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Il sistema cautelare nel processo de societate

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Academic year: 2021

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CAPITOLO I

INQUADRAMENTO GENERALE DELL’ISTITUTO

1. Introduzione p. 4

2. Le soluzioni in ambito comparatistico p. 11

2.1 L’esperienza inglese p. 11

2.2 L’esperienza statunitense p. 13

2.3 L’esperienza francese p. 15

2.4 L’esperienza svizzera p. 17

3. Ragioni e fonti della responsabilità p. 18

4. Scelta della l. delega n. 300/2000 p. 24

5. Il d.lgs. 8 giugno n.231/2000 p. 26

6. Natura della responsabilità p. 29

7. Le ragioni della scelta del processo penale p. 31

8. Metamorfosi delle finalità del processo p. 33

9. L’assimilazione dell’ente all’imputato p. 34

10. I soggetti p. 36

CAPITOLO II

I PROFILI CARATTERIZZANTI LA DISCIPLINA DELL’ILLECITO DA REATO DEGLI ENTI COLLETTIVI

1. Introduzione p. 42

2. Il ruolo dei compliance programs p. 43

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4. Le qualifiche dei soggetti individuali p. 48

5. L’interesse e il vantaggio in favore dell’ente p. 52

6. I criteri soggettivi d’imputazione del reato all’ente p. 56

7. Soggetti apicali p. 58

8. Soggetti subordinati p. 62

CAPITOLO III

MISURE CAUTELARI INTERDITTIVE

Sezione I

La struttura del sistema cautelare

1. Struttura e finalità del sistema cautelare p. 64

2. Rapporto tra sanzione e cautela p. 67

3. Presupposti applicativi p. 70

4. Gravi indizi di colpevolezza p. 73

5. Pericolo di reiterazione p. 74

6. Criteri di scelta delle misure p. 76

7. Commissario giudiziale p. 79

Sezione II

Procedimento applicativo

1. Richiesta del pubblico ministero p. 83

2. Il giudice competente p. 86

3. Udienza e contraddittorio anticipato p. 87

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5. Adempimenti esecutivi in relazione all’ordinanza

applicativa di misure cautelari intedittive p.102 6. Le vicende modificative

del regime cautelare interdittivo p.104

6.1 La sospensione p.104

6.2 La sostituzione e la revoca p.110

6.3 La perenzione e il decorso del termine p.114

7. Le impugnazioni: rilievi generali p.117

7.1 L’appello p.118

7.2 Il ricorso per cassazione p.121

CAPITOLO IV

MISURE CAUTELARI REALI

1. Introduzione p.124

2. Sequestro preventivo p.126

3. Oggetto del sequestro preventivo p.130 4. Il procedimento applicativo,

l’esecuzione e la cessazione degli effetti p.133

5. Le impugnazioni p.137

6. Il sequestro conservativo p.140 7. Il procedimento applicativo,

l’esecuzione e la cessazione degli effetti p.142 8. Le impugnazioni p.144

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CAPITOLO I

INQUADRAMENTO GENERALE DELL’ISTITUTO

Sommario: 1. Introduzione – 2. Le soluzioni in ambito comparatistico – 2.1. L’esperienza inglese – 2.2. L’esperienza statunitense – 2.3. L’esperienza francese – 2.4. L’esperienza svizzera – 3. Ragioni e fonti della responsabilità – 4. Scelta della l. delega n. 300/2000 – 5. Il d.lgs. 8 giugno n.231/2001 – 6. Natura della responsabilità – 7. Le ragioni della scelta del processo penale – 8. Metamorfosi delle finalità del processo – 9.L’assimilazione dell’ente all’imputato – 10.I soggetti

1.Introduzione

L’entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno 2001 n.231 ha rappresentato per l’ordinamento italiano un momento sicuramente importante, quasi

una “rivoluzione copernicana”1, avendo avuto il merito di portare una

responsabilità sanzionatoria diretta per i soggetti collettivi, mettendo di fatto in disuso un principio tanto risalente quanto consolidato quale quello del “societas delinquere non potest”,introducendo nel sistema un nuovo paradigma sanzionatorio. Non che prima dell’introduzione di questa normativa, gli enti sfuggissero alle maglie della legge, ma l’idea dominante era che il soggetto fisico dovesse essere il fulcro della vicenda punitiva, mancando del tutto una soggettività penale per le persone giuridiche e il nostro diritto penale si era dimostrato tradizionalmente improntato al personalismo, con la presenza di norme che prevedevano forme di responsabilità indiretta e sussidiaria per gli enti, di carattere prettamente civilistico e solidale .

1 Espressione di A.MANNA, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo di insieme, in Riv.trim.dir.pen.econ.,2002, n.3,p.501

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Un chiaro esempio di tutto ciò è rappresentato dall’art.197 del codice penale che prevede la c.d. obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende. Con questo istituto si applica all’ente una sanzione di natura amministrativa e solidale, obbligandola al pagamento di una pena pecuniaria, in caso di insolvibilità del dipendente condannato per la violazione degli obblighi derivanti dalla carica che riveste o per quella commessa nell’interesse della persona giuridica; si tratta quindi di una responsabilità di tipo sussidiario per l’ente, per i reati penali commessi da soggetti individuali. Un tale tipo di responsabilità col tempo ha cominciato a manifestare la propria inadeguatezza sotto il profilo dell’efficacia, sia preventiva che repressiva, dovuta al fatto che questa corrente di pensiero – per altro risalente al periodo illuminista- vede un’assoluta impossibilità nel configurare una responsabilità penale per le persone giuridiche. E’ infatti nel corso di questo periodo storico che si afferma il primato dell’individuo nella vita sociale ed economica, e tutto ciò avviene a discapito delle universitates, ovvero quelle realtà collettive, quali le corporazioni, che fino ad allora avevano avuto un innegabile rilievo sociale. Da quel momento in poi, prende sempre più piede il principio dell’irresponsabilità penale delle persone collettive in tutti i sistemi giuridici, fino ad arrivare al XIX°

secolo, quando questa concezione si radicherà ulteriormente2, grazie

all’affermarsi di un argomento di tipo dogmatico che contribuirà a far

ritenere non concepibile la capacità di delinquere degli enti collettivi3.

Alla base del perdurare di questa visione nel nostro ordinamento vi

2 Diventando “uno dei cardini inattaccabili del diritto penale classico”. Così si esprime G.AMARELLI in Mito giuridico ed evoluzione della realtà: il crollo del principio societas delinquere non potest, in Riv.it.dir.proc.pen, 2003, p.943 3 Autore di questa teoria (c.d. teoria funzionistica) 3sarà Friedrich Carl Von Savigny. Per lo studioso tedesco gli enti sono solo delle finzioni create dagli uomini per soddisfare i propri interessi economici e questo li rende dei meri strumenti carenti di qualità volitive

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sono ragioni di dogmatica, che ostano fortemente all’ingresso di un principio di responsabilità degli enti. Lo sbarramento principale è rinvenibile nell’art. 27 della Costituzione, contenente al primo comma il principio della personalità della responsabilità e al terzo comma la funzione rieducativa che la stessa deve avere; parte della dottrina lo interpreta come un ostacolo insormontabile all’introduzione di una responsabilità per fatto altrui, intendendo la persona giuridica come incapace di azione, “incapace di colpevolezza” e “insensibile alla pena”. Si prospetta quindi l’incapacità degli enti a porre in essere autonomamente azioni (e quindi condotte con dolo o con colpa) per la mancanza di caratteri psicofisici (propri ed esclusivi dell’uomo), e ciò configurerebbe l’inidoneità della eventuale pena a svolgere le funzioni rieducative volute dalla Costituzione. La punizione dell’ente, soggetto giuridico diverso, per un reato commesso da una persona fisica, anche se nel suo interesse, sembra porsi in contrasto con questo divieto. Nonostante questi rilievi, è possibile riscontrare anche un’altra corrente di pensiero risalente agli anni 70 che vede in Franco

Bricola il suo maggior esponente4. Egli rimarcava il “costo” della

permanenza del principio “societas delinquere non potest” e riteneva che il riconoscimento alla persona giuridica di un’autonomia soggettiva, consentisse di configurare una responsabilità penale dell’ente senza che vi fosse una violazione del principio di responsabilità per fatto proprio, nonostante la dicotomia esistente fra esecutore materiale della condotta ed ente giuridico rappresentato. La crescente attenzione posta nel corso degli anni all’introduzione di una responsabilità penale delle persone giuridiche si spiega soprattutto da un punto di vista criminologico. Si assiste infatti all’incremento delle attività imprenditoriali svolte con modalità

4 F.BRICOLA, Il costo del principio “societas delinquere non potest” nell’attuale

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criminose e ciò si ripercuote in grande misura sulle relazioni economiche e sociali. Quando un reato è commesso all’interno di un’organizzazione al fine di perseguire scopi magari di per sé legittimi, muta la spiegazione della genesi, delle motivazioni, venendo meno la capacità di resistere agli impulsi criminosi rispetto alla stessa vicenda criminale, che riguarda il singolo fuori da un contesto di gruppo5. Molto spesso all’interno di queste realtà i comportamenti criminosi sono indotti dalla segretezza dei processi decisionali che caratterizza la struttura organizzativa dell’ente e dalla costante ricerca di successo da parte dei singoli, che nel raggiungere gli obiettivi predefiniti dall’organizzazione non esitano a spingersi oltre la soglia del lecito. La persona fisica finisce quindi, quando viene inserita in una realtà lavorativa complessa come quella di tipo collettivo, col subire pressioni e condizionamenti tali che la istigano verso comportamenti criminosi che non avrebbe commesso se non fosse stata inserita in una realtà di gruppo. Va sottolineato anche l’ormai diffuso fenomeno della “decentralizzazione” dei processi decisionali interni agli organismi societari, determinando così la perdita della lineare distinzione delle funzioni interne all’organizzazione, caratterizzante una precisa distribuzione delle competenze di comando. Si affermano in questo modo tutta una serie di nuovi rapporti interni delineati dalla flessibilità dei soggetti, dando vita ad una “colpevolezza diffusa”, ovvero ad una “polverizzazione” delle responsabilità individuali, che non sono più delineate con la precisione richiesta dagli ordinari criteri d’imputazione giuridica. Questo nuovo assetto determina che i soggetti individuali, partecipi di una vicenda societaria che sfoci nella consumazione di un crimine, possano risultare ignari del contributo che essi hanno dato alla realizzazione del reato e quindi non risulta

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presente la necessaria componente psicologica della colpevolezza. I principali fautori di questa situazione sono la specializzazione e il blocco delle informazioni; il primo elemento determina una delimitazione nella divisione del lavoro che realizza una riduzione nella capacità di rendersi conto del complessivo contesto d’azione in cui un lavoratore opera, mentre il secondo genera dei c.d. “vuoti di comunicazione”, che contribuiscono in modo rilevante alla frammentazione della responsabilità individuale, rendendo i singoli meno consapevoli del complesso aziendale. A fronte di questi fenomeni si palesa sempre più l’inadeguatezza del sistema sanzionatorio personale, dovuto alla facile sostituibilità del personale incappato nelle maglie della sanzione penale, lasciando intravedere un’immunità di fatto della struttura societaria che si pone eziologicamente a monte dell’illecito, specie se di quest’ultimo si coglie la natura strumentale rispetto al perseguimento dei fini dell’organizzazione .Come scrive Alessandri, “ nella criminalità di impresa la persona fisica non è l’esclusivo autore del fatto e punire solo quest’ultima produce un aggiramento dei principi costituzionali e una inefficace tutela di beni giuridici di estremo rilievo nella moderna

attività economica”6. Inoltre, se la commissione dell’illecito ha

prodotto l’acquisizione di un profitto, questo può restare al riparo da ogni reazione sanzionatoria o recuperatoria, specie qualora si produca un danno non risarcibile, o non integralmente risarcibile, come avviene di frequente nella lesione di interessi della collettività (ex: l’obbligazione civile prevista dall’art. 197 c.p. viene commisurata alle condizioni economiche dell’autore-persona fisica. L’ente, che dovrebbe pagare la multa o l’ammenda in caso di insolvibilità del condannato, in pratica interviene sempre a coprire tale “costo”, che

6 A.ALESSANDRI, Riflessioni penalistiche sulla nuova disciplina, in AA.VV. La responsabilità amministrativa degli enti. D.Lgs.8 giugno 2001, nr.231 cit.p.30

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risulterà del tutto irrisorio per la sua esiguità e quindi sarà facilmente “assorbibile” per l’ente. Inoltre, non viene colpito quasi mai il profitto conseguito dall’impresa in virtù del comportamento illecito. Di qui le consistenti lacune in termini di effettività di intervento, anche in un’ottica special-preventiva, vale a dire delle chances che al diritto penale competono nella conformazione dei futuri comportamenti dell’ente.). Per questo parte della dottrina è arrivata ad auspicare l’utilizzo della confisca (art.240 c.p.)7, ma si pone il problema di verificare se questa possa essere disposta nei confronti della persona giuridica per conto della quale il reo abbia commesso un reato che abbia generato un profitto economico, se cioè l’ente a cui il guadagno affluisce possa dirsi, agli effetti dell’art. 240 c.p., persona estranea al reato. Gli enti che realizzano una politica imprenditoriale criminosa, puntano a massimizzare il profitto attraverso la creazione di condizioni illecitamente vantaggiose per l’impresa a discapito del regolare funzionamento del mercato. Alla luce di quanto detto, risulta chiaro come la responsabilità penale delle persone giuridiche costituisca un passo cruciale nell’opera di riscrittura delle regole del mondo economico. Il principio “societas delinquere non potest” viene messo in crisi e poi abbandonato in primis dai paesi del common law, che per ragioni storiche si sono trovati per primi ad affrontare le problematiche del mondo economico moderno e successivamente anche i restanti paesi dell’area europea, si sono visti costretti ad affrontare queste difficoltà. Questo argomento nel nostro paese viene affrontato prima dalla l. delega n.300 del 2000 e successivamente dal d.lgs. n.231 del 2001, i quali usano l’espressione “amministrativa” per identificare questa nuova forma di responsabilità riferibile all’impresa, pur prevedendo che il suo

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accertamento venga effettuato dal giudice penale, rispettando le forme del processo penale. L’aver coniugato assieme l’aspetto amministrativo e quello penale ha generato una disputa dottrinaria riguardante la vera natura dell’istituto introdotto nel 2001 che vede il confronto di tre parti in causa: quella dei sostenitori della natura amministrativa della responsabilità, quella dei favorevoli all’istanza penalistica e infine gli assertori di un tertium genus. Questa vexata quaestio non è fine a se stessa in quanto la definizione della natura ha una rilevanza per la soluzione di diverse questioni pratiche, prima fra tutte comprendere quali siano i principi costituzionali di riferimento. Stabilire se siamo davanti ad una responsabilità penale o meno, comporta dover superare gli ostacoli al riconoscimento di una responsabilità penale delle persone giuridiche, per poi analizzare se la costruzione dell’illecito imputabile all’ente rispetti i criteri costituzionali di questa responsabilità, sia sul piano del diritto sostanziale che del diritto processuale. Riguardo a quest’ultimo aspetto si fa riferimento al principio del giusto processo (art.111 Costituzione), la garanzia del giudice terzo e imparziale (art 111 Cost.), il principio di non colpevolezza ( art 27 Cost.) la cui ingiustificata violazione costituirebbe un vizio di illegittimità costituzionale. L’aver affidato il procedimento al giudice penale e l’aver attinto quindi alla relativa disciplina nasce da due motivi: da un lato “l’insufficienza dei poteri istruttori riconosciuti alla Pubblica Amministrazione nel modello procedimentale delineato dalla legge n. 689 del 1981 rispetto alle esigenze di accertamento che si pongono all’interno del sistema

di responsabilità degli enti” 8 e dall’altro dal desiderio di garantire la

maggior tutela possibile all’impresa durante l’accertamento della

8 Cfr. Relazione allo schema di decreto legislativo recante: disciplina della

responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, Appendice 2. 2, sub III, 15

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responsabilità, essendo le garanzie attribuite all’imputato del processo penale di natura costituzionale.

2. Le soluzioni in ambito comparatistico

L’analisi di questo argomento non si può evitare di prendere in considerazione, pur se in modo superficiale, l’esperienza maturata in altri ordinamenti che a ragione possiamo considerare i precursori di tali istituti. Sicuramente l’apporto fondamentale è stato dato dai paesi di common law, i quali per primi sono passati dai classici criteri di attribuzione del reato fondati sul rapporto organico tra l’ente ed un soggetto individuale ad una diversa colpevolezza d’impresa, preludio di illeciti penali costruiti appositamente attorno alle caratteristiche della persona giuridica.

2.1 L’esperienza inglese

Se si cercasse di identificare con esattezza il momento storico in cui il mondo anglosassone si trovi ad affrontare per la prima volta la materia in esame, sicuramente in molti risponderebbero facendo riferimento all’anno in cui è attestata la prima sentenza di condanna contro una società: il 1842. Il tipo di responsabilità per la quale la società fu considerata colpevole fu quella di una semplice responsabilità oggettiva (strict liability), connaturata dall’assenza dell’elemento psicologico nella commissione del reato e per molti decenni la responsabilità penale delle persone giuridiche non si discostò da questa visione dei fatti, ma col tempo si affaccia una diversa concezione, rappresentata dalla “vicarious liability”. Questo modello teorico postula che il titolare dell’impresa o chi si avvale della

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cooperazione di soggetti sottoposti, debba rispondere del fatto illecito commesso da questi, nell’esercizio delle proprie attribuzioni: una responsabilità che deriva quindi da quella dell’autore materiale della violazione, cumulandosi con questa. Nei primi decenni del ventesimo secolo la giurisprudenza inglese comincia però ad accennare a precisi requisiti soggettivi nella commissione di alcuni reati quali la frode e a seguito di molte riflessioni in materia, si giungerà alla nascita di un nuovo modello teorico, rappresentato dall’ “identification theory”. Questa teoria si pone come diametralmente opposta alla “vicarious liability” in quanto essa propone un modello alternativo di responsabilità diretta della persona giuridica, che risponde per un fatto illecito automaticamente proprio, integrante tutti gli estremi oggettivi e soggettivi della figura criminosa in questione, ovvero si sancì che gli stati mentali dei funzionari che avevano agito per conto della società, potessero essere attribuiti alla società stessa. Questa diversa concezione però necessita di una rigorosa delimitazione dei soggetti individuali la cui responsabilità possa impegnare direttamente la persona giuridica, a differenza di quanto accade con la “vicarious liability”, dove l’ente risponde per il reato commesso da qualsiasi dipendente, considerandolo come un soggetto diverso rispetto alla società. La giurisprudenza e la dottrina anglosassoni si sono orientate nell’identificare i soggetti responsabili nella “identification theory”, in coloro che occupano una posizione apicale nella struttura organizzativa dell’ente ed esercitano, anche di fatto, funzioni di gestione e controllo in condizioni di piena autonomia. Chiaramente questa visione si fonda sul presupposto che la struttura dell’ente sia fortemente accentrata, risultando evidente la distribuzione dei ruoli, elemento che permette una sicura individuabilità dei soggetti che costituiscono il corpus decisionale della societas. Tuttavia è da rimarcare come al giorno d’oggi ci si trovi

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di fronte a realtà aziendali caratterizzate dal decentramento e dalla “polverizzazione” dei centri decisionali, mettendo quindi i presupposti di questa teoria in crisi. A riguardo già nel corso degli anni 70 la giurisprudenza inglese comincia a trovare crepe nell’edificio concettuale della teoria dell’identificazione, in quanto ritenuta inadatta a punire i soggetti posti nei livelli inferiori della scala gerarchica aziendale e alla luce di ciò inizieranno a prendere campo le “holistic theories”, le quali si affrancano dai criteri di imputazione soggettivi propri degli individui andando alla ricerca di un’autonoma

“riprovevolezza d’impresa”9 (corporate blameworthiness). Si passa

quindi ad utilizzare il concetto di “colpa d’impresa”. L’uso di questa nuova categoria svolge un doppio ruolo, da una parte permette di imputare l’evento criminoso agli enti anche quando non si riscontra nei soggetti qualificati, quegli elementi psicologici richiesti per configurare la responsabilità, garantendo in questo modo l’imputabilità delle società, cosa che l’“identification theory” ormai non è più in grado di garantire a seguito dei vistosi cambiamenti intervenuti negli ultimi anni nell’ambito economico ed organizzativo degli enti.

2.2 L’esperienza statunitense

Le stesse problematiche affrontate nel Regno Unito, non tardarono a manifestarsi anche sulle coste opposte dell’Atlantico. Le due esperienze in materia infatti, quella anglosassone e quella statunitense, si sviluppano quasi in contemporanea con evidenti aree di somiglianza quali i criteri di imputazione della responsabilità penale degli enti; nonostante questo negli Stati Uniti si afferma una peculiare

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disciplina in materia di sistema sanzionatorio. Il modello statunitense prende il via dai presupposti integranti il criterio di attribuzione del “respondeat superior”, principio di stampo civilistico che fa la sua comparsa nella sentenza “New York Central & Hudson River”, datata 1909, col quale si richiede che il reato sia stato commesso da un rappresentante o agente dell’ente (agent), nell’esercizio delle funzioni attribuitegli e allo scopo di recare un vantaggio all’ente. Quando sia garantita la presenza di questi requisiti, automaticamente si considera la coscienza e la volontà dei soggetti individuali agenti come quelle dell’ente collettivo. La nozione di agent viene gradualmente estesa fino a ricomprendere ogni categoria di lavoratori dell’ente, di modo che ben presto si viene a creare un modello d’imputazione molto ampio. Un altro aspetto caratteristico della disciplina statunitense è rappresentato dai compliance programs, che altro non sono che dei protocolli interni predisposti dall’impresa, i quali prevedono misure e procedure atte a neutralizzare le fonti di reato. Il fenomeno dei compliance programs conosce un periodo di forte crescita nei primi anni novanta del ventesimo secolo, grazie allo stimolo portato dalle Federal Sentencing Guidelines nel 1991, ovvero un documento elaborato da una commissione federale e contenente precisi criteri di commisurazione delle pene applicabili alle persone giuridiche. Queste Guidelines prevedevano anche sette requisiti minimi che le imprese dovevano rispettare per l’elaborazione e l’applicazione dei compliance programs: 1) la capacità di ridurre la possibilità di commettere i reati; 2) la scelta di supervisori per l’attuazione del programma; 3) la selezione dei dipendenti in base al criterio della propensione al reato; 4) l’adozione di tecniche di comunicazione pedagogica all’interno dell’azienda; 5) l’instaurazione di meccanismi di controllo e di canali di informazione interna; 6) la predisposizione di un apparato disciplinare; 7) l’adozione, una volta accertato il reato; di

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misure volte ad evitare il ripetersi di comportamenti criminosi. La ratio di questi programmi è che la colpevolezza dell’impresa risulterà tanto più esigua, quanto più essa si sarà impegnata a rendere attivi questi criteri guida e la loro attuazione determinerà anche una riduzione delle pene pecuniarie (fines) applicabili alla persona giuridica. Il sistema sanzionatorio si delinea con il cosiddetto modello “carrot- stick approach”, ovvero se da una parte si tende a ridurre o anche ad evitare l’applicazione delle pene, attraverso la corretta predisposizione ed attuazione dei compliance programs in veste di regole preventive per la commissione dei reati, dall’altra parte si prevede un inasprimento delle pene in caso di reato e di mancata adozione di questi programmi, considerando in questo caso un sorta di “colpa specifica” quale coefficiente soggettivo del reato imputato all’ente.

2.3 L’esperienza francese

La disciplina della responsabilità penale delle persone giuridiche anche se in ritardo rispetto ai paesi di common law, giunge anche nell’Europa Continentale. In Francia fa la sua comparsa il 1°marzo 1994, quando entra in vigore il nuovo codice penale che introduce all’art.121-2 la responsabilità penale per le “personnes morales”, termine che si identifica totalmente con quello di persona giuridica. Tra i soggetti collettivi, per cui la responsabilità penale viene istituita, non si esclude l’assoggettamento a sanzioni nemmeno a quelli di diritto pubblico e rispetto alla disciplina italiana (che a breve affronteremo), questa viene applicata anche ai partiti politici e ai sindacati; l’unica realtà che non viene annoverata in questo elenco è rappresentata dallo Stato. Tuttavia si può dire che gli enti pubblici

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territoriali godano di una regolamentazione particolare: l’art.121-2 comma secondo, stabilisce infatti che essi siano ritenuti responsabili solamente per i reati commessi nell’esercizio di attività qualificate come di pubblico servizio, escludendo in questo modo la loro responsabilità per l’esercizio di funzioni di potestà pubblica. Per quanto riguarda l’aspetto dei requisiti che integrano la responsabilità dell’ente, il primo comma dell’articolo analizzato fino a questo punto, ne menziona due: il reato deve essere commesso da organi o rappresentanti dell’ente e per conto dello stesso. La responsabilità penale che viene delineata dal codice francese, si manifesta come non esclusiva di quella delle persone fisiche autrici dei fatti, adottando quindi il principio del cumulo delle due responsabilità. La dottrina

francese sostiene come criterio dogmatico, quello dell’

”immedesimazione organica” ma il testo dell’art.121-2 ci mostra una responsabilità indiretta della persona giuridica per fatto altrui. Sembra quindi manifestarsi un’alternativa tra i due principi che si sono formati nell’esperienza anglosassone, ovvero tra la “vicarious liability” e l’ ”identification theory”, ma tra questi, il sistema francese sembra optare maggiormente verso il primo, finendo per delineare quindi per una responsabilità di “rimbalzo” (par ricochet). Tuttavia a seguito dell’entrata in vigore del codice, l’orientamento della giurisprudenza non fu univoco nell’accettare questo concetto di responsabilità di “rimbalzo”, infatti certe sentenze si orientarono verso una colpevolezza autonoma della persona giuridica e dovette intervenite la Cassazione nel 1997, per riaffermare quanto sancito dal dettato codicistico.

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2.4 L’esperienza svizzera

Il legislatore federale svizzero ha intrapreso un percorso differente dal vicino francese, optando per una responsabilità penale degli enti collettivi del tutto autonoma. La particolarità del modello svizzero risiede anche nell’aver previsto due distinte specie di responsabilità in capo alle persone giuridiche, entrambe del tutto prive degli elementi dell’immedesimazione organica. L’art.100 –quater del codice penale, introdotto il 1°ottobre del 2003, istituisce la punibilità delle imprese e la grande innovazione risiede nel considerare soggette alla disciplina non soltanto le imprese collettive, bensì anche quelle individuali; nonostante ciò i grandi protagonisti della nuova disciplina rimangono gli enti collettivi. Il primo comma dell’articolo poc’anzi menzionato, prevede la responsabilità penale delle imprese per ogni crimine o delitto commesso nell’esercizio di attività commerciali conformi allo scopo imprenditoriale, quando il reato non possa essere ascritto ad una persona fisica determinata “per carente organizzazione interna”. Questa previsione tiene in grande considerazione la sempre più crescente frammentarietà e impersonalità dei crimini commessi dagli enti e il fatto che la colpa di organizzazione venga determinata non sul reato commesso e sulle condizioni che l’hanno reso possibile, ma sulla circostanza che non risulti individuabile la persona fisica autrice dell’illecito. Il secondo comma dell’art.100-quater, contempla un’altra forma di responsabilità penale a carico degli enti e in questo caso il rimprovero che il legislatore muove è diretto all’autore individuale o collettivo, per non aver messo in atto tutte le misure organizzative necessarie per evitare la commissione del reato. Entrambe le disposizioni di questo articolo configurano quindi la “colpa organizzativa”, seppur con oggetto diverso, essendo riferita in un caso all’impossibilità di individuare l’autore materiale del fatto e in un altro

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al mancato impedimento del reato. Per concludere possiamo affermare che la normativa elvetica si pone il chiaro obiettivo di stare al passo coi tempi e con il crescente fenomeno dell’impersonalità della criminalità d’impresa.

3. Ragioni e fonti della responsabilità

Il nostro ordinamento è stato uno dei più restii all’introduzione della nuova disciplina sulla responsabilità per gli illeciti amministrativi derivanti da reato delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridiche, volto a sanzionare la criminalità d’impresa attraverso una responsabilità diretta dell’ente, qualificandola come amministrativa e collegata alla commissione di reati. Questa novità ha comportato un rilevante cambiamento dal punto di vista sostanziale, venendo meno il primato della persona fisica nella vicenda punitiva così come dal punto di vista processuale, portando alla creazione di una sorta di vero

“microcodice10”, grazie alle novità introdotte, sia per quanto riguarda

l’addebito del fatto all’ente che per le misure cautelari interdittive. Le posizioni dottrinarie contrarie non sono mancate, fondando il loro dissenso soprattutto sul contrasto con l’art 27 Cost. Il primo comma prevede il divieto di comminare sanzioni penali che possano incidere su persone estranee alla commissione del reato. Secondo parte della dottrina, l’ente si vedrebbe imputare una sanzione per un crimine commesso dalla persona fisica e quindi da altri. Inoltre si fa risalire l’incapacità dell’ente alla sua carenza dell’elemento psicologico, ovvero quel quid capace di farlo agire con dolo o colpa e fargli percepire eticamente la rilevanza di ciò che sta facendo, elemento

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fondamentale per un giudizio di colpevolezza. Anche il terzo comma è fonte di perplessità per la nuova disciplina: in questo caso, il fine rieducativo della pena, si scontra con la mancanza di un substrato psicologico dell’ente, di modo che il disposto normativo risulterebbe del tutto inattuato, in quanto incapace di far riappropriare all’ente i valori della legalità. Alla base dell’introduzione nel nostro ordinamento di questo istituto, stanno tre ordini di ragioni: la spinta della comunità internazionale, l’esperienza comparatistica e la politica criminale. In riferimento a quest’ultimo punto, possiamo affermare che nella società moderna, l’attività criminale ha molte volte una

connotazione collettiva11 e l’espansione di questo fenomeno negli

ultimi anni ha raggiunto dimensioni rilevanti, grazie ad eventi quali la globalizzazione e l’esponenziale sviluppo tecnologico, ragion per cui la risposta penale di tipo individuale pare non essere più all’altezza, in quanto sanzionare la singola persona all’interno di organismi, spesso dalle enormi dimensioni, risulta insignificante nonché parzialmente satisfattivo. Tutto ciò alla luce del fatto che le singole persone fisiche agiscono come mero strumento di una volontà collettiva spesso fin troppo spregiudica e attenta solo al profitto e punirle non ha una rilevanza rimarcabile in quanto gli individui ricoprono il ruolo di elementi facilmente sostituibili. Questa esigenza porta a configurare l’imputazione di risposte sanzionatorie in capo all’ente, determinando

11Come sottolineato dalla Relazione al d.lgs. n.231 del 2001 “Dal punto di vista della

politica criminale, le istanze che premono per l'introduzione di forme di

responsabilità degli enti collettivi appaiono infatti ancora più consistenti di quelle legate ad una pur condivisibile esigenza di omogeneità e di razionalizzazione delle risposte sanzionatorie tra Stati, essendo ormai pacifico che le principali e più pericolose manifestazioni di reato sono poste in essere - come si avrà modo di esemplificare di seguito - da soggetti a struttura organizzata e complessa.

L'incremento ragguardevole dei reati dei "colletti bianchi" e di forme di criminalità a questa assimilabili, ha di fatto prodotto un sopravanzamento della illegalità di

impresa sulle illegalità individuali, tanto da indurre a capovolgere il noto brocardo,

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necessariamente il superamento del brocardo “societas delinquere

non potest”12. Come detto, i paesi anglosassoni furono i precursori di

questa materia, ma questa concezione di apertura all’imputazione criminale dei soggetti collettivi non ha tardato ad approdare anche negli ordinamenti di civil law dell’Europa continentale, determinando una forte sollecitazione finalizzata ad armonizzare le risposte sanzionatorie degli stati membri dell’Unione europea. Importante fonte d’ispirazione di questa disciplina è sicuramente l’esperienza americana con i suoi “compliance programs”, che sono dei modelli organizzativi adottati dalle aziende per regolare il funzionamento del proprio apparato organizzativo al fine di prevenire la commissione di illeciti. L’adozione di questa sorta di autoregolamenti interni ha anche uno scopo di natura premiale, ossia evitare o quanto meno ridurre l’applicazione di sanzioni se idoneamente adottati. Un ruolo decisivo all’introduzione della responsabilità delle persone giuridiche nel nostro ordinamento però l’ha avuto il contesto comunitario internazionale: con la l.29 settembre 2000 n.300, il Parlamento ha delegato il Governo di disciplinare questa responsabilità recependo vari atti internazionali che il nostro Paese si era obbligato a seguire:

- Convenzione sulla tutela finanziaria delle comunità europee ( meglio nota come Convenzione P.I.F., siglata a Bruxelles il 26 luglio 1995)

12 A tal proposito esaustivo, per inquadrare questo fenomeno, quanto affermato da P.BASTIA in Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità

amministrativa delle aziende, in AA.V.V. Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, cit. p. 37 : “ L’impresa in particolare ,per propria specifica natura, ma ancor più per l’evoluzione che essa ha interpretato nello sviluppo economico degli ultimi decenni – la cosiddetta impresa manageriale – ha conseguito in vario modo livelli di potere economico, di influenza sui mercati, di dominanza competitiva , di superiorità strategica, di persuasività nel tessuto economico-sociale, tali da rendere assolutamente impellente e necessaria l’assunzione di

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- Primo Protocollo riguardante l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, della Convenzione P.I.F. (siglato a Dublino il 29 novembre 1996)

- Convenzione sulla lotta contro la corruzione dove siano coinvolti funzionari delle Comunità Europee o degli stati membri dell’Unione Europea (Bruxelles 26 maggio 1997) - -Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici

ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali (Parigi 17 dicembre 1997).

La Convenzione OCSE non prescrive espressamente l’ introduzione della responsabilità penale per le persone giuridiche, ma rispetto a tutti gli altri accordi internazionali, è l’unico a contemplare una responsabilità diretta ,richiedendo infatti che ogni parte adotti “le misure necessarie, conformemente ai suoi principi giuridici, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche per la corruzione di pubblico ufficiale straniero” (art 2) e che siano adottate sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, incluse le sanzioni pecuniarie. Quindi in questo articolo si prevede chiaramente una responsabilità delle persone giuridiche, lasciando però agli stati membri un ampio margine di scelta per quanto riguarda gli elementi costitutivi dell’illecito, i criteri di ascrizione della responsabilità all’ente, la definizione dei soggetti in grado di impegnarne la responsabilità e la disciplina del concorso tra la responsabilità della persona fisica e quella dell’ente.

La responsabilità delle persone giuridiche è espressamente prevista anche dal:

- Secondo Protocollo alla Convenzione P.I.F. adottato a Bruxelles il 19 giugno 1997

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che tuttavia non è stata ratificata dal nostro Legislatore con la legge delega n.300 del 2000. Questo protocollo prevede che, rispetto ad un elenco di reati quali frode, riciclaggio e la corruzione in danno alla Comunità Europea e commessi a loro beneficio, le persone giuridiche siano passibili di sanzioni pecuniarie o di natura penale o amministrativa, aventi il carattere dell’effettività, proporzionalità e dissuasione. L’attenzione posta alle condotte criminose degli enti da parte degli organi comunitari è risalente agli anni 70. Un primo intervento infatti si ha con la:

- Risoluzione N.(77)28 in ambito di tutela ambientale, dove si manifesta l’opportunità per gli stati membri di introdurre una responsabilità penale delle persone giuridiche per i reati contro l’ambiente; nel testo, si sottolinea inoltre la crescente difficoltà nell’identificare le persone responsabili del reato di impresa a causa della complessità delle strutture organizzative. Pur lasciando libertà agli stati nel configurare un responsabilità penale o meno, il ricorso alla prima opzione è consigliato quando lo richieda la natura dell’offesa, la colpa e le conseguenze per la società;

- Raccomandazioni N. R(81)12 e R(82)15, con le quali il Consiglio d’Europa torna sul tema della responsabilità degli enti, sollecitando gli stati membri a compiere sforzi idonei per garantire una risposta efficace ai crimini economici, con la possibilità di introdurre una responsabilità penale per le persone giuridiche per le infrazioni in materia economica e la tutela del consumatore;

- Particolare importanza riveste la Raccomandazione N. R(88)18 con la quale il Consiglio d’Europa afferma la necessità di adottare misure rivolte a responsabilizzare gli enti per le

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offese commesse nell’esercizio delle loro attività, anche quando l’offesa esula dagli scopi propri dell’impresa. Si punta a considerare la responsabilità penale come la più adatta pur riconoscendo la difficoltà di vari ordinamenti europei nell’assolvere a questa prospettiva di adeguamento. La Raccomandazione sottolinea anche l’autonomia che la responsabilità del soggetto collettivo deve presentare rispetto a quella della persona fisica autrice del reato. Risulta chiaro che le istituzioni comunitarie non vincolano formalmente i legislatori nazionali quanto al modello di responsabilità da adottare, rispettando in tal modo le diverse scelte costituzionali. Salvo considerare le eventuali pressioni esercitate per altra via da strumenti “alternativi” con i quali le istituzioni comunitarie esprimono in modo “informale” precisi indirizzi su temi fondamentali e un esempio emblematico è rappresentato dal “Corpus Juris “, ovvero un documento contenente disposizioni penali indirizzate alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea. Il Corpus Juris apre con slancio la discussione sulla creazione di un sistema penale sovranazionale , suggerendo di introdurre un ristretto numero di disposizioni penali (aventi carattere sia sostanziale che processuale) volte alla tutela degli interessi finanziari comunitari e destinate ad essere applicate in tutto il territorio dell’Unione europea. Si tratterebbe di un diritto penale comune europeo suppletivo, necessitando, le disposizioni proposte, di un completamento da parte di regole penali e processuali nazionali, prevedendo chiaramente all’art.13 la responsabilità penale per gli enti collettivi.13

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4. Scelte della l.delega 300/2000

Il 29 settembre del 2000 viene emanata la legge delega n. 300, un atto quasi dovuto per il nostro ordinamento, a seguito dei molti impegni pattizi assunti a livello internazionale dal nostro paese. Con questa legge infatti venivano ratificate le varie Convenzioni UE ed OCSE sulla lotta contro la corruzione che fissano il principio della responsabilità sanzionatoria della persona giuridica pur non prevedendo l’obbligo di ricorrere alla sanzione penale.

Prima di giungere a questo risultato il dibattito parlamentare ebbe modo di discutere un altro disegno di legge, il n. C.5491 datato 1998 che all’art. 6 prevedeva l’introduzione di una responsabilità penale delle persone giuridiche, ma all’epoca questa fu giudicata inadatta per

le complicazioni di ordine costituzionale che avrebbe comportato14.

L’art. 11 della legge delega prevede che il Governo debba emanare entro otto mesi dalla data di entrata in vigore della stessa, un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa di persone giuridiche e società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgano funzioni di rilievo costituzionale, in relazione alla commissione di reati contro la Pubblica Amministrazione, reati relativi alla tutela dell’incolumità pubblica, nonché in materia di tutela dell’ambiente e del territorio e di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Il legislatore delegante si è trovato a dover affrontare varie questioni quali la determinazione della natura della responsabilità, la tipologia dei destinatari della

definiti (artt. 1-8) anche gli enti che possiedono la personalità giuridica, così come quelli che possiedono la qualità di soggetti di diritto e che sono titolari di un patrimonio autonomo quando il reato è stato realizzato per conto dell’ente da un organo, un rappresentante o da una qualunque persona che abbia agito in nome dell’ente o che abbia un potere di decisione, di diritto o di fatto. 2.La responsabilità penale degli enti non esclude quella delle persone fisiche, autori, istigatori o complici degli stessi fatti.

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normativa, i criteri d’imputazione all’ente per i reati commessi dai suoi soggetti di vertice e dipendenti, le sanzioni applicabili e il sistema processuale da adottare. La legge delega come prima cosa prevede che la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti non abbia validità solo per le persone giuridiche ma anche per le società e le associazioni prive della personalità giuridica; inoltre prevede che la responsabilità sia riferibile agli enti per i reati commessi a loro vantaggio o interesse da parte dei soggetti che svolgono funzioni apicali o dai sottoposti alla vigilanza altrui; si dispongono sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive, come le sanzioni pecuniarie, quelle interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza; si prevede l’applicazione di sanzioni interdittive in via cautelare; si prevede che le sanzioni amministrative siano applicate dal giudice penale e che il procedimento di riferimento sia quello penale con il rispetto delle norme del codice di procedura penale, dove compatibili, presentando una disciplina alquanto ricca sotto l’aspetto dei reati presupposto dell’illecito ( art.11 comma 1 lett.a-n). La legge-delega mostra lacune dal punto di vista della regolamentazione processuale, posto che l’art 11 comma 1 lett.o si limita a stabilire che le sanzioni interdittive si possono utilizzare anche in ambito cautelare con un’adeguata tipizzazione dei requisiti richiesti, evocando un procedimento incidentale autonomo e alla lett. q afferma che le sanzioni amministrative a carico degli enti siano applicate dal medesimo giudice competente a conoscere del reato e che per il procedimento di accertamento della responsabilità si sarebbero dovute applicare le disposizioni del codice di procedura penale, se compatibili, garantendo la partecipazione e difesa degli

enti nelle diverse fasi del procedimento penale15.

15 A.GIARDA, Un sistema ormai a triplo binario: la giurisdizione penale si amplia, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, 2002, p.193

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5. Il d.lgs. 8 giugno n.231/2001

Il decreto, intitolato “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”, contiene una disciplina di tipo sostanziale, fondata su una parte generale dedicata ai principi, i criteri di attribuzione della responsabilità e alle sanzioni (capo I sez. I e II art. 1-23) e su di una parte speciale in continua evoluzione con l’elenco tassativo dei reati presupposto che fondano l’illecito (Sez. III art 24-25 undecies) e infine una disciplina processuale che replica quella codicistica sotto il profilo dinamico e statico (Capo III art 34 – 82 d.lgsln.300 del 2001). L’ente diventa responsabile per i reati presupposto elencati negli art. 24 ss, commessi nel suo interesse o vantaggio da soggetti in posizione apicale o sottoposti all’altrui direzione secondo il principio di legalità (art.2), dell’irretroattività e della successione delle leggi nel tempo (art 2 e 3) e proprio riguardo alla qualifica rivestita all’interno dalla persona cui viene attribuito il reato presupposto, il legislatore delegato ha previsto un modello di responsabilità differenziata. Ci sono delle novità riguardo la costruzione della colpa di organizzazione (art 6 e 7), dell’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella della persona fisica-imputato (art 8), nelle sanzioni pecuniarie ed interdittive (art 9), nella disciplina della prescrizione (art 22). La legge delega n.300 del 2000 prevedeva che la verifica della responsabilità dell’ente dovesse avvenire nei limiti della compatibilità con la struttura impersonale dei soggetti coinvolti, secondo le norme del codice di procedura penale (art.11 comma 1 lett. q) e si prevedeva che allo stesso fosse garantita l’effettiva partecipazione e difesa nelle varie fasi del procedimento e di tipizzare adeguatamente i presupposti delle misure cautelari (art.11 comma 1 lett. p). Il legislatore del 2001 sceglie di configurare un rito

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che si ispiri a quello ordinario discostandosene però in alcuni profili: la disciplina speciale e prevalente è da integrare con quella codicistica dove compatibile, quindi non mancano dubbi sulla legittimità costituzionale per eccesso di delega e gli attriti col principio di legalità

processuale16. La legge delega n.300 del 2000 individua nel codice di

procedura penale la fonte primaria mentre il d.lgs.231 del 2001 inverte la gerarchia delle fonti prevedendo l’osservanza delle disposizioni del capo III (art.34) e in via sussidiaria il codice. Il decreto si caratterizza per un ulteriore differenza rispetto alla legge delega: questa all’art.11 lett. e aveva previsto che gli enti sarebbero stati responsabili in relazione a reati-presupposto commessi, a loro vantaggio o interesse, da chi svolge funzioni di rappresentanza o amministrazione, gestione ovvero da chi è sottoposto alla direzione delle persone fisiche menzionate. Questi reati erano divisibili in 4 tipologie: 1)delitti contro la Pubblica Amministrazione; 2) reati relativi alla tutela dell’incolumità pubblica (previsti dal titolo sesto del libro secondo del codice penale); 3) reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose se commessi in violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro; 4) reati contro l’ambiente e il territorio, punibili con una pena detentiva non inferiore nel massimo ad un anno anche se in alternativa alla pena pecuniaria. Tuttavia il d.lgs. n231 del 2001 accolse solo in parte le previsioni della delega, limitandosi agli art 24 e 25 ad accogliere solo quanto previsto dalla lett. a dell’art 11 della legge delega e cioè la concussione, la

corruzione e la frode17. Le ragioni di questo dietrofront sono spiegate

dalla Relazione al decreto: “poiché l’introduzione della responsabilità

16 A.GIARDA, Un sistema ormai a triplo binario: la giurisdizione penale si amplia, op.cit.p.195

17 G.LATTANZI, afferma che con questa modifica “…la montagna abbia partorito un topolino” in, Introduzione, Responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse, in Cass. pen. 2003, supp.al n.6, p.1

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sanzionatoria degli enti assume un carattere di forte innovazione nel nostro ordinamento, sembra opportuno contenerne la sfera di operatività, anche allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura aziendale della legalità che, se imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare non trascurabili difficoltà di adattamento”. Questo ragionamento è frutto delle riserve del “mondo economico” alla nuova normativa, ma lentamente queste frizioni si sono placate permettendo l’ampliamento dei reati presupposto con l’introduzione di: delitti informatici e trattamento illecito di dati (art 24 bis), delitti di criminalità organizzata (art 24 ter) ,reati in materia di contraffazione dell’euro (art 25 bis), delitti contro l’industria e il commercio (art 25 bis ), reati societari (art 25 ter), delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico ( 25 quater), delitti contro la personalità individuale quali la riduzione in schiavitù, la tratta delle persone e lo sfruttamento sessuale dei minori (art 25 quinquies), reati di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato (art 25 sexies), omicidio colposo e lesioni colpose gravi e gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (art 25 septies), reati di ricettazione, riciclaggio ed impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art 25 octies), delitti in materia di violazioni del diritto d’autore (art 25 novies), reato di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art 25 decies), reati ambientali (art 25 undecies) e reato di impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (art 25 duodecies).

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6.Natura della responsabilità

La dottrina italiana si è dibattuta a lungo su questo argomento. Il legislatore del 2001 ha qualificato la responsabilità delle persone

giuridiche come amministrativa 18, ma non mancano le divergenze

rispetto all’illecito amministrativo previsto dalla L.689 del 1981. La questione inerente la natura dell’istituto risponde all’esigenza di comprendere quali sono i principi informatori della disciplina per verificarne l’ortodossia costituzionale. Questo aspetto diviene fondamentale se si considerano gli art. 25 e 27 Cost.: questi valgono per l’illecito penale ma non per quello amministrativo e ancora altre previsioni che hanno efficacia in ambito penale, non trovano applicazione per le sanzioni amministrative (come il principio del contraddittorio, il diritto di difesa e la presunzione d’innocenza).La dottrina pare divisa su tre principali linee di pensiero riguardanti l’interpretazione del tipo di responsabilità. C’è chi si schiera dalla parte della responsabilità penale, affermando che il sistema così

delineato di amministrativo abbia solo il nome19. Questa

responsabilità riguarda la commissione di un reato, e a carico dell’ente non è imputabile un atto criminoso diverso da quello commesso dalla persona fisica, trattandosi quindi di una fattispecie

18 Viene operato già nell’intitolazione del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 un esplicito riferimento alla natura amministrativa della responsabilità dell’ente e

successivamente anche nel comma 1 dell’art.1 viene replicato il concetto: “dell’illecito amministrativo dipendente da reato”. Va sottolineato che la scelta sotto il profilo nominalistico fosse già vincolata dalla delega contenuta nella l.n. 300 del 200: “il Governo della Repubblica è delegato ad emanare, entro 8 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, associazioni ed enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale con l’osservanza dei seguenti principi e criteri direttivi”

19 C’è chi come E.MUSCO parla di “truffa delle etichette”, in quanto la responsabilità in esame, di amministrativo abbia solo il nomen iuris, in Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive, Dir.Giust.,2001 p.83

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complessa di imputazione20. La responsabilità dell’ente è autonoma

da quella della persona fisica, permanendo anche nel caso di mancata identificazione del responsabile materiale del reato (art 8 d.lgs. 231 del 2000).La giurisdizione è affidata al giudice penale trovando applicazione le disposizioni del c.p.p., in quanto compatibili (art 34) e anche la natura giuridica della sanzione è di tipo penale in quanto caratterizzata dal tipico grado di afflittività e gravosità che connota le sanzioni penali. Una seconda corrente di pensiero indentifica la

natura dell’istituto come amministrativa21 e chi sostiene questa linea,

afferma come certi istituti siano incompatibili con la responsabilità di tipo penale: ad esempio si richiama la disciplina della prescrizione che differisce da quella penale dell’art 159 c.p., trattandosi infatti di un regime unico per tutti i reati e sostanziandosi in 5 anni dalla commissione del reato. Inoltre anche le vicende modificative dell’ente, quali la scissione e la fusione, hanno un’impronta di tipo civilistico ponendosi così in conflitto con il principio di personalità della responsabilità penale e configurando in questo caso una sorta di responsabilità per fatto altrui. L’ultima corrente è quella rappresentata da coloro che qualificano questa responsabilità come

un “tertium genus”22. Il decreto non si esime dal manifestare, in taluni

punti, la sua “doppia anima”. Lo si vede, ad esempio, negli articoli 2 e 3, i quali replicano le definizioni di principio di legalità e successioni di

20 G.AMARELLI, Mito giuridico ed evolutivo della realtà:il crollo del principio societas delinquere non potest, 2003 pag.941 e ss “una qualificazione dell’illecito dell’ente come amministrativo comporterebbe un inevitabile disparità di trattamento per quanto riguarda la risposta sanzionatoria dell’ordinamento nei confronti del medesimo fatto, di talché la persona fisica risponderebbe penalmente e la persona giuridica sarebbe destinataria di sanzioni meramente amministrative con “buona pace del principio di eguaglianza”

21 Uno dei vari sostenitori di questa tesi è G.MARINUCCI, Relazione di sintesi, in AA. VV. La responsabilità da reato degli enti collettivi. Atti del convegno organizzato dalla facoltà di Giurisprudenza e dal dipartimento di diritto penale di Firenze 22 Relazione illustrativa al d.lgs.8 giugno 2001 n. 231: “i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni

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leggi nel tempo definite dagli articoli del codice penale e dalla legge 689/81. Lo si vede ancora negli articoli 5 e 6 dove il primo manifesta la responsabilità sul piano oggettivo proponendo la teoria della “immedesimazione organica” e l’altro, invece, di stampo puramente penalistico ed evocante la disciplina americana, rappresenta il cuore della disciplina strutturando l’imputazione soggettiva e la necessaria predisposizione dei “modelli di organizzazione”.

7. Le ragioni della scelta del processo penale

L’art. 11 lettera q della l.n. 300 del 2000 prevede che per l’accertamento della responsabilità degli enti si applichino le norme del codice di procedura penale, determinando l’effettiva partecipazione dell’ente nelle fasi del procedimento, perciò il legislatore delegato all’art.34 richiama esplicitamente le norme del c.p.p. La scelta di privilegiare il procedimento penale si collega alla necessità di “coniugare le esigenze di effettività e di garanzia dell’intero sistema”. L’aver optato per l’utilizzo delle potenzialità d’accertamento e le garanzie del processo penale, è giustificata dalla connotazione fortemente afflittiva di alcune sanzioni comminabili all’ente e dalla struttura complessa dell’illecito amministrativo che presuppone la commissione di un fatto di reato. Il d.lgs. n. 231/2001 supera quella scelta della L.n.689 del 1981 secondo cui al giudice

penale spetta occasionalmente una cognizione sull’illecito

amministrativo, stabilendo invece che l’accertamento per la responsabilità amministrativa degli enti avvenga stabilmente nel processo penale. Questo fatto altera i confini della giurisdizione del giudice in quanto dovrà accertare l’esistenza del reato contestato e i presupposti di un eventuale misura di sicurezza per la persona fisica,

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ma dovrà anche valutare l’applicazione o meno di sanzioni amministrative a carico dell’ente. Gli art 36 e 38 mostrano la volontà del legislatore di ampliare l’ambito cognitivo del giudice penale e di favorire una trattazione unitaria del processo a carico dell’autore del reato-presupposto e l’accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente. L’art 36 non modifica il sistema delle competenze stabilito dal codice di procedura penale e con ciò garantisce il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale e precostituito per legge, stabilendo che la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono e che il procedimento d’accertamento osserva le disposizioni sulla composizione del tribunale e le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l’illecito amministrativo dipende. L’art 38 accoglie il principio del simultaneus processus e ciò rappresenta una differenza rispetto al codice di procedura penale, dove viceversa si preferisce la separazione dei processi. Questa scelta non è stata esente da critiche in quanto non evita l’ipertrofia del procedimento e il voler trattare contemporaneamente entrambi può

complicare la conduzione del processo23.

23 Ad esempio G.GARUTI, in Persone giuridiche e “processo” ordinario di cognizione, in Dir.pen.proc.2003,p.137 afferma che “la soluzione normativa adottata

nell’ambito del d. lgs.n.231 del 2001 rappresenta sicuramente una anomalia dal punto di vista sistematico, ma risulta assai opportuna dal punto di vista pratico, in quanto permette di valutare in modo essenzialmente unitario – limitando dunque il pericolo di decisioni contrastanti – fattispecie tra loro strettamente legate. Sotto un profilo giuridico siamo di fronte a un cumulo processuale – non necessario – di competenze principali conseguente a un rapporto di “pregiudizialità di fatto” connotato in termini di dipendenza dell’illecito amministrativo da quello criminoso”

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8. Metamorfosi delle finalità del processo: da luogo di accertamento a strumento di prevenzione

Il processo penale può essere definito il luogo di accertamento della responsabilità penale e di applicazione della relativa sanzione. Il processo è per sua natura strumentale alla norma penale sostanziale, che risponde ad esigenze di politica criminale e assolve le funzioni di intimidazione ed orientamento dell’agire dei consociati. E’ alla norma sostanziale che compete la prevenzione generale e speciale, non al processo. All’interno del procedimento per l’accertamento della responsabilità degli enti, però assistiamo ad una rottura col passato e alla trasformazione degli scopi del processo. Si palesa così un sistema che supera le finalità del processo, andando oltre i classici compiti di mero accertamento e repressione, andando ad assumere aspetti general-preventivi e a dimostrazione di ciò vi sono i molti incentivi ideati per recuperare alla legalità l’ente. Si cerca di sfruttare il momento processuale facendo si che assuma una connotazione di orientamento dell’attività dei consociati, attribuendo al processo penale finalità di stigmatizzazione, intimidazione e rieducazione che non gli appartengono. Gli standard di garanzia assicurati dall’intervento giurisdizionale penale soddisfano inedite finalità di recupero alla legalità dell’ente imputato. Un chiaro esempio di quanto detto emerge dall’impiego delle sanzioni interdittive in funzione di misura cautelare contra societatem che vengono concepite per soddisfare esigenze di emenda e rieducazione dell’ente e infatti queste sembrano più adatte a propiziare l’adozione di condotte riparatorie dell’ente che non a soddisfare le esigenze funzionali al processo. Questo però induce la persona giuridica a riorganizzarsi secondo l’assunto accusatorio prima che sia stata accertata la responsabilità, dandolo invece per provato e ciò contrasta con il

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principio della presunzione di non colpevolezza sancito dall’art.27 comma 2 Cost. L’adozione post factum di modelli organizzativi da parte dell’ente, in sede cautelare o predibattimentale, porta a notevoli vantaggi sul piano sanzionatorio per l’ente, ma si scontra con la funzione di accertamento dell’eventuale responsabilità: si può quindi dire che l’accertamento della responsabilità diventa secondario rispetto alla finalità di recupero dell’ente alla legalità, favorendo condotte di autoregolamentazione tramite ampi vantaggi per l’ente, ma il tutto a scapito della funzione di accertamento del fatto-reato e l’irrogazione della pena.

9. L’assimilazione dell’ente all’imputato

L’art 35 equipara la persona giuridica all’imputato e con ciò gli si rendono applicabili le disposizioni processuali relative, in quanto compatibili. Il legislatore così facendo estende all’ente lo statuto costituzionalmente tipico dell’imputato, che comprende la presunzione di non colpevolezza (art 27, comma 2 Costituzione), seppur con alcune differenze: l’art 6 pone a carico dell’ente la prova della propria innocenza e questo stride col principio di presunzione di non colpevolezza. Questo non è un caso isolato, in quanto si riscontra che sotto altri aspetti questa equiparazione sembra non del tutto riuscita. Anche il modo di partecipazione dell’ente al procedimento, con riferimento alle modalità di costituzione nel processo del soggetto collettivo, attesta un’imperfetta equiparazione dell’ente all’imputato. Infatti l’inserimento della sottoscrizione da parte del difensore munito di apposita procura speciale e della dichiarazione di elezione di domicilio nel novero dei requisiti essenziali previsti a pena di inammissibilità dell’atto di costituzione dell’ente nel processo,

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rappresenta un sintomo della volontà del legislatore di disciplinare l’intervento della persona giuridica su quello del convenuto nel processo civile. Possiamo affermare quindi che il processo agli enti diverge da quello codicistico più di quanto previsto dall’art 34, cosicché diventa obbligatorio ricostruire la disciplina. L’imperfetta parificazione tra ente ed imputato viene posta in evidenza anche dall’art.44, inerente l’incompatibilità con l’ufficio di testimone. L’articolo al suo primo comma prevede due casi di incompatibilità, una per la persona imputata del reato da cui dipende l’illecito amministrativo e una per il rappresentante indicato nella dichiarazione dell’art.39 comma 2 che rivestiva questa posizione anche al momento della commissione del fatto. La ratio dietro a queste due previsioni è di evitare che questi soggetti siano obbligati a dire il vero. Nessuna incompatibilità è invece prevista per il legale rappresentante che all’epoca del reato non rivestiva tale qualifica, e questa scelta sembra contraddire il principio di equiparazione dell’ente all’imputato ex art.35, in quanto questa ambigua disciplina che alle volte configura il rappresentante all’imputato e altre al testimone, si presta facilmente a critiche. Infine un altro aspetto problematico risulta quello riguardante la ripartizione dell’onere della prova. Questa varia a seconda del soggetto che commette il reato: se un apicale o un subordinato. Il pubblico ministero è gravato di un onere probatorio più leggero nel caso in cui sia un soggetto di vertice a realizzare l’illecito, con l’ente chiamato a dover effettuare tutta una serie di procedimenti per potersi discolpare. Tutto questo è in chiara opposizione con la presunzione di non colpevolezza.

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