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La rinascita del cinema d'impegno civile nel cinema italiano degli anni duemila.

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1 Indice

Introduzione p.2

1. Capitolo primo

1.1 L’Italia negli anni della Prima Repubblica p.7 1.2 Il cinema italiano negli anni della Prima Repubblica p.14

1.3 Per un cinema d’impegno civile p.19 1.4 Dal cinema d’impegno civile al cinema di massa p.28

Capitolo secondo

2.1 L’Italia negli anni della Seconda Repubblica p.31 2.2 Per un nuovo cinema d’impegno civile? p.39

Capitolo terzo

3.1 Il discorso di denuncia ne I cento passi e Buongiorno, notte p.53 3.1.1 I cento passi p.55

3.1.2 Buongiorno, notte p.60 3.2 L’autarchia de Il Caimano p.65 3.3 La contemporaneità nel cinema di Sorrentino e Garrone p.73

3.3.1 Il Divo p.75 3.3.2 Gomorra p.84

Conclusioni p.91 Bibliografia p.93

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2 Introduzione

Se durante gli anni sessanta e settanta il nostro cinema ha visto la nascita della

commedia tutta all'italiana prima, e del cinema politico dopo, a cavallo degli anni

ottanta e novanta quasi entra in una sorta di torpore dovuto, probabilmente, ad un momento storico, politico e socio - culturale che, anche grazie alla nascita delle televisioni commerciali, ne determina la crisi. Al contrario, tra la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo millennio, grazie alle nuove leve che già dagli esordi propongono un cinema di qualità, si denota una certa ripresa anche per gli argomenti trattati: la critica parla infatti di ricambio generazionale, di rinascita, e che in questo millennio ritorna ad essere apprezzato all'estero, nei circuiti dei festival internazionali dove conquista critica e pubblico portando a casa prestigiosi premi cinematografici. Ma, anche in questo ambito riscontriamo problemi, sempre e solo tutti italiani, che determinano, con leggi inadatte e produzioni volte più verso il mercato del duopolio televisivo Rai e Mediaset, una progressiva recessione degli incassi in tutti i cinema italiani.

I finanziamenti statali per film di interesse culturale e gli incentivi per le opere prime hanno determinato un sovraffollamento di opere e registi che spesso non riescono ad ottenere una giusta valutazione o un giusto riconoscimento. Fortunatamente il primo decennio degli anni duemila vede una ripresa soprattutto degli incassi grazie anche alla moderna tecnologia del 3D usata nel cinema fantasy, ma anche grazie al cambiamento dei gusti di un pubblico socialmente e antropologicamente diverso dell'era berlusconiana, assoggettato e culturalmente dipendente da quel modo di fare spettacolo, e che tanto ha pervaso l'immaginario collettivo degli anni precedenti.

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La Filmauro dei De Laurentiis produce cine-panettoni e commedie stereotipate, la

Cattleya, casa di produzione indipendente, mette sul mercato prodotti di qualità

destinati spesso ad un pubblico femminile o di coppia; su un livello superiore si trova la Fandango, casa di produzione e distribuzione sia cinematografica che televisiva, ma anche casa editrice e musicale con una propria etichetta, la quale si pone l'obiettivo di allargare gli orizzonti verso la produzione internazionale. Possiamo comunque, nonostante gli alti e i bassi, sentirci orgogliosi per tutto ciò che il nostro cinema ha prodotto nel corso della sua lunga storia, tanti sono i registi che lo hanno reso grande e famoso nel mondo, e tanti sono i grandi registi internazionali, quali Martin Scorsese o Quentin Tarantino che a loro si sono ispirati, riconoscendo la grande arte dei nostri Fellini, Rossellini, Visconti, Rosi e Petri. Tra i pochi meriti da attribuire al regime fascista di Benito Mussolini è da annoverare sicuramente il cospicuo sforzo attuato nei confronti dell’industria cinematografica italiana crollata nel 1921; l’intenzione, indubbiamente, era di farne uno strumento utile per la propaganda di regime attuata mostrando una società pacifica, avvolta nel benessere e in perfetto stato di salute infatti i generi privilegiati dal regime furono la commedia sentimentale, il melodramma e il genere storico. Il ruolo di propaganda politica ad hoc lo svolgevano, oltre che i comuni mezzi di informazione quali giornali e radio, i cinegiornali e i documentari diffusi dall’Unione Cinematografia Educativa ossia l’Istituto Luce fondato nel 1924 per la diffusione della cultura fascista in onore del duce e delle sue imprese. Durante il regime fascista, lo Stato era l’unico finanziatore, produttore e distributore del prodotto cinematografico.

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Nel 1935 viene fondato a Roma il Centro Sperimentale di Cinematografia, istituto di formazione professionale cinematografica che promuoveva una tipologia di cinema inteso come arte; mentre nel 1937, sempre a Roma, dalle ceneri degli stabilimenti Cines, nasce Cinecittà che diventa il centro propulsore dell’industria cinematografica italiana: un complesso produttivo di trenta edifici in sessanta ettari di superficie capace di offrire prodotti in grado di competere con la produzione internazionale.

Sotto il regime fascista nacque anche la celeberrima Mostra Internazionale d’arte

cinematografica di Venezia, inaugurata nel 1932, fu un importante strumento di

promozione e sviluppo della cinematografia.

Insomma durante la dittatura mussoliniana c’era grande fermento della cultura cinematografica italiana e non mancarono anche diverse riviste fondate da diversi intellettuali.

Verso la fine degli anni trenta furono adottate misure protezionistiche nei confronti dell’invasione del cinema straniero e nel 1938 ne fu bloccata l’importazione. Questa manovra permise di dare uno slancio alla produzione nazionale.

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale la produzione si arresta e il grande sistema cinematografico ruotante intorno a Cinecittà fallisce1.

Il falso splendore rappresentato nelle pellicole di regime fu accantonato nell’immediato dopoguerra quando, attraverso il cinema, si decise di mostrare la dura realtà provocata dalla guerra, documentando il cumulo di macerie in cui era

1 G. P Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema del regime 1929 – 1945, Vol II, Roma, Editori

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ridotta l’Italia. Tra il 1945 e il 1948 la stagione neorealista impose il suo carattere distintivo alla cinematografia nazionale intenta a raccontare la vita quotidiana della gente comune. Si trattò di una condizione necessaria dovuta alla particolare situazione storica in cui versava l’Italia e che spinse a raccontare intrecci di vite comuni unite da vicende storiche comuni come la lotta antifascista in Roma città

aperta di Roberto Rossellini, 1945. Con il Neorealismo cambiano i contenuti ma

anche le forme e vengono abbandonati i codici del cinema classico: «con il Neorealismo, dirà André Bazin (che sarà il primo teorico del cinema moderno), l’unità base del racconto cinematografico non è più l’inquadratura, e quindi neppure il montaggio, ma il fatto, l’evento bruto, ancora confuso, incerto e caotico, davanti al quale la cinepresa rimane attenta a osservare, cercando di capire quello che accade. La novità del Neorealismo è il caos della realtà quotidiana; gli errori diventano fondamento di una nuova estetica, nasce da essi un nuovo rapporto con lo spettatore, al quale ci si indirizza spesso, chiamandolo direttamente in causa con la voce fuori campo o addirittura con lo sguardo in macchina e, anche se la narrazione non viene mai abbandonata, viene però sempre spezzata2».

Il dopoguerra è quindi caratterizzato da una fase di ripresa anche grazie alla politica di assistenza e tutela da parte dello Stato attuata da Giulio Andreotti, il quale dal 1947 è Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, anche se in realtà è in gioco il controllo dei meccanismi di produzione e distribuzione infatti, lo sviluppo quantitativo dell’industria cinematografica italiana non coincide con un altrettanto

2 S. Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Venezia,

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slancio qualitativo e i prodotti non graditi al vertice politico restano fuori dal mercato cinematografico.

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7 1.1 L’Italia negli anni della Prima Repubblica

L’Europa del secondo dopoguerra si ritrova divisa in due blocchi, posti sotto l’influenza delle due superpotenze che si sono alleate per liberarla dal potere nazista: la democrazia capitalista degli Stati Uniti d’America ad ovest e il totalitarismo comunista dell’Unione Sovietica ad est. É il primo Ministro inglese, Winston Churchill, ad utilizzare l’espressione cortina di ferro per indicare la linea di confine che divide i Paesi dei due blocchi. Simbolo di questo conflitto ideologico e politico è il muro di Berlino eretto per conto della Germania dell’est nel 1961 e abbattuto solo nel 1989.

L’Italia, devastata dalla guerra, si trova in una situazione di grande incertezza politica, oltre che in grave dissesto economico. Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 sancisce la nascita della Repubblica e le elezioni politiche del 18 aprile 1948 premiano la Democrazia Cristiana, partito d’ispirazione cristiana fondato nel 1942 capeggiato da Alcide De Gasperi (partito appoggiato sia dal Vaticano che dagli Stati Uniti d’America, favorevole ad un governo centrista piuttosto che comunista). Una volta insediatosi, il Parlamento elegge Luigi Einaudi primo Presidente della Repubblica Italiana. Lo scenario internazionale determinato dalla

Guerra Fredda tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica non può non

influenzare la nascente Repubblica italiana, la quale aderisce nel 1949 alla NATO patto che sancisce la formazione di un blocco politico e militare delle democrazie occidentali al fianco degli USA contrapposto all’URSS e alle Democrazie Popolari dell’Europa Orientale, le quali, a loro volta, si riorganizzano militarmente.

Nel decennio che va dal 1950 al 1960 l’Italia vive il suo boom economico o

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tecnologica: ciò comporta anche trasformazioni sociali e fenomeni migratori dal sud verso il nord e dalle campagne verso le città. Naturalmente i mutamenti della società non possono non riflettersi anche nell’organizzazione politica dello Stato e il segretario della Democrazia Cristiana, Amintore Fanfani, fiuta l’esigenza di una riorganizzazione interna del partito, che riguarda principalmente l’apertura nei confronti del Partito Socialista. É però il nuovo segretario della Democrazia Cristiana succeduto a Fanfani nel 1959, Aldo Moro: statista che si mostra favorevole ad una vera e propria apertura verso i socialisti, ciò provoca polemiche e contrasti all’interno del partito, fino a quando il nuovo governo guidato da Fanfani formatosi nel 1960 e che è passato alla storia come il governo delle convergenze

parallele inaugura il processo politico che porta all’avvicinamento di Democrazia

Cristiana e Partito Comunista.

Le elezioni politiche del 28 aprile 1963 segnano però un calo dei voti nella Democrazia Cristiana e un aumento invece nel Partito Comunista; Fanfani perde il ruolo di guida del governo e Aldo Moro inizia a guidare e gestire il governo di centrosinistra della nuova legislatura dal 1963 al 1968.

La fine del decennio iniziato con il boom economico è caratterizzato, come nel resto del mondo occidentale, dalle contestazioni studentesche, cui seguono nel 1969, quelle operaie causate da un malcontento generale riguardante il pagamento insostenibile delle tasse e la mancata ridefinizione di nuovi contratti di lavoro. Così prende forma la cosiddetta Strategia della tensione: risposta di alcuni apparati più conservatori dello Stato che vede uniti estremismo neofascista, parte dei servizi segreti e alcuni membri dei partiti di governo mobilitarsi per bloccare, o meglio reprimere, un movimento che aspirava a modificare gli equilibri economici e

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politici del Paese. Il periodo che va dal 1969 al 1980 (i cosiddetti Anni di Piombo) è caratterizzato da attacchi terroristici inaugurati, per molti storici, dalla Strage di

Piazza Fontana (12 dicembre 1969) di stampo neofascista presso la Banca

Nazionale dell’Agricoltura a Milano che causa 17 morti e 88 feriti. Sono anni di stragi e violenze che in una prima fase mostrano una matrice politica di estrema destra e che, purtroppo, colpiscono molti civili; tra le più gravi: la Strage di Piazza

della Loggia a Brescia 28 maggio 1974 (8 morti e 102 feriti) e la strage dell'Italicus

4 agosto 1974 (12 morti e 105 feriti). Anche sul versante di estrema sinistra, di fronte allo scatenarsi della Strategia della tensione, si organizzano gruppi di lotta armata rivoluzionaria: le Brigate Rosse, organizzazione terroristica marxista leninista, nata nel 1970, dopo alcuni anni di propaganda armata, ossia di azioni esemplari contro i nemici del proletariato, inizia a mettere in atto quello che è un

vero e proprio attacco al cuore dello Stato iniziato con alcuni sequestri e processi

proletari a personaggi pubblici come Ettore Amerio, direttore del personale Fiat auto di Torino e il Pubblico Ministero genovese Mario Sossi. Accanto alle Brigate

Rosse, un’altra organizzazione terroristica di estrema sinistra è Prima Linea, meno

settaria rispetto alle BR e operante in un clima di semi clandestinità.

Dunque gli anni settanta sono attraversati da una profonda crisi politica e sociale: i partiti politici mostrano tutta la loro disgregazione causata dalla volontà per alcuni e manifesta avversione per altri, di creare un eventuale governo di coalizione tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, mentre le organizzazioni terroristiche rivendicano stragi il cui obiettivo è, appunto, la destabilizzazione dello Stato e della collettività.

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In questo clima, nel 1972, il nuovo segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer propone la strategia, nota con l’espressione Compromesso storico, la quale delinea la necessità di creare una collaborazione tra le forze democristiane e quelle comuniste affinché il PCI rientri nella maggioranza parlamentare, interrompendo definitivamente l’esclusione del secondo partito d’Italia, dopo la DC, dal governo del Paese, per cercare di risanare e rinnovare la società italiana. Favorevole a questa proposta si mostra il presidente di partito della Democrazia Cristiana Aldo Moro e nelle elezioni politiche del 1976 il Partito Comunista raggiunge il suo massimo storico. L’incontro tra i due partiti ha però breve durata: sia all’interno della DC che nel PCI c’è scontento e il colpo finale al fallimento dell’accordo lo danno le Brigate Rosse: il 16 marzo 1978 le BR rapiscono il Presidente Aldo Moro, lo stesso giorno il Parlamento si riunisce per votare la fiducia al nuovo governo Andreotti, appoggiato, appunto, per la prima volta dopo quarant’anni, anche dal Partito Comunista.

La vicenda del sequestro Moro è un caso che coinvolge l’opinione pubblica italiana e mondiale e che mobilita tutte le autorità e le istituzioni: dal Pontefice Paolo VI, il quale rivolge un appello da Piazza San Pietro per la liberazione di Moro, all’Organizzazione delle Nazioni Unite. La prigionia del Presidente della Democrazia Cristiana, dal rapimento in Via Mario Fani fino all’uccisione e al ritrovamento del corpo in Via Caetani il 9 maggio 1978, dura cinquantacinque giorni durante i quali Moro è sottoposto a un processo politico da parte del tribunale

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Ancora oggi il Caso Moro è avvolto nel mistero, ci sono molti punti oscuri sulla vicenda e in molti concordano sulla probabilità di una strumentalizzazione, da parte di forze occulte, degli stessi brigatisti.

Gravi sono le conseguenze dell’assassinio Moro non solo dal punto di vista umano e sociale ma anche e soprattutto politico: si tratta infatti di un attacco allo Stato rappresentato, allora, dai democristiani e che porta alla disgregazione della classe dirigente rappresentata, appunto, dal partito della Democrazia Cristiana.

Gli anni ottanta sono il decennio della crisi del comunismo sovietico e del comunismo nel mondo occidentale e il crollo del Muro di Berlino il 9 novembre 1989 segna la fine della guerra fredda.

Per alcuni storici l’inizio degli anni ottanta segna anche la fine degli Anni di piombo culminati nell’esplosione alla Stazione di Bologna il 2 agosto 1980, strage che provoca 85 morti e 200 feriti. Purtroppo però la fine degli Anni di Piombo non indica la fine delle stragi, anzi, le stragi e gli attentati sono continuati fino agli anni novanta, questa volta per mano di Cosa Nostra.

Gli anni ottanta sono caratterizzati anche da scandali della classe dirigente politica venuti fuori grazie alla scoperta, nel 1981, della Loggia Massonica P2: forza occulta guidata dal faccendiere Maestro venerabile Licio Gelli composta da uomini politici, uomini delle forze dell’ordine, imprenditori, burocrati e giornalisti che mira a destabilizzare il sistema economico e politico italiano. La scoperta della P2 provoca una profonda crisi politica in quanto colpisce fortemente i partiti della maggioranza e in particolare la Democrazia Cristiana. Nel frattempo inizia ad emergere il Partito Socialista Italiano guidato dal 1976 da Bettino Craxi, il quale rinnova l’ideologia

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interna al partito in una linea di dialogo con gli altri movimenti ma escludendo il PCI e di fatto scontrandosi con la linea del Compromesso storico di Berlinguer. Il Partito Socialista diventa fondamentale in quel momento e dal 1983 al 1987 Craxi è Presidente del Consiglio. Craxi si circonda subito di personaggi legati alla vecchia dirigenza DC e a Giulio Andreotti. Dal 1987 al 1992 si susseguono governi di pentapartito che fruiscono della buona congiuntura internazionale entrata in crisi nel 1991.

Nel periodo che va dalla metà degli anni ottanta ai primi anni novanta lo Stato diviene nuovamente il bersaglio di nuovi attentati e nuove stragi, questa volta organizzate dalla criminalità mafiosa operante in Sicilia Cosa Nostra e che in quegli anni si infiltra anche al nord e in diverse regioni italiane.

Dal 1986 al 1992 ha luogo nella città di Palermo il Maxiprocesso: un processo penale in cui oltre quattrocento imputati vengono condannati per crimini di mafia, dopo diverse indagini rese possibili grazie alla nascita del Pool antimafia in cui si distingue il lavoro dei due giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, assassinati da Cosa Nostra proprio nel 1992.

Ancora anni duri per l’Italia: debito della spesa pubblica, evasione fiscale, lottizzazione dei partiti diffusa negli enti pubblici, giornali e radiotelevisioni; i governi sembrano distanti dal popolo italiano, che, a differenza degli anni settanta, non si rifugia in correnti estremiste ma ha un atteggiamento critico nei confronti della classe politica, dalla quale pretende delle riforme e un rinnovamento della classe dirigente. Peraltro, mentre in Sicilia si svolge il Maxiprocesso, a Milano nel 1992, un pool di magistrati tra cui Antonio Di Pietro, avvia l’indagine giudiziaria

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accusati di corruzione. L’inchiesta porta gli italiani a conoscenza di un sistema corrotto che riguarda enti pubblici e industrie private e che prevede accordi con i politici e tangenti distribuite a piene mani per privilegiare le grandi imprese; di qui il nome Tangentopoli.

Il 1992 e l’inchiesta di Mani Pulite indicano per l’Italia un anno di svolta che porta allo smantellamento della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista e alla fine di un sistema corrotto di poteri che ha governato l’Italia sin dal dopoguerra. Segue una crisi politica e la sola novità che emerge nelle elezioni del 1992 è la Lega Nord: nata dall’unione dei movimenti autonomisti attivi nel nord Italia.

La Repubblica italiana è in uno stato di agonia, il popolo vuole il cambiamento, un governo forte capace di affrontare i problemi della riforma dello Stato e della crisi economica, capace di ricostruire un Paese e una società che sta raggiungendo un certo livello di benessere e desidera mostrarsi al passo con i tempi che cambiano. E così con le immagini della telecronaca della Strage di Piazza Fontana, del rapimento Moro, della Strage di Bologna, della Strage di Capaci e della Strage di Via d’Amelio la Prima Repubblica italiana, inaugurata dalla Strage di Portella della Ginestra nel 1947, sigla la sua fine: corrono gli anni 1993 – 1994.

L’illusione del cambiamento non tarda a verificarsi e nell’anno 1994 uno dei più grandi imprenditori del Paese, proprietario di tre canali televisivi, della casa editrice Mondadori e fondatore del partito politico di centro destra Forza Italia annuncia la sua discesa in campo: Silvio Berlusconi3.

3La storia d’Italia, grandi opere UTET, Consulenza di Massimo L. Salvatori, Volume XIV,

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1.2 Il cinema italiano negli anni della Prima Repubblica

Il cinema italiano della breve stagione Neorealista ha ben documentato la difficile condizione di una popolazione ridotta in miseria in città distrutte o sommerse dalle macerie, fisiche e morali, di una guerra assurda e disumana. Tuttavia la risalita e la voglia di riconquista di una propria dignità di popolo emerge e diviene argomento peculiare della cinematografia italiana.

Tra gli anni cinquanta e sessanta l’Italia è un Paese in costante crescita economica: l’industrializzazione, la valorizzazione delle risorse ambientali, territoriali quindi agricole, monumentali e architettoniche ma anche delle risorse umane infatti l'italiano lavoratore contribuisce alla crescita del Paese migliorando il suo status sociale e alfabetizzandosi. È a tutti i livelli un periodo di massima espansione creativa anche in ambito culturale, artistico e quindi cinematografico. Il cinema del decennio si caratterizza oltre che in termini quantitativi in campo produttivo, per la qualità, grazie anche alla crescita delle competenze professionali e la continuità di espansione a livello mondiale al punto da riuscire a competere solo con il grande cinema americano.

L’inizio degli anni sessanta vede affermarsi una serie di registi emergenti che dominerà la cultura cinematografica italiana fino agli anni ottanta: in tale periodo viaggiano in parallelo film che da una parte documentano la società del boom

economico, e dall’altra marcano un confine tra coloro che non sono riusciti a

liberarsi della propria condizione di reietti, di popolo che vive ai margini della società, nelle borgate della Città Eterna. Un grande regista quale è stato Federico Fellini, ci ha fatto viaggiare in una Roma che in sé racchiude ogni sfaccettatura di quella che è, sarà o è sempre stata una città in perpetuo confronto con la storia

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umana; tuttavia chi è riuscito ad addentrarsi in una realtà brutale, governata dalla legge del più forte e nella quale regna la violenza, è stato Pier Paolo Pasolini, il quale in film come Accattone (1961) e Mamma Roma (1962) ci ha mostrato la miseria umana e sociale dei personaggi e delle baracche in cui vivono.

Proprio con Pasolini, attento osservatore della società italiana in una fase di grande cambiamento, inizia a formarsi tra gli autori italiani del periodo una coscienza critica dal punto di vista politico e sociale e che, anche grazie ad una maggiore libertà di espressione, costituirà la base ideologica di quel cinema di denuncia morale, sociale e politica che si svilupperà a partire dagli anni settanta.

Sia gli autori esordienti degli anni sessanta, sia quelli già attivi dagli anni cinquanta, in ambito documentaristico o che comunque si confermano con opere di grande rilievo in questo periodo, promuovono un cinema che si pone in diretto contatto con il presente ma anche con la storia del passato più recente raccontata da un punto di vista morale e non politico ed evitata per tutto il decennio precedente a causa delle politiche di governo andreottiano. Tali autori, provenienti per lo più da un’area politicamente di sinistra decidono di esprimersi con le loro opere spesso ricorrendo a supporti e fonti di tipo storiografico, filosofico, sociale, antropologico, linguistico e documentaristico pur rispettando le regole dell’intreccio, con l’obiettivo di trasmettere informazione e conoscenza sulla realtà che li circonda tramite il modello giornalistico dell’inchiesta, in questo caso filmata.

Verso la fine degli anni sessanta e in particolar modo negli anni 1968 – 1969 iniziano a manifestarsi i primi segnali di un malcontento crescente fra coloro che non vedono affermare i propri diritti: la classe operaia. Mentre la politica si sporca le mani in affari poco puliti, la classe operaia, supportata dall'ideologia comunista,

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scende in piazza: diverse manifestazioni di protesta coinvolgono altre classi lavoratrici ma anche gli studenti universitari; le nostre città diventano luoghi di scontro tra forze dell'ordine e manifestanti, tutti sintomi di una malattia endemica che porterà, insieme alle stragi, ai fatidici anni di piombo durante i quali terrorismo di destra e di sinistra renderanno l'Italia il Paese più martoriato d'Europa.

A partire dagli anni settanta, infatti, la perdita delle certezze, la disgregazione partitica, le pulsioni rivoluzionarie, il dilagare della corruzione e la diffusione della criminalità organizzata da un lato e l’avanzare della televisione, la nascita di quelle private e quindi la drastica decrescita degli spettatori che porta alla chiusura di molte sale cinematografiche, infliggono duri colpi anche al cinema a sua volta colpito da quella crisi generale che sta coinvolgendo tutto il Paese.

Molti autori però non perdono la fiducia nei confronti del mezzo cinematografico come strumento di conoscenza e di intervento al servizio della comunità capace di raccontare e denunciare il presente e così si sviluppa in Italia un nuovo filone cinematografico definito impegnato o politico caratterizzato dalla produzione di film che trattano, appunto, la realtà del nostro Paese: il cinema politico non aveva

caratteristiche prefissate, era piuttosto un terreno di confronto; furono definiti tali in particolar modo per il clima sociale che ha caratterizzato la loro produzione e quindi l’uscita nelle sale4.

A cavallo degli anni sessanta e settanta la corruzione in politica, la mafia, le stragi, i rapimenti e le morti misteriose diventano argomenti a cui attingono gli autori per poi ricostruire gli episodi più oscuri della storia italiana in chiave critica e

4 F. De Bernardinis (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume XII – 1970/1976, Venezia,

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documentaristica: un cinema che cresce dentro i valori della democrazia, della

tolleranza, della dialettica civile. È il cinema italiano che si affaccia al moderno, è il cinema anni sessanta e settanta nella sua variante politica in senso largo e problematico5.

Gian Piero Brunetta parla di un cinema politico d’autore che al giorno d’oggi costituisce una fonte primaria di importanza per la comprensione del periodo: «periodo che va dalla morte del papa Giovanni XXIII e Palmiro Togliatti, all’uccisione di Aldo Moro6» rappresentato da Francesco Rosi, Elio Petri, Valentino Orsini, Florestano Vancini, Gillo Pontecorvo, Damiano Damiani, Paolo e Vittorio Taviani, Giuliano Montaldo, Francesco Maselli e Marco Bellocchio.

Gli anni ottanta vedono l'ascesa e il moltiplicarsi delle televisioni private che investono anche nella produzione cinematografica soprattutto grazie all'apporto di risorse derivanti da grosse sponsorizzazioni che, con ingenti somme di denaro, rendono possibile la concorrenza e investimenti su prodotti il più delle volte di scarsa qualità. Questo ha provocato un impoverimento a livello creativo e qualitativo dei prodotti cinematografici circolanti in quel decennio. La logica televisiva è la logica del mercato: puntare al massimo profitto, acquistando prodotti dal mercato estero, senza tenere conto della qualità a scapito della cultura e del servizio pubblico. Solo verso la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta si ricomincerà ad investire in prodotti d'autore incoraggiando la produzione di fiction italiane e consacrando la televisione come il mezzo privilegiato per l’intrattenimento. Non mancheranno comunque autori e registi che daranno lustro

5 V. Mannelli, L’immagine e la memoria, Ancona, Transeuropa, 2005.

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al nostro cinema in questi anni di predominio televisivo, e che ci condurranno verso il nuovo millennio.

Gli anni novanta sono un periodo di grande cambiamento segnati soprattutto dal crollo politico dei partiti e dalla dissoluzione del vecchio scenario politico.

I registi rispondono all’accusa che viene loro imputata e cioè di incapacità nel rappresentare l’Italia del momento, dicendo di rispecchiare esattamente il vuoto della società. Il critico Adriano Aprà, invece, parla di un periodo fecondo e attivo della cinematografia italiana anni novanta: film splendidi, autori vari, linee di ricerca originali ma purtroppo è un cinema non compreso7.

In ogni caso il cinema italiano degli anni novanta è sicuramente molto apprezzato all’estero grazie a personalità come Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores, Roberto Benigni, Nanni Moretti e Bernardo Bertolucci.

Un’analisi sulla condizione del cinema italiano degli anni novanta descrive uno scenario in cui «non c’è un sistema di norme e leggi adeguato, i meccanismi delle sovvenzioni statali sono aberranti, i produttori non rischiano, il mercato è omologato e appiattito sulle richieste dei funzionari televisivi, il duopolio Rai/Mediaset influenza direttamente i contenuti e persino i linguaggi del cinema per la sala»8. Comunque notevole è l’impegno di autori che decidono di riprendere tematiche sociali e renderle soggetti dei loro film.

7 V. Zagarrio (a cura di), Il cinema della transizione. Scenari italiani degli anni Novanta, Venezia,

Marsilio, 2000.

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19 1.3 Per un cinema d’impegno civile

In Italia l’eredità neorealista prende due direzioni: quella della Commedia

all’italiana e quella del cinema d’autore; il mio discorso si occuperà di quella

grande fetta costituita da una schiera di registi esordienti tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta e che costituisce la base autoriale del cinema politicamente impegnato.

Carlo Lizzani e Francesco Maselli

Un regista attivo sin dagli anni cinquanta è Carlo Lizzani, il quale esordisce nel 1951 con Achtung! Banditi! un film sulla Resistenza e la lotta partigiana e che lo pone subito come regista al servizio della Storia. Egli, infatti, con i suoi due titoli degli anni sessanta l’oro di Roma (1961) e Il processo di Verona (1963), inaugura un filone storico di rievocazione e ricostruzione a scopo informativo. Peraltro, molti film dell’epoca nascevano più da un intento politico che prettamente cinematografico: siamo in un periodo infatti in cui è diffusa la rappresentazione non solo dell’antifascismo, ma soprattutto, del fascismo stesso e della presa di

coscienza. Lizzani successivamente inizierà ad inserirsi in quella direzione presa

dal cinema di impegno civile che racconta una società caratterizzata dalla violenza criminale con episodi di cronaca come dimostrano Svegliati e uccidi (1966) e

Banditi a Milano (1968); proprio dall’attenzione verso gli eventi della cronaca parte

un’analisi del tessuto sociale che porta il suo sguardo ad indagare fenomeni quali la prostituzione, la delinquenza, la diffusione della droga e il terrorismo9.

9 G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta, Vol IV,

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L’ultima fase della guerra, costituita dalla lotta della liberazione, fa parte anche dell’esordio di Francesco Maselli: con Gli sbandati (1955) racconta il periodo attraverso una storia d’amore di individui appartenenti all’alta borghesia. Maselli, nonostante il successo di film come I delfini (1960) e Gli indifferenti (1961) resterà però in una zona d’ombra.

Gillo Pontecorvo , Francesco Rosi e Damiano Damiani

Due esordi di fine decennio, di cui uno in particolare sarà fondamentale per gli anni a seguire, sono quelli di Gillo Pontecorvo (Kapò, 1959) che si caratterizza con uno stile documentaristico presente in particolar modo ne La battaglia di Algeri (1966), e soprattutto quello di Francesco Rosi che sin dall’inizio mostra la sua dote registica narrando un evento di cronaca napoletana di attualità con La sfida (1958), mentre con I magliari (1959) dimostra la sua propensione ad utilizzare il cinema come arma dotata di un’inestimabile passione civile. Francesco Rosi ha avuto la capacità di raccontare la storia economica, politica e istituzionale dell’Italia cercando di capire e far capire la realtà attraverso i suoi film. Con Salvatore Giuliano (1962) inizia il periodo maturo del regista in cui è evidente quella caratteristica di molti autori cinematografici (caratteristica che andrò ad indagare in alcuni film e che costituisce il motivo d’interesse del mio argomento) che cercano di capire quanto e come siano accomunati il potere politico e il potere mafioso, qui tramite un film-inchiesta ripercorre fedelmente, tramite dati di cronaca, la vita del malavitoso siciliano allargando lo sguardo al contesto circostante che ha manovrato l’azione. In Le mani

sulla città (1963) denuncia gli intrecci di potere tra lo sfruttamento edilizio a Napoli

e gli organi dello Stato. Rosi è l’autore del cinema politico capace di indagare più a fondo diversi misteri italiani e gli intrecci tra Stato e mafia come fa in Salvatore

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Giuliano (1962), Il Caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973) ma anche in Tre fratelli (1981) e Dimenticare Palermo (1990). Ne Il caso Mattei e in Lucky Luciano

utilizza anche la tecnica dell’inchiesta cercando di fornire nuove ipotesi interpretative, infatti, in questi due film Rosi parte da dati forniti dalla cronaca per poi avviare un processo che mostra i diversi intrecci tra mafia e politica pur concentrandosi sui personaggi protagonisti a differenza di quello che aveva fatto con Salvatore Giuliano.

Damiano Damiani è un regista che esordisce nel 1960 con un poliziesco: Il rossetto; si tratta di un autore che da una parte è influenzato dai racconti ispirati a storie di mafia e corruzione come Rosi, dall’altra è ispirato direttamente da eventi di cronaca come Lizzani. Dalla fine degli anni sessanta, anche grazie all’incontro con la narrativa di Leonardo Sciascia Il giorno della civetta (1968), pone al centro del suo interesse il tema della mafia siciliana e il suo rapporto con i poteri pubblici, seguendo un percorso nel raccontare la sua diramazione nazionale e internazionale,

il suo trasformarsi e mutare da struttura artigianale a grande impresa multinazionale10. Tra i titoli più significativi La moglie più bella (1970), Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971), Perché si uccide un magistrato (1975). Si tratta di un regista molto attivo dal punto

di vista della produzione che influenza anche opere destinate alla televisione grazie al primo capitolo della saga della Piovra (1983).

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22 Giuliano Montaldo e Florestano Vancini

Negli anni sessanta esordiscono diversi autori che contribuiscono, con le loro opere, alla nascita di un cinema impegnato politicamente e civilmente; molti autori iniziano a raccontare la Storia d’Italia e degli italiani dall’Unità al presente, mostrando caratteri e storie ma anche tabu riguardanti, oltre che temi quali il fascismo e la Resistenza, anche la realtà delle fabbriche, eventi della cronaca nera, massacri, stragi ritenute inutili o misteriose e perfino racconti di guerra da parte di giovani fascisti che hanno aderito alla Repubblica di Salò come fa Giuliano Montaldo in Tiro al piccione (1961). Anche Montaldo, come Rosi e i registi finora citati, è spinto, nel raccontare le trame delle sue opere, da una forte passione civile e ideologica evidente nella qualità della scrittura visiva e da una dote registica attenta alla ricostruzione storica. In Sacco e Vanzetti (1970) ricostruisce la vicenda dei due anarchici giustiziati solo per esigenze della politica americana, evidenziando l’ingiustizia dell’evento storico pur entro un meccanismo di racconto spettacolare.

Altra opera memorabile del periodo è La lunga notte del ’43 (1960) di Florestano Vancini. Film in cui si va dalla strage fascista segnata dall’armistizio dell’8 settembre 1943, al dopoguerra in cui gli stessi personaggi che prima indossavano le camicie nere, sono ora borghesi cullati dal vivere dignitoso regalato dal Boom

Economico. Alcuni titoli importanti per la qualità visiva sono Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1971) e Il delitto Matteotti

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23 Elio Petri

Uno stile innovativo, a tratti visionario e anche grottesco è quello che caratterizza un grande autore del cinema politico: Elio Petri; nel suo film d’esordio, L’assassino (1961) si avvale della collaborazione di grandi uomini di cinema come Marcello Mastroianni, Giuliano Montaldo, Ruggero Mastroianni importante nel lavoro di montaggio basato su diversi flash-back di rilevanza psicologica. Un incontro fondamentale per il resto della sua carriera è quello con lo sceneggiatore Ugo Pirro con il quale realizza alcuni dei suoi film più importanti: A ciascuno il suo (1967),

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973). Todo modo (1975) è il

suo ultimo film in cui pare abbia anticipato in modo profetico la vicenda di Aldo Moro interpretandola come un fenomeno di autocannibalismo per esorcizzare la

crisi da parte della Democrazia Cristiana11. Nel cinema di Petri e in Todo Modo in

particolare, il grottesco si determina come sintesi di sublime e di ridicolo, di elevato e di orrido, dove la forma dell’azione e della decisione politica si disfa dietro l’incontrollabilità della forza pulsionale: sessuale, famelica di conquista e mantenimento del potere12.

I fratelli Taviani e Valentino Orsini

Nel 1962 con Un uomo da bruciare esordiscono i fratelli Paolo e Vittorio Taviani con la collaborazione di Valentino Orsini: ricostruzione della biografia del sindacalista Salvatore Carnevale ucciso dalla mafia. In un certo senso anche il loro cinema è caratterizzato da una forte spinta ideologica come dimostrano alcuni titoli

11 G. P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano 1905 – 2003, Torino, Einaudi, 2003, p. 291. 12 R. De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Roma, Bulzoni, 1999.

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successivi, I sovversivi (1967), Sotto il segno dello scorpione (1969), San Michele

aveva un gallo (1971); ma la loro attività che durerà fino agli anni duemila si

caratterizzerà in seguito con un tono più epicizzante e meno ideologico.

Valentino Orsini invece, dopo la produzione del film I sovversivi, decide di distaccarsi dai Taviani preferendo dedicarsi al cinema militante, infatti il suo I

dannati della terra (1969) è un film che comunica la necessità di praticare la strada

della violenza rivoluzionaria per opporsi alla violenza imperialista, nonostante concentri il suo sguardo su una realtà del terzo mondo, il film è invece una denuncia alla situazione italiana13.

Marco Bellocchio

Espressione di una generazione arrabbiata e in contrasto con istituzioni cardini della società come la famiglia, è Marco Bellocchio, il cui film rivelazione, I pugni in

tasca (1965), ha come trama un giovane epilettico che uccide la madre cieca,

ammazza il fratello ritardato, giunge all’incesto con la sorella e dopo una violentissima crisi epilettica muore. Il film provoca uno scandalo nel modo in cui descrive la famiglia come covo di mostri, malati e di idioti14. Acclamato dalla critica

esso si propone come parabola esistenziale dove i personaggi, i conflitti e gli eventi intendono riflettere allegoricamente la realtà delle relazioni interindividuali e del rapporto individui/società. Lo stesso regista spiega dicendo che: «chi tiene i pugni in tasca si avvia inesorabilmente verso le conseguenze estreme della propria ignavia: quanto più i pugni sono rimasti stretti nell’angustia di una progressiva

13 G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta, Vol IV,

Roma, Editori Riuniti, 2001, p. 245.

14 S. Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Venezia,

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incapacità di azione, tanto più incontrollabile e fatale esploderà infine il desiderio di rivolta e la troppo compressa vocazione al male»15. La Cina è vicina (1967) invece registra le spinte rivoluzionarie dei movimenti studenteschi mentre il resto della sua carriera è caratterizzato da film di finzione e documentari comunque carichi di forza antistituzionale come dimostrano Nel nome del padre (1971) e

Sbatti il mostro in prima pagina (1976) in cui sviluppa una vicenda raccontata

attraverso eventi realmente accaduti nel nostro Paese.

Con gli anni settanta, grazie alle opere di tutti i registi di cui sopra, questa vocazione per un cinema politicamente impegnato diventa un vero e proprio filone cinematografico che ci pone in contatto con la realtà operaia operai massa sempre

più anomali e psicologicamente disturbati (La classe operaia va in paradiso, Petri,

1971) e con la disgregazione dell’idea di Stato luogo dominato da forze oscure che

tramano contro gli stessi cittadini (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970 e Todo Modo, 1976).

Contro il cinema politico d’autore la critica rivolge diversi attacchi violenti alcuni dei quali dovuti, evidentemente, alle pulsioni rivoluzionarie che lo caratterizzano e che, a volte, emergono dagli stessi autori legati tutti alla sinistra, i quali mostrano simpatie nei confronti delle lotte e delle spinte eversive (le testimonianze filmiche o fotografiche prodotte all’interno della militanza di destra sono inesistenti a causa della diffidenza nei confronti delle immagini, quasi sempre intese come pericolose armi di schedatura strumentalizzabili dall’avversario)16.

15 L. Miccichè, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Venezia, Marsilio, 1995, p.211.

16 C. Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia

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Purtroppo però non vengono valutati altri aspetti che lo caratterizzano come quello che ci permette di comprendere, oltre che il periodo in generale, soprattutto gli argomenti e gli eventi mascherati o completamente deviati dalle forze politiche e di governo. Spesso molti film utilizzano comunque una forma romanzata ma questo succede soprattutto dal momento in cui molti autori sono costretti a nascondersi nei film di genere a causa dei continui attacchi da parte della critica e non solo: «molto cinema politico, senza sposare la causa del terrorismo, assume un aperto atteggiamento antistatale, costruendo figure di rappresentanti dello Stato come concentrato di tutti i mali»17. Non solo, alcuni critici più a sinistra della sinistra accusano i film politici italiani di non essere autenticamente marxisti e quindi di non essere posti autenticamente al servizio della rivoluzione.

«L’accusa rivolta al cinema politico istituzionale riguarda la spettacolarizzazione, la narrativizzazione, la drammatizzazione, la superficialità emotiva conseguenti alla compromissione col capitale. Lo si accusa di possedere un carattere sostanzialmente di consumo e quindi l’identità di prodotto dell’industria culturale, funzionale ad una politica di conservazione dell’esistente che implica e ratifica di volta in volta il ruolo dello spettatore quale recettore il più possibile passivo di tutto quello che gli viene propinato»18.

17 G.P Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta, Vol IV,

Roma, Editori Riuniti, 2001, p.218.

18 C. Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia

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Giuseppe Ferrara e l’impegno di Gian Maria Volonté

Al pari di Francesco Rosi anche Giuseppe Ferrara cerca di ricostruire eventi e misteri che si sono susseguiti in Italia a partire dal dopoguerra, muovendosi sempre lungo una linea di accurata ricostruzione storica effettuata ricercando documenti e fonti storiche e quindi riuscendo ad interpretare e ad esprimere con uno sguardo critico una serie di eventi legati a figure rilevanti della politica italiana. Il suo cinema è caratterizzato da immagini di repertorio e di finzione ed esibisce personaggi della storia contemporanea, con un’attenzione particolare alla ricerca della somiglianza fisica tra attore e personaggio al punto tale da far credere allo spettatore di assistere ad una cronaca diretta più che ad un’opera di ricostruzione. I suoi film che meglio reinterpretano i fatti storici sono: Faccia di spia (1975),

Panagulis Zei (1979), Cento giorni a Palermo (1983), Il caso Moro (1986), Giovanni Falcone (1993), Segreto di Stato (1994) e Il caso Calvi (2001).

Come già accennato, nel corso degli anni settanta e ottanta il ruolo del cinema come immaginario collettivo viene surclassato dall’imporsi della televisione che da un certo momento in poi riuscirà a trasmettere anche il prodotto cinematografico; questo provoca un impoverimento della qualità filmica dovuta anche alla morte di autori come Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Pier Paolo Pasolini ed Elio Petri, mentre il cinema politico si arresta di colpo anche in seguito alle stragi dovute al terrorismo.

Questa breve panoramica sulla stagione aurea del cinema politico porta all’individuazione di un volto significativo del filone: Gian Maria Volonté, il quale ha recitato in molti dei film citati in precedenza: Un uomo da bruciare (1962) dei fratelli Taviani, A ciascuno il suo (1966) di Elio Petri, Svegliati e uccidi (1966) e

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Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in paradiso (1971) e Todo Modo (1976)

di Elio Petri, Sacco e Vanzetti (1971) di Giuliano Montaldo, Il Caso Mattei (1972) e Lucky Luciano (1973) di Francesco Rosi, Il sospetto (1975) di Francesco Maselli e Il Caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara. Volonté è una figura caratteristica del cinema anni sessanta e settanta, ha interpretato diversi ruoli: dal brigante al rapinatore, dal poliziotto allo statista Moro; dietro le sue eccelse interpretazioni c’è sempre un grande lavoro preparatorio che lo porta ad ottenere la massima verosimiglianza rispetto al personaggio che di volta in volta deve interpretare.

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29 1.4 Dal cinema impegnato al cinema di massa

Rai e Fininvest, rispettivamente dal 1976 e dal 1984, fungono anche da produttori

mentre i casi di registi esordienti produttori del loro film aumentano in maniera esponenziale dagli anni ottanta; molti registi non arrivano neanche in sala e le nostre produzioni iniziano così ad impoverirsi. Gian Piero Brunetta riferendosi al cinema italiano dalla metà degli anni ottanta agli anni novanta parla di «cinema invisibile, un cinema fantasma, privo di habitat comune e di interconnessioni ideali, stilistiche, culturali, un cinema che avrebbe forse meritato non solo il sostegno statale ma anche una maggiore attenzione, e qualche iniezione benefica di fiducia che non c’è mai stata e che ha determinato questa sorta di condizione cronica di autismo creativo in una condizione sempre più desertificata di pubblico»19.

Un esordio importante degli anni settanta è quello di Nanni Moretti con Io sono un

autarchico (1976) che segna una svolta verso il nuovo, in cui i personaggi, in una

sorta di retaggio culturale non vivono essi stessi gli eventi ma anzi sono dei protagonisti passivi e pongono al centro delle proprie vicende la ricerca della loro identità da collocare in una realtà che è la conseguenza di fatti avvenuti in precedenza, come il ’68. Moretti ha infatti rappresentato il disagio individuale e collettivo di un’intera generazione, i cui caratteri sono rinvenibili in primo luogo nella diffusione asfissiante di luoghi comuni e stereotipi come unici collanti dell’identità sociale. Il cinema di Moretti, soprattutto nella prima fase, si è interamente misurato con gli aspetti, identificanti e stranianti, di una specifica forma di immaginazione sociale connotata generazionalmente, cronologicamente e

19 G.P Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta, Vol IV,

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politicamente. E il confronto si è risolto nella restituzione di questa forma, un collage di cliché, nell’unico modo possibile: esagerato, carico, grottesco.

Il cinema degli anni ottanta porta sugli schermi d’Italia un senso di leggerezza, di perdita dei valori e di appartenenza ad una società civile già manifestatasi dalla fine degli anni settanta, il cinema diventa di massa perdendo tutto ciò che lo aveva reso interessante e cioè le argomentazioni storiche, politiche e sociali, ispirazione principale dei capolavori dei migliori registi italiani. Il cinema di massa inizia a produrre quelli che saranno individuati negli anni novanta come i cine-panettoni, mentre pochi autori affrontano il tema del terrorismo non senza poche difficoltà: uno di questi è Marco Tullio Giordana che esordisce proprio con un film su tale argomento subito dopo l’omicidio Moro: Maledetti vi amerò (1980). Giordana appare molto interessato al tema della violenza che indaga in tutte le sue forme: dalla violenza fascista a quella del terrorismo, dalla violenza urbana a quella presente negli stadi. Tra i titoli significativi del periodo La caduta degli angeli

ribelli (1981), Appuntamento a Liverpool (1988), Pasolini, un delitto italiano

(1995).

Fortunatamente a partire dalla seconda metà degli anni ottanta fino agli anni novanta una nuova generazione di sceneggiatori rivitalizza le scritture per il cinema, puntando a migliorare la qualità del cinema d’autore con trame che riguardano sia fatti di cronaca che di pura finzione, ricostruzioni storiche e adattamenti letterari, osservazione di comuni cittadini in contesti privati e non e trame di denuncia civile e sociale; ritorna anche la volontà di produrre film politici costruendo personaggi eroici in difesa del bene collettivo e dei valori morali: Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara (1993), Il giudice ragazzino di Alessandro Di Robilant (1994),

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Un eroe borghese di Michele Placido (1995), Un uomo per bene di Maurizio

Zaccaro (1999) mentre tanti altri titoli saranno prodotti a partire dagli anni duemila. Tra gli autori degli anni novanta Michele Placido, dopo una carriera da attore teatrale e cinematografico, passa alla regia mettendo a frutto la lezione di autori con i quali ha collaborato come Lizzani, Damiani, Rosi e Bellocchio e infatti i suoi film sono subito caratterizzati da storie basate su fatti realmente accaduti come in Un

eroe borghese (1995) che tratta la vicenda di Giorgio Ambrosoli, un avvocato

milanese che aveva indagato sulla Banca Privata Italiana scoprendo attività finanziarie illecite del banchiere e criminale siciliano Michele Sindona, legato alla mafia siciliana e americana.

Fin qui ho trattato una piccola parte della cinematografia italiana che più di altre ha descritto ed espresso la storia d’Italia della Prima Repubblica. Dal quadro appena delineato è evidente che tra gli anni sessanta e settanta, periodo appunto caratterizzato dal cinema politico, diversi autori hanno cercato di registrare e porre davanti agli occhi dell’opinione pubblica le contraddizioni e le inquietudini della nostra penisola mentre dalla metà degli anni settanta la situazione cambia e il numero di autori impegnati diminuisce drasticamente.

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2.1 L’Italia negli anni della Seconda Repubblica

Il nuovo millennio, inaugurato dalla strage dell’11 settembre 2001, si trascina, oramai da diciotto anni, un senso di instabilità politica e sociale che in realtà è, in Italia, un continuum di un processo storico inaugurato nel secondo dopoguerra e forse, a parer mio, interrotto solo dal decennio del Boom Economico. Ritorniamo a parlare di crisi economica, disoccupazione giovanile, un’infinità di governi instabili, conflitti (questa volta tra Stati Uniti d’America e Medio Oriente ma che non possono non coinvolgerci visto che l’Italia appartiene all’Occidente ricco, democratico e sicuramente anche etnocentrico). A ben guardare anche in Italia il nuovo millennio si è inaugurato con una strage: quella del G8 di Genova nel luglio 2001 che ha riportato in vita forme nuove di violenza politica.

Già dal 1994 il nostro protagonista politico indiscusso (si può dire ancora oggi!) è Silvio Berlusconi. Protagonista e regista di un grande film che ci porta all’Italia di oggi: un’Italia plasmata dalla malapolitica, dal malcostume, dalla corruzione, dal declino della cultura.

Gli anni novanta consegnano alla Storia un’Italia martoriata da stragi, scandali e malaffare, da una classe politica compiacente e collusa con mafie e massoneria. Sono gli anni che vedranno, nel Maxiprocesso dell’aula bunker di Palermo, processati mafiosi e collusi, ma, soprattutto, dal processo che vedrà imputato il Senatore Giulio Andreotti di associazione mafiosa. Durante questi anni, gli italiani, reduci dalla scoperta della Loggia Massonica P2 e dagli scandali di Tangentopoli, sperano di poter archiviare una Prima Repubblica spregevole dalla quale far emergere una Seconda Repubblica fondata su basi più solide per contrastare la corruzione, basi sempre garantite dalla nostra Costituzione.

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Il Processo Andreotti sconcerta proprio perché ci dà l’idea di un’Italia governata dalla mafia tramite il sistema politico, quindi tramite Andreotti, potere ufficiale e potere criminale, ed è grazie ai pentiti che, con le loro deposizioni – confessioni, si è arrivati a scoperchiare le gerarchie politiche del partito di governo, la Democrazia Cristiana; gli italiani si scoprono innocentisti o colpevolisti e questi ultimi mal riescono ad imprimere l’immagine dell’incontro tra lo statista ed il criminale autore, mandante di omicidi efferati, suggellato dal famoso (o solo immaginario) bacio. L’incriminazione di Andreotti assume un significato importante nell’opinione pubblica: se è vero che Tangentopoli ha smantellato una classe dirigente politica delinquenziale, è ancor più vero che tale classe dirigente si intreccia anche col potere mafioso, quindi complice di Cosa Nostra e quindi complice degli assassini dei magistrati simbolo della lotta alla mafia, Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992).

Se negli anni sessanta e settanta l’Italia è stata lo scenario del terrorismo di destra e sinistra che comunque ha una matrice politica atta a destabilizzare l’equilibrio dello Stato, tra gli anni settanta e novanta, ventennio che vede protagonista Giulio Andreotti, la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta usano gli stessi criteri e si collocano in una posizione più ampia ed estesa rispetto alle proprie regioni di riferimento fino al nord dell’Italia, assumendo quindi un potere mai avuto in precedenza, meglio organizzate a trattare col sistema politico subordinato al potere mafioso in una sorta di scambio: assicurare voti e quindi l’eleggibilità dei referenti politici, i quali, a loro volta, ottenute le loro posizioni, devono pilotare appalti pubblici e privati, giudici compiacenti, ma anche leggi che alleggeriscano la permanenza in carcere dei capi e sottoposti mafiosi (41 bis). Ma questo non basta: quando i referenti non sono più

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in grado di garantire queste protezioni, scatta l’intimidazione, e quindi la punizione. Verranno assassinati Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia, Salvo Lima, diretto referente per la Democrazia Cristiana di Giulio Andreotti, i cugini Salvo, sempre appartenenti al gruppo andreottiano e molto probabilmente, secondo il pentito La Barbera, si pensava di colpire lo stesso senatore, già in precedenza avvertito affinché non promulgasse leggi a sfavore di Cosa Nostra. Tutto ciò in base alla logica mafiosa di attaccare persone e beni dello Stato, mediante le stragi, come a Firenze in via dei Georgofili, a Roma in San Giovanni in Laterano, terrorismo mafioso e politica ricattata. In questi anni tutti i poteri occulti si fondono in un abbraccio mortale: servizi segreti deviati, mafia e massoneria con il braccio armato anche di bande organizzate come quella della Magliana, mediante la quale Giulio Andreotti avrebbe fatto assassinare sotto commissione di Cosa Nostra, il giornalista Mino Pecorelli e per questa accusa messo sotto inchiesta dalla Procura di Perugia. Giulio Andreotti viene anche additato come il vero capo della Loggia Propaganda

2 (P2) il cui regista occulto, fino al momento della scoperta nella sua famosa Villa Wanda dell’elenco degli affiliati, è il Maestro venerabile Licio Gelli. Tra i nomi

rinvenuti nella lista degli affiliati, spiccherà il nome di Silvio Berlusconi, altro vero protagonista incontrastato del periodo post – andreottiano. Mafia e P2 perseguono gli stessi obiettivi di destabilizzazione dello Stato: da una parte mediante l’uso politico del terrorismo stragista i mafiosi mirano all’alleggerimento del carcere duro e dall’altra mirano ad arricchirsi con i loro loschi affari protetti e incrociati con quelli altrettanto loschi di banchieri: Roberto Calvi e Michele Sindona, alti ufficiali della Guardia di Finanza e Carabinieri, magistrati e giudici che pilotano i processi a loro carico, tutti elementi affiliati alla Loggia P2 che con il Piano di Rinascita

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Democratica indica la strada per una Repubblica presidenziale, i media pilotati a

garanzia di una degna propaganda di Stato, la giustizia che vuole la divisione delle carriere dei giudici, l’abolizione del Monopolio della RAI a favore di imprenditori privati liberi di gestire l’informazione in video e su carta. La madre di tutti i conflitti di interesse impensabili in ogni altro Paese democratico del mondo e che farà dell’Italia l’unico caso in quell’Europa bandiera del motto francese Libertà

Uguaglianza e Fraternità.

Mutua assistenza, quindi, tra gli affiliati ed i criminali, i cui affari e denaro transitano nelle banche di Calvi e Sindona mediante operazioni spericolate, elargizioni ai dirigenti di partito, massoni, senza disdegnare rappresentanti della Santa Sede come il vescovo e finanziere della Banca Vaticana (IOR) Monsignor Paul Marcinkos. In questo vortice di denaro però, le banche vengono inghiottite e pian piano portate al fallimento. Gli intrighi finanziari e criminali cominciano a mietere le prime vittime: viene assassinato il liquidatore giudiziario del Banco di Sindona, Giorgio Ambrosoli, così come il vice presidente che però viene ferito e il cui esecutore è un componente della Banda della Magliana, stretta alleata di Cosa

Nostra. Calvi viene trovato morto sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, mentre

Sindona muore in carcere avvelenato da una tazzina di caffè. Il quadro che ne viene fuori è alquanto contorto, ma la figura di Andreotti spicca sempre in ogni suo dettaglio quando a volerne capire di più ci si imbatte sempre in lui, Il Divo, immune e immunizzato dagli eventi catastrofici innescati dai comprimari che gli girano attorno. Gelli, Sindona, Calvi banchieri della mafia e quando questa ha visto le loro banche calare a picco, ha preteso la restituzione, ha preteso di rientrare in possesso dei propri capitali malamente gestiti. Andreotti ha protetto e difeso i loro imperi

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senza per questo divenirne vittima, senza mai scomporsi anche durante i processi, negando sempre e comunque ogni coinvolgimento. Se Cosa Nostra sceglie le stragi come mezzo di ricatto nei confronti dei referenti democristiani è proprio perché si sente da essi stessi rafforzata e legittimata a chiedere sempre di più e per questo pronta a tutto pur di ottenerlo. Il voto di scambio altro non è che l’indice del proprio potere che prevarica la politica e la politica stessa viene messa in ginocchio quando non riesce più a garantirne immunità ed impunità. Ci saranno giudici coraggiosi e magistrati impegnati fino al sacrificio della propria vita che nel corso degli anni futuri faranno emergere questo patto scellerato, stipulato da Andreotti e continuato nel tempo dal politico più discusso, corrotto, delinquente naturale che la storia dell’Italia repubblicana abbia conosciuto: Silvio Berlusconi. La cosiddetta

Trattativa è oggetto ancora oggi di processi, controprocessi, depistaggi, ma questa

è un’altra storia. Comunque nel maggio del 1993 il Senato concede l’autorizzazione a procedere richiesta dai magistrati palermitani per l’accusa al senatore Giulio Andreotti di associazione mafiosa e darà il via ad un processo le cui conclusioni hanno un che di beffardo che lascia gli italiani con l’amaro in bocca ed ancora tanti interrogativi: l’Andreotti che ha controllato i servizi segreti, è stato Ministro della Difesa, degli Esteri e Presidente del Consiglio è l’Andreotti ufficiale, ma esiste un Andreotti occulto, di potere massonico, mafioso, mandante di omicidi?

Parlare di Silvio Berlusconi come il politico che ha influenzato e reso la storia d’Italia degli ultimi decenni un’anomalia tra le Democrazie occidentali è quasi riduttivo, per il semplice motivo che non si devono scindere i ruoli di uomo d’affari e uomo di Stato sceso in campo per amore dell’Italia, il Paese che amo. In nome dei suoi affari, l’imprenditore prestato alla politica ha legiferato in un Parlamento

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prono ai suoi voleri, colpevole di aver votato leggi ad personam inapplicabili ovunque si governi in nome del popolo sovrano.

Da quel fatidico 1994 la nostra Repubblica diventa una malata cronica il cui male incurabile è la malapolitica, nella quale l'aspetto giudiziario si confonde con quello etico: Silvio Berlusconi. Da pluriprescritto si fa votare la legge che accorcia la prescrizione, mandando in fumo, oltre ai suoi, i processi dei colletti bianchi che tengono in vita i suoi affari loschi e poco puliti; se poi ci inoltriamo nel terreno scivoloso dell'informazione, ci scontriamo con la madre del conflitto d'interesse, mai veramente risolto e, ormai tollerato non facendo neanche più notizia: può un proprietario di giornali, televisioni e case editrici fare politica partendo in una posizione di vantaggio potendo farne uso a suo piacimento a scapito di chi non ne possiede? L'ovvietà non è tale se si sta parlando di una nazione e non di una azienda personale, se in gioco c'è il futuro di due generazioni che stanno pagando a caro prezzo la politica dissennata condotta da un uomo che ha fatto dei suoi affari il problema principale, pur di salvare le sue aziende ha tolto dignità al popolo italiano oggetto di scherno perché ormai parte integrante della sua immagine ridicola e priva dell'autorità che il ruolo gli assegna. Silvio Berlusconi, con il suo impero mediatico, ha cambiato socialmente e culturalmente il volto dell'Italia, le sue donnine sono le figure di riferimento per le giovani che le guardano con ammirazione emulandole. Il suo potere economico ha comprato personaggi che, messi nei posti di potere, hanno manovrato ogni settore dove la corruzione, le tangenti ed i ricatti trovano terreno fertile: sanità, appalti per strutture pubbliche, partecipate, la Rai, assoggettata ed usata a fini di propaganda per se e per i suoi cortigiani. La televisione di Stato è stata svuotata dei suoi migliori talenti del giornalismo, della

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comicità, della satira (editto bulgaro contro Santoro, Biagi e Luttazzi) si è dovuta adattare e plasmare ad immagine e somiglianza delle reti Mediaset, infarcite di pubblicità e mediocrità artistica e programmatica. Le sue televisioni hanno ucciso la televisione di Stato che non fa più vera informazione, anzi la manipola palesemente nascondendo o distorcendo le notizie scomode. Tutto secondo il Piano

di Rinascita della Loggia massonica Propaganda 2, P2, del Maestro venerabile

Licio Gelli, alla quale Silvio Berlusconi aveva aderito e della quale è riuscito in qualche modo a realizzarne i punti più importanti. Ridurre il monopolio dell'informazione pubblica in mano alle reti pubbliche a favore di quelle private per poter meglio gestire il popolo rendendolo inconsapevole se non ignorante, riformare la giustizia separando le carriere dei giudici, riformare la scuola pubblica declassandola a favore di quella privata così come nella sanità. Berlusconi nella sua ormai lunga storia politica ha creato il suo personale labirinto di processi, indagini, condanne, prescrizioni, frodi ed in cui anche la mafia ha il suo perché. Se è vero che è stato dichiarato dalla Corte di Cassazione delinquente naturale, è vero anche che sono ancora numerosi i processi a suo carico, e quello meno noto, anzi sconosciuto ai più perché raramente se ne parla nei telegiornali ormai proni, è proprio quello sulla Trattativa Stato-mafia.

Le stragi di Capaci e via d'Amelio aprono un varco tra l'opinione pubblica e la parte sana delle istituzioni che, in una sola voce, reclamano il diritto di giustizia e il dovere dello Stato di reagire con forza combattendo una lotta che troppe vittime ha sacrificato. E da qui in poi le indagini viaggeranno su binari paralleli: i magistrati che raccolgono la loro eredità a rischio della loro stessa vita da una parte, poteri occulti e depistaggi dall'altra. Per capire meglio in cosa consiste la Trattativa si

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deve risalire ad un intervista che Paolo Borsellino rilasciò poco prima di morire, al giornalista di Canal plus, Fabrizio Calvi, nella quale il giudice rivela che si sta indagando sui legami fra esponenti mafiosi e il duo Berlusconi - Dell'Utri intervista occultata per otto anni e poi, nonostante evidenti pressioni, finalmente trasmessa dalla tv di Stato ma a notte fonda e senza un minimo di reazione da parte dei mass-media, a riprova del suo enorme potere mediatico in pieno conflitto d'interessi. Da qui partono le indagini dei magistrati durante le quali vengono alla luce le vere ragioni per cui è stato fondato il partito personale di Silvio Berlusconi, Forza Italia, Dell'Utri si adopera e garantisce per suo conto e dal 1994 in poi l'Italia sarà governata ad uso e consumo di Berlusconi e dei suoi cortigiani. Nel frattempo Dell'Utri viene condannato definitivamente e sconta in carcere la condanna per associazione mafiosa, mentre Berlusconi subisce una, seppur ridicola, condanna definitiva per frode fiscale, pena ridotta a diciotto mesi che sconterà fuori dal carcere rendendosi utile socialmente in una casa di cura per anziani. Perde la sua poltrona da senatore, il titolo di Cavaliere del lavoro ma, oggi, ultraottantenne assistiamo ancora una volta alla sua ridiscesa in campo, mentre aspetta di essere riabilitato dalla Corte europea per i diritti dell'uomo, mentre i diritti degli italiani, esclusi quelli che lo hanno riportato in vita con il loro voto, restano calpestati e irrecuperabili20.

20 E. Veltri e M. Travaglio, L’odore dei soldi. Origini e misteri delle fortune di Silvio Berlusconi,

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