di resistere ai mutamente storici adattandosi e plasmandosi grazie a linee guida risolvibili nella grande compenetrazione tra società religiosa e società civile. Indubbiamente, col venire meno dei caratteri subculturali -minati dai processi stessi di lotta sociale e di trasformazione- nel secondo dopoguerra, un’influenza notevole sul caso politico la rivestirono, per altri termini, i tratti di un marcato clientelismo e di una non sottovalutabile “abitudine”: lo spauracchio anticomunista, sbandierato continuamente nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta e oggetto di ripercussioni pesanti nelle stesse fabbriche, non andava infatti svanendo solo nelle trame del consociativismo (durante il compromesso storico), segnando anche per questa via l’affievolimento della componente ideologica, ma pure nella progressiva scolarizzazione e nella stessa vita di fabbrica, dove le quotidiane difficolta e il processo rivendicativo contribuirono ad incrinare i dettami delle politicizzate parrocchie di campagna (su questo influì però il peso stesso di figure come quella di monsignor Bartoletti), nonché gli stessi “steccati laici e cattolici”, spianando in questo senso la strada –ad esempio- alla “stagione dei diritti civili”.

Riprendendo il filo della disamina, anche quando il patriziato locale rimase coinvolto, alla metà del XIX secolo, in un’inarrestabile disintegrazione economica e d’autorità dettata dal passaggio sotto il Granducato, ebbe comunque la forza di aggrapparsi al robusto retaggio dello Stato cittadino locale, sognandone una anacronistica resurrezione e cercando nella Chiesa una garanzia contro il progredire rivoluzionario: da custode dell’autonomia del potere politico nei riguardi dell’autorità ecclesiastica, il patriziato si tramutò così nel gruppo dirigente del movimento cattolico, ritrovando vitalità all’interno di organizzazioni quali la Pia Aggregazione Cattolica e, in seguito, nell’Opera dei congressi. Ciò che ci interessa di più, tuttavia, è

30

Nella messa in discussione di certe supposizioni, nel corso di questo lavoro cercheremo di dimostrare le modalità con cui il conflitto sociale contribuì a modificare determinati canoni, persistenti piuttosto in zone dove la lotta rimase ai margini, come quella garfagnina.

31

Abbiamo già visto, con Caciagli, come la subcultura debba andare relazionandosi con un processo storico di lunga o, almeno, media durata.

(19)

XIX

comprendere come il patriziato, al netto delle organizzazioni cattoliche e anche durante la sua dissoluzione nella borghesia, sia riuscito a lasciare impressa nella mentalità prevalente tra ceto medio e le stesse classi popolari un’impronta duratura di sé, in particolar mondo in una campagna segnata dalla presenza, affianco alla diffusa mezzadria, di un numero crescente di piccoli proprietari: anche qui si collocano le ragioni del forte paternalismo. Potremmo asserire pertanto che l’eredità dello Stato cittadino lucchese, allora, si sarebbe resa trasmissibile in questi termini plasmandosi e adattandosi al variare delle istituzioni, dei regimi politici e delle ideologie, accogliendo il progredire nazionale e culturale facendo perno su di un robusto baricentro, identificabile di volta in volta con gli orientamenti e i partiti che meglio sembravano rispondere alle esigenze più sentite: queste non riguardavano solo l’aspetto economico, ma anche

l’amore dell’ordine, la difesa della proprietà, il rispetto della religione, il gusto del guadagno, il culto del risparmio, la salvaguardia dell’influenza del clero, vista come garanzia perenne contro ogni rivoluzione. E la connaturale repulsione verso gli atteggiamenti rivoluzionari, prima ancora che il rifiuto di una determinata ideologia, avrebbe manifestato il bisogno di cercare una giusta via di mezzo tra opposte tensioni, il desiderio di affidarsi al buon senso contro le intransigenze dottrinarie, così pericolose per il vivere quieto ed il perpetuo pacifico negoziare.32

Se questa affermazione lancia già importanti e precoci segnali sulle origini del predominio democristiano e sulla mancata o respinta ricezione della causa socialista e comunista in Lucchesia, è bene procedere con ordine, evidenziando come, in questo breve excursus, siano venuti alla luce importanti aspetti intrinsechi di una subcultura politica bianca che trovava il suo punto nevralgico nel definitivo passaggio da Stato Cittadino a città bianca, “ qualcosa di più –in termini di caratteri sociali- e qualcosa di meno – in termini di valori religiosi- di una città cattolica”33. Per concludere questa disamina, non ci resta che andare a vedere cosa si intenda per controcultura, e, in particolar modo, come questa si relazioni al caso lucchese attraverso una natura di stampo prettamente consequenziale, prima di valutare i possibili effetti e le plausibili influenze del conflitto sociale su queste componenti.

32

Pier Giorgio Camaiani, Dallo Stato cittadino alla città bianca, cit., pp. XIV-XV. In questo tipo di circostanza un parallelismo con la DC appare possibilmente delineabile. Lo stesso Paul Ginsborg, mette in evidenza quanto il successo elettorale della “balena bianca” dipese –in Italia, non solo a Lucca- da una serie di innumerevoli fattori, tra i quali spiccava “l’atteggiamento della gerarchia ecclesiastica. Pio XII, adottò inizialmente verso la politica un concetto agostiniano, sostenendo che non era possibile una convergenza tra la città umana e la città divina […]. Dal 1943 in avanti, Pio XII doveva mutare atteggiamento. In un’Italia invasa e sconvolta, il papato fu costretto a riflettere sulle future relazioni tra Chiesa e Stato: innanzitutto occorreva salvaguardare i Patti Lateranensi. […] Man mano che crebbe il potere della Resistenza e dei partiti democratici, il Vaticano si mosse, con cautela e non senza timori, verso la Democrazia Cristiana di De Gasperi. L’appoggio della Santa Sede […] trasformò la DC da un laboratorio di discussione in un partito di massa”. La compenetrazione tra clero e sfera istituzionale, in un contesto come quello lucchese, risultò senza ombra di dubbio più semplice, visti i precedenti analizzati: un chiaro esempio di radicamento subculturale. In Paul Ginsborg,

Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 62-63.

33

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XX

c) Tra reazione e rivoluzione: un’analisi della controcultura lucchese. Con controcultura si fa riferimento,

in sociologia ed in antropologia, ad un gruppo di persone o a movimenti i cui valori e modelli culturali e di comportamento sono molto differenti -e spesso opposti- da quelli del paradigma nella società. Una definizione chiara, ad ogni modo, non esenta dal sorgere di problematiche strutturali che rendono inevitabile un’analisi più accurata del concetto: come si forma un controcultura, e in quali termini può essere individuata? A domande di tal genere non è certo semplice fornire risposte complete, vista la molteplicità di casi e varianti.

Se il termine è da non confondersi, per connotati e struttura, con subcultura34, vi sono tuttavia alcune circostanze in cui la controcultura può essere vista come conseguenza di un processo di formazione subculturale, poiché tentativo di andare oltre la cultura dominante ad un qualsiasi livello, sia esso statale, regionale o provinciale. Per controcultura consequenziale, quindi, intendiamo una subcultura capace di farsi, in particolari momenti storici, controcultura: ciò, ovviamente, porta in causa il riferimento ad una comunità definita, più o meno estesa e riferibile ad un qualsiasi ordine di enti. Durante il processo di formazione subculturale lucchese, la forma mentis ancorò a robuste concezione l’evoluzione comunitaria, indirizzando la risposta al progredire storico su caratteri conservatori. Nel finale del punto precedente, per l’appunto, abbiamo visto come Camaiani vi individuasse nell’amore per l’ordine, nella difesa della proprietà, nel rispetto della religione, nel gusto del guadagno, nel culto del risparmio e nella salvaguardia dell’influenza del clero le garanzie di tutela contro ogni rivoluzione: aspetti basilari per comprenderne la peculiarità davanti all’improvvisa accelerazione che la storia italiana conobbe attorno alla metà del XIX secolo (ma anche per comprendere l’importanza che i processi di modernizzazione e di conflitto vi rivestirono in ottica svincolante, soprattutto nella seconda metà del Novecento).

Partiamo con una precisazione: anche in questo caso, quello lucchese non costituì un unicum nazionale, bensì una importante eccezione a livello regionale – ovviamente, si fa riferimento al Granducato di Toscana per l’assetto preunitario. In seguito alla dissoluzione del Ducato Borbonico, nel 1847, l’impatto che il mondo lucchese ebbe con il giurisdizionalismo leopoldino prima, e con il processo risorgimentale poi, non fu certamente in linea con la tendenza maggioritaria: vi erano anche qui gruppi di moderati e democratici che presero parte alla vicende del movimento nazionale; tuttavia, la loro qualificazione ideologica e i loro programmi di azione non differivano affatto, nelle linee guida, da quelli che caratterizzavano nel resto d’Italia le varie correnti del Risorgimento. Questa netta minoranza, anche per il suddetto motivo, non fu capace di scuotere un contesto che, in controtendenza con il Granducato e gran parte del panorama peninsulare, sposò la causa neoguelfa e “rivoluzionaria”, nel senso cattolico del termine, come poli d’opposizione entro cui collocare “le aspirazioni e i timori dei ceti che hanno il privilegio di scrivere e di

34

A differenza della subcultura, la controcultura non richiede continuità temporale né stratificazione sociale; non è relegabile ad una territorialità stabile e definita, seppur conservi connotati geografici che per forza di cose la rendono individuabile. Denota caratteri aggressivi, differenziandosi dalla passività temporale del processo subculturale, che, sì, progredisce e si adatta empiricamente, talvolta si sposta dalla parte del riformismo, ma non rifugge mai dai caratteri appartenenti ad una forma mentis ben definita.

(21)

XXI

pensare a livello politico, e di riflesso si agitano i sentimenti di tutte le componenti sociali che in città e nel contado ne subiscono l’influenza”35

.

La popolazione lucchese, infatti, conobbe la massima partecipazione agli ideali patriottici in coincidenza con il momento di maggior successo del movimento neoguelfo, ovvero, dall’estate del 1847 a quella del 1848. Il substrato culturale, caratterizzato dalla forte predominanza del cattolicesimo, si innestò così nel Risorgimento attraverso una porta secondaria, quella di una proposta alternativa di respiro neoguelfo. Come riferisce ancora Camaiani, il cui lavoro abbiamo assurto a base teorica per questi fondamenti concettuali,

è significativo che nel ’59 la guerra con l’Austria ridesti a Lucca con singolare vivacità le ultime speranze neoguelfe, nonostante che il neoguelfismo avesse subito una grave crisi dopo le delusioni del ’48-’49. Ciò perché il patriottismo guelfo traduceva in termini risorgimentali una realtà ben più radicata delle aspirazioni politiche emergenti: esaltava la compenetrazione tra religione e vita civile, tra Chiesa e società, che costituiva il tessuto “culturale” delle classi popolari; e, per un altro verso, era espressione di un ceto medio ancora lontano dal trasformarsi in una borghesia imprenditoriale, per il quale i miti neoguelfi e un’adesione puramente ideologica al Risorgimento supplivano all’assenza dei presupposti strutturali di un liberalismo borghese.36

La pubblicistica intransigente, a cominciare da“ La Civiltà cattolica”, bollava il Piemonte liberale, la libertà di stampa ed una qual certa tendenza all’eversione nei confronti della politica ecclesiastica come “rivoluzione satanica”: ciononostante, tra il 1848 che il 1859 l’aspirazione neoguelfa cedette inesorabilmente il passo al prevalere, sia a livello nazionale che regionale, degli sviluppi rivoluzionari del Risorgimento. Se la Toscana rispose alla fuga di Pio IX da Roma, il 24 novembre 1848 in seguito alla proclamazione della Repubblica romana, con il prevalere di forze democratiche molto vicine a posizioni mazziniane e anticlericali, fu durante i moti del 1859 che, tuttavia, il cattolico mondo lucchese si trovò in forte frizione con la direzione intrapresa nella seconda guerra di indipendenza dal Granducato di Toscana: i moderati, fortemente antiaustriaci e guidati dal barone Bettino Ricasoli, condussero alla cacciata dei Lorena e del granduca Leopoldo II la sera del 27 aprile 1859 e alla formazione di un governo provvisorio, guidato da Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Malenchini ed Alessandro Danzini. Nonostante la garanzia di ordine e tutela della proprietà, il Governo Provvisorio, dopo aver offerto la dittatura (poi rifiutata) a Vittorio Emanuele II, il 12 maggio 1860 confluì, per plebiscito, nel Regno di Sardegna: un duro colpo per la società lucchese, che vedeva così svanire la possibilità di uno Stato pontificio. Certo, se prima del 1859 Lucca aveva già convissuto tumultuosamente con il giurisdizionalismo leopoldino, giudicato troppo eversivo, è altrettanto vero che con i complessi preliminari della pace di Villafranca, l’11 luglio 1859, oltre ad una paventata possibilità di un ritorno del Granducato di Toscana nei suoi confini, Napoleone III tentò di dar nuova vita alla formula di stampo quattrocentesco che vedeva lo Stato pontificio a capo di una confederazione italiana:

35

Pier Giorgio Camaiani, Dallo Stato cittadino alla città bianca, cit., p. XI.

36

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XXII

l’estremo tentativo del Bonaparte di conciliare Pio IX con il movimento nazionale, se in un Risorgimento oramai di stampo laico apparve anacronistico e impensabile, soprattutto a Torino e a Firenze, a Lucca fu capace di suscitare ancora “emozioni e consensi”37

.

Questo momento storico, oltre a fornirci una lucida prospettiva dei caratteri controculturali che la società lucchese assunse negli anni risorgimentali38, ci dà conferma di una persistente trasmissibilità subculturale bianca. Lo stesso Camaiani ne evidenzia il continuum storico, sostenendo che

guardando la svolta seguita alla pace di Villafranca da un angolo visuale lucchese (e Lucca in questo caso può essere considerato un campione valido per molte altre parti d’Italia), si direbbe che con l’affermarsi del carattere laico del Risorgimento si apra come una parentesi, nella storia d’Italia, destinata a chiudersi nel primo e anche nel secondo dopoguerra. È ciò che induce lo Jemolo, al termine di Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, a soffermarsi pensoso sulla “inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a cento anni dal crollo delle speranze neoguelfe”. Per spiegare questo fenomeno carsico, questa tendenza di lungo periodo, non basta la storia delle idee o dei movimenti politici; bisogna scavare, al di sotto del pensiero e dell’opera delle classi dirigenti dello Stato liberale, nella realtà della persistente compenetrazione tra società religiosa e società civile. Il mondo lucchese è appunto un esempio di questa Italia guelfa, emarginata ma non estinta, che riemerge con la forza di una continuità plurisecolare.39

In conclusione, possiamo aprire su questi termini una interessante ed ulteriore pista di indagine. Trasportando un’analisi retrospettiva di questo tipo sui binari del dopoguerra, laddove il continuismo si presenta ai nostri occhi sottoforma di mutati assetti istituzionali e rinnovate correnti sociali, sovviene l’ipotesi di inquadrare -svincolandoci progressivamente dalla terminologia sociologica- il conflitto sociale come concreto portatore delle voci di modernizzazione, rivendicazione e progresso provenienti dal basso (riprendendo l’afflato del biennio rosso), cozzando contro quella componente politica che, da vera portatrice di un retaggio storico-culturale, andava dimostrandosi sempre più incapace nell’intercettare i mutamenti in atto nella sfera civile e nel trovare risposte all’intercedere di determinate rivendicazioni, viziata da logiche clientelistiche e di palazzo nel quale trovava “riparo” soprattutto la componente padronale.

Se certi processi giunsero ad una frattura definitiva ed insanabile sul finire degli anni Settanta, segnando una progressiva divisione tra società e istituzioni, è interessante evidenziare il ruolo che (specialmente nell’arco dei Sessanta) le lotte sociali rivestirono in un simile processo di consapevolizzazione, sposandosi

37

Ibidem, p. XIII.

38

Potremmo spalmare la questione su di un arco temporale più ampio, evidenziando, ad esempio, come lo stesso liberismo giolittiano di inizio Novecento trovò grandi difficoltà nell’inserirsi in un contesto molto chiuso, anche economicamente. Il processo di formazione borghese, inoltre, fu oltremodo lento e graduale: la borghesia capitalista che, nella penisola, iniziò a prendere piede verso la metà del XIX secolo, a Lucca era ancora inesistente.

39

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XXIII

col cambiamento dell’orizzonte culturale italiano. Inserire in questa cornice problematizzante un simile aspetto non deve tuttavia apparire fuorviante. Rappresenta, difatti, un’ulteriore lettura nel tentativo di comprendere in quali termini il conflitto stesso influì sull’estensione della rappresentanza e nel sopperire alle alle mancanze politiche (e in questo una pagina importante riuscì a ritagliarsela la componente sindacale), ma anche in quale prospettiva, controculturalmente, si collocò sia nel processo di modernizzazione che in quello di secolarizzazione, accelerandone e mutandone i tempi: non è un caso se Nenni, nel 1965, parlava della questione laica come di “un lusso borghese”, in un periodo storico che poneva di fronte problemi ben più gravi ed incombenti come “ il lavoro, il salario e la povertà”40.

Aspetti che nelle profonde scosse che coinvolsero non solo il mondo cattolico, ma la società tutta, toccarono con il ’68-‘69 il loro apice, tra richieste di democrazia diffusa, diritti e nuove forme di conflitto che aprirono i cancelli della fabbrica, diffondendo ed intrecciando il dissenso con altre componenti sociali (su tutti gli studenti) nell’emergere di nuove questioni41. Un frangente storico nel quale non tutto fu ideologia come troppo spesso si conviene, ma dove troppo spesso quella stessa ideologia costituì un peso così onirico da schiacciare l’analisi stessa della situazione, prerogativa di un realismo e di un disincanto che si rivelarono quasi assenti. A tal riguardo, Massimo Cacciari scrive, riprendendo spunti chiaramente provenienti da Ernesto Galli della Loggia, che

mancava nei figli la capacità di comprendere davvero la patria potestas nella sua storia, nelle sue contraddizioni e di scavarle dall’interno e di far leva su di essere per riformare il sistema. Ma soprattutto emerse subito “la vocazione” propria di ogni rivolta tentata sull’italico suolo: il parricidio si trasformò subito in fratricidio. Ben lungi dall’amarsi in vista di assumere insieme la responsabilità dell’erede, si amarono l’un contro l’altro. Prima metaforicamente e ben presto letteralmente. Il terrorismo distrusse figli e figlie e riconsegnò al Padre il potere. A un Padre che, da parte sua, aveva risposto alla rivolta in due forme assolutamente opposte, per quanto complementari: o in termini eversivi, stragisti, da controrivoluzione preventiva (causa, questa, essenziale della deriva terroristica che afferrò una parte del movimento), oppure, ignorandone le potenzialità costituenti, limitandosi a tentare di integrarla in un puro riassetto di maggioranze parlamentari. Così il Sessantotto è divenuto immagine di un Paese mancato […], di un Paese che ha continuato a mancare fino ad oggi.42

Lo studio della Lucchesia, pertanto, se da un lato ci mostra il movimentato evolvere locale in una prospettiva certo singolare, ma che rispecchia quella di molte altre zone italiane, dall’altra ci consegna un basilare strumento comparativo per cercare di mettere a confronto le modalità e le forme stesse del conflitto rispetto ad altre zone dal diverso tessuto civile ed economico (la stessa Versilia, senza eludere uno sguardo

40

“L’Espresso”, 21/2/1965, Come ai tempi di Pio IX, di Eugenio Scalfari, in Goldkron, Wlodek (a cura di), L’Espresso, 60 anni: la

nostra storia, vol. III, La rivolta (1965-1969), Roma, 2015.

41

Dalle condizioni di lavoro ai salari, dalla contrattazione dei cottimi all’estensione della rappresentanza, solo per citare alcuni esempi.

42

(24)

XXIV

esteso alla Toscana o, ad esempio, a zone come quella emiliana), evidenziando la necessità di rileggere la storia di anni così densi di trasformazioni in un’ottica più disomogenea; ovvero, tracciando linee più ampie che tuttavia non sottendano (o escludano) il particolare, riconsegnandocene piuttosto il dinamismo. Per questa via, lo studio di un preciso ambiente industriale, quello della Cantoni, ci aiuta a scavare ancor più in profondità: e ciò non solo perché rappresentante il complesso industriale più importante della provincia (e uno dei più importanti in Toscana), legato al settore maggiormente sviluppato, ma anche perché in grado di fornirci la possibilità di avviare un’indagine trasversale nei processi di mutamento che vi investirono la percezione del paternalismo aziendale, la sindacalizzazione, la consapevolizzazione di classe (grazie anche ad una progressiva scolarizzazione) verso un capitalismo arcaico e patriarcale, il mutamento della forza lavoro e l’evolvere stesso del ciclo produttivo, delle condizioni di lavoro (definite disumanizzanti) e delle forme conflittuali, ponendoci al centro del superamento del sistema fordista e delle idee keynesiste verso gli enigmi della postmodernità. Questo ci porterà a studiare l’influenza di spinte e mobilitazioni di differente origine e natura, convergenti nel provocare forti contraccolpi in istituzioni arcaiche e in un sistema politico incapace di offrire prospettive o mediazioni politico-sociali convincenti sulla via di un’estensione democratica della rappresentanza, anche e soprattutto sui luoghi di lavoro, in un’ottica di “giustizia sociale”. Tutte facce di un grande dado capace di racchiudere più dimensioni, lanciando al contempo importanti appigli sulla via di una migliore comprensione dell’evolvere del processo democratico e sociale dell’Italia repubblicana, di cui la Lucchesia, riprendendo Camaiani, resta un “singolare esempio”.

Breve cronaca di un percorso di lavoro

Il presente lavoro, nato da un primo studio del Fondo della federazione provinciale del PCI di Lucca (custodito presso l'Istituto storico della Resistenza e dell'Età contemporanea), si occupa di ricostruire le dinamiche del conflitto sociale tra anni Sessanta e anni Settanta partendo da un singolare caso di studio come quello lucchese. L'osservatorio scelto è stato quello della multinazionale Cucirini Cantoni Coats, tra le aziende più importanti nel settore tessile italiano: una scelta non casuale, poiché chi vi parla è fermamente convinto della marcata interconnessione presente tra i vari livelli "geografici" nel corso di un arco di tempo così turbolento.

Al di là di una presentazione quantomeno cronachistica (seppur non esente da interpretazioni) in riferimento agli anni dell'immediato secondo dopo guerra, la disponibilità del carteggio ha reso possibile una dettagliata problematizzazione della fascia cronologica presa in esame, cercando di intrecciare una tela in grado di fornire, tra comparazione e singolarità, una quadro il più possibile completo delle vicende della Lucchesia. Il case study, nella sua dinamicità, presenta aspetti molto interessanti se si considera la natura "per antonomasia" socialmente tranquilla della zona, caratterizzata dalla forte ed atavica influenza cattolica

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