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Il rito dell'applicazione della pena su richiesta delle parti in una continua tensione tra esigenze di accertamento e logiche deflative.

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INDICE

CAPITOLO I: ORIGINI ED EVOLUZIONE DEL RITO

DELL’APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA

DELLE PARTI. ... 3

1.1. L’applicazione della pena su richiesta delle parti ... 3 1.2. La sentenza costituzionale n. 313 del 1990 ... 13 1.3. Il nesso tra natura della sentenza di patteggiamento e la revoca della sospensione condizionale della pena ... 19 1.4. Il patteggiamento “allargato” e la virata delle Sezioni Unite.

24

CAPITOLO II: FORME E CONTENUTI DELLA

GIUSTIZIA NEGOZIATA ... 34

2.1. Il differente grado di verità insito nella sentenza di

patteggiamento ... 34 2.2. Le ragioni dell’irrompere della giustizia negoziata ... 42 2.3. Fondamenti concettuali della giustizia negoziata e ambito applicativo ... 45 2.4. Distinzione tra giustizia negoziata e giustizia contrattata .. 48 2.5. I limiti della giustizia consensuale alla luce del principio di legalità ... 51 2.6. Il valore del consenso in altri settori dell’ordinamento: il processo tributario ... 54 2.7. I limiti al patteggiamento della pena per i reati tributari ... 63

CAPITOLO III: FORME DI PLEA BARGAINING IN

EUROPA E OLTREOCEANO ... 68

3.1. Il plea bargaining come modello connaturale al sistema processuale americano ... 68 3.2. La legittimazione del plea bargaining… ... 74 3.3. … e la sua applicazione pratica. ... 77 3.4. Le profonde differenze tra plea bargaining e l’applicazione della pena su richiesta delle parti ... 82 3.5. Le derive del modello negoziale: nolo contendere e Alford plea 84

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2 3.6. La prassi tedesca degli informelle Absprachen e il successivo riconoscimento normativo ... 87 3.7. La Conformidad spagnola: inquadramento generale ... 93

CAPITOLO IV: LA TUTELA DELLA PERSONA

OFFESA NEGLI ISTITUTI DI GIUSTIZIA NEGOZIATA

E NUOVE PROSPETTIVE DI RIFORMA ... 101

4.1. Considerazioni introduttive ... 101 4.2. Il ruolo della persona offesa nel patteggiamento ... 101 4.3. La vittima del reato e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ... 105 4.4. Il diverso contesto della “giustizia riparativa” ... 112 4.5. La refusione delle spese processuali della parte civile nel patteggiamento: quale fondamento giuridico? ... 114 4.6. Il novellato art. 444, comma 1-ter c.p.p. e il d.d.l. 2067 .... 120

CONCLUSIONI ... 131

INDICE BIBLIOGRAFICO ... 132

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3

CAPITOLO I: O

R

IGINI ED EVOLUZIONE DEL RITO

DELL’APPLICAZIONE

DELLA

PENA

SU

RICHIESTA DELLE PARTI.

1.1. L’applicazione della pena su richiesta delle

parti

Il libro VI titolo II del codice di procedura penale contempla tra i

procedimenti speciali1, l'applicazione della pena su richiesta di

parti, la cui disciplina è incastonata negli artt. 444-448 c.p.p. Il nucleo genetico del procedimento si rinviene nell’art. 2 l. 16-2-1987, n. 81 – Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale. Tale disposizione prevedeva che il codice di procedura penale dovesse

attuare i caratteri del sistema accusatorio2, secondo una serie di

principi e criteri ivi elencati3.

1 Il concetto di «procedimento speciale» postula un riferimento alla dinamica

processuale. Se il procedimento ordinario si snoda lungo una linea complessivamente composta da tre segmenti principali (indagini preliminari, udienza preliminare e giudizio), il procedimento speciale si caratterizza, invece, per l’assenza di almeno uno di quei segmenti. Cfr. R. ORLANDI, Procedimenti speciali, in G. CONSO, V. GREVI, Compendio di procedura penale, VI ed. Padova, 2012, 663.

2 Il sistema accusatorio nella sua forma più tipica è caratterizzato a) da un’accusa

proposta e sostenuta da persona distinta dal giudice; b) pubblicità di tutto il procedimento c) oralità; d) parità assoluta di diritti e di poteri tra accusatore ed imputato; e) esclusione di qualsiasi libertà del giudice nella raccolta delle prove sia a carico che a discarico; f) allegazione delle prove da parte dell’accusatore e dell’imputato; g) libertà personale dell’accusato sino alla sentenza irrevocabile. Cfr. CONSO, Accusa e sistema accusatorio, in Enc. Dir., Annali, I, Milano, 1958, 336. 3 Che i procedimenti speciali, in particolare quelli deflativi del dibattimento, siano

funzionali ad un processo organizzato secondo il sistema accusatorio, lo si ricava in modo esplicito dalla Relazione al progetto preliminare che riporta: «…nella sua relazione alla Camera l’on. Casini aveva fatto rilevare come buona parte dell’efficienza del nuovo codice fosse affidata a questo istituto che consente non solo di risparmiare tutto il dibattimento ma anche di eliminare un grado di impugnazione vista l’inappellabilità della sentenza emessa su accordo delle parti», in G.U. 24-10-1988, n. 250, suppl. ord. n. 93.

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4

L’istituto del c.d. patteggiamento si è andato progressivamente arricchendo di contenuti, non previsti in sede di elaborazione teorica, sia di matrice giurisprudenziale che normativa. Non possono non essere menzionati gli interventi diretti della Corte Costituzionale sulla disciplina del procedimento, in particolare con le sentenze 2-7-1990, n. 313 e 12-10-1990, n. 443, nonché gli interventi legislativi più influenti in materia: la legge del

16-12-1999, n. 479 (c.d. “legge Carotti”)4, della legge 27-03-2001, n. 975

e della legge 12-06-2003, n. 1346.

Certa dottrina ha voluto individuare, in un passato più o meno remoto, una forma di giustizia negoziata affine al patteggiamento,

ovvero l’antico “truglio” borbonico7 utilizzato nel regno di

Napoli, quando le carceri traboccavano di detenuti in attesa di giudizio. Il truglio consisteva in una sorta di transazione tra accusato e accusatore sulla entità della pena da infliggere al primo, al di fuori di un normale processo, anche sulla base delle dichiarazioni rese dal medesimo a carico di sé o di altri, spesso in

vista di una forte riduzione di pena8. Sarebbe, tuttavia, arbitrario

fare dell’antico istituto un paragone assoluto con l’attuale

4 Recante "Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in

composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense" pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 18 del 18 Gennaio 2000.

5 Contenente “Norme sula rapporto tra procedimento penale e procedimento

disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 80 del 5 Aprile 2001.

6 “Modifiche al Codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su

richiesta delle parti” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 136 del 14 Giugno 2003.

7 Ricordato, tra gli altri, da S. MONTONE, La pena negoziata tra diritto penale e processo, in Quest. Giust, 2004, 3, p. 462.

8 Di condanna senza processo parla DE CARO, Linee politiche della l. 134/2003, in DE

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patteggiamento, oggi imperniato su solidi principi di legalità

costituzionale9. Difatti, il vero e proprio antecedente normativo

apprezzabile, in virtù dell’ordinamento costituzionale, è quello previsto dall’art. 77 della l. 24-11-1981, n. 689 che già prevedeva sanzioni sostitutive della libertà controllata o della pena pecuniaria, su richiesta dell'imputato, con il consenso necessario del p.m., qualora il giudice avesse ritenuto, sulla base degli atti e degli accertamenti eventualmente disposti, di poterle applicare. Non si trattava, in verità, di un vero e proprio accordo perché il consenso del p.m. serviva solo ad eliminare un ostacolo a un epilogo del processo diverso da quello ordinario. Tale procedura si rivelò inidonea a un adeguato soddisfacimento delle esigenze di economia processuale e di decongestionamento del carico giudiziario, ma l’esperienza tutto sommato positiva che ne seguì, indusse il legislatore ad ampliare negli anni l’operatività dell’istituto dotandolo di una più dettagliata regolamentazione. Come noto gli artt. 77, 78, 79 e 80 della l. n. 689/1981 sono stati

abrogati in modo espresso dall’art. 234 disp. att. c.p.p.10

Procedendo ad una disamina del procedimento de quo, si legge all’art. 444 c.p.p. che l'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice, nella specie e nella misura indicata, l'applicazione di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria,

diminuita fino a un terzo11, ovvero di una pena detentiva, quando

9 Così G. CECANESE, Ancora dubbi irrisolti in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, Quesiti, Archivio penale, 1, 2015, p. 3.

10 Cfr. A. ARRU, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in Trattato di

procedura penale, Spangher (a cura di), Vol. IV ed., Vol. I, Torino 2008, pp.6-8.

11 La frazione allude all’entità dello sconto e non già alla pena che residua come

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questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo,

non supera i cinque anni, soli o congiunti a pena pecuniaria12.

Come traspare fin dalle prime battute, imputato e pubblico ministero hanno il ruolo di protagonisti del procedimento in esame, in quanto dotati della facoltà di imprimere al processo una determinata direzione, di scandirne le fasi derogando così lo schema ordinario. Restano estranee dall’accordo la persona offesa e, in caso di costituzione, la parte civile, cui è consentito unicamente interloquire dall’esterno al fine di convincere il giudice a rigettare la richiesta, poiché il giudice non decide sulla relativa domanda, pertanto al danneggiato non resterà che promuovere autonomo giudizio civile per le restituzioni ed il risarcimento, salva solo la liquidazione delle spese di costituzione. La richiesta di applicazione della pena può essere formulata congiuntamente dall’imputato e dal p.m., ma anche singolarmente o dal solo imputato o dal solo p.m., che in tal caso, dovranno necessariamente acquisire il consenso della parte non

proponente13.

Acquisito il consenso della parte non proponente, la richiesta può essere sottoposta al giudice competente, il quale, ove ritenga di dover verificare la volontarietà o un vizio della volontà della richiesta dispone, a norma dell’art. 446, 5° comma, la

comparizione dell’imputato14.

12 La diminuzione fino a un terzo si applica sulla pena concretamente determinata

con il ricorso ai metodi ordinari.

13Per le persone giuridiche agisce il rappresentante legale, purché questi non abbia

la veste di imputato nel reato da cui dipende l’illecito amministrativo, (art. 39 d.lgs. n. 231 del 2001), nel qual caso si dovrà procedere alla nomina di un rappresentante

ad hoc.

14 Cfr. R. ORLANDI, Procedimenti speciali, in G. CONSO, V. GREVI, Compendio di procedura penale, VI ed. Padova, 2012, p. 729.

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Nel caso, invece, in cui il consenso della controparte non sia stato prestato vi saranno conseguenze differenti a seconda che il richiedente sia il p.m. o l’imputato: nel primo caso il p.m. non potrà sottoporre al giudice la sua richiesta e qualsiasi ulteriore effetto di quest’ultima verrà inibito; nel secondo caso la richiesta potrà comunque essere presentata al giudice. Il g.i.p. e il g.u.p. si limiteranno a prendere atto della tempestività della richiesta che

verrà successivamente esaminata dal giudice del dibattimento15.

Quanto al termine di presentazione, la richiesta può essere formulata già durante le indagini preliminari (ex art. 447 comma 1 c.p.p.). In caso di richiesta formulata da una sola parte, il giudice fissa con decreto un termine entro il quale l’altra parte dovrà esprimere il consenso o il dissenso, disponendo che richiesta e consenso siano notificati a cura del richiedente. Il mancato consenso del p.m., in ipotesi, inibirà la procedura descritta nell’art.

447 c.p.p.16, la richiesta potrà, in ogni caso, venir presa in

considerazione, se non riformulata e accolta nell’udienza preliminare, dal giudice del dibattimento. È evidente che il p.m. avrà in questo caso l’onere di motivare il suo dissenso, perché in ipotesi di inutile decorrenza del termine fissato dal giudice, il suo

silenzio sarà considerato dissenso immotivato17.

Tuttavia la sede naturale per l'esplicarsi dell'accordo è l'udienza preliminare, dove la richiesta potrà essere avanzata fino alla

15 Cfr. A. ARRU, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in Trattato di

procedura penale, Spangher (a cura di), Vol. IV, I, Torino 2008, pp.6-8.

16 Che prescrive al giudice di fissare con decreto, in calce alla richiesta l’udienza per

la decisione.

17 Niente esclude, tuttavia, che le iniziali determinazioni del p.m. possano poi mutare,

ed il dissenso convertirsi in accordo, pur sempre entro i termini stabiliti dall’art. 446 comma 1, c.p.p., così DI DEDDA, Il consenso delle parti nel processo penale, Padova, 2002, p. 110.

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presentazione delle conclusioni, termine di sbarramento per la proposizione dell’accordo nel caso di giudizio ordinario. Altri termini sono imposti nei procedimenti privi di udienza preliminare: nel procedimento monitorio, la richiesta va proposta dall’imputato contestualmente all’opposizione contro il decreto di condanna. Negli altri procedimenti privi di tale fase, il termine ultimo cade sempre nella fase predibattimentale: entro quindici giorni dalla notificazione del decreto di citazione, quando si procede con giudizio immediato; prima che sia dichiarato aperto il dibattimento, nel giudizio direttissimo e in quello conseguente a citazione diretta davanti al tribunale monocratico.

Nell’ipotesi in cui il g.i.p. o il g.u.p. abbia rigettato la richiesta, l’imputato, e solo l’imputato, prima della dichiarazione di apertura

del dibattimento di primo grado può rinnovare la richiesta18.

Il contenuto dell’accordo deve vertere sulla misura e sulla specie della sanzione (o delle sanzioni) che verrà eventualmente applicata e, posta al vaglio del giudice, potrà essere accolta o respinta ma non modificata.

La misura della riduzione della pena per la scelta del rito costituisce oggetto essenziale dell’accordo sicché, in assenza del relativo computo, il giudice ha l’obbligo di rigettare la richiesta, non potendo procedere di sua iniziativa alla rideterminazione della

pena proposta19.

Poiché si tratta di rito attivabile già in sede di indagini preliminari, è facile intuire come la factual basis su cui poi si innesterà l'attività

18 Cfr. M. CHIAVARIO, in Diritto processuale penale, Torino, Utet Giuridica, 2015, pp.

557- 558.

19 Cfr. E. M. MANCUSO, Procedimenti speciali, in Teoria e pratica del processo, Tomo

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decisoria del giudice non sia caratterizzata da prove raccolte e formate dialetticamente nel dibattito orale ma da elementi, da atti d'indagine unilateralmente formati, ai quali viene attribuita piena efficacia. Come contropartita al sacrificio delle garanzie difensive cui l'imputato rinuncia spontaneamente e consapevolmente, egli può usufruire oltreché dello sconto della pena anche di una serie di benefici applicabili soltanto nel caso del patteggiamento tradizionale, il cui unico requisito sta nel massimo di pena detentiva sulla quale le parti possono accordarsi al netto della riduzione fino a un terzo, ossia due anni, senza ulteriori limiti oggettivi e soggettivi, caratteristici invece del patteggiamento

allargato20. Quanto ai benefici:

-

in primo luogo, la parte può subordinare l'efficacia

dell'accordo alla concessione della sospensione

condizionale della pena ad opera del giudice (art.444 c.3). Questi, se ritiene che la sospensione condizionale non può essere concessa, rigetta la richiesta;

-

in secondo luogo, la sentenza che applica la pena su

richiesta non comporta la condanna al pagamento delle spese processuali, altrimenti l’imputato è tenuto al pagamento delle spese di mantenimento in custodia cautelare e al pagamento delle spese cc.dd. di giustizia;

-

la sentenza non comporta l'irrogazione di pene accessorie e

di misure di sicurezza, fatta eccezione per la confisca nelle ipotesi nelle quali ai sensi dell'art. 240 c.p. è obbligatoria o facoltativa;

20 Cfr. S. MARCOLINI, voce Patteggiamento dir. proc. pen. Enc. Trecc.,

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-

il reato, infine, è estinto se l'imputato non commette un

delitto o una contravvenzione della stessa indole

rispettivamente entro il termine di cinque anni o due anni21.

Il cammino riformatore dell’istituto ha subito una repentina accelerazione con l’entrata in vigore della l. 12-6-2003, n. 134, con la quale si consente all’imputato di accordarsi su di una sanzione che va da due anni e un giorno fino a cinque anni di pena detentiva in concreto (non vi è un limite massimo di quantità pecuniaria). Merita dare conto della diversa modulazione prevista in sede premiale, quasi a doppia velocità, a seconda che l’accordo verta su una pena confinata negli originari limiti edittali di due

anni ovvero si spinga oltre22.

L’art. 445 c.p.p. prevede che l’esonero dal pagamento delle spese del procedimento, l’inapplicabilità di pene accessorie e di misure di sicurezza, siano circoscritti all’ipotesi in cui la pena applicata non sia superiore a due anni.

Il 1° comma bis dell'art. 444 c.p.p. ha, poi, introdotto una regola che mira a svolgere un ruolo selettivo, individuando, cioè, situazioni non reputate dal legislatore meritevoli dell’ampio favor che deriverebbe dall’accesso al rito per la particolare gravità delle fattispecie o per l’allarme sociale da esse manifestato, ovvero, ancora, per la dimostrata capacità a delinquere o per la resistenza dimostrata rispetto al precetto penale. Sotto un profilo oggettivo sono esclusi, invece, i delitti di associazione mafiosa e assimilati,

21 Cfr. P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè Editore, 2014, pp.

795-796.

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quelli di terrorismo ed una seria nutrita di delitti violenza sessuale

e assimilati23.

Cause di esclusione soggettiva riguardano lo status e il curriculum criminale dell’imputato e impedisco l’accesso al rito a coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali, per tendenza ed i recidivi reiterati di cui all'art. 99, 4 comma c.p, per la ragione dell’accertata pericolosità sociale di quei soggetti stigmatizzati da un provvedimento giurisdizionale.

Per entrambi i modelli processuali si prevede che il giudice operi un controllo sulla corretta qualificazione giuridica del fatto, sull'applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti nonché sulla congruità della pena richiesta e, quando richiesto, la concedibilità della sospensione condizionale della

pena24. Infine, deve verificare l’insussistenza di cause di non

punibilità che, a norma dell’art. 129 c.p.p.25, lo obbligherebbero a

prosciogliere immediatamente l’imputato. Il patteggiamento, dunque, si fonda sull’esclusione dei possibili presupposti di proscioglimento, alla stregua del materiale di indagine fornito dal pubblico ministero. Infatti, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art 129 egli pronuncerà sentenza di patteggiamento anche nel caso in cui, per ipotesi, ritenesse che il pubblico ministero non abbia eliminato ogni ragionevole dubbio

23 Cfr. E. M. MANCUSO, Procedimenti speciali, in Teoria e pratica del processo, cit., pp.

116-118.

24 Si ritiene che tale beneficio non avvenga in forza dell’art. 444, comma 3 ma sia di

origine squisitamente pretoria. Da lungo tempo, infatti, la giurisprudenza viene riconoscendo alle parti il potere di chiedere al giudice, con effetti vincolanti, il beneficio sospensivo: beneficio che non può essere accordato d’ufficio ma solo in presenza di un previo accordo. S, MARCOLINI, Patteggiamento [dir. proc. pen], in Enc. Giur. Trecc., Diritto on line, 2012.

25 Il giudice dovrà valutare se il fatto non sussiste, l'imputato non lo ha commesso,

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sulla reità26, il che rende problematico, inquadrare tra le sentenze

di condanna la decisione applicativa della pena concordata. La sentenza, contenendo un semplice accertamento negativo della non punibilità, si risolve nella constatata insussistenza delle cause di proscioglimento. La regola di giudizio che il giudice è chiamato ad applicare è diversa da quella di cui all’art. 530, 2° comma, stante la consistenza della piattaforma probatoria e la latitudine dell’attività di accertamento della responsabilità dell’imputato. Sta in questa diversità la radice dell’annoso problema riguardante la natura della sentenza che applica la pena richiesta dalle parti: la sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., contiene o no un accertamento? Il dibattito su come qualificare la sentenza acquista maggior vigore in virtù della mera equiparazione operata dall’art. 445 comma 1-bis, seconda parte, ad una pronuncia di condanna (così come si ricava dalla lettura della littera legis). Tale disposizione sembra così indulgere nella conclusione per cui è ravvisabile nella sentenza di patteggiamento una condanna penale solo quando la legge collega certi effetti all’esistenza di una condanna penale. Inoltre l’esclusione della sua efficacia nei giudizi civili e amministrativi sembra rinfocolare la conclusione per cui la sentenza non abbia natura di condanna. Unica eccezione, l’effetto vincolante che la sentenza di patteggiamento è capace di produrre nel procedimento disciplinare, a seguito della l. 27 marzo 2001, n. 97.

L’inappellabilità costituisce un altro peculiare tratto della sentenza in questione: secondo l'art. 448, co. 2, infatti, la sentenza

26 Cfr. R. ORLANDI, Procedimenti speciali, in G. CONSO, V. GREVI, Compendio di procedura penale, VI ed. Padova, 2012, p.572.

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è inappellabile salvo il caso di dissenso del pubblico ministero legittimato in tal caso a proporre appello. Gli effetti deflativi dell’accordo vengono dal legislatore proiettati durante l’intero arco del processo di merito, mentre sembra logico ammettere una soluzione di appellabilità del p.m. nel caso in cui continui a persistere anche dopo la sentenza di primo grado. La sentenza è ad ogni modo impugnabile col mezzo del ricorso in Cassazione da parte di pubblico ministero e imputato, per uno dei motivi indicati nell’art. 606.

Anche il giudice dell'impugnazione può emettere sentenza di applicazione della pena se ed in quanto ritenga ingiustificato il precedente rigetto da parte del giudice di primo grado. Motivo del

gravame sarà in questo caso la non ragionevolezza del divieto27.

1.2. La sentenza costituzionale n. 313 del 1990

Come già anticipato, la legge n. 479 del 1999, la c.d. legge Carotti, ha apportato modifiche all’impianto originario del rito, dando seguito alle indicazioni della pronuncia della Corte Costituzionale n. 313 del 1990, che tra tutte le sentenze della Corte in tema di patteggiamento è quella che con maggiore ampiezza ha affrontato le problematiche del rito in questione. È interessante per tale ragione ripercorrere brevemente i passaggi che scandagliano il procedimento speciale e lo ancorano al tessuto costituzionale, in quanto fondano un orientamento che verrà corroborato in successive sentenze della Corte. Nella fattispecie il giudizio di legittimità era stato promosso da tre ordinanze: con la prima veniva sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt.

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248 d.lgs. 26 luglio 1989 n. 271 (Norme di attuazione di coordinamento e transitorie del codice di Procedura Penale) e 444 c.2 c.p.p. in riferimento all'art. 101 c.2 Cost. (il quale prescrive l’assoggettamento del giudice soltanto alla legge), in quanto il Tribunale di Pistoia riteneva che la pena indicata dalle parti fosse inadeguata alla gravità del reato, pur risultando corretta la qualificazione giuridica del fatto e sussistente la circostanza attenuante. Ad avviso del giudice remittente era «preclusa ogni valutazione degli elementi previsti dagli artt. 132 e 133 codice penale, sia in riferimento alla pena base che alla misura della diminuzione». Di qui il contrasto con il principio di cui all'art. 101, co. 2 Cost. perché la preclusione che il Tribunale viene a subire non dipende da «una situazione rigorosamente predeterminata per legge, bensì dall'esercizio di un potere discrezionale che l'art. 444 attribuisce alle parti, e non è comunque sindacabile dal giudice». Con le altre due ordinanze, datate rispettivamente 18 novembre e 20 dicembre 1989, il Pretore di Vercelli sollevava anch’egli questione di legittimità costituzionale dell' art. 444 c.p.p., con riferimento all’ art. 101 c.2 Cost., in quanto «costretto ad applicare la pena, così come viene dalle parti indicata, senza potere esercitare alcun sindacato sulla sua congruità e senza potere esprimere una effettiva motivazione di talché al giudice non resta che la verifica della cosiddetta "cornice di legittimità" entro cui la pena viene indicata (…)». In ogni caso, si tratterebbe di una decisione sulla base degli atti, e perciò di risultanze che - salvo l'ipotesi di incidenti probatori - non hanno valore di prova. Veniva altresì rilevato il contrasto con l’art. 102 c.1 Cost., che riserva ai magistrati ordinari l'esercizio della funzione giurisdizionale, mentre «l'art. 444 c.p.p. affida sostanzialmente alle parti (pubblico

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ministero ed imputato) la scelta discrezionale della misura della pena che viene imposta al giudice»; la paventata violazione viene estesa anche ai precetti costituzionali di cui agli artt. 13, primo comma e 24, secondo comma, poiché senza sostanziale accertamento della responsabilità penale rende possibile all'imputato di rinunziare a diritti indisponibili quali la libertà personale e il diritto di difesa. Si configurerebbe un contrasto anche con l'art. 27, co. 2, poiché l’art. 444 c.p.p., limitando l’accertamento del giudice alla mera sussistenza delle cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p., determinerebbe «una sorte di capovolgimento del principio di presunzione di non colpevolezza, in quanto sembrerebbe così esigersi che debba essere provata 1'innocenza anziché la responsabilità penale». La sentenza prevista dall'art. 444 contrasterebbe infine con l'obbligo costituzionale di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, sancito dall'art. 111, co. 1, Cost. «poiché – tale sentenza – sarebbe priva di qualsiasi valutazione di merito da parte del giudice, non potendosi attribuire valore di motivazione all'enunciazione nel dispositivo che vi è stata richiesta dalle parti».

Prioritariamente, la Corte individua un ulteriore parametro relativamente al quale deve verificarsi la conformità del patteggiamento ed, in particolare, del potere del giudice di controllare la congruità della pena richiesta consensualmente dalle parti, ovvero l’art 27, terzo comma, che «impone al giudice di valutare l'osservanza del principio di proporzione fra quantitas della pena e gravità dell'offesa, e quindi il concreto valore rieducativo della pena in relazione alla sua pregnante finalità». Dopo aver diffusamente ammesso la legittimità di un potere concepito in funzione di collaborazione ad una rapida

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affermazione della giustizia con una effettiva ed immediata applicazione della pena, la Corte esclude gli altri profili di illegittimità costituzionale, sull’avviso che «il giudice, non vincolato dall’accordo delle parti, trae il suo convincimento proprio dalle risultanze degli atti per mezzo delle quali ben può contestare che la definizione giuridica cui le parti s'attengono non è quella che effettivamente discende dalle risultanze», ciò costituendo «aspetto essenziale della soggezione del giudice soltanto alla legge». Alle stesse conclusioni giunge per quel che riguarda il riconoscimento delle attenuanti che l'intesa delle parti ritiene debbano concorrere alla quantificazione della pena e, in ipotesi di bilanciamento con eventuali aggravanti, la verifica dei criteri adottati dalle parti. Nell'uno come nell'altro caso, infatti, è sempre sulle risultanze che s'appunta il sindacato del giudice per la verifica, negando che il suo controllo s'arresti alla cornice di legittimità: perché, anzi, esso finisce per essere determinante proprio agli effetti della commisurazione della pena, sulla quale ripristina l'imperio di quella legge alla quale, soltanto, egli è soggetto. Nega inoltre la tesi per cui il giudice non eserciterebbe una funzione giurisdizionale dato che, anche se l'art. 444 attribuisse al giudice un mero controllo di legittimità, si tratterebbe pur sempre di una funzione giurisdizionale senza la quale le parti non avrebbero alcuna possibilità di definire il giudizio.

Inoltre, la circostanza per cui il giudice «non possa lasciare senza alcuna giustificazione, nella sentenza l'apprezzamento, la correttezza o meno della definizione giuridica del fatto che scaturisce dalle risultanze, deriva dal modello generale di sentenza delineato nell'art. 546 cod. proc. pen., che prevede alla lettera e)

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del primo comma “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata”: esigenza che non è esclusa dalla particolare configurazione della sentenza prevista dall'art. 444 cod. proc. pen.». Sulla violazione degli articoli 13 e 24, la Corte nega si tratti di pena che l'imputato infligge a sé stesso per l'ovvia ragione che la richiesta non avrebbe alcun effetto sulla libertà personale del postulante se il giudice non intervenisse. In realtà l'imputato, quando chiede l'applicazione di una pena lo fa soltanto per «ridurre al minimo quel maggior sacrificio della sua libertà, che egli prevede all'esito del giudizio ordinario».

Quanto al principio di presunzione di non colpevolezza, la Corte fa notare come nel nuovo ordinamento giuridico-processuale sia ormai preponderante l'iniziativa delle parti nel settore probatorio, ma «ciò non osta tuttavia ad un controllo del giudice che pure nello speciale procedimento in esame è in primo luogo tenuto ad esaminare ex officio se sia già acquisita agli atti la prova che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso». Dopodiché, risultando negativa questa prima verifica, se l'imputato ritiene di possedere elementi per l'affermazione della propria innocenza, non ha alcun obbligo nel richiedere l'applicazione di una pena, ma ha a disposizione le garanzie del rito ordinario. In altri termini, chi chiede l'applicazione di una pena rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l'accusa, senza che ciò significhi violazione del principio di presunzione d'innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non sia irrevocabile la sentenza. Infine, consapevole del fatto che la richiesta consensuale delle parti possa attestarsi, pur in presenza di delitti molto gravi, su limiti ritenuti dal giudice assolutamente incongrui (ipotesi oggi resa più probabile dall’estensione

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dell’ambito di applicazione determinata con l’ingresso del c.d. patteggiamento allargato) riconosce che «la preclusione dello specifico controllo del giudice sulla concreta congruità della pena può talvolta determinare una situazione di conflitto con il principio di cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione nella parte in cui prevede che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Oggi sappiamo ritenersi superato il tradizionale orientamento che tendeva a circoscrivere la finalità rieducativa alla sola fase esecutiva, mentre un ruolo essenziale va anche riconosciuto alla sanzione penale nella fase della commisurazione della pena, non potendosi ritenere efficace a emendare il reo

qualora non fosse adeguata alla gravità del caso concreto28. Il

precetto di cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie. Del resto, si tratta di un principio che, seppure variamente profilato, è ormai da tempo diventato patrimonio della cultura giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il “principio di proporzione” fra qualità e

quantità della sanzione, da una parte, ed offesa, dall'altra29.

La legge 16 dicembre del 1999 n. 479 (c.d. legge Carotti) ha pertanto accolto nel tessuto codicistico il dictum della sentenza della Corte Costituzionale, con piena condivisione da parte di

28 È noto come il principio rieducativo ricevette negli anni Ottanta sempre maggiori

riconoscimenti, e dal legislatore, e da parte della Corte Costituzionale che lo valorizzò come «criterio finalistico principale» sia in sede di inflizione, commisurazione ed esecuzione della pena. M. D’AMICO Art. 27 Commentario alla Costituzione, Vol. I (a cura di) Bifulco, Celotto, Olivetti, 2006, 573.

29 Cfr. GU 1° Serie Speciale - Corte Costituzionale., sent. 26 giugno – 2 luglio 1990,

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chi30 - sia detto per inciso - ha visto in questa interpolazione

legislativa un pieno recupero della funzione rieducativa della pena in chiave special-preventiva.

1.3. Il nesso tra natura della sentenza di patteggiamento e la revoca della sospensione condizionale della pena

Il problema più delicato è quello di verificare se l’applicazione della sentenza di patteggiamento, determini o meno il sorgere dello status di condannato: in tanto ci si interroga sullo status attribuibile alla pronuncia emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., in quanto il giudizio che la precede non è ritenuto conforme al rigore

imposto dalla Costituzione31.

A distanza di un anno, lo stesso Giudice delle leggi si è trovato ad affermare che «l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta, anziché comportare un accertamento pieno di responsabilità, basato sul contraddittorio delle parti, trova il suo fondamento primario nell’accordo tra Pubblico Ministero ed imputato sul merito dell’imputazione. Tale caratteristica di “negozialità” spiega il fatto che l’indagine del giudice in ordine alla responsabilità dell’imputato possa essere limitata a profili determinati, senza investire quell’accertamento pieno e incondizionato sui fatti e sulle prove che rappresenta, nel rito

30 FIANDACA, Pena patteggiata e principio rieducativo: un arduo compromesso tra logica di parte e controllo giudiziale, FI 1990, I, 2385.

31 È patrimonio tradizionale della nostra dottrina la distinzione tra una nozione

“formale” di sentenza, privilegiata dal codice di rito, ed una nozione “sostanziale” ancorata ai precetti costituzionali ed in particolare sull’obbligo di motivazione, cfr. al riguardo NAPPI, voce Sentenza penale, in Enc. dir., vol. XLI, Giuffrè, 1989, p. 1313 ss. Di qui la nozione di «condanna costituzionalmente orientata» ad opera di PERONI, La

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ordinario, la premessa necessaria per l’applicazione della sanzione

penale»32.

Sulle stesse posizioni si attestavano anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Quest’ultime hanno da sempre sostenuto che la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. non potesse contenere un accertamento dei fatti contestati. Già con la sentenza 19 febbraio 1990, n. 26, la Corte Suprema di Cassazione affermava che «la sentenza pronunciata nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, non presupponendo l’accertamento della responsabilità del soggetto,

non è una sentenza di condanna»33. Una conclusione che faceva

vacillare i presupposti cui si collegano i principi enunciati nell’art. 27 Cost., vale a dire per 1’appunto una sentenza di condanna che abbia accertato la responsabilità penale dell'individuo, ponendo inoltre, e più in generale, l'interrogativo se si possa correttamente parlare di pena come figura a sé stante, al di fuori da una necessaria correlazione con una fattispecie di reato oggetto di

verifica giurisdizionale34.

Orientamento ribadito a più riprese dalla Corte che in un altro arresto giurisprudenziale, in particolare nella decisione n. 3600 del 1997, ha escluso che il giudice dovesse procedere ad «accertamento giudiziale della responsabilità penale dato che ad esso nella sentenza è stato sostituito l’accordo intervenuto tra le

32 Corte Cost., sent. 22 maggio – 6 giugno 1991, n. 251, in www.giurcost.org. 33 In Difesa Penale, 1990, n. 26, p. 74. D’altronde la dottrina ha messo in luce come

accertamento della responsabilità e irrogazione della pena costituiscono gli elementi indefettibili del genus sentenza di condanna, pertanto non può configurarsi condanna un provvedimento giurisdizionale in cui manchi uno dei due momenti. Così, con efficace sintesi, CAPRIOLI, voce Condanna (diritto processuale penale), in

Enc. dir., Annali II, vol. 1, Giuffrè, 2008, p. 101.

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parti sul merito del processo e sulla pena da applicare»35.

L’imputato sarebbe, così, libero di rinunciare a contestare l’accusa o ad ampliare il quadro probatorio, cristallizzando, in questa maniera, i risultati provvisori, magari incompleti, acquisiti nelle indagini preliminari.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto, infatti, che l’equiparazione alla sentenza di condanna fosse da intendersi con esclusivo riferimento a quegli effetti non incompatibili con l’assenza di una plena cognitio, e ancora, che «l’equiparazione deve arrestarsi al solo punto per il quale essa è giustificata, e cioè l’applicazione della pena, dissolvendosi in riferimento all’altra componente essenziale

di condanna, che è l’accertamento della responsabilità penale»36.

Nella sentenza in esame, le Sezioni Unite hanno avuto modo di esprimersi in modo diffuso rispetto ad un tipico effetto penale della condanna: la revoca di diritto della sospensione condizionale ex art. 168, comma 1, n. 1, c.p. La ratio specialpreventiva cui obbedisce l'istituto, spinge a ravvisarne i presupposti nella "accertata" responsabilità di un nuovo reato: la formulazione normativa induce a ritenere che la condanna sia elemento costitutivo della fattispecie ex art. 168 co.1 n.1 c.p. Pertanto sulla scorta dell’esclusione di qualsivoglia forma di accertamento in facto dall'area del rito speciale, non può essere identificato nella sentenza emessa in esito a tale rito, il presupposto al quale l’art. 168 comma 1 n.2 riconnette la revoca della sospensione

condizionale della pena37.

35 Cass. Pen., sez. un., 26 febbraio 1997, n. 3600, Bahrouni, In Cass. Pen. 1997, 2066. 36Cass. Sez un. 8 maggio 1996, n.11, De Leo, in Cass. Pen. 1996, p.3579 ss con nota

di V. O. CEDRANGOLO, Effetti della sentenza di patteggiamento e revoca della

sospensione condizionale. 37 Ibidem.

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Siffatta impostazione è stata accolta e commentata

sfavorevolmente dalla dottrina38, che rileva come, ai fini della

risoluzione della questione della revocabilità della sospensione, non sarebbe essenziale far leva sulla natura della sentenza, ma importante è, invece, stabilire se quest’ultima sia riconducibile

all’alveo degli “effetti penali”39 della condanna e, in particolare,

della sentenza di condanna che definisce il procedimento speciale dell’applicazione della pena. Sotto il primo profilo l’art. 168 c.p. stabilisce che la sospensione della pena è “revocata di diritto” qualora il condannato commetta un delitto nei termini stabiliti, per cui si configura come un atto ricognitivo di una decadenza già avvenuta ope legis. Quanto agli effetti penali del patteggiamento, è incontestabile da quanto emerge dai commi 1 e 2 artt. 445 che la sentenza di patteggiamento equiparata ad una sentenza di condanna comporta gli effetti ad essa connaturati, qualora non diversamente disposto. Secondo questa lettura, pertanto, se la legge processuale, in caso di patteggiamento, avesse voluto escludere questo effetto, proprio perché si parla di equiparazione e non di identità rispetto ad una sentenza di condanna avrebbe

dovuto espressamente dirlo40. La Corte ha, in ogni caso,

38 D. CARCANO, “La sentenza di patteggiamento non è titolo per la revoca di una precedente sospensione condizionale della pena: una soluzione da rimeditare?” in

Cass. Pen. 1997, pp. 2680-2682.

39 Essi consistono in singole restrizioni della sfera giuridica o comunque in sfavorevoli

conseguenze della pronunzia di condanna, di volta in volta indicate dalla norma incriminatrice. Rientrano, ad esempio, fra gli effetti penali della condanna le molteplici preclusioni al godimento di benefici, sostantivi o processuali, promananti dall'intervenuto giudicato, come gli artt. 164 e 169 c.p. Si veda P. FRISOLI, Voce Effetti

penali della sentenza di condanna, in Enc. Dir., XIV, 1965, p. 234.

40 In seguito l’orientamento delle Sezioni Unite è stato recepito anche dalle sezioni

semplici in relazione al tema dell’indulto, affermando che la sentenza di applicazione della pena su richiesta, non può comportare la revoca di un precedente indulto. Cass., sez. I, 20 marzo 1997, D’Agata, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e

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continuato ad affermare le sue precedenti decisioni, precisando tuttavia che la sentenza di patteggiamento non può essere rilevante per la revoca ex art. 168 co. 1 n. può tuttavia esserlo per quella disposta ex art. 168 c.p. in quanto in relazione a quest’ultima rileva il solo fatto dell’inflizione di una pena a prescindere dalla

natura del provvedimento41.

Gli appigli normativi alla tesi fatta propria dalla Cassazione erano principalmente, l’inefficacia della sentenza nei giudizi civili e

amministrativi e la sua non revisionabilità. Chiamata a

pronunciarsi sul tema, la Corte, dopo aver precisato che la revisione è applicabile unicamente alle sentenze di “condanna” ed ai decreti penali di condanna divenuti irrevocabili, ha osservato come l’estensione dell’istituto alla sentenza di patteggiamento, potrebbe avere luogo solo in forza dell’equiparazione ad una sentenza di condanna. Soluzione che ha escluso, data «l'ontologica diversità tra sentenza di patteggiamento e sentenza di condanna, l'impossibilità di confrontare dati disomogenei, non concorrendo due ipotesi di compiuto accertamento dei fatti e di dichiarazione di colpevolezza. L’applicabilità della revisione non può logicamente eseguirsi, in difetto di un “conflitto di prove”, un raffronto tra un novum costituito da un significativo materiale probatorio ed un'inesistente acquisizione probatoria che (di norma) connota la sentenza di patteggiamento; ovvero un raffronto tra un diverso accertamento dei fatti contenuto in un'altra sentenza ed una situazione processuale in cui omologo accertamento non vi sia stato per volontaria rinunzia di parte: con la revisione non può verificarsi la metamorfosi della sentenza

41 In tal senso oggi dispone il co. 3 dell’art. 164, inserito dalla legge26 marzo, n.128.

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prevista dall'art. 444 c.p.p. in una sentenza di accertamento e di

condanna»42.

1.4. Il patteggiamento “allargato” e la virata delle Sezioni Unite.

L’art. 3, co. 1, l. 12 giugno 2003, n. 134, disattendendo l'orientamento prevalente della Suprema Corte, ha espressamente previsto la possibilità di sottoporre a revisione le sentenze di applicazione della pena su richiesta, interpolando l’art. 629

c.p.p.43 Con l’introduzione del patteggiamento nella forma

allargata, l’applicazione della pena detentiva può ora essere richiesta purché non superi i cinque anni di reclusione soli o congiunti con pena pecuniaria. Pertanto, è suscettibile di includere reati di rilevante gravità, come il tentato omicidio, l’estorsione o la rapina pluriaggravata, il che ha riacceso il dibattito circa la capacità di tenuta del sistema a fronte di meccanismi di negoziazione di una pena detentiva, i quali accedono ad un rito deflattivo caratterizzato da un regime più severo rispetto al patteggiamento tradizionale, cui si collega, tra l’altro, l’applicazione di pene accessorie o delle misure di sicurezza diverse dalla confisca e la condanna al pagamento delle spese processuali; si osservi, in particolare, che «tutta la disciplina premiale, fatta eccezione per la diminuente fino ad un terzo, rimane estranea al nuovo maxipatteggiamento» e riservata

42 Cass., Sez. Un., 25 marzo 1998, Palazzo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, 1386, con

nota di LOZZI, Il patteggiamento e l’accertamento di responsabilità un equivoco che

persiste.

43 Ai sensi del quale «È ammessa in ogni tempo a favore dei condannati, nei casi

determinati dalla legge, la revisione delle sentenze di condanna o delle sentenze emesse ai sensi dell'articolo 444, comma 2, o dei decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta».

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all'ipotesi in cui la pena irrogata non superi i due anni. Non solo,

nella variante maior del rito44 è pure inibito il peculiare

meccanismo estintivo del reato e di "ogni effetto penale" configurato all'art. 445, comma 2, c.p.p., sicché la sentenza, divenuta irrevocabile, sarà destinata a produrre effetti intangibili,

a prescindere dalla successiva condotta dell'imputato45. Comune

ad entrambe le tipologie è, invece, la previsione relativa all’inefficacia extra penale della sentenza nei giudizi civili e amministrativi, fatto salvo quanto previsto dall’art. 653 c.p.p. (come modificato dalla legge 27 marzo 2001 n. 97) che riconosce l’efficacia di giudicato della sentenza di patteggiamento nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità.

Era facile tutto sommato (e già si paventava in dottrina) che il patteggiamento, tramite l’abbattimento del muro dei due anni rappresentasse terreno fertile per conseguire la riduzione del carico giudiziario, ossia che venisse piegato alle logiche deflattive

del processo46.

L’allargamento dei limiti di operatività dell’istituto, in seguito all’intervento della l. 134/2003, ha posto il quesito se la riduzione della risposta sanzionatoria pregiudichi la tenuta general-preventiva del sistema non soltanto a causa di quest’ultima ma

44 È la giurisprudenza della Cassazione a denominare "editio maior" ed "editio minor"

le due varianti del modello negoziale: cfr. infra.

45 La particolarità della causa di estinzione consiste nell'essere differita nel tempo,

realizzandosi solo a seguito dell'intervallo previsto dalla legge, durante il quale gli effetti della sentenza si producono. Si distingue così dalla sospensione condizionale della pena che invece paralizza provvisoriamente gli effetti della sentenza. Così L. Scomparin, voce Cause di non punibilità (immediata declaratoria delle), in Enc. Dir., Annali II-2, 2008, p. 355.

46 G. CECANESE, “Ancora dubbi irrisolti in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti”, Quesiti, in Archivio Penale 2015, n.1

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piuttosto per la circostanza che l’esito più favorevole per il condannato si formi per mezzo di una trattativa tra accusa e difesa, ossia in un contesto para-mercantile che toglie comunque prestigio all’autorevolezza della risposta punitiva sempre meno oggetto di materia di verifica del giudice che ne deve (o dovrebbe) valutare la congruità. È stato rilevato come nel caso del patteggiamento la risposta punitiva giunga sì con maggior prontezza e certezza, ma tali vantaggi non compensano

assolutamente la diminuzione di “severità”47. Ciò ha indotto il

legislatore ha usare una serie di accorgimenti per tranquillizzare l’opinione pubblica in merito alla impossibilità di fare mercato della pena in ambiti molto delicati.

La nuova disposizione è stata prontamente oggetto di un’eccezione di illegittimità costituzionale prospettata in contrato con gli artt. 3 e 111 Cost.: si è rilevato che (con condivisione di parte delle dottrina) la maggioranza assoluta dei reati verrebbe sottratta alla cognizione piena del giudizio trasformando il rito specializzato in un rito generalizzato, né potrebbe farsi leva sulla deroga all’operatività del principio del contraddittorio riferita al consenso dell’imputato dato che questa deve intendersi come rinuncia alla formazione della prova in contraddittorio, in un normale processo di cognizione, quando l’imputato lo consenta, mentre il patteggiamento comporta il venire meno dello stesso accertamento della responsabilità, al di là del metodo per raggiungerlo. Si può obiettare tuttavia da un lato la scelta di un rito scevro delle ordinarie garanzie processuali, è rimessa alla libera scelta della parte, per cui la prima censura è destinata a

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cadere pur nell’ipotesi in cui il novanta per cento delle controversie fosse deciso attraverso i riti negoziali, sarebbe compatibile con le eccezioni previste all’art. 111 c.5. Circa la seconda censura tuttavia, è stato affermato che la previsione costituzionale attribuisce all’imputato il potere di disporre del diritto alla formazione della prova in contraddittorio legittimando una condanna sulla base di un accertamento meno garantito ma nulla più. Risulta piuttosto improbabile ipotizzare una disponibilità della regola di cui all’art. 27 Cost. sino al punto da escludere un accertamento della responsabilità per arrivare infine

a scalfire quei contenuti garantistici di cui all’art.13 Cost48.

Dunque, la l. n. 134 del 2003 sembra segnare una frattura nel passaggio tra il formato “minor” ed il modello “maior”. Un regime a doppio binario che suscita perplessità altresì in ragione del fatto che il solo discrimen è costituito da una variabile interna allo stesso meccanismo celando il rischio che attività quali la qualificazione giuridica del fatto, la comparazione delle circostanze e la commisurazione della pena siano esse stesse condizionate dalla prospettiva di accedere all’uno o all’altro dei due regimi. Il tutto lasciato al rapporto delle parti che può essere ora di collusione ora di contrasto, poiché il p.m. potrebbe partire da una qualificazione sovrabbondante per rientrare nell’ambito

della versione allargata dell’istituto49. È stata sostenuta in dottrina

l’inevitabile, intrinseca violazione del principio di legalità che il patteggiamento porta con sé: l’imputato nel momento in cui ha la possibilità di scegliere tra rito ordinario e rito deflativo e, ove

48 Cfr. MARZADURI, Commento alla legge 12.06.2003, in Leg. Pen. 2004, passim. 49 Cfr. M. PAPA, La crescita miracolosa del bonsai: l’albero del patteggiamento allarga vistosamente la chioma ma stenta a sviluppare radici, in Leg. Pen. 2004, pp. 863-870.

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scelga quest’ultimo, tra patteggiamento e giudizio abbreviato (dove, lo ricordiamo la riduzione di un terzo della pena è imposta dalla legge) dovrebbe correttamente ritenere che sia nell’uno che nell’altro la pena base verrà fissata in virtù di un esatta applicazione dell’art 133 c.p. e la concessione delle attenuanti solo se veramente esistenti, non sussistendo nessun motivo valido per preferire il patteggiamento. Senonché nel patteggiamento l’imputato potrebbe ottenere una pena base che non verrebbe mai concessa con il giudizio abbreviato e concordare la concessione di attenuanti, che lo stesso giudice dell’udienza preliminare negherebbe in sede di giudizio abbreviato. Sembra profilarsi una giustizia negoziata che vanifica il principio di legalità, che abdica lo scopo del processo, il cui fine primario ed ineludibile è quello della ricerca della verità. Qualora si ritenga che sia consentito infliggere cinque anni di reclusione in assenza di un accertamento di responsabilità e continuare a sostenere che sempre il processo penale ha il fine sopra detto, significa utilizzare una mera formula retorica50.

Prevedibile che la segnalata disarmonia dovesse subito imporsi all'attenzione della giurisprudenza di legittimità. Occorreva superare un indirizzo divenuto anacronistico: un irriducibile contrasto pareva correre tra i contenuti sanzionatori desumibili dall'innovato testo dell'art. 445 c.p.p. e una pronuncia di "non condanna".

50 Cfr. Lozzi, Una sentenza sorprendente in tema di patteggiamento, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, pp. 676-677.

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Il revirement interpretativo delle Sezioni unite51 arriva in

occasione di un ricorso in cui il giudice remittente poneva in discussione non solo l'incompatibilità tra il patteggiamento e l'istituto ex art. 168, comma 1, n. 1, c.p., ma le premesse stesse di quell'asserto: non ha natura di condanna la sentenza ex art. 444 c.p.p. Si gravava in tal modo la Corte dell'arduo compito di liberare il rito-emblema della giustizia "negoziata" dall'ambiguità che lo affliggeva sin dalla nascita, per condurlo all'interno del sistema costituzionale.

Esse giungono sì ad affermare che la sentenza di patteggiamento è titolo idoneo per la revoca, ma non battendo la via dell’ammissione di quel che hanno pervicacemente negato, in una giurisprudenza ultradecennale, e cioè che la natura della sentenza di patteggiamento è quella di una sentenza di condanna, ma dando rilievo all’ambito di operatività della regola dell’equiparazione, «che ben può avere forza espansiva delle previsioni di regola e

non di eccezione»52. Ogni effetto penale della sentenza di

condanna, che non sia espressamente escluso alla legge, segue all'applicazione della pena concordata.

Concludono poi per una ricostruzione unitaria del rito: si legge infatti che «le varianti disegnate dalla l. 134/2003 non sono decisive per inferirne una sorta di asimmetria del rito, non incidendo né sulla struttura né sulla funzione della pena patteggiata, costituendo sola una normativa complementare, che assegnerebbe al modello tradizionale peculiarità tali da renderlo

51 SS.UU., 29 novembre 2005, n. 17781 – Diop Oumar, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007,

358.

52 G. SANTALUCIA, “Patteggiamento e revoca di diritto della sospensione condizionale: le Sezioni Unite mutano orientamento”, in Cass. pen., 9, 2006, p. 2782.

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più appetibile. Pur non assegnando all’innalzamento della pena una valenza esclusivamente quantitativa, la struttura negoziale ed i modelli di controllo sono identici sia per l’editio minor sia per

l’editio maior»53. Così la Corte preferisce porre l’attenzione sui

tratti comuni anziché sui profili di differenziazione,

focalizzandosi su uno degli aspetti più controversi della novella del 2003: l’assoggettabilità a revisione della sentenza di patteggiamento.

Nella dottrina vi è chi ha salutato favorevolmente la soluzione accolta dalle Sezioni Unite, apprezzando in particolare la necessità di interpretare in senso rigorosamente letterale la

disposizione dll’art.445 comm1 1-bis c.p.p.54 Sembrerebbe così

superata la vetusta opinione secondo cui la sentenza di applicazione della pena si attesterebbe sull’accordo delle parti, anche avendo riguardo alle rilevanti attribuzioni giurisdizionali che riguardano essenzialmente la qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e comparazione delle circostanze prospettate, la congruità della pena e, soprattutto l’eventuale sussistenza delle

cause di non punibilità ex art.129 c.p.p.55 Alla luce di una copiosa

giurisprudenza costituzionale, si può affermare che: «il giudice – pur essendo condizionato dall’accordo intervenuto tra imputato e pubblico ministero e quindi in questo senso circoscritto e

53 SS.UU., 29 novembre 2005, n. 17781 – Diop Oumar, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007,

360.

54 Si tratta di un’inversione di rotta che segna indubbiamente una significativa svolta

sotto il profilo della determinazione degli effetti della sentenza di patteggiamento GIALUZ, La virata delle Sezioni unite in tema di patteggiamento e revoca della

sospensione condizionale: verso l'abbandono dell'orientamento anticognitivo?, in

Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, p. 372.

55 Cfr. F. CALLARI, Patteggiamento e canone decisorio dell’”oltre ogni ragionevole dubbio” i termini di un binomio “impossibile”, in www.penalecontemporaneo.it, 2012, p. 1.

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indirizzato – è chiamato […] a svolgere valutazioni fondate direttamente sulle risultanze in atti, aventi natura di giudizio non di mera legittimità ma anche di merito, concernenti tanto la prospettazione del caso contenuta nella richiesta di parte, quanto

la responsabilità dell’imputato, quanto la pena»56.

In particolare l’accordo viene pur sempre «sottoposto al vaglio del giudice dotato di autonomi e consistenti poteri di controllo, e una volta escluso che l’imputato debba essere prosciolto a norma dell’art. 129 è tenuto a controllare la qualificazione giuridica del fatto e l’applicazione e comparazione delle circostanze essendo tale qualificazione sottratta dalla disponibilità delle parti, di talché qualora il giudice rilevi la non correttezza di quest’ultime non può fare altro che respingere la richiesta di applicazione della pena e

ritenere tamquam non esset l’accordo»57.

Le Sezioni Unite inaugurano così, dopo l’intervento del legislatore, una nuova stagione interpretativa degli schemi di giustizia consensuale che sembra abbandonare la “pregiudiziale negoziale”, sebbene lasci aperte alcune problematiche, quale quella dell’adattamento della revisione ad un regime che, almeno in sede cognitoria, mantiene quale regola di giudizio, ai fini del

proscioglimento, la disposizione dell’art. 129 c.p.p.”58. Stante,

infatti, la permanenza lessicale della mera equiparazione della sentenza patteggiata ad una sentenza di condanna ordinaria, ad opera della legge del 2003, che pure ha sicuramente ridotto il gap con la pronuncia emessa a seguito di giudizio ordinario, non è dato

56 Corte Cost., sentenza 13-20 maggio 1996, n. 155, in www.giurcost.org. 57 Ibidem.

58 Di questo avviso, V. BONINI, La riscoperta del modello cognitivo e la sua prevalenza sulla negozialità processuale: un significativo superamento di consolidati orientamenti della Corte di Cassazione, in Indice Penale, 2007, pp.183-185.

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concludere sulla questione se, nel procedimento in esame, si stagli la figura di un giudice “ratificatore” o “verificatore”, indice della volontà del legislatore di non prendere posizione in ordine alla sussistenza o meno di un accertamento della responsabilità

penale59. Secondo la chiave di lettura promossa dalle Sezioni

Unite, la decisione pattizia sarebbe così destinata ad integrare tutte le fattispecie di diritto sostanziale che contemplino la condanna tra i propri elementi costitutivi. Questo, perlomeno, è quanto è dato concludere se si guarda anche all’ultimo trend giurisprudenziale, che ben si incanala lungo il percorso tracciato

dalla sentenza del 2005. In una recente pronuncia60, emblematica

in questo senso, i giudici di legittimità ribadiscono «la necessità di un ritorno al regime dell’equiparazione della sentenza di patteggiamento a quella di condanna in termini di assoluto rigore ermeneutico», il che «non implica un processo di vera e propria identificazione tra i due tipi di pronuncia, ma sta univocamente a significare che il regime di equiparazione non consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano categoricamente escluse». Così, la stretta interpretazione della clausola di equivalenza ex art. 445, comma 1-bis, c.p.p. funge da premessa argomentativa alla conclusione per cui «nessuna norma prevede che la sentenza pronunciata all’esito del patteggiamento non debba essere considerata il presupposto della contravvenzione di cui all’art. 707

c.p.»61. La sentenza negoziale risulta, in ragione di tale

59 Così G. CECANESE, Ancora dubbi irrisolti in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, cit., p. 19.

60 Cfr. Cass. Pen., sez. II, 19 Dicembre 2012, n. 49281, in Cass. Pen., 2013, p. 4523. 61 “Chiunque, essendo stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o

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argomentazione, idonea a comparire tra gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice. Ebbene, al pari di quanto accade con riguardo all’art. 707 c.p., in ciascuna delle altre ipotesi

classificabili alla stregua di “effetti penali della condanna”62, la

linea interpretativa indicata dai giudici di legittimità farà sì che la sentenza di patteggiamento determini una serie di conseguenze sanzionatorie ulteriori rispetto a quelle finora desunte dal dettato codicistico, tutte ovviamente sganciate dal giudizio di colpevolezza. Tant’è che allo stesso risultato si è giunti – sempre in tema di revoca dei benefici – per la revoca dell’indulto, o per la liberazione anticipata (art. 54, comma 3, l. 26 luglio 1975, n. 354)63.

La strada intrapresa dalla Cassazione – è stato giustamente

osservato64 – non era obbligata dinanzi alla scelta compiuta dal

legislatore, il quale ben potendo espressamente recidere il legame tra la sentenza di patteggiamento e l’operatività di tutti o di taluni effetti penali discendente dalla sentenza di condanna, ha lasciato che sia ancora la clausola ex art. 445, comma 1-bis ad illuminare

mendicità o essendo ammonito o sottoposto a una misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta, è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti a aprire o a sforzare l’attuale destinazione, è punito con l’arresto da sei mesi a due anni», art. 707 c.p.

62 Si rimanda alle considerazioni svolte in nota 39.

63 Cfr. Sez. I, 20 ottobre 2006, n. 37931, in Cass. pen, 2007, p. 3002, con nota di

GIALUZ, La sentenza di patteggiamento concorre a determinare la revoca della

liberazione anticipata. Proseguendo sul medesimo solco si deve coerentemente

ammettere che la medesima pronuncia valga a determinare la revoca della sostituzione della pena detentiva ex art. 72, comma 1, l. n. 689 del 1981 (così Sez. I, 17 gennaio 1997, n. 270, ivi, 1998, p. 204), o della sospensione dell'esecuzione della pena disposta a favore del tossicodipendente ex art. 93, comma 2, d.p.r. n. 309 del 1990 (contra Sez. I, 12 gennaio 2000, n. 230, cit., p. 2800): entrambe le fattispecie, nel disciplinare altrettanti effetti penali della condanna, elevano la decisione del giudice ad elemento costitutivo.

64 Di questo avviso A. SANNA, Effetti penali della sentenza a pena concordata: il peso insostenibile di una sentenza senza giudizio di colpevolezza, in Cass pen., 12, 2013, p.

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l’esegesi in materia. Il risultato che balza agli occhi è quello di determinare uno svilimento della funzione deflativa del rito, visto che l’accresciuto peso sanzionatorio della sentenza a pena concordata grava sull’imputato.

CAPITOLO II: FORME E CONTENUTI DELLA

GIUSTIZIA NEGOZIATA

2.1. Il differente grado di verità insito nella

sentenza di patteggiamento

Il movimento interpretativo che ruota intorno al patteggiamento appare ispirato dall'esigenza di fondare e giustificare una sorta di "unità nella diversità" tra meccanismi patteggiati ed ordinari di accertamento della responsabilità e determinazione della sanzione.

I continui sforzi della giurisprudenza e della dottrina in quest’opera di apparentamento si giustificano nell’esigenza di rendere il procedimento speciale rispettoso dell’ideologia posta alla base del nostro ordinamento che presuppone un processo il cui scopo è la verifica dei fatti e non la mera risoluzione dei conflitti tra le parti65.

65 In questi termini A. CIAVOLA in Il contributo della giustizia consensuale e riparativa all’efficienza dei modelli di giurisdizione, Giappichelli, Torino, 2010, p. 119, che

precisa come tale valore non sia fine a sé stesso, ma, posto a presidio dei diritti di libertà, assurge esso stesso a valore di libertà.

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È opportuno confrontarsi su questo tema quale che sia il significato rivestito dall’avvento e dal proliferare della giustizia

negoziata66.

Nonostante la funzione cognitiva non trovi un espresso riconoscimento costituzionale, essa costituisce, potremmo dire, la tramatura su cui è intessuto l’insieme di principi che connotano la

giurisdizione67. Una famosa sentenza costituzionale del 1992

affermava in proposito come il «fine primario ed ineludibile del

processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità»68.

È bene svolgere delle premesse al fine di diradare il campo da possibili concezioni fuorvianti in materia di ricerca della verità, in particolare in ambito giudiziario.

Qualunque risultato dell’indagine fattuale è dipendente dal contesto in cui quest’ultima si svolge, dalla metodologia seguita e dalle finalità prefissate. Sarebbe erroneo partire da una

presupposta conoscenza assoluta ed incontrovertibile69. Non è

questa la sede per affrontare e smentire le tesi di coloro che sostengono la possibilità di ottenere una verità assoluta, piuttosto, preme qui evidenziare che, una volta accolto in ambito giudiziario il concetto di verità relativa, cioè di una verità corrispondente alla proposizione fattuale di cui si tratta, in relazione alla quantità e

66 Senza un costante rapporto col tema verità/processo, non saremmo quello che

siamo e neppure la nostra materia avrebbe dignità, secondo L. MARAFIOTI, Giustizia negoziata e verità processuale selettiva, Cass. Pen., 6, 2013, p. 2497 ss.

67 Cfr. CIAVOLA, in Il contributo della giustizia consensuale e riparativa, cit., p. 74. 68 Corte cost. 3 giugno 1992, n. 255, in Giur. cost., 1992, p. 1967.

69 Sul tema si veda G. UBERTIS La ricerca della verità giudiziale, in ID. Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione di sistema, Torino, 1993, pp. 49-50.

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