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I criteri di scelta delle misure

MISURE CAUTELARI INTERDITTIVE

6. I criteri di scelta delle misure

L’art.46 del decreto legislativo sancisce dei criteri guida, ai quali il giudice deve uniformarsi, in modo tale da limitare la sua discrezionalità decisionale per la selezione delle misure cautelari applicabili alla persona giuridica. Questi criteri, derivanti dall’esperienza codicistica delle cautele personali sono quelli dell’adeguatezza, gradualità e proporzionalità e il giudice nell’ordinanza cautelare, dovrà tenerne conto per giustificare la scelta

63 “L’ente che non è attrezzato dal punto di vista dell’organizzazione, che non ha attuato modelli idonei a prevenire i reati è un soggetto pericoloso dal punto di vista della valutazione cautelare. Sia la storia che il futuro dell’ente possono essere letti attraverso la sua organizzazione”, come affermato da G. FIDELBO, Le misure

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di una certa misura anziché un’altra, motivando il provvedimento in ragione dell’adeguatezza delle esigenze cautelari concrete, alla proporzionalità rispetto alla gravità del fatto posto in essere e dalla gradualità, optando cioè per la misura meno vessatoria sufficiente a soddisfare le altre esigenze cautelari. Il parametro dell’ adeguatezza risiede nell’art.46 primo comma ed ispirato dall’art.275 c.p.p., dispone che il giudice debba tener di conto della specifica idoneità della singola misura, rapportata alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare per quel determinato caso concreto; esigenze che si sostanziano nel criterio del “concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede”, il che comporta quindi da parte del giudice, una valutazione sull’efficacia specifica della singola misura disposta, in relazione al pericolo di reiterazione degli illeciti riscontrabile nel caso concreto. Si parla in questo caso di “economicità” della pena, intesa come necessità di evitare una cautela più gravosa, dove il periculum in mora possa esser evitato con forme cautelari più lievi. L’art. 14 prevede per le sanzioni interdittive, anche nel caso di applicazione temporanea di una misura cautelare, che il provvedimento abbia necessariamente come oggetto “la specifica attività al quale si riferisce l’illecito” e in particolare “il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione può anche essere delimitato a determinati tipi di contratto e a determinate amministrazioni”. Il principio di proporzionalità, dettato dal secondo comma dell’art. 46, prevede che l’applicazione di ogni misura sia proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si reputa possa venir poi applicata all’ente. Questa corrispondenza tra misura cautelare ed entità del fatto, risponde ad un requisito di ragionevolezza. Il riferimento alla sanzione irrogabile implica che il giudice effettui una prognosi sulla pena irrogabile, quindi impone il divieto di applicare in sede di accertamento della responsabilità una

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misura interdittiva non proporzionata alla sanzione definitiva che potrebbe essere irrogata all’ente. Questo principio, in sede attuativa, determina per il giudice un percorso particolarmente complesso nella scelta del mezzo cautelare e che non possa irrogare la misura cautelare se la sanzione interdittiva non sia prevista, richiedendo anche una riflessione profonda per determinare quale tra le sanzioni elencate all’art.9 comma 2 possa essere applicata e quindi a quale misura cautelare poter attingere. In questo giudizio prognostico trova nuovamente spazio una valutazione di quei criteri d’imputazione oggettiva e soggettiva che presiedono anche alla valutazione del fumus boni iuris e del periculum in mora. Si potrebbe quindi parlare di una triplice valutazione da parte dell’autorità giudiziaria degli stessi elementi in sede cautelare; un autentico ”ter in idem”, in violazione alle garanzie processuali penalistiche stabilite dalla Costituzione, che si assumono riconosciute anche all’ente collettivo, in virtù della qualifica di vero e proprio imputato attribuitegli dall’art.35. L’ultimo criterio che il giudice deve osservare nella scelta della misura cautelare da applicare nel caso concreto è il principio di gradualità, rintracciabile nel terzo comma dell’art.46. La norma prevede che “l’interdizione dall’esercizio dell’attività può essere disposta in via cautelare soltanto quando ogni altra misura risulti non adeguata. Tale criterio si sostanzia nel principio dell’estrema ratio, come mutuata dall’esperienza delle cautele personali”. La sospensione dell’attività, così come la detenzione cautelare in carcere per le persone fisiche, sono infatti misure che per il loro grado di incisività, (in un caso sulla vita della persona fisica, essendo una restrizione del bene costituzionale della libertà personale, nell’altro sull’attività dell’ente potendo provocare ripercussioni sia dal punto di vista economico che da quello occupazionale) potranno essere applicate solo quando ogni altra misura prevista risulti inadeguata. Un’ulteriore limitazione

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all’arbitrarietà del giudice nello scegliere queste misure, è rinvenibile nel quarto comma dell’art. 46 dove si prevede il divieto di poter applicare congiuntamente più misure cautelari. La ratio di questa disposizione è dissonante sia con l’art.14 comma 3, che prevede la possibilità di applicazione congiunta delle sanzioni interdittive, sia con l’omologo principio codicistico “de libertate”, il quale in più disposizioni prevede la possibilità di un cumulo di provvedimenti limitativi. Questa regola forse trova le sue ragion d’essere nella volontà legislativa di non inasprire ulteriormente una disciplina che da più parti provoca più di una perplessità sulla tenuta degli istituti previsti qualora messi a confronto con le tutele e le garanzie che la Costituzione prevede per il processo penale.