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Il lungo e difficile dopoguerra: dalla ricostruzione alle lotte negli anni Cinquanta

II.III. Focalizzazione partitica: una sinistra invertebrata?

Nonostante l’elezione a primo Sindaco (promossa comunque dal CLN) del comunista Gino Baldassari, il PCI fin dall’inizio non era riuscito a radicarsi a Lucca29

, condizionato dalla permanente influenza cattolica alla quale larghissima parte della cittadinanza sottostava e da una struttura socio-economica, soprattutto nelle campagne e sulle montagne, che certamente non ne favoriva l’accoglimento. Mancavano ancora completamente sezioni nell’Alta Garfagnana (forse la zona destinata a rimanere più marcatamente anticomunista) e in gran parte della Media Valle, e la difficoltà di una penetrazione più profonda nel contesto industriale restava quesito irrisolto ancora nel 1953, quando il segretario Alvo Fontani, in un’intervista, riferiva: “tutti noi comunisti dobbiamo rivolgere una cura particolare al rafforzamento del partito nelle fabbriche. Dobbiamo aiutare lo sviluppo delle organizzazioni democratiche di massa e particolarmente dei sindacati”30

.

Sono parole che lasciano trasparire una duplice difficoltà: da un lato, convivere con una dimensione locale anomala rispetto al caso toscano31, basata su di una DC (ricalcando il cetuale passato della destra popolare) ancora fermamente arroccata su posizioni “oligarchiche” che portavano lo stesso Fontani a definire quella lucchese come una Democrazia Cristiana “che colpisce per la mancanza di ogni vita democratica e per l’inconsistenza organizzativa del Partito”; dall’altra, lo sforzo nell’immettersi in un contesto industriale ancora immaturo dal punto di vista operaio, fortemente soggiogato alla componente padronale, tentando di portarvi quelle istanze democratiche e di tutela lavorativa riscontrabili nella politica di progresso sociale avanzata dalla stessa Direzione centrale.

29 La stessa Anpi lucchese, nata il 7 gennaio 1945, conobbe una limitata influenza comunista, pur all’interno di un quadro

collaborativo. Le personalità che la guidavano, infatti, erano di stampo prettamente democratico-liberale, indirizzate verso compiti di assistenza morale e materiale ai partigiani, senza attribuirsi precise funzioni politiche. Si trattava di un appoggio solidale che gli stessi enti ecclesiastici avevano contribuito a fornire durante il conflitto e la Resistenza, riassunto perfettamente nell’eroica figura di Don Aldo Mei. Per un approfondimento di questa figura si veda Cfr. Gianluca Fulvetti (a cura di), Di fronte all’estremo: Don Aldo

Mei, cattolici, chiese, resistenze, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 2014.

30

Cfr. Isrec Lucca, Fondo Pci, Serie 1, Sezione I, b. 20, Intervista ad Alvo Fontani, Segreteria della Federazione del PCI di Lucca, 1953. La frase, di per sé, ci consegna anche la dimensione di una realtà nella quale lo stesso sindacato era ben lungi dal rappresentare un’istituzione forte e presente.

31

Specialmente nell’immediato dopoguerra –come abbiamo visto anche dal discorso pronunciato a Lucca da Togliatti- i comunisti cercarono di collocarsi subito in un filone partecipativo e di avversione limitata alla linea promossa dal governo Parri, che a Lucca aveva suscitato interesse tra i ceti a reddito fisso richiedenti una rapida soluzione degli stringenti problemi economici. Un esempio era stato la deplorazione avanzata dal segretario della Federazione provinciale del PCI, Giuseppe Pieruccioni (rimasto in carica fino al 1945), nei confronti della contestazione ad Angelini durante la giornata del 1° maggio 1945, raccontata più sopra.

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Ai problemi di stampo subculturale se ne legavano poi altri di carattere puramente organizzativo. Il dopoguerra italiano, infatti, impone al Partito Comunista un passaggio deciso da “partito di rivoluzionari per professione” a “partito maggiormente legato alla componente di massa”, inserito nel sistema democratico- parlamentare che va affermandosi. L’incapacità di muovere in questa direzione si rivela uno dei limiti più evidenti del partito lucchese, che pure aveva goduto, nei mesi successivi alla liberazione, di una rapida crescita di consensi legata anche al supporto dei ceti medi ed intellettuali.

C’è da fronteggiare una drammatica situazione sociale, muovendosi nella promozione dei bisogni della popolazione a livello morale e materiale, come affermato da Togliatti a Firenze il 3 ottobre 1943; e c’è da radicare oltretutto una politica del “partito nuovo” che aveva portato rapidamente gran parte dei dirigenti comunisti locali a criticare quelle spinte “classiste” e “settarie” presenti all’interno della Federazione, in contrasto con la politica unitaria indicante una “doppiezza figlia di più generazioni e di più linee politiche presenti nel Partito”, per usare le parole di Renzo Martinelli32

. Ad ogni modo, come riferito, dalla liberazione alla primavera del 1945 il PCI di Lucca aveva conosciuto un buon incremento di iscritti, tanto da portare il segretario Pieruccioni a definire quel periodo come “caratterizzato da un processo espansivo e spontaneo: espansivo, perché dai pochi centri in cui era sorto nel periodo clandestino (Lucca, Viareggio, Ponte a Moriano, le zone non a caso più industrializzate) si irradiava rapidamente; spontaneo, perché un controllo proprio e vero, in questo processo, per varie ragioni non è mai esistito”. Vi sono, malgrado ciò, limiti strutturali che eludono dalla stessa specificità lucchese (nel senso che fanno riferimento ad un “limite” nazionale)33, individuabili ad esempio in un accedere alle fila comuniste di individui privi della benché minima istruzione marxista, ostacolo che rende impossibile -riprendendo ancora le parole del segretario- porre una simile massa di iscritti “a diretto contatto con un organizzazione che la conglomerasse e l’attivizzasse; in realtà il numero di quelli che non si limitano all’iscrizione ma mantengono contatto con la nostra organizzazione – continuava- è infinitamente piccolo e oscilla tra il venti e il trenta per cento” 34. A spingere alcuni cittadini ad avvicinarsi non era stata infatti una sentita consapevolezza (segnandone una debolezza ideologica), quanto più un aspetto di simpatia verso un partito capace di distinguersi nitidamente

32

Cfr. Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, Vol.VI, Il “Partito nuovo” dalla liberazione al 18 aprile, Einaudi, Torino, 1995.

33

Per dare un’idea più precisa del persistere di questo problema interno alla politica comunista, si pensi ad esempio a quanto Adalberto Minucci appuntava, sul mensile “Rinascita”, in riferimento agli scontri operai dei primi anni Sessanta: “è evidente come la loro incompleta assimilazione e talvolta la loro estraneità all’attività organizzata del sindacato unitario e del nostro partito lascia parzialmente inutilizzato un grande potenziale rivoluzionario”. In cfr. “Rinascita”, n.5, 1961, Aspetti della spinta operaia a Torino, di Adalberto Minucci.

34

Situazione politica organizzativa della nostra Federazione e prospettive per il futuro, di Giuseppe Pieruccioni, documento riportato in Emmanuel Pesi, Dalla guerra alla democrazia, op.cit., p.161. Alla fine del periodo clandestino, nel settembre 1944, il PCI contava nel territorio liberato della provincia solo 120 iscritti, di cui 6 sole donne; nel dicembre gli iscritti arrivavano a 3.000, suddivisi in 20 sezioni e provenienti in larga parte dalla classe operaia (da cui proveniva anche l’eroe partigiano Roberto Bartolozzi), ma anche da ceti impiegatizzi e intellettuali.

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nella lotta al fascismo: insomma, per questa via, i timori di un radicamento momentaneo si riversano prepotentemente nei limiti che iniziano ad emergere con costanza nella vita politica comunista.

Tralasciando qui, almeno nella sua prospettiva più intensa, il rapporto con le campagne (dove la fitta rete parrocchiale conduceva una campagna politica intensa a favore della DC), appare necessario rivolgere lo sguardo verso una situazione che rischiava di generare irreversibili spaccature interne allo stesso movimento operaio, dove andavano a scontrarsi “lavoratori di estrazione urbana per i quali il reddito proveniva esclusivamente dal lavoro salariato, e, soprattutto nella grandi fabbriche tessili (come la Cucirini), operai e operaie provenienti o ancora legati socialmente e culturalmente alle famiglie contadine di origine, che vedevano nel reddito della fabbrica un’integrazione di quello insufficiente garantito dalle piccole unità poderali da loro coltivate”35.

Questo carattere proletario, definito “anfibio”, si rispecchia anche nell’andamento segmentato e isolato degli scioperi, creando non poche difficoltà di coordinamento allo stesso PCI: ad esempio, durante la già ricordata manifestazione alla Cantoni del marzo 1947, i dirigenti comunisti criticano aspramente quelle maestranze che:

provenienti da famiglie di piccoli proprietari, sembrano disinteressarsi all’andamento della vertenza […] preferendo utilizzare il loro tempo nel lavoro dei campi per poi rifiutare gli accordi raggiunti dal sindacato e voler continuare lo sciopero ad oltranza, a danno dei disoccupati veri proletari senza altro sostentamento che non il reddito da lavoro.36

Si legge, in certe parole, la chiara intenzione del partito di attirare proseliti tra le enormi masse di disoccupati presenti in Lucchesia. Legato a questo c’è però un altro aspetto da sottolineare: se, come confermò il II° Congresso di Federazione –tenutosi nel dicembre 1947- i comunisti emergevano come molto forti all’interno del sindacato unitario, allora non si può sottacere il fatto che mancassero comunque di totale radicamento in molti complessi industriali, fossero questi di carattere urbano (come la Manifattura Tabacchi) o rurale (vedi la stessa Cantoni) dal punto di vista della manodopera.

Le adesioni alle spinte promosse dal sindacato, così, nascono in un clima praticamente privo di appartenenza ideologica, sovente indirizzate verso un processo rivendicativo capace di canalizzare la rabbia e il risentimento contro il persistere dei problemi alimentari, del carovita e della disoccupazione; tuttavia, al contempo, risultano assolutamente troppo deboli per poter creare la benché minima frattura nelle sfere del padronato (statale e privato), consentendo a quest’ultimo di giocare un ruolo predominante nella gestione aziendale. A muoversi su posizioni più decise, semmai, sono alcune associazioni collaterali allo stesso partito, come l’UDI (vista anche la gran componente di operaie), fondamentalmente impotenti, però, se confrontate al peso delle associazioni cattoliche e della stessa Chiesa, affiancate da una DC peraltro decisa ad

35

Ibidem, p.163.

36

Articolo Sciopero delle maestranze egli stabilimenti tessili, metallurgici e degli operai edili e lavoratori in legno della provincia

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ergersi fin dall’inizio come punto di riferimento per i ceti urbani e rurali e capace di riscontrare un importante consenso nei complessi industriali della Cantoni37 e della Manifattura Tabacchi.

Dall’aprile 1946, preso atto di quanto detto, il PCI lucchese registra un rallentamento della sua crescita, mancando completamente l’obiettivo di consolidare un’ influenza apparsa solo momentaneamente possibile: ad alimentare il dissenso è anche il circolare sempre più insistente di voci accusatorie nei riguardi degli iscritti, tacciati di essere in larga parte ex partigiani in possesso di armi o, ancor peggio, fomentatori di rivolte violente e sovversive: voci che costringono la stessa segreteria comunista a pubbliche smentite38.

Internamente alla Federazione regna così una confusione già emersa nel I° Convegno provinciale, svoltosi nell’agosto 1945, quando le 40 sezioni partecipanti (delle 56 totali) avevano constatato quanto in realtà si fosse ancora lontani dal “concetto di partito nuovo”, poiché a mancare era “quel legame necessario e vitale con le grandi masse dei lavoratori”39

e, soprattutto, una comprensione empirica del contesto sociale lucchese che portasse i comunisti ad intercettare la necessità di avvicinarsi con più decisione alle masse cattoliche, dimostrando una sostanziale simultaneità di obiettivi. Pur mancando di una più radicata presenza nelle organizzazioni di massa, richiesta dalla stessa Direzione centrale, la Federazione in ottobre contava ad ogni modo 9.562 iscritti ( il 72% di provenienza operaia, ma in gran parte proveniente dalla Versilia), di cui solo 868 donne, suddivisi in 52 sezioni e 219 cellule (192 territoriali e 21 nei posti di lavoro: alla Cantoni sarebbe arrivata solo nel 1976)40, che nello specifico del comune di Lucca vedevano i numeri restringersi a 2.668 tesserati e 14 sezioni.

Certi dissidi e certe difficoltà sembrano comunque necessitare di uno schema comprensivo più chiaro ed asciutto. Tenteremo allora di riassumerli brevemente qui, perché utili ad analizzare meglio l’evoluzione del caso Cantoni prima di tornare ad occuparcene nello specifico:

1. Una presenza assente. A seguito del netto insuccesso delle elezioni 1946, Pieruccioni si dimette,

lasciando il posto al pistoiese Fulvio Zamponi. I deludenti risultati, seguendo le parole del membro della

37

Scriveva Remo Scappini, in una relazione al Comitato Regionale Toscano e alla Direzione del PCI: “Un punto debole rimaneva il lavoro tra le donne e specialmente nella Manifattura Tabacchi e alla Cucirini Cantoni Coats; […] è noto che qui domina e impera l’influenza della DC”. Nella C.C.C., per le elezioni del sindacato tessile del 28 settembre 1947, alla corrente democristiana erano andati 1.150 voti su 3.000. Vedremo come, col tempo, questa situazione subirà delle modifiche. Dal canto loro, fino al 1947, i comunisti avevano invece riscontrato un buon consenso alla SMI, con 1.533 voti contro i 201 della corrente cristiana, prima che l’Azienda metallurgica divenisse un feudo CISNAL durante tutti gli anni Cinquanta.

38

Su “Il Nuovo Corriere” del 23 marzo 1946, si leggeva: “il Partito Comunista si rivolge a tutta la cittadinanza per far comprendere che non si risolve né si migliora l’attuale stato di disagio in cui ci troviamo, con dimostrazioni violente, spesso sobillate da elementi incontrollati al solo scopo di creare il disordine ai fini inconfessabili di nuocere al prestigio della nascente democrazia. Svaligiare un negozio può portare del beneficio a qualche persona, ma aggrava la situazione alimentare di tutti. Il Partito Comunista, mentre fa appello al buon senso e alla calma di tutta la popolazione, invita gli esercenti e i commercianti a rendersi più esatto conto delle terribili condizioni del nostro popolo”.

39

“Documenti e studi”, n.35, 2013, op.cit. p.97.

40

Nel 1945, su un totale di 5.000 addetti, la Cantoni e la Manifattura Tabacchi contavano solo 200 iscritti al PCI. Condizione, questa, dettata anche dalla prevalenza di manodopera femminile.

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Direzione centrale Antonio Roasio, non erano tuttavia da ricercare solo “nella composizione sociale della provincia e nella tradizione religiosa della popolazione”, ma anche e soprattutto in un’incapacità del partito nel consolidare la propria presenza tra ceti operai e mondo rurale. Persistevano in aggiunta forti frizioni all’interno del Comitato Federale tra segreteria e un significativo numero di dirigenti: dissidi che avevano distratto dall’effettuare un’accurata analisi della composizione sociale della provincia, frazionando gli interessi delle stesse categorie e ponendosi così al rimorchio di molte manifestazioni di dissenso, le quali, viceversa, avrebbero dovuto e potuto trovare la loro guida in una forza politica desiderosa di recuperare terreno.

Questa mancanza di stabilità ricadeva in continui infortuni nei confronti delle donne, dei giovani e dei contadini, indotti anche dalla scelta di adottare una fraseologia pseudo rivoluzionaria rivelatasi invece utile solo a palesare l’immaturità delle cellule in materia assistenziale, rendendo molto più importante per questa via (ma non eccessivamente) il ruolo del sindacato. Per dirla con le parole di Zamponi, così, se nel 1946 il PCI lucchese era un partito da 6.456 voti e 3.037 iscritti, principalmente operai, significava che “buona parte dei […] compagni qui non sono stati capaci di influenzare la propria moglie o il figlio a votare il partito”41

.

2. Questione femminile. La debolezza più lampante per il partito lucchese risedeva forse nella mancata

presa sulle donne. Queste, che rappresentavano comunque una fetta importante della componente operaia (in particolar modo nel settore tessile, non a caso quello meno “contaminato” dai comunisti), si erano trovate “vittime” di ciò che l’ispettrice Dina Ermini aveva definito “una sottovalutazione” da parte del PCI: “la Commissione femminile del partito teoricamente esiste, ma praticamente no”, scriveva la stessa. A pesare sulla mancata adesione del gentil sesso era in particolar modo “il forte settarismo”, promosso dalle iscritte soprattutto nei riguardi “dei preti e della religione”42

: non si intravedeva neanche una forte dedizione alla causa se, come nel caso di una delle tesserate reputate più capaci, Nara Marchetti, questa preferiva restare saldamente ancorata al suo lavoro alla Camera di Commercio piuttosto che impegnarsi radicalmente nella vita di partito. Forze emergenti come l’UDI43

, che pure parevano garantire almeno un più deciso zelo operativo, mancavano completamente di appoggio da parte del partito, già di per sé fortemente limitato in materia di presenza femminile: non deve stupire, quindi, se durante la prima Conferenza di organizzazione svoltasi il 1° ottobre 1946, nonostante il numero di adesioni fosse balzato a 12.305 (2.743 in più rispetto all’ottobre 1945), solo 29 cellule (su di un totale di 291) risultassero femminili, mentre in 40 era ancora

41

APC, RP, 1946, 112, 1731, Relazione politica del compagno Zamponi, 1° ottobre 1946, in “Documenti e studi”, n.35, 2013, p.101.

42 APC, RP, 1946, 112,1876, Sopralluogo fatto a Lucca nei giorni 14, 15, 16 aprile 1946, in Emmanuel Pesi, Dalla guerra alla

democrazia, op.cit. Certe militanti mancavano di una organizzazione vera e propria e difettavano di propagandiste.

43

Quando nel 1947 le sinistre furono estromesse dal governo, anche a Lucca i partiti non si arresero, rivendicando migliori condizioni sociali ed economiche. Durante la manifestazione contro il carovita del 20 settembre dello stesso anno, furono proprio le tesserate dell’UDI a protestare animatamente per tutelare le masse femminili colpite da vicino dall’aggravarsi della crisi economica. A queste fece da contraltare la giovane dirigente democristiana, Maria Eletta Martini, che tacciò l’organizzazione di strumentalizzare il governo invece di contribuire, come donne, alla ricostruzione del Paese.

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assente una qualunque forma di organizzazione promossa da donne. Per completare il quadro, dando un’occhiata anche alle fila del Fronte della Gioventù, al suo interno il 62,5% erano uomini, il 26% giovani e solo l’11,5% donne44

.

3. La frattura, la propaganda, la tradizione. Abbiamo già visto come il contesto postbellico avesse

messo il “partito nuovo” davanti alla sfida lanciata dall’emergere di bisogni primari della popolazione, come la questione abitativa-residenziale, il lavoro e la ricomposizione dei nuclei familiari. Alla frustrazione di Gino Baldassari per una situazione economica pesantissima, dettata da un’impennata delle tasse che la prima amministrazione comunale aveva gestito con fatica, si presenta allora agli occhi di tutti i partiti antifascisti la possibilità di espandere la propria credibilità tra le masse: ben presto, tuttavia, ad emergere è piuttosto una profonda frattura tra democristiani e forze di sinistra, non tanto nelle sale comunali (dove, ad esempio, nel 1946 il nuovo Sindaco Martini, nonostante una dura critica economica all’amministrazione precedente, aveva usato parole benevole verso l’uscente Baldassari), quanto nell’opera di contrasto portata avanti dal Prefetto Giovanni Carignani, deciso a liberarsi dai vincoli promossi dalla politica del CPLN e fermo nel mobilitare clero, ceti rurali e fedeli in favore della “balena bianca”. La Chiesa lucchese, pertanto, struttura la campagna anticomunista sfruttando (oltre alla miseria di certe zone, vedi quella della Garfagnana) le occasioni di ritrovo collettivo -come messe e prediche- durante le quali ai praticanti viene ricordato il necessario riguardo da tenere nei confronti del carattere nazionale e della religione “appartenente” allo stato italiano45.

44

Cfr. Isrec Lucca, Fondo Pci, Serie 1, Sezione I, b. 9, Situazione organizzativa del Partito nei comuni della provincia, Lucca, 1946. Il PCI mancava totalmente di sezione a Villa Collemandina, Minucciano, Coreglia Antelminelli, Castiglione Garfagnana, Fosciandora, Pescaglia, Careggine, Trassilico e Giuncugnano. Il punto di maggior radicamento si trovava incredibilmente in Garfagnana, dove saldamente rossi erano i piccoli comuni di Vagli Sotto, Pieve Fosciana e San Romano: la Versilia restava l’area in cui il partito era più organizzato, scarsa era invece la sua presenza nella Valle del Serchio (1.653 aderenti, l’1,95% della popolazione), leggermente meglio nella Piana di Lucca, dove alle 28 sezioni corrispondevano 4.893 tesserati (pari al 3,45%). Minima, poi, risultava l’influenza del partito tra le 38.000 famiglie di piccoli proprietari e tre le 7.242 di mezzadri: le donne iscritte, inoltre, erano in gran parte casalinghe, il 64% operaie, il 23% artigiane, il 6% impiegate, il 3% contadine e il 2% intellettuali, seppur su di un campione di iscritte molto ristretto.

45

Scrive, Pesi, in un suo passo: “Antonio Torrini rispose in maniera decisa che i parroci nell’esplicazione del loro ministero dovevano mantenersi al di sopra di ogni competizione meramente politica, ma che erano obbligati in forza del loro ufficio di Pastori di anime ad esporre chiaramente ed integralmente la Dottrina cattolica ai fedeli e “ad illuminare le coscienze circa gli errori ad essa contrari, che la propaganda antireligiosa tentasse di diffondere in mezzo alle loro popolazioni”, in questo modo facendo il bene delle anime e allo stesso tempo cooperando alla rinascita della Patria. In diverse occasioni le relazioni prefettizie, firmate dallo stesso Carignani, segnalarono “particolari manifestazioni di avversione del clero nei riguardi del PCI” e che “in qualche chiesa parrocchiale, infatti, i sacerdoti nel corso delle loro prediche, hanno criticato il programma e le direttive di tale partito, perché contrari alla religione morale”, avvisando come questi atteggiamenti fossero causa di malcontento tra la popolazione e potessero creare ripercussioni sull’ordine pubblico. Il 16 dicembre 1944, Pieruccioni confermava alla Direzione nazionale del partito che i rapporti con la DC non avevano fatto un passo in avanti e riferiva che, “politicamente, si riscontra sempre una certa incomprensione e settarismo nei compagni, in particolar modo serpeggia fra i nostri iscritti un profondo risentimento nei confronti della Democrazia Cristiana, motivato fondamentalmente per le posizioni di ostilità, che vanno assumendo i parroci. Si vorrebbe rompere con la