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IL POPULISMO IN FRANCIA, IN ITALIA E IN SPAGNA: EVIDENZE EMPIRICHE DALL'ANALISI DEI PROGRAMMI ELETTORALI.

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Ad Annapaola

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Indice

INTRODUZIONE 4

Capitolo Primo 6

1.1. DIBATTITO SULLA DEFINIZIONE “POPULISMO” 6

1.2. I PRIMI CASI PARTITICI 8

1.2.1 Il Narodnicestvo 8

1.2.2. Il People‟s Party 10

1.3. IL DIBATTITO ACCADEMICO PRIMA DEGLI ANNI ’90 14

1.3.1 ERNESTO LACLAU: il Populismo come logica politica 16

1.3.2 PAUL TAGGART: il Populismo come ideal-tipo 28

1.4. LA LETTERATURA SUL POPULISMO DAGLI ANNI ’90 IN POI 30

1.4.1. L‟approccio ideologico 31

1.4.1.1 Il contributo di Mudde all‟approccio ideologico: i temi ricorrenti del Populismo 34

1.4.2. L‟approccio strategico 41

1.4.3. L‟approccio discorsivo 42

1.4.4. La svolta: il Populismo come stile politico 43

1.4.4.1 Il contributo di Moffitt all‟approccio dello stile politico 44

1.5. LA SFIDA DELL’ANALISI EMPIRICA: DALLA TEORIA ALLA PRATICA 50

1.5.1. Il metodo secondo Caiani e Graziano 50

Capitolo Secondo 53

2.1. L’ASCESA DEI PARTITI POPULISTI IN ITALIA 53

2.2. LEGA NORD 55

2.2.1. Brevi cenni storici 55

2.2.2. La Lega Nord alle elezioni europee: analisi dei manifesti elettorali e dello Statuto 57

2.3. IL MOVIMENTO 5 STELLE 60

2.3.1 Brevi cenni storici 60

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2.4. LEGA E MOVIMENTO 5 STELLE ALLE POLITICHE DEL 4 MARZO 2018 63

2.4.1. Analisi dei movimenti programmi elettorali delle politiche del 2018 65

2.4.1.1. La Lega 65

2.4.1.2. La coalizione di Centro-Destra 72

2.4.1.3. Il M5S 74

2.5. IL CONTRATTO DI GOVERNO LEGA-MOVIMENTO 5 STELLE 79

2.6. CONSIDERAZIONI FINALI: LEGA E MOVIMENTO 5 STELLE A CONFRONTO 84

Capitolo Terzo 86

3.1. L’ESCALATION DEI PARTITI POPULISTI IN FRANCIA 86

3.2. IL FRONT NATIONAL 88

3.2.1. Brevi cenni storici 88

3.3. IL FRONT NATIONAL ALLE PRESIDENZIALI: IL DISCORSO DI JEAN-MARIE E MARINE A CONFRONTO 91

3.3.1. Le Presidenziali del 2002 91

3.3.2. Le Presidenziali del 2017 96

3.4. IL FRONT NATIONAL DI JEAN-MARIE E MARINE: I PROGRAMMI PER LE ELEZIONI LEGISLATIVE A CONFRONTO 101

3.4.1. Le Legislative del 2002 101

3.4.2. Le Legislative del 2017 107

3.5. UN RINNOVO DI “FACCIATA” 115

3.6. FRANCE INSOUMISE 116

3.6.1. Brevi cenni storici 116

3.6.2. L‟esordio alle presidenziali del 2017 117

3.6.3. Le Legislative del 2017 122

3.7. CONSIDERAZIONI FINALI: FRONT NATIONAL E FRANCE INSOUMISE A CONFRONTO 127

Capitolo Quarto 130

4.1. LA CRISI SPAGNOLA E L’AVVENTO DEI MOVIMENTI POPULISTI 130

4.2. PODEMOS 131

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4.3. PODEMOS ALLE ELEZIONI EUROPEE E ALLE LEGISLATIVE: PROGRAMMI

ELETTORALI A CONFRONTO 133

4.3.1. Podemos alle elezioni europee del 2014 133

4.3.2. Podemos alle legislative del dicembre 2015 140

4.3.3. Podemos alle legislative del giugno 2016 146

4.4. CONSIDERAZIONI FINALI 153 Capitolo Quinto 155 5.1 CONCLUSIONI 155 Bibliografia 167 Sitografia 169

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Introduzione

La vittoria di Donald Trump alle presidenziali statunitensi del novembre 2016, il risultato storico ottenuto dal Front National alle elezioni per l‟Eliseo dell‟aprile-maggio 2017 e la più recente formazione di governo Lega-5 Stelle in Italia, hanno riportato all‟attenzione dell‟opinione pubblica un fenomeno che, nonostante numerose ricerche manca ancora di una precisa definizione: il populismo.

Nel corso del tempo la mancanza di una sua definita connotazione lo ha reso un‟etichetta “catch all” in grado di inglobare le forze politiche più disparate, perdendo così la sua specificità. Il dibattito accademico in materia aveva subito una battuta d‟arresto ma gli ultimi avvenimenti registrati nel XXI secolo hanno contribuito a far puntare i riflettori sullo studio del fenomeno, al fine di comprenderne le cause scatenanti e il funzionamento.

La sua diffusione a macchia d‟olio che ha interessato prima gli Stati Uniti, l‟Australia, il Pacifico e ora l‟Europa ha convinto gli studiosi a riprendere in seria considerazione la trattazione del caso. Scopo di questo lavoro è quello di continuare le ricerche scavando più a fondo al problema.

Questo studio non ambisce a fornire un‟univoca definizione di populismo né di risolvere definitivamente l‟enigma concettuale, bensì si pone il più modesto obiettivo di fornire un‟ulteriore chiave interpretativa allo studio di un fenomeno che per molti versi nasconde ancora dei lati inesplorati e di fornire dei riferimenti empirici di analisi su 6 casi di partito.

Dopo una breve esposizione del dibattito in letteratura attraverso i principali approcci accademici che hanno contribuito a rendere più intellegibile il fenomeno, i restanti capitoli del lavoro si dedicheranno all‟analisi empirica delle fonti. Il metodo utilizzato è quello di Manuela Caiani e Paolo Graziano (2016), tramite il quale si è proceduto ad analizzare un campione di partiti europei. Più precisamente sono stati selezionati quali casi studio la Lega e il Movimento 5 stelle per l‟Italia, il Front National e France Insoumise per la Francia e infine, Podemos per la Spagna.

A motivare tale scelta, i recenti risultati elettorali rinvenuti nell‟Europa degli ultimi anni che hanno visto un escalation sensazionale dei movimenti populisti esaminati rispetto ai partiti della politica tradizionale.

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A partire dall‟analisi di quattro dimensioni (ideologica, retorica, comunicativa e organizzativa) si è ritenuto opportuno sviluppare uno studio comparativo dei loro programmi elettorali. In generale, si proverà a individuare se esistono, tra i partiti, pattern comunicativi comuni o differenze significative. In particolare, si proverà a capire se le differenze maggiori sono dovute ai diversi contesti nazionali oppure anche alle differenti provenienze ideologiche dei partiti: essendo la Lega e il Front National chiaramente riconducibili alla destra estrema, Podemos e la France Insoumise alla sinistra alternativa e antiliberista, e infine il Movimento 5 Stelle un attore politico che rifiuta categoricamente ogni collocazione nell‟asse destra-sinistra.

Lo studio si svolgerà in modo diacronico, affrontando la partecipazione dei movimenti sia alle elezioni europee sia alle politiche nazionali, al fine di osservare l‟evoluzione nel tempo dei contenuti e ricavarne degli elementi in comune per trarre le considerazioni conclusive.

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Capitolo Primo

1.1. DIBATTITO SULLA DEFINIZIONE “POPULISMO”

I postumi della crisi finanziaria globale assieme a quella del debito sovrano nell‟Eurozona e, più ampiamente, la perdita di fiducia nella democrazia che ha leso la credibilità della politica di partito e alimentato un sentimento di frustrazione nei cittadini, hanno reso fertile il terreno per la diffusione di uno dei fenomeni più controversi del ventunesimo secolo. Ma cosa s‟intende esattamente per populismo? Come accade per la maggior parte dei termini nel lessico della scienza politica, anch‟esso è contornato da un elevato grado di contestabilità, nutrito da un copioso e continuo dibattito in letteratura che è tuttora alla ricerca della definizione perfetta. Il termine è così vago da abbracciare le più svariate manifestazioni politiche, superando sia i colori di appartenenza che le distanze temporali, geografiche e sociali: dal fenomeno del “narodnicestvo” russo del XIX secolo, passando per i movimenti di agricoltori e contadini del Sud e del Mid-West degli Stati Uniti degli anni ‟30 del 1900, interessando i populisti latinoamericani del calibro di Getúlio Vargas, Juán Domingo Perón e Lázaro Cárdenas del Río risalenti alla prima metà del secolo scorso, fino ad arrivare ai protagonisti del panorama politico attuale quali, Marine Le Pen, Ross Perot, Sarah Palin, Beppe Grillo e via dicendo. La lista come possiamo ben notare, oltre ad essere incompleta, è estremamente variegata. Tale eterogeneità è giustificata dalla natura complessa e offuscata del termine in analisi che, fungendo da categoria “catch all”, ingloba al suo interno una pluralità di componenti anche discordanti tra loro. A rendere il quadro abbastanza confuso contribuisce il fatto che raramente le stesse persone od organizzazioni interessate si auto-identificano „populisti‟ (Mudde, Kaltwasser 2017). Anche gli esempi più palesi (Perón o Fortuyn) hanno rinnegato questa categorizzazione, motivati da una connotazione negativa e denigratoria che molto spesso accompagna tale qualifica (Mudde, Kaltwasser 2017). Questo uso e abuso del termine è incoraggiato da una mancata delimitazione del campo d‟indagine da parte del mondo accademico che, sebbene non riservi dubbi nell‟etichettare i personaggi e i movimenti sopracitati come populisti, non è in grado di spiegare in modo univoco in cosa esattamente esso consista. Isaiah Berlin 30 anni fa parlava del “complesso di Cenerentola” dal momento che vi era una scarpa da indossare ma nessun piede che potesse calzarla a pennello (Meny, Surel 2012 p.3).

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Il suo livello di astrazione e indeterminatezza ha condotto gli esperti dinanzi a una radicalizzazione concettuale: buona parte degli studiosi considerano l‟incalzante dibattito che lo vede come protagonista un indicatore della sua vitalità e rilevanza, altri invece sostengono che il termine abbia raggiunto un‟applicazione talmente ampia da privarlo del suo valore analitico, riducendolo a un lessema senza alcun significato (meaningless) o quantomeno a un aspetto da confinare al passato (Moffitt, Tormey 2014). Gli avvenimenti degli ultimi decenni sembrerebbero dimostrare il contrario: l‟inaspettata qualificazione di Jean Marie Le Pen per il secondo round delle elezioni presidenziali in Francia nel maggio 2002, gli eccellenti risultati della lista di Pim Fortuyn arrivata seconda alle elezioni legislative olandesi del 15 maggio 2002 (Mouffe in Panizza 2005), senza contare il Tea Party statunitense che ha indotto la destabilizzazione del governo del 2013, lasciando a figure come Sarah Palin e Donald Trump un ampio margine di manovra per rimodellare la nuova faccia dell‟America conservatrice. Nell‟area del Pacifico Thaksin Shinawatra, Joseph Estrada, Paulin Hanson hanno lasciato tracce indelebili nei rispettivi paesi, persino l‟Africa sta avendo la sua dose di populisti dalla mano pesante come Michael Sata e Jacob Zuma. In altre parole, come direbbe Benjamin Moffitt, “Populism is back” (Moffitt 2016, p.2). Quello che un tempo veniva considerato come un fenomeno limitato a un‟epoca storica o a una determinata area geografica, ora si sta affermando come uno dei pilastri della politica contemporanea in tutto il mondo, costringendo la realtà accademica a riprendere in considerazione la sua trattazione. In particolare, il tema ha vissuto un vero e proprio exploit verso la metà degli anni ‟90 al punto da convincere gli studiosi a investigare sulle ragioni alla base dell‟esplosione di un “nuovo populismo” e un “neopopulismo” rispettivamente in Europa e in America Latina. L‟argomento è talmente attuale e misterioso, da aver scavalcato le rigide mura accademiche, giungendo dinanzi ai riflettori dell‟universo mediatico e politico. I più illustri pensatori e scienziati politici sono stati a lungo divisi sulla natura del populismo e su quale approccio seguire per penetrarne le logiche intrinseche. Fino al 1950 studiosi come Allcock ritenevano che il termine populista fosse una mera etichetta volta a contrassegnare due specifici avvicendamenti storici, senza sottintendere alcun significato più ampio. Il primo riguardava il già citato “narodnicestvo” russo nato e sviluppatosi nella seconda metà del 1800, il secondo era invece il movimento agrario-contadino che interessò gli Stati Uniti al tramonto del XIX secolo, sfociato in breve tempo nel People‟s Party (Moffitt 2016).

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1.2. I PRIMI CASI PARTITICI

1.2.1. Il Narodnicestvo russo

“Jti v narod!”, letteralmente “Andate verso il popolo”, è l‟emblema di un movimento politico e culturale in voga nella Russia del XIX secolo. Questo leitmotiv, coniato da un gruppo di intellettuali dell‟epoca, simboleggiava una visione sentimentalistica e idealizzata delle masse popolari, considerate come l‟unica via di salvezza alla crisi economica, politica, sociale che dilagava nel Paese.

Gli anni ‟30 del 1800 furono segnati dagli innumerevoli ma vani sforzi dello zar Nicola I di abolire il servaggio ostacolati dai proprietari medio-piccoli di provincia. “Tre volte

ho iniziato l‟opera e per tre volte non ho potuto proseguirla, si vede che qui c‟è la mano di Dio (Carpi 2010, p.336)”, si lamentava l‟imperatore con il ministro delle Proprietà

statali. Lo zar era convinto che il servaggio fosse alla base dell‟assenza di commercio e industria in Russia ma aveva le mani legate. Mentre la società ristagnava, la cultura viveva un tripudio di iniziative. Maturarono, infatti, due correnti ideologiche con lo scopo d‟interpretare la storia russa e tracciare il suo sviluppo futuro: gli slavofili e gli occidentalisti. Tra i temi più dibattuti senz‟altro vi era il rapporto del proprio Paese con l‟Europa occidentale e quali strade percorrere per promuovere il progresso della patria. Mentre i primi proponevano di tornare al periodo pre-petrino per riscoprire le autentiche radici della comunità rurale (l‟obščina1

), i secondi puntavano tutto sulla classe medio-borghese che, figlia delle riforme petrine, avrebbe dovuto creare la nuova Russia “europea”. Morto Nicola e subentrato Alessandro II, l‟arretratezza dell‟Impero su tutti i fronti era ormai evidente. Aleksandr Ivanovič Herzen propose come via d‟uscita alla crisi l‟abolizione del servaggio: “Senza l‟eliminazione del regime del servaggio non è

possibile risolvere alcuno dei nostri problemi (Carpi 2010, pp.437-438)”. Con la

pubblicazione del manifesto di liberazione il 19 febbraio 1861 però, venne alla luce un piano alquanto ambiguo che paradossalmente gravava sulle spalle dei contadini. Questi erano „obbligati‟ a riscattare terreni sopravvalutati sostenendo spese abnormi nei confronti degli ex proprietari, a cui pagare il 20% del terreno, mentre allo Stato andava riconsegnato l‟80% entro 49 anni. Nei mesi successivi il mondo rurale era dominato dal caos e da una conflittualità che rischiava di sfociare in scontro violento. Herzen pose le basi teoriche per lo sviluppo del futuro “populismo” russo: la sfiducia in una generica

1 Forma di gestione collettiva fondiaria che dominerà il panorama agrario russo fino alla rivoluzione

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democrazia, la credenza in un socialismo russo autonomo, la fede nelle possibilità future dell‟obščina, la necessità di creare dei tipi rivoluzionari che spezzassero i legami con il mondo circostante per dedicarsi al popolo e penetrare in esso (Carpi 2010). Nell‟autunno del 1861 nacque ad opera di un sodale di Herzen, Aleksandr Serno-Solov‟ëvič, l‟associazione clandestina “Terra e Libertà” (Zemlja i Volja) dal tono marcatamente populista nel sostegno dello spontaneismo contadino e del ruolo centrale dell‟obščina. Il fallimento dell‟organizzazione diede via libera allo sviluppo di movimenti più radicali e sanguinari che privilegiavano la distruzione di ogni norma sociale, capeggiati da figure quali Nečaev e Bakunin, entrambi autori del “Manifesto del rivoluzionario”. In esso si dipingevano i caratteri di un uomo senza terra, senza sentimenti, senza proprietà, il cui unico obiettivo era la rivoluzione. Anche questa fase radical-rivoluzionaria si chiuse con l‟arresto o l‟esilio dei suoi principali esponenti. I primi anni ‟70 furono cruciali per il populismo russo. In seguito allo shock provocato dalla parabola di Nečaev, l‟atteggiamento dominante tra i giovani d‟avanguardia cambiò: non era più il tempo di proclami rivoluzionari ma di studi sociologici. Dopo gli anni nichilisti, riprese con Lavrov una corrente più populista, le cui “Lettere storiche” impressionarono la generazione di quegli anni con il loro richiamo morale più che politico. Le persone “criticamente pensanti” dovevano prendere coscienza del prezzo pagato dal popolo nel corso della storia per portarle a godere dei vantaggi della civiltà (Carpi 2010). Per fare ciò occorreva che i contadini sostenessero l'azione politica degli intellettuali rivoluzionari.

Già Herzen nel 1861 aveva rivolto appelli agli studenti perché “andassero al popolo”, ne comprendessero la condizione e insieme lo istruissero e lo informassero della necessità di un radicale mutamento della società e delle istituzioni della Russia. Lo stesso fece Bakunin nel 1869 e, quell'invito «Andate tra il popolo!», divenne la parola d'ordine che caratterizzò i narodniki, ovvero i populisti. La novità del movimento risiedeva nell‟interesse a stabilire un contatto stretto con le masse contadine che, a parte sollevazioni spontanee, non si erano mai date un'organizzazione effettiva che ne raccogliesse le aspirazioni e li guidasse in un'azione politica programmata e consapevole. Nel 1874, ricordata come “l‟estate folle”, una migrazione di giovani colti dalle città e dalle università partì alla volta delle campagne. Migliaia di studenti vestiti da contadini andarono girovagando per le zone rurali, lavorando qua e là, improvvisando un mestiere nel tentativo di entrare nelle grazie dei mužiki. Il narodničestvo, però, non riuscì a smuovere le anime delle masse, intorpidite da secoli di

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schiavismo e ingiustizie. L‟esperienza si concluse miseramente con retate e processi. Tenuto insieme da una fede quasi mistica nello spontaneismo della comunità rurale, il populismo russo fu in realtà un fenomeno composito che raccolse le idee di Herzen, l‟anarchismo bakuniano, il cospirazionismo di Nečaev fino a giungere alla tattica educativa di Lavrov. Ad ogni modo le idee populiste gettarono le basi per quello che pochi anni dopo diventerà il partito socialista-rivoluzionario.

1.2.2. Il People’s Party

Tra il 1890 e il 1896 un “Terzo Partito” s‟insinuò all‟interno del teatro politico degli Stati Uniti rompendo gli equilibri del tradizionale sistema bipartitico che vedeva Repubblicani e Democratici spartirsi la scena: il People‟s Party (Martini 2013). Nonostante il promettente debutto che aveva visto il partito populista ottenere l‟8,5% dei voti in occasione delle elezioni presidenziali del 1892, il suo successo sarà effimero e le riforme radicali da lui propinate verranno gradualmente assorbite nei programmi di uno dei due partiti maggiori (Martini 2013). A fare da cornice alla sua ascesa un contesto storico determinante. Sul finire del XIX secolo le aree ad Ovest e a Sud degli Stati Uniti, dilaniate dalla guerra civile, divennero il regno della disoccupazione, della crescita incontrollata dei trusts e dei soprusi dei monopoli finanziari. In particolare il Sud, indebolito dalla monocoltura e dalla sovrapproduzione di materie prime per la lavorazione industriale, era afflitto da piaghe disarmanti: il crop-lien2, il peonaggio3 e il convict-lease system.4 L‟Ovest era invece la terra della speranza; l‟Homestead Act5 e il

Timber Culture Act6 resero le Grandi Pianure il luogo adatto per una politica agraria volta all‟espansione della terra coltivabile, la quale incentivò una massiccia

2 Sistema di credito ampiamente diffuso tra gli agricoltori del sud statunitense a partire dal 1860.

Consisteva nel porre un vincolo sul raccolto del coltivatore a garanzia del creditore locale, con l‟intento di ottenere in cambio un prestito. Si trattava di un meccanismo molto pericoloso poiché nella maggior parte dei casi gli agricoltori non erano in grado di saldare il debito e si ritrovavano legati a vita ai propri strozzini. Il sistema entrò in disuso intorno al 1940.

3 Condizione di lavoro forzato in cui vivevano i lavoratori delle piantagioni per rimborsare i debiti

contratti con i grandi proprietari terrieri. Diffusa nei paesi americani e di dominazione spagnola, era trasmissibile di padre in figlio.

4 Nel XIX secolo era prassi nei governi degli Stati del Sud, le cui finanze erano particolarmente dissestate,

di “affittare” il lavoro dei detenuti alla compagnie ferroviarie e minerarie come manodopera a basso costo; queste si occupavano in cambio, del loro mantenimento, della loro sorveglianza e di eventuali punizioni.

5 L‟Homestead Act (1862) concedeva gratuitamente a ogni cittadino americano capofamiglia e a ogni

straniero che avesse firmato una richiesta di cittadinanza 160 acri di terra federale.

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Il Timber Culture Act (1873) offriva vantaggi nell‟acquisto di terreni a chi si impegnava in un programma di coltura arborea.

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immigrazione che raggiunse l‟apice nel 18737

. Gli stessi territori attrassero però l‟attenzione delle compagnie ferroviarie che, tra il 1862 e il 1871, ottennero delle grandi concessioni per la costruzione di quattro linee. L‟agevolazione delle vie di comunicazione facilitò la specializzazione delle monoculture, un‟impennata dei costi di spedizione e la conseguente perdita dei profitti per i coltivatori, costretti a lavorare di più per ottenere meno. Tale clima di risentimento e insoddisfazione funse da miscela esplosiva per i primi esempi di associazioni di coltivatori su vasta scala, il cui intento era quello di tutelare gli interessi dei piccoli agricoltori contro le ingiustizie perpetrate dai grandi capitalisti e risanare così il malcontento che dilagava a macchia d‟olio nel Paese. Le prime a debuttare furono le Granges, dal carattere anti-trust e riformatore, scaturite dall‟idea di Oliver Kelly, un funzionario del presidente Andrew Johnson (Martini 2013). Riunitesi nella “National Grange of the Order of Patrons of

Husbandry” nel 1867, si diffusero nel Mid-west e nell‟Ovest. Le Granges si fecero

promotrici di alcune leggi per la regolamentazione delle ferrovie che non vennero mai applicate. Se sul piano intellettuale le teorie delle Granges rimasero vive tra i sostenitori dell‟anti-monopolio, sul piano organizzativo vennero surclassate dalle Farmers‟ Alliances. A inaugurarle fu la “Southern Alliance”, un‟associazione d‟estrazione esclusivamente bianca nata in Texas nel 1877 e capitanata da Charles Macune; nel 1886 fu la volta della “Colored Farmers‟ National Alliance” e della “National Farmers‟

Alliance” (Northern Alliance), guidata da Milton George (Martini 2013, pp.198-199).

Prima della Convenzione di St. Louis8 del 1889, la bocciatura da parte del Congresso del piano di sotto tesoreria di Macune, volto a favorire l‟equa distribuzione della moneta in modo da porre fine ai debiti della crop-lien, segnò una svolta nel dibattito sulla costituzione di un terzo partito che difendesse gli interessi agricoli. A differenza dell‟Alleanza del Sud che inizialmente preferì fare affidamento sui democratici, nell‟Ovest, dove il legame tra il partito dominante e la popolazione era più tenue, la costituzione di un partito autonomo fu meno ardua. In Kansas, Benjamin Clover fondò un People‟s Party che ottenne un successo trionfale alle elezioni del 1890, conquistando la maggioranza nella camera bassa statale (96 membri su 125), 5 rappresentanti e un senatore a Washington. Tra il 1891 e il 1892, molti membri della “Southern Alliance”

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Ricordato come “l‟anno del Panico” in cui vennero chiuse più di 18 mila imprese, portò la disoccupazione al 14% nel 1876 con picchi altissimi nella costa orientale.

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Una convezione dove si riunirono tutte le organizzazioni agrarie. I colloqui fallirono sulla questione dell‟apertura ai neri e dell‟abolizione della segretezza, sulle quali i delegati dell‟Ovest non accettarono compromessi.

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abbandonarono il partito democratico, sempre più ostile al piano di sotto tesoreria. Il 22 febbraio 1892 durante la Convenzione di St. Louis, Polk arringò alla folla:

“E‟ giunto il momento per il grande Ovest, il grande Sud e il grande

Nord-Ovest, di unire i loro cuori e le loro mani e marciare insieme alle urne e impadronirsi del governo, ripristinare i principi dei nostri Padri e governare nell‟interesse del popolo[…]chiediamo giustizia e, con l‟aiuto di Dio, intendiamo averla […]anche se dovremo cancellare i due partiti dalla faccia della terra (Lerda in Mondini & Siccardi in

Martini 2013, pp.204-205)”.

Nacque così il Partito del Popolo, il “Third Party”, forte del suo obiettivo di scardinare il duopolio democratico-repubblicano. La base sociale che li sosteneva non doveva escludere nessuno: elettori delusi dall‟uno o l‟altro partito, greenbackisti, proibizionisti, bianchi e neri, proprietari agrari e contadini senza terra. Il partito emergente nasceva per dare voce a una politica diversa da quella offerta dalle fazioni dominanti. La sua non voleva essere una proposta circoscritta a tematiche specifiche ma era improntata verso un sistema complessivo di riforme, propriamente riassunte nella “piattaforma di Omaha” approvata nel 18929

. Il programma del partito era estremamente ambizioso: il ritorno alla concessione di terre secondo l‟Homestead Act, l‟introduzione di una tassa progressiva sul reddito, l‟abolizione del sistema delle banche nazionali, l‟emissione governativa della valuta, il controllo pubblico dei mezzi di trasporto e comunicazione, la restituzione delle terre ottenute dalle compagnie ferroviarie per mezzo di attività speculative. Di stampo profondamente anti-monopolista, il partito puntava ad acuire i controlli federali per contenere le prevaricazioni dei “diritti del capitale” sui “diritti dell‟uomo”. Con ciò, non intendevano abolire la proprietà privata ma garantirne l‟accessibilità a tutti, rendendo il governo un servizio pubblico sgombro di particolarismi (McKenna 1974). Era per giunta necessario far sì che il governo diventasse più responsabile e attento alla volontà popolare; da questa convinzione, nacquero diverse proposte volte all‟introduzione di strumenti di democrazia diretta che potessero coinvolgere il cittadino tra un‟elezione e l‟altra: l‟iniziativa popolare, il

9 Programma di partito redatto in occasione della Convention istitutiva del People‟s Party tenuta nel

Nebraska (Omaha) il 4 Luglio 1892. Considerata da molti la “Seconda Dichiarazione d‟Indipendenza” poiché aspirava a ristabilire la libertà in America. Racchiudeva in sé richieste economiche e monetarie.

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referendum, il recall10. Inoltre, i populisti sostennero ardentemente l‟elezione diretta dei senatori, dei giudici federali e l‟abolizione del collegio federale in modo da arginare il potere di quelle istituzioni che non venivano elette dal popolo. Per quanto concerne i meccanismi elettorali il partito si fece promotore della libertà di voto e del suffragio femminile11. Il movimento populista soprattutto dell‟Ovest, fu il primo a tentare di superare le divisioni razziali, favorendo la partecipazione politica ai neri. Di questo, sembrava meno convinto il Sud che appoggiò la causa solo per fini elettorali. Si distinsero, in aggiunta, per il sostegno fornito alla causa del proibizionismo portata avanti non esclusivamente per motivi puritano-conservatori ma soprattutto per contrastare la corruzione politica attorno alla produzione degli alcolici. Tra i temi più scottanti primeggiava però la questione monetaria. L‟oro, la cui produzione era ormai inferiore alla domanda, si andava apprezzando; il gold standard limitava fortemente la circolazione del denaro, alzando i tassi d‟interesse e inducendo una diminuzione dei prezzi e dei profitti. La proposta di Cleveland di revocare il Silver Purchase Act (1890), bocciò sul nascere la causa del free silver12, contribuendo all‟ufficiale deterioramento dei consensi per il presidente. Sarà proprio attorno alla politica monetaria che verranno rimodellate le posizioni politiche dei tre partiti. I Repubblicani di McKinley, alle soglie delle presidenziali del 1896, si schierarono a favore del gold standard contro i democratici di Bryan. I populisti, internamente divisi tra autonomisti e fusionisti, si convinsero della necessità di un accordo con i democratici e fiancheggiarono Bryan alle elezioni. La sfida elettorale, che si concluse con la vittoria di McKinley, intaccò l‟unità del Paese spaccato tra un Ovest e un Sud agrario, statico e conservatore contro un Mid-West e un Nord-Est dinamico, urbano e moderno. I risultati delle presidenziali segnarono un verdetto impietoso per i populisti: non c‟era spazio per un terzo partito, o meglio, per un partito agrario. Così, parallelamente al dominio incontrastato dei repubblicani, cominciò il declino del partito populista; quest‟ultimo, rappresentato al Congresso fino al 1903, aveva ormai assunto le sembianze di un movimento anti-semita, razzista, anti-socialista e anti-cattolico (tanto da spingersi a caldeggiare la

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Procedura con la quale gli elettori potevano rimuovere un politico o altro funzionario attraverso una votazione diretta senza il bisogno di attendere il termine del suo mandato elettorale.

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I populisti promossero la votazione a scrutinio segreto (Australian Ballott), in modo da porre fine alle pressioni che gli elettori erano costretti a subire in tempo di elezioni. Lo stesso sistema australiano non era esente da difetti in quanto vietava il voto agli analfabeti; era questo un modo dissimulato per escludere i neri dal voto. Oggi è diffuso in tutti i sistemi democratici.

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riorganizzazione del Ku Klux Klan), a tal punto che i singoli esponenti si dispersero come gocce nel mare, lasciandosi assorbire dai partiti maggiori.

I populisti, durante il loro percorso, vennero spesso additati come „socialisti‟. Tuttavia, benché il loro fosse un orientamento democratico-radicale non appoggiavano un aspetto portante di questa ideologia, ovvero l‟abolizione della proprietà privata, che al contrario volevano difendere dalle concentrazioni di potere. Il movimento è stato inoltre tacciato di radicalismo di sinistra da alcuni e di conservatorismo reazionario da altri. Sebbene fossero elementi entrambi presenti al suo interno, di certo non si può affermare che si trattasse di un partito regressivo e anti-industriale. In sintesi, il People‟s Party non sorse con l‟intento di ripristinare il glorioso passato yeomenista13

, quanto con quello di denunciare l‟evoluzione monopolistica del capitalismo, riformandolo in modo democratico e partecipativo.

1.3. IL DIBATTITO ACCADEMICO PRIMA DEGLI ANNI ’90

A partire dal 1950 in poi il termine populismo non venne più impiegato esclusivamente in riferimento ai due eventi storici sopra evidenziati ma poté godere di una vasta applicazione. I primi passi verso una sua concettualizzazione li mossero Lipset e Shils. Quest‟ultimo riteneva che il termine non fosse un semplice riferimento ai movimenti rurali, bensì un fenomeno di più ampio raggio, presente ogni volta si verificasse un risentimento contro un ordine imposto da un establishment detentore del monopolio del potere, della proprietà e della cultura (Moffitt 2016). Complessivamente Shils fu il primo a considerare il populismo come un qualcosa che trascendesse la sfera storico-politica. Lipset invece lo estremizzò, descrivendolo come un aspetto fermamente improntato sulla xenofobia e sull‟antisemitismo; la base sociale su cui reggeva la sua teoria era composta dalla classe liberale che, sull‟orlo del declino e sopraffatta dalla frustrazione, si era lasciata condizionare da proteste ideologiche irrazionali quali il razzismo, il regionalismo, il McCarthysmo (Moffitt 2016, pp.12-13). Subentrati gli anni ‟60 il termine si espanse prima in America Latina, a denotare tutte le alleanze multi-classe forgiate da leaders carismatici, poi nei paesi in via di sviluppo dove assunse tinte colonialiste. Gradualmente finì per includere movimenti, partiti e leaders europei. Arrivati a questo punto il termine era diventato alquanto “ingombrante”. L‟estensione

13 Lo yeoman era l‟antico coltivatore libero che lavorava il piccolo appezzamento di terra di cui era

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del significato aveva fatto perdere sia alla parola che al concetto la loro utilità euristica e li aveva resi delle mere etichette per designare inusuali forme di mobilitazione politica (Meny, Surel 2002). Proprio Meny e Surel, furono tra i primi ad analizzare l‟irrompere del populismo in Italia e in Europa mediante un approccio innovativo. Contrariamente alla tendenza generale che considerava il populismo come una manifestazione anti-democratica, i due studiosi lo ritenevano come sintomo dell‟ambiguità della democrazia stessa, in continua lotta tra la sua ideologia di fondo (il potere del popolo) e il suo attuale funzionamento (il potere a pochi eletti dal popolo). Da questa permanente contraddizione scaturivano partiti che sfidavano le strutture democratiche proponendo vie alternative (comunisti da una parte o fascisti dall‟altra). Oltre a questi, emergevano movimenti che non mettevano in discussione l‟ideologia democratica in sé ma il suo assetto organizzativo, nello specifico il principio rappresentativo: erano i cosiddetti populisti, i quali parteggiavano per un governo esclusivamente in mano al popolo (Meny, Surel 2002). Il populismo sarebbe il frutto di un malessere della democrazia che si farebbe strada nei casi in cui le istituzioni al potere si dimostrino inefficienti e insensibili alle richieste dei cittadini. Tra gli elementi che principalmente caratterizzavano i populisti, Meny e Surel sottolineavano la centralità del ruolo del popolo, celebrato come puro e saggio, a dispetto di un establishment corrotto che, a causa degli abusi perpetrati ai più deboli, andava spodestato per restaurare la supremazia dei cittadini. I due autori interpretavano il populismo come una spia d‟allarme che segnalava un malfunzionamento della democrazia che gli attori politici dovevano prendere seriamente in considerazione. Si trattava ovvero di un promemoria che ricordava a tutti quanto la democrazia non fosse costante ma in realtà soggetta a continui aggiustamenti. Lo stesso populismo, però, conserva in sé una dose di ambiguità; difatti, se da un lato rigetta gli usuali strumenti della democrazia rappresentativa dall‟altra non adotta forme anti-convenzionali di partecipazione politica. Il populismo, inoltre, rifiuta i partiti ma di solito si organizza in movimenti politici, critica le élites ma concorre alle elezioni, difende il potere popolare ma sfrutta le capacità seduttive del leader. E‟ questa un‟ambiguità che si ripropone in tutte le strutture e nel suo stesso ambito d‟applicazione tale da credere che non esista un qualcosa che si possa definire “populismo” ma solo delle eterogenee situazioni che non possono essere ricondotte a un‟unità complessiva (Meny, Surel 2002).

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Alle stesse conclusioni giunsero Gellner e Ionescu che decisero d‟indire una conferenza alla London School of Economics (LSE) nel maggio del „67 per venire a capo della situazione. Dall‟incontro di ben 43 esperti nacque la raccolta “Populism: Its meanings

and National Characteristics”, uno dei più importanti contributi sull‟argomento presenti

in letteratura che Laclau, dal canto suo, definì sconclusionata, in quanto i suoi contenuti meramente descrittivi peccavano di specificità concettuale (Moffitt 2016). La stessa opera ammise nella sua introduzione che “There can, at present, be no doubt about the

importance of populism. But no one is clear what it is (Moffitt 2016, pp.14-15)”. La

complessità del tema non ha scoraggiato le ricerche degli esperti in materia che hanno comunque tentato di scavare più affondo.

Sarà Worsley (1969) a segnare una svolta nel percorso esplorativo. Egli era convinto che solo riportando il concetto all‟astrattezza originale di Shils, questo sarebbe potuto essere di una qualche utilità. Tale passo in avanti segnerà un affrancamento dagli studi empirici, intenti a ricavare una definizione del concetto esaminando singoli episodi o esempi catalogati come populisti. Secondo Worsley, il populismo non poteva rivendicare alcuna purezza dal momento che si trattava di una dimensione ricorrente in una varietà di strutture e culture politiche diverse (Worsley in Ionescu and Geller in Moffitt 2016).

Ugualmente esasperato dall‟approccio empirista, Laclau seguì la stessa rotta di Worsley, trovando inutili e ridondanti i tentativi di generalizzazione del fenomeno populista ricavati dall‟analisi di esempi concreti. Invece di intraprendere una campagna classificatoria e induttiva, propose un nuovo punto di partenza: analizzare come il significante centrale del dibattito, il popolo, veniva costruito e invocato all‟interno di differenti discorsi. Per Laclau il populismo andava concepito come un discorso che spingeva il popolo contro le élites dominanti. Vediamo nel dettaglio i punti chiave del suo impianto teorico.

1.3.1. ERNESTO LACLAU: Il populismo come logica politica

“Populism: What‟s in a name?” oltre ad essere il titolo di un suo importante contributo all‟interno dell‟opera di Panizza (2005), forse è l‟espressione che sintetizza al meglio tutti gli sforzi di Laclau nel cercare una chiave di lettura del populismo. I principali approcci sull‟argomento avevano in prevalenza agito seguendo degli schemi preimpostati, modellati anche in risposta all‟influenza della psicologia delle masse che

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si fece preponderante nel corso del XIX secolo. Tale disciplina contribuì a disegnare un‟immagine denigratoria della folla; i primi studiosi consideravano difatti la transizione dell‟uomo dallo stadio individuale a quello collettivo un passaggio degradante (Laclau 2005)14. Ad esempio Taine sosteneva che la mobilitazione sociale in ogni sua forma fosse il risultato di una barbara violenza, il prodotto d‟impulsi istintivi e bestiali. Sarà McDougall a cambiare rotta, mostrando come in realtà molti tratti dell‟individuo si trasferissero con lui nello stato di gruppo (Laclau 2005, p.47)15

. Laclau, fatta questa premessa, cercherà di virare rotta partendo dall‟analisi critica delle principali etichette affibbiate al populismo dal mondo accademico, fuorviato da pregiudizi morali e dalla denigrazione delle masse. Il fenomeno era stato tacciato di eccessiva “vaghezza” e “retorica”. Era innegabile il fatto che il populismo tendesse a una semplificazione della sfera politica ottenuta, trasformando una serie complessa e articolata di determinanti, in uno spazio dicotomico i cui poli erano necessariamente imprecisi per poter incamerare tutte le particolarità presenti. Ma non era forse questa logica della vaghezza l‟ingrediente base dell‟azione politica? (Laclau 2005, p.18). Lo stesso valeva per la retorica che andava considerata non come un ornamento della realtà sociale ma come un espediente per raggruppare un insieme d‟identità o interessi particolari attorno a uno dei poli della dicotomia. A questo punto, Laclau ritiene che perseverare in un approccio ontico del fenomeno, avrebbe condotto gli studiosi a un vicolo cieco. Egli suggerisce di spostare le ricerche lontano da ideologie o movimenti, concentrandosi sulla funzione costitutiva delle pratiche politiche. Occorreva innanzitutto individuare delle unità analitiche che fossero più piccole di un gruppo; l‟autore individua la “richiesta” quale categoria elementare alla base della costruzione di un legame sociale. La traduzione inglese “demand” conteneva un significato ambiguo poiché da un lato denotava una richiesta pura e semplice, dall‟altro trapelava una connotazione impositiva. A Laclau interesserà la seconda accezione del termine. I due riferimenti di “demand”, nonostante condividessero l‟incapacità di soddisfarsi autonomamente e il conseguente bisogno di rivolgersi a un ente diverso da quello di origine erano tenute ben distinte a causa di differenze strutturali. La prima definizione si trattava di una richiesta puntuale e specifica pienamente soddisfatta da parte

14 Simon Le Bon in particolare asserì: «by the mere fact that he forms part of an organised crowd, a man

descends several rungs in the ladder of civilization». (Laclau 2005 pp. 28-29).

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McDougall introdusse la distinzione tra la folla e un gruppo più organizzato; i primi depotenziavano l‟individuo, i secondi lo rafforzavano. In esso la combinazione tra elementi individuali e collettivi innalzava i valori intellettuali e morali della comunità.

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dell‟autorità decisionale che non era in assoluto messa in discussione. In questo caso, le proprietà insite in tali tipologie di richieste non costruivano alcuna frontiera all‟interno del sociale. La logica che sottostava a questo modello era la logics of difference, la quale non prevedendo alcuna divisione sociale, consentiva il soddisfacimento di ogni legittima domanda all‟interno di un contesto non antagonistico e amministrativo. E‟ ciò che Saint Simon definiva: “From the government of men to the administration of things (Laclau in Panizza 2005, p.36)”. Al contrario, nell‟ipotesi di una richiesta non soddisfatta a cui ne facevano seguito delle altre, la frustrazione sociale a catena che ne sarebbe derivata avrebbe originato logiche sociali di ben altro genere. La situazione sociale all‟interno della quale le domande si aggregavano tra di loro, basandosi sulla condizione comune di essere TUTTE insoddisfatte, era la prima condizione di quella modalità di articolazione politica denominata populismo (Laclau in Panizza 2005, p.37). Siamo nel terreno della logics of equivalence nella quale, nonostante le loro distinte proprietà, le “demands” si annettevano formando una catena equivalenziale. La differenza e l‟equivalenza, per quanto fossero due logiche incompatibili, si esigevano a vicenda per la costruzione del sociale. Ogni identità sociale, infatti, si costituiva nel punto d‟incontro tra le due. Il sociale, però, non era mai uniforme perché la totalizzazione esigeva che un elemento differenziale giungesse a rappresentare un intero impossibile. Prendendo come esempio il “popolo” questo veniva concepito come il

populus, ossia il corpo di tutti i cittadini, oppure come plebs, i sottoprivilegiati. Per

ottenere il “popolo” del populismo era necessario che un parte della plebs reclamasse di essere l‟unico populus legittimo; detto in altri termini occorreva che una parzialità pretendesse di fungere da totalità (Laclau 2005). Nel caso di un discorso istituzionalista, il principio di differenziazione reclamava di essere l‟unico legittimo; invece nel populismo, questa simmetria si spaccava e una parte s‟identificava con il tutto. Era questo il passaggio dalle domande democratiche (democratic subject) a quelle popolari (popular subject) dove da un lato la richiesta manteneva il suo particolarismo, dall‟altro dimenticava la sua specificità per fondersi con la totalità delle domande (Laclau 2005). Chiaramente, più le singole richieste venivano assorbite diversamente l‟una dall‟altra, più i legami equivalenziali erano deboli e dunque la costituzione di una soggettività popolare improbabile. Quindi, l‟elemento imprescindibile per far emergere una soggettività di tipo popolare era la creazione di una frontiera interna, scaturita da una “mancanza”, una pienezza della comunità non raggiunta, che pervadeva tutte le domande. Tale mancanza era riconducibile a una domanda non ascoltata rivolta verso

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qualcuno. Si assisteva così a una divisione dicotomica tra le domande sociali inascoltate e un potere indifferente. Da ciò si riusciva a comprendere il perché della pretesa della

plebs di assurgere la funzione di populus: dato che la pienezza della comunità era il

risultato di una manchevolezza, i responsabili non potevano essere considerati come parte legittima della comunità (Laclau 2005, pp.84-85). In sintesi, seguendo i ragionamenti di Laclau, le due condizioni poste alla base di una rottura populista erano:

- Dicotomia dello spazio sociale realizzata attraverso la creazione di una frontiera interna;

- Costruzione di una catena equivalenziale tra le domande insoddisfatte (Laclau in Panizza 2005).

Laclau ci teneva inoltre a sottolineare il carattere anti-istituzionale della catena giacché questa andava a sovvertire i particolarismi delle domande.

Il primo passo da compiere per analizzare la natura del rapporto equivalenziale era identificare ciò che costituiva il suo estremo opposto. Detto in altre parole, non poteva esserci alcun populismo senza la costruzione di un suo nemico colpevole di non saper soddisfare le richieste. La determinazione dell‟altro avveniva attraverso un processo di condensazione all‟interno del quale alcuni significanti privilegiati racchiudevano in sé il significato dell‟intero polo antagonistico (questo poteva corrispondere all‟ancien regime, all‟oligarchia, all‟establishment e così via); lo stesso procedimento valeva per gli oppressi.

La transizione da una soggettività democratica a una popolare poteva avvenire solo nel momento in cui una domanda specifica, senza abbandonare completamente la sua particolarità, iniziava a funzionare come significante rappresentativo della catena nella sua totalità. Laclau ribattezza tale processo “egemonia”. Per quanto concerneva l‟essenza della catena equivalenziale: più questa si espandeva, più deboli erano le sue connessioni con richieste individuali. In altre parole, la rappresentazione dell‟universalità andava a prevalere sull‟espressione di una domanda singola; conseguentemente, l‟identità popolare acquistava a livello di estensione e allo stesso tempo perdeva in intensità. Da ciò l‟autore ne dedusse che non poteva sussistere alcuna soggettività popolare senza la produzione di “significanti vuoti” (Laclau 2005)16. La tanto rimproverata povertà dei simboli populisti era la condizione che ne determinava

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l‟efficacia politica poiché il suo compito era cucire una realtà inizialmente eterogenea in un complesso omogeneo e per riuscirci occorreva ridurre al minimo i contenuti particolari. Il punto culminante veniva raggiunto quando la funzione omogeneizzante era svolta da un unico nome: il nome del leader. La logica equivalenziale produceva due effetti distorsivi nel processo di costruzione del „popolo‟ e del „potere‟ considerati poli antagonistici: da un lato arricchiva ciascuna specifica domanda di un riferimento più ampio, dall‟altro impoveriva il loro rapporto con i contenuti singoli. Il risultato finale dei contenuti equivalenziali o differenziali dipendeva dal contesto storico. A ciò molto probabilmente si deve il fallimento del movimento agrario statunitense: gli aspetti differenziali, dominando su quelli equivalenziali, ostacolarono la costruzione di un‟identità popolare sufficientemente robusta da contrapporre al nemico (establishment).

La frontiera costituita all‟interno di un legame sociale poteva però essere sovvertita in due modi: mediante la soddisfazione delle singole domande oppure cambiandone il segno politico. Considerando il grado di astrattezza che il significante vuoto poteva raggiungere, la debolezza dei suoi legami con i contenuti specifici faceva sì che questo potesse acquisire una posizione politica opposta, pur mantenendo la sua essenza radicale, continuando cioè a dividere la società in due campi distinti.

La storia vanta innumerevoli episodi di questo genere17. Laclau rinominò “floating

signifiers”, quei significanti che avevano la tendenza a fluttuare da un campo politico a

un altro. Questa categoria non andava però confusa con i cosiddetti significanti vuoti: mentre gli ultimi riguardavano la costruzione dell‟identità popolare una volta che la presenza di una frontiera stabile era data per scontata, i primi tentavano di comprendere le logiche dislocative alla base della frontiera stessa. Eppure a livello pratico la distanza tra le due non era molta; si trattava in entrambi i casi di operazioni egemoniche e la maggior parte delle volte le due tipologie andavano a sovrapporsi. L‟unica eccezione che prevedeva l‟esclusione del momento fluttuante si sarebbe verificata nel caso di una frontiera interna immobile ma era una circostanza davvero improbabile; allo stesso modo, un universo in continuo movimento senza stabilità alcuna era impensabile. Dunque i due significanti, secondo Laclau, andavano intesi come due dimensioni parziali comprese all‟interno del processo di costruzione del „popolo‟ (Laclau 2005). Riassumendo tutti gli elementi esaminati, il populismo emergerebbe esclusivamente in

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Basti osservare come elementi propri del Mazzismo e del Garibaldismo siano stati riarticolati all‟interno dei discorsi fascisti e comunisti.

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presenza di una serie di pratiche politico-discorsive in grado di produrre un soggetto popolare il quale, a sua volta, dipenderebbe dall‟edificazione di una frontiera interna che divide lo spazio sociale in due campi contrapposti. Tale separazione sarebbe il frutto di una catena equivalenziale creata unendo un insieme di richieste sociali insoddisfatte. Con tali argomentazioni Laclau voleva illustrare come alla base di tutti gli insuccessi collezionati dagli accademici fino ad allora vi fosse un approccio errato al fenomeno. Il populismo non andava concepito come una categoria ONTICA determinabile attraverso un suo specifico contenuto interno ma come una tipologia ONTOLOGICA da analizzare mediante le sue modalità di articolazione. Questo cambio di prospettiva, in primis, risolveva la questione sull‟ubiquità del populismo: essendo la forma e non più il contenuto alla radice del discorso, questo poteva partire da qualsiasi contesto socio-culturale. In secundis, ammetteva la circolazione dei significanti tra movimenti di colori politici opposti.

Si potrebbero immaginare le pratiche politiche operanti nella realtà sociale come protagoniste all‟interno di un continuum ai quali estremi si trovano la logica differenziale e quella equivalenziale. I due estremi sono però inarrivabili poiché una realtà dominata dalla differenza pura si tradurrebbe in una società dominata dall‟amministrazione e dall‟individualizzazione delle domande per cui non esisterebbe alcun conflitto (e quindi alcuna politica); un regime di equivalenza pura comporterebbe invece la dissoluzione dei legami sociali e la conseguente disgregazione della nozione di „domanda sociale‟.18

A questo punto invece di domandarsi se un movimento fosse o meno populista era più giusto chiedersi „fino a che punto‟ un movimento fosse da considerarsi populista. Questo stava a sottintendere che nessuna manifestazione politica poteva risultare esente dal populismo in quanto tutti, in qualche modo, invocavano l‟intervento del popolo contro un nemico costruendo una frontiera sociale. Il grado di populismo dipendeva “from the depth of the chasm separating political alternatives (Laclau in Panizza 2005, p.47)”. Qui Laclau taglia un traguardo chiave della sua teoria definendo il populismo un sinonimo di politica, considerandole entrambe come entità in grado di proporre alternative radicali all‟interno dello spazio comunitario mettendo in discussione l‟ordine

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Tale dissoluzione condurrebbe all‟immagine della folla dipinta dai teorici della psicologia delle masse del XIX secolo.

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istituzionale. Questo era il motivo per cui la fine del populismo coincideva con la fine della politica in sé19 in quanto entrambe presupponevano una divisione sociale.

Lo scopo dell‟autore, quindi, non era quello di trovare il vero significato del populismo, bensì l‟opposto: dimostrare che questo non aveva alcuna unità di riferimento in quanto non ascrivibile a una realtà delimitabile. Più che determinare un concetto rigido era invece possibile delineare un‟area mutevole all‟interno del quale potevano essere inscritte una pluralità di manifestazioni. In conclusione, per progredire nella comprensione del populismo occorreva salvarlo dalla marginalità che occupava all‟interno del discorso delle scienze sociali, posizione a cui era stato relegato per ragioni di condanna etica. Argomenti come il Fascismo o l‟Olocausto erano stati sottoposti alla stessa pratica. Naturalmente non era un errore condannarli; lo sbaglio incombeva nel momento in cui si voleva sostituire la spiegazione con la condanna. Alla loro discriminazione aveva contribuito la costruzione di una normalità fittizia, un universo ascetico della politica le cui logiche più pericolose erano state escluse (Laclau 2005).

Accanto alle riflessioni laclauniane, Margaret Canovan aggiunse un tassello ulteriore al dibattito, volto alla scoperta di una definizione univoca del populismo. Riguardo la conferenza del ‟67 convocata da Ionescu e Geller, la Canovan sostenne che le stesse difficoltà riscontrate nel delineare il fenomeno populista si sarebbero riproposte in egual modo in occasione di un‟omologa conferenza sul socialismo, il liberalismo, il conservatorismo o simili (Moffitt 2016). Premesso ciò, quello che rendeva e tuttora rende lo studio del populismo ancora più ostico era il numero limitato di figure che si autodefinivano tali contrariamente alle altre manifestazioni; mentre i dibattiti relativi a quest‟ultimi erano condotti da coloro che si erano autoproclamati socialisti, liberali e via dicendo, la carenza di populisti in prima persona aveva passato la parola agli esterni che, nella maggior parte dei casi, assumeva dei toni denigratori. Abbandonato il tentativo di scoprire in cosa effettivamente consistesse il populismo, la Canovan inaugurò un approccio fenomenologico, in cui la descrizione predominava sulla spiegazione. La studiosa si paragonò a una naturalista intenta a collezionare e categorizzare insetti all‟interno di classi. L‟approccio, come lei stessa ammise più tardi, nascondeva dei punti deboli ma quantomeno era riuscito a mettere ordine nel caotico terreno del populismo. Giunta a un vicolo cieco, l‟autrice proseguì le sue ricerche

19 “The end of politics” secondo Laclau corrispondeva a una scenario dove ogni traccia di divisione

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focalizzandosi sull‟elemento chiave del fenomeno, il popolo, analizzando il rapporto diretto tra il populismo e la democrazia.

A questo proposito riscontrò uno scarso interesse, se non un vero e proprio disdegno da parte dei teorici della democrazia, per il fenomeno populista diagnosticato come mero sintomo patologico richiedente attenzione di tipo sociologico. In verità i populisti si auto-consideravano i veri democratici, capaci di dare voce alle rimostranze del popolo ignorate dalla politica principale, dai mass media e dal governo (Canovan 1999). Proprio per questo la Canovan riteneva importante non accantonare lo studio del fenomeno, dal momento che il populismo traeva origine non solo dal contesto sociale ma anche e soprattutto dalle tensioni al cuore della democrazia. Confermando a sua volta le conclusioni dei colleghi circa la definizione controversa di populismo, concetto estremamente vago, propose un percorso di ricerca alternativo volto a spostare l‟attenzione dall‟ideologia e dai contenuti politici a considerazioni di tipo strutturale. Il populismo era da delineare come un “appello” verso il popolo sia contro le strutture di potere che le idee e i valori dominanti della società (Canovan 1999, p.3). In un contesto quale quello democratico la rivolta era chiaramente indirizzata ai sistemi di partito. Ma descrivere il fenomeno come una mobilitazione anti-sistema non era sufficiente in quanto rischiava di includere altre tipologie di movimenti sociali. Ciò che li differenziava era infatti la sfida che il populismo lanciava ai valori delle élites. L‟autrice affermò che l‟appello populista fosse diretto non solo all‟establishment politico-economico ma anche al mondo accademico e mediatico. I contenuti delle promesse populiste cambiavano a seconda del contesto socio-economico in cui emergevano: in un paese flagellato da una sovra tassazione finalizzata a finanziare il welfare state i programmi populisti avrebbero proposto forme di liberismo economico mentre, in altri contesti, si sarebbero fatti promotori di riforme protezionistiche. Lo stesso ragionamento valeva per il sistema di valori che mutava a seconda della natura dell‟élite o del discorso politico dominante: nell‟ipotesi di un establishment profondamente imbevuto d‟individualismo e multiculturalismo, il populismo si sarebbe forgiato in resistenza a questo. Ciò non significava però che le idee populiste fossero confuse o ambigue ma denotava solo lo scopo anti-sovversivo del movimento. L‟appello che lanciava il populismo, attuale tutt‟ora, era rivolto a un‟autorità legittima; i populisti reclamavano la legittimità in quanto portavoce del popolo sovrano. Quando Jean-Marie Le Pen del Front National affermò di “dire ad alta voce ciò che le persone pensano

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populista in quanto racchiusa all‟interno di sistemi formalmente democratici (Canovan 1999, p.4). L‟appello del populista potrebbe essere definito come un messaggio diretto al “popolo”, un destinatario tutt‟altro che univoco in quanto ingloba in sé diversi riferimenti; la sua ambiguità è stata intenzionalmente sfruttata spesse volte dagli stessi populisti. La Canovan individuò tre significati attribuibili al termine. Il popolo inteso come nazione unita schierato contro la divisione delle fazioni nemiche20 e il popolo unito colorato di tinte razziste che traccia una linea divisoria tra il “nostro popolo” e chi non vi apparteneva, ad esempio l‟immigrato21

. Per concludere, come terza accezione, il popolo inteso come ordinary people contro la privilegiata, educata e cosmopolita élite (Canovan 1999, p.5). I populisti, a tal proposito, si vanterebbero di parlare a nome della maggioranza silente i cui interessi e opinioni vengono regolarmente prevaricati da minoranze corrotte e arroganti. Le tante sfaccettature che può assumere il popolo sono utili per comprendere la vasta cornice di consensi su cui il fenomeno può contare. L‟autrice, parlando dello stile dei populisti, lo definì democratico, nel senso che era diretto verso la gente comune; capitani della lotta contro i formalismi burocratici, furono i pionieri di quello che la Canovan definì “tabloid style”, in quanto stile semplice e diretto. Tale immediatezza era rintracciabile non solo nella forma ma anche nei contenuti e nelle soluzioni politiche proposte. I populisti sono tutt‟oggi noti per le loro denunce ai complotti, ai loschi compromessi, agli accordi segreti e a quei tecnicismi comprensibili ai soli esperti. Le loro critiche non risparmiano nemmeno l‟Unione Europea additata come racket perpetrato da politici professionisti al servizio dei propri interessi personali. Ciò che conferirebbe al fenomeno un certo fascino è però il mood che avvolge il populismo, forgiato dall‟entusiasmo di persone ordinarie che debuttano per la prima volta nell‟arena politica; questo contribuirebbe a propagare un messaggio di novità e cambiamento di cui i suoi attori politici ne sarebbero i timonieri. A proposito di verve, il merito principale va riconosciuto a un leader carismatico posto alla guida del movimento che privilegia il contatto diretto con i suoi elettori. Arrivata a questo punto della sua analisi, la Canovan rimase a lungo impantanata nel trovare una risposta a quella che poteva sembrare una contraddizione: perché i sostenitori di forme di democrazia diretta venivano reputati una minaccia alla democrazia. Una prima soluzione verteva sul fatto che la democrazia veniva concepita in senso liberale in

20

Qui è sufficiente menzionare il famoso slogan, “United We Stand” ideato da Ross Perot durante la campagna per le presidenziali.

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Qui come non citare l‟allarmante richiamo del FN per la “prioritè aux français” nell‟allocazione del lavoro, degli alloggi e il welfare.

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opposizione a un populismo percepito come illiberale. Una seconda strada percorribile enfatizzava il gap in politica tra promessa e performance, l‟ideale populista e la realtà democratica (Canovan 1999, p.7). In merito al rapporto tra le due la studiosa attinse ad uno scritto postumo di Michael Oakeshott, noto per aver individuato due stili politici, la

politica della fede e la politica dello scetticismo. Nello specifico, la politica della fede si

fondava sull‟idea salvifica della politica, in grado di mobilitare l‟entusiasmo delle masse verso il cambiamento. I devoti della fede erano per questo motivo insofferenti verso il legalismo e il formalismo, considerati ostacoli sulla via della redenzione. La politica dello scetticismo, al contrario, era restia ad affidare il potere alla gente; per i sostenitori di questo filone lo scopo della politica era mantenere esclusivamente l‟ordine e la legalità, conservando la preziosa eredità dei diritti e delle istituzioni. L‟autrice rivisitò in chiave personale le idee del suo ispiratore avanzando la tesi che la democrazia avesse due facce: una redentiva e una pragmatica. Questa nuova lettura poteva essere d‟aiuto nella comprensione della democrazia quale punto d‟intersezione tra i due stili. Per rendere chiara la tensione tra le due facce, la Canovan contrappose il leitmotiv del volto pragmatico “ballots not bullets” (la priorità del dibattito sui conflitti) allo slogan di quello redentivo “vox populi vox dei”. Quest‟ultimo si focalizzava sul potere salvifico della politica, sull‟autorità legittima del popolo e in un rigetto delle istituzioni; il lato pragmatico della democrazia concepiva la politica come uno strumento per risolvere pacificamente situazioni conflittuali. La politica era così articolata in sistemi multi-partitici, elezioni libere, gruppi di pressione (Canovan 1999). Sull‟onda di Oakeshott, la teoria asserì che entrambi gli stili fossero indispensabili e interdipendenti come due gemelli siamesi. Il pragmatismo senza il volto redentivo sarebbe sfociato in corruzione. Prendendo come esempio le elezioni: queste rappresentano un veicolo per distribuire il potere ma allo stesso tempo costituiscono un rituale che se non preso seriamente può indebolire le istituzioni democratiche che perderebbero legittimità. La perpetua lotta tra una democrazia aulica e una corrotta, secondo la Canovan, rischia di creare un solco su cui il populismo potrebbe farsi strada, portando con sé la promessa di ripulire la sporca realtà riconducendo la democrazia ai fasti di un tempo. Da qui era facilmente deducibile che un pizzico di “democrazia redentiva” fosse necessario per lubrificare le eccessive rigidità della macchina pragmatica. Sfortunatamente la democrazia è costretta a convivere con alcune ambiguità, prima fra tutte la contraddizione tra la sua potenza e impotenza. Se da una parte questa promette di fare gli interessi del popolo assumendo il controllo su alcuni

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questioni permeanti, dall‟altra dimostra spesso di non riuscire a gestire determinate situazioni. E‟ sufficiente pensare alla crisi economica che investì l‟America di fine „800; i contadini attribuirono le responsabilità di tale dissesto all‟establishment accusato di agire solo per il proprio beneficio senza curare gli affari degli elettori. Questi eventi funsero da motore propulsivo per la nascita del People‟s Party nel 1890 che proposero come soluzione quella di sbarazzarsi dell‟aristocrazia e riconsegnare il potere al popolo (Canovan 1999, pp.11-12). È ormai assodato che il sistema democratico per mantenere la sua promessa faccia affidamento sulle istituzioni che possono rivelarsi però un‟arma a doppio taglio: se da un lato consentono di aumentare l‟efficienza del governo, dall‟altra contribuiscono all‟alienazione del popolo che si sente estraneo dai meccanismi politici e per questo non rappresentato. Da qui nasce il bisogno, quasi romantico, di un‟azione politica spontanea, autentica e immediata. La Canovan paragona la democrazia a una chiesa che racchiude la fede in una serie di pratiche rituali che fungono da intermediario tra la vox dei e i fedeli, rendendo il sistema vulnerabile all‟azione di preti carismatici che, by-passando le gerarchie, offrono un contatto diretto con il Signore. Il ruolo del populismo è simile a quello del sacerdote. Si respira qui una certa aria di contraddizione: un sistema che conduce all‟esasperazione del potere personale è difficile da conciliare all‟interno di aspirazioni democratiche. Si può però affermare che periodicamente la democrazia abbia bisogno di un qualche “slancio” per ritrovare il proprio equilibrio. Impossibile pensare a una democrazia senza il suo “redemptive face” in quanto sarebbe come una chiesa senza la sua fede (Canovan 1999, p.14).

Altrettanto stimolante il contributo di Benjamin Arditi che rispose alle tesi della Canovan, puntualizzando in particolar modo sulla compatibilità del populismo con la democrazia. Precisò innanzitutto il ruolo, a suo avviso determinante, giocato dal contesto politico attuale nello spianare la strada all‟affermazione populista: il declino dei partiti di massa e la perdita di credibilità da parte di una élite corrotta e “non-responsive”, avrebbero incentivato mobilitazioni sociali innovative, motivate dall‟intento di colmare il deficit democratico che affliggeva il panorama politico. Arditi entrò poi nel dettaglio della teoria della Canovan, soffermandosi innanzitutto sul rapporto tra le due facce della democrazia, il volto redentivo e quello pragmatico. Interpretare il rapporto tra suddette forze come due pesi di una bilancia, avrebbe condotto all‟idea aristotelica di poter trovare sempre il punto d‟equilibrio attraverso la giusta combinazione degli elementi cancellando ogni contesa. In questo modo sarebbe

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