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LA RIFORMA DELLA TRASPARENZA AMMINISTRATIVA TRA ASPETTATIVE E CONCRETE IMPLICAZIONI. UNA RIFLESSIONE CRITICA. Analisi del D.Lgs. 97/2016 e sua applicazione in due comuni toscani.

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Indice

INTRODUZIONE... 5

1. LA RIFORMA DEL DECRETO TRASPARENZA

DA PARTE DEL D.LGS. 97/2016... 8

1.1 DAL DIRITTO DI ACCESSO AI DOCUMENTI

AMMINISTRATIVI ALL'ACCESSIBILITA' TOTALE... 8

1.2 IL PRINCIPALE STRUMENTO PER LA

TRASPARENZA: LA PUBBLICITA'... 11

1.3 L'AMBITO SOGGETTIVO DI

APPLICAZIONE... 17

1.4 IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA COME

LIMITE ALLA TRASPARENZA... 25

1.5 DALL'ACCESSO CIVICO DEL D.LGS. 97/2016 AL FOIA ITALIANO... 30

1.6 IL SITO WEB “SOLDI PUBBLICI” E LA

PUBBLICAZIONE DELLE BANCHE DATI... 66

1.7 IL PROGRAMMA TRIENNALE PER LA

TRASPARENZA E L'INTEGRITA' E LA SUA FUTURA ABOLIZIONE... 69

(2)

1.8 IL RESPONSABILE PER LA

TRASPARENZA... 73

1.9 I COMPITI DI VERIFICA E LE

SANZIONI... 77

1.10 L'ATTUAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI

PUBBLICITA' E TRASPARENZA... 87

2. LA TRASPARENZA AMMINISTRATIVA ALLA

LUCE DELLA LEGGE ANTICORRUZIONE... 89

2.1 LA DEFINIZIONE DI CORRUZIONE ED I

PRINCIPALI INTERVENTI DELLA LEGGE 190/2012... 89

2.2 IL RUOLO DELL'AUTORITA' NAZIONALE

ANTICORRUZIONE... 92

2.3 IL RESPONSABILE DELLA PREVENZIONE

DELLA CORRUZIONE E DELLA TRASPARENZA ED IL PIANO TRIENNALE DI PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE... 95

2.4 IL PIANO NAZIONALE ANTICORRUZIONE: LA

DELIBERA ANAC NUMERO 831 DEL 3 AGOSTO 2016... 105

(3)

LEGGE ANTICORRUZIONE... 109

2.6 GLI ADEMPIMENTI DA PARTE DEGLI ENTI

LOCALI... 144

3. CONFRONTO TRA IL PROGRAMMA

TRIENNALE PER LA TRASPARENZA E

L'INTEGRITA' DI UN COMUNE CON PIU' DI

150.000 ABITANTI E DI UNO CON MENO DI 30.000

ABITANTI... 121

3.1 LA CONCRETA APPLICAZIONE DELLA

NORMATIVA DELLA TRASPARENZA IN DUE COMUNI TOSCANI... 121

3.2 ANALISI DEL PROGRAMMA TRIENNALE PER

LA TRASPARENZA E L'INTEGRITA' 2016-2018 DEL COMUNE DI LIVORNO... 124

3.3 ANALISI DEL PROGRAMMA TRIENNALE PER

LA TRASPARENZA E L'INTEGRITA' 2016-2018 DEL COMUNE DI PONTEDERA... 144

3.4 UNA RIFLESSIONE CRITICA SORTA DAL

CONFRONTO DEI DUE PROGRAMMI TRIENNALI PER LA TRASPARENZA E

(4)

CONCLUSIONE... 162

(5)

INTRODUZIONE

La disciplina sulla trasparenza amministrativa indubbiamente assume un grande valore nel nostro ordinamento.

Infatti, secondo l'articolo 1 del decreto legislativo 33/2013, concorre ad attuare il principio democratico, i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse, è condizione di garanzia dei diritti civili, politici e sociali ed integra il diritto ad una buona amministrazione. Inoltre, le disposizioni del suddetto decreto contribuiscono all'individuazione del livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai fini di trasparenza, prevenzione e contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione, secondo l'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione.

Il presente elaborato è nato dall'idea di analizzare una materia ampia e complessa, più volte oggetto di interventi innovativi ed in continua evoluzione, che riveste un importante ruolo nella lotta alla

corruzione.

La trasparenza infatti, serve non solo ad avvicinare il cittadino alle istituzioni che lo governano, rendendolo partecipe delle attività messe in atto, ma anche a concorrere al controllo sull'andamento delle buone pratiche amministrative, evitando i rischi corruttivi che spesso colpiscono le pubbliche amministrazioni.

Ecco perché il legislatore ha deciso di occuparsi di tale materia in modo specifico con l'introduzione del decreto legislativo 33/2013, prendendo molto sul serio la delega contenuta nella legge

anticorruzione (legge 190/2012). Questa, infatti, chiedeva il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni,

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soprattutto ridefinendo il concetto stesso di trasparenza, verso l'accessibilità totale alle attività degli enti.

In effetti, il legislatore del 2013 è andato ben oltre tali indicazioni, introducendo oneri nuovi e diversi e aumentando, di conseguenza, i già numerosi adempimenti richiesti dalla caotica e frastagliata normativa vigente fino a quel momento.

Nel 2015, l'approvazione dell'articolo 7 della legge delega 124/2015 (c.d. decreto Madia) ha aperto la strada ad una riforma, da molti elogiata e presentata come epocale, il cui compito era di definire in maniera ancora più puntuale gli adempimenti in materia di

trasparenza, mirando però alla semplificazione e razionalizzazione dei predetti oneri.

Detta delega è stata attuata con il decreto legislativo 97/2016, entrato in vigore il 23 giugno 2016.

L'obiettivo principale della presente tesi è quello di riscontrare quanto tale riforma sia stata realmente rivoluzionaria, verificando se i risultati ottenuti abbiano soddisfatto le aspettative.

Per perseguire questo fine, ho deciso di rivolgere la mia attenzione in particolare alla concreta applicazione della materia da parte degli enti locali: infatti, queste sono le istituzioni più vicine ai cittadini, nonché gli enti a cui la riforma è rivolta, nello specifico, per arginare le difficoltà di attuazione che si sono riscontrate negli anni precedenti. Il primo capitolo è rivolto alla analisi dei principali interventi riformatori sul decreto legislativo 33/2013, da parte del decreto legislativo 97/2016, evidenziandone aspetti positivi e criticità da me riscontrate.

Proseguendo in tale direzione, nel secondo capitolo si analizzano le novità introdotte dallo stesso decreto in materia di prevenzione della corruzione e dell'illegalità, mentre, a conclusione del mio lavoro, nel terzo capitolo, ho esaminato i Programmi triennali per la trasparenza

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e l'integrità 2016-2018 di due comuni toscani: il Comune di Livorno, con una popolazione di oltre 150.000 abitanti, ed il più piccolo Comune di Pontedera, con meno di 30.000 abitanti, sottolineandone le differenze dovute necessariamente alla diversa dimensione ed alla corrispondente disponibilità di risorse organizzative e strutturali.

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1.

LA RIFORMA DEL DECRETO

TRASPARENZA DA PARTE DEL D. LGS.

97/2016

1.1 DAL DIRITTO DI ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI ALL'ACCESSIBILITA' TOTALE Originariamente la legge 7 agosto 1990 n. 241 recante “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” riconosceva, all'articolo 22, comma 1, il diritto di accesso ai documenti amministrativi « al fine di assicurare

la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale (...) a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti ». In questo modo il

diritto di accesso era riferibile esclusivamente al procedimento e quindi all'attività amministrativa di interesse di un singolo individuo. Tutto cambiò con l'introduzione del decreto legislativo 27 ottobre 2009 n.150 (cd. Decreto Brunetta), dal titolo “Attuazione della legge 4 marzo 2009 n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”. Da questo momento, la trasparenza amministrativa è stata intesa come un servizio agli utenti, sintomo di una maggiore attenzione all'interesse della collettività, che in questo modo viene resa più partecipe e consapevole delle decisioni assunte dalle amministrazioni, e, allo stesso tempo, ha maggiore possibilità di vigilare sull'operato delle stesse, in un'ottica di accessibilità totale

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agli atti.1

Successivamente, con l'attuazione della delega contenuta nella normativa anticorruzione (legge 6 novembre 2012, n. 190), il decreto legislativo 33/2013, all'articolo 1, comma 1, ha qualificato la

trasparenza « come accessibilità totale delle informazioni

concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche

amministrazioni allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche ». Questa norma ha ripreso la definizione contenuta

nell'articolo 11, comma 1, del d. lgs. 150/2009, e di fatto è ad esso sovrapponibile.

Trattasi di un articolo abbastanza vago nei contenuti, nel quale però viene definito un concetto fondamentale, che poi coincide con lo scopo finale che il legislatore vuole raggiungere, ossia “favorire forme diffuse di controllo”. Questo fine è espressione del principio fondamentale di sovranità popolare che si attua con l'ampliamento della partecipazione democratica: l'esigenza che i cittadini non si limitino alla selezione dei propri rappresentanti nei vari livelli di governo, ma abbiano a disposizione effettivi strumenti di

partecipazione. Il controllo “diffuso” permette infatti ai cittadini di chiedere in qualsiasi momento la ragione della decisione adottata, e ciò dovrebbe, dall'altra parte, disincentivare l'adozione di

provvedimenti dannosi, o apertamente vantaggiosi solo per alcuni a svantaggio di altri.

Con la recente approvazione del decreto legislativo 97/2016, “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo 1 Avv. Prof. E. Belisario, #decretotrasparenza Cosa cambia per le PA, in

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della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell'articolo 7 della legge Madia, 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, entrato in vigore il 23 giugno 2016, il primo comma dell'articolo 1 è stato modificato ed ampliato dall'articolo 2, rendendo ancora più esplicita la spinta verso una maggiore partecipazione democratica dei cittadini all'attività delle pubbliche amministrazioni. Infatti le parole « (...) delle informazioni concernenti

l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di (...) », sono sostituite dalle seguenti: « (...) dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa e (...) ». Come si può notare,

oltre allo scopo di “favorire forme diffuse di controllo”, si

aggiungono in maniera esplicita le altre previsioni di promozione della partecipazione democratica e di tutela dei diritti, tra cui ovviamente si inserisce la trasparenza stessa, a dimostrazione della scelta del legislatore di avvicinare sempre più il cittadino alle amministrazioni che lo governano.

Questo concetto, infatti, è ribadito nel comma 2 dello stesso articolo 1 del d. lgs. 33/2013: la trasparenza « concorre ad attuare il

principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo delle risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione », con ciò sottolineando lo scopo della accessibilità

totale non solo come consapevolezza dei cittadini, ma anche come forma di lotta alla corruzione.

La trasparenza costituisce un vero e proprio « diritto ad una buona

amministrazione ».

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trasparenza, il comma 3 dell'articolo 1 espressamente stabilisce che « Le disposizioni del presente decreto (…) integrano l'individuazione

del livello essenziale delle prestazioni (…) a norma dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione ». Ciò a significare

che anche il diritto alla trasparenza rientra tra quelle buone pratiche amministrative che lo Stato deve garantire costituzionalmente ad un livello adeguato e più o meno uniforme su tutto il territorio

nazionale.

1.2 IL PRINCIPALE STRUMENTO PER LA TRASPARENZA: LA PUBBLICITA'

Affinché il principio di trasparenza sia effettivamente realizzato dalle pubbliche amministrazioni, il decreto legislativo 33/2013, articolo 2, ha individuato l'elemento principale funzionale al raggiungimento di tale obiettivo nella pubblicità, specificando al primo comma che il compito di detto decreto è proprio definire quali siano « gli obblighi

di trasparenza caratterizzanti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni e le modalità per la sua realizzazione ».

Questa disposizione è rimasta parzialmente invariata anche a seguito dell'approvazione del decreto legislativo 97/2016, che però non parla più di « disposizioni del presente decreto » che « individuano gli

obblighi di trasparenza », ma della previsione che la disciplina di

oggi riguarda « la libertà di accesso di chiunque ai dati e ai

documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni (…) garantita, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti, tramite l'accesso civico e tramite la

pubblicazione di documenti, informazioni e dati concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni e le

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modalità per la loro realizzazione ». Il legislatore perciò, a mio

avviso, ha sottolineato la grande importanza che questo nuovo decreto attribuisce all'istituto dell'accesso civico e all'estensione massima del diritto di trasparenza come libertà di qualunque cittadino.

Al secondo comma viene enunciato poi il significato di

pubblicazione, da intendersi come l'inserimento « nei siti istituzionali

delle pubbliche amministrazioni dei documenti, delle informazioni e dati », e, nell'ottica di una accessibilità totale, si ribadisce « il diritto di chiunque di accedere ai siti direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed identificazione ». Quindi l'accesso a dati

pubblici è libero, vale a dire non condizionato all'utilizzo di chiavi di riconoscimento (user id e password).

Inoltre, i dati pubblici devono essere conoscibili, fruibili gratuitamente ed utilizzabili, anche più volte, da chiunque. Tali dati, oggi spesso chiamati “open data”, vengono individuati dall'articolo 3, in modo piuttosto vago, come « Tutti i documenti, le

informazioni e i dati oggetto di accesso civico, ivi compresi quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente ». Il riferimento è alla legge 241/1990 e alle norme speciali, e

questo diritto è subordinato al solo obbligo di citare la fonte e di rispettarne l'integrità, secondo l'articolo 7 del d. lgs. 33/2013, rimasto invariato dopo l'approvazione del recente decreto 97/2016. La norma contiene però un'ulteriore puntualizzazione, ossia che queste

informazioni, oggetto di pubblicazione obbligatoria, devono essere redatte in « formato di tipo aperto ai sensi dell'articolo 68 del

Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 ». Secondo quanto riportato nella seguente

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pubblicazione programmi informatici con formato aperto, ovvero pubblico e quindi fruibile a basso costo, o addirittura gratuitamente, previa una valutazione comparativa economica e tecnica.

L'articolo 6 del d. lgs 33/2013, anch'esso non modificato dalla revisione legislativa del 2016, prevede alcuni oneri che le pubbliche amministrazioni sono tenute a rispettare per quanto concerne la qualità delle informazioni da pubblicare. Si parla di dover assicurare: - « l'integrità » delle informazioni: il legislatore, però, non indica quale sia il parametro per misurare tale integrità. Una soluzione a questa omissione potrebbe essere quella di stabilire in linea generale la regola per cui tutti gli atti sono pubblici e trasformare in eccezione l'indicazione dei dati da non pubblicare.

- « il costante aggiornamento » : anche in questo caso il legislatore non ha spiegato il concetto. Se si interpretasse come adempimento riguardante tutti i provvedimenti che vengono adottati dalle amministrazioni nel proprio lavoro quotidiano, a parer mio

comporterebbe un'attività molto complessa e dispendiosa in termini di costi di tempo, denaro ed energia per l'impiego di strumenti e personale dedito all'aggiornamento dei siti istituzionali. - « la completezza » e « la tempestività » sono requisiti invece di facile comprensione, che indicano che i documenti devono essere pubblicati tempestivamente nel loro testo integrale, con esclusione ovviamente dei dati sensibili per la tutela della riservatezza.

- « la semplicità di consultazione » e « la facile accessibilità » richiedono che i siti istituzionali vengano strutturati in modo semplice, così che chiunque sia in grado di accedervi in maniera intuitiva. A ben pensare, in questo senso, è molto complicato dettare regole generali uguali per tutte le amministrazioni, quindi si avranno diversità fra l'una e l'altra.

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- « la comprensibilità »: questo onere qualitativo è molto importante e delicato, perché impone alle amministrazioni pubbliche di

utilizzare, nella redazione dei propri provvedimenti, un linguaggio un po' meno burocratico e un po' più vicino ai cittadini, alla lingua parlata, non essendo tutti in grado di percepire il significato di termini tecnici. Dall'altra parte va però considerata la necessità di tecnicismi indotti dalle norme stesse, una necessità che, a parere di chi scrive, crea una contraddizione tra lo scopo che si vuole ottenere e la natura complessa delle disposizioni. Il legislatore ha però cercato di arginare questo problema già nel 2013, prevedendo all'articolo 23, comma 2, del decreto, che tutti i provvedimenti amministrativi siano accompagnati da una “scheda sintetica” che li riassuma in poche e semplici parole. Questa disposizione (secondo comma art 23) è stata abrogata con il d. lgs 97/2016, ma, al contempo, il legislatore, introducendo il comma 1-bis all'articolo 3 del d. lgs. 33/2013, ha stabilito che « L'autorità nazionale anticorruzione (...) all'esclusivo

fine di ridurre gli oneri (…) può identificare i dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della disciplina vigente per i quali la pubblicazione in forma integrale è sostituita con quella di informazioni riassuntive » .

Tali prescrizioni formali segnalano, purtroppo, un approccio del legislatore ancora eccessivamente burocratico e poco innovativo, essendo questi oneri da un lato già insiti oggettivamente nella pubblicità, quindi specificazioni inutili, dall'altro eccessivamente dettagliati, finendo per richiedere un'attività per le pubbliche

amministrazioni davvero impegnativa, e, tenendo conto del fatto che questa riforma è stata “a costo zero”, ovvero senza finanziamenti a carico del bilancio dello Stato, gli adempimenti sono tutti posti in capo alle singole amministrazioni, con costi per esse spesso troppo elevati.

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Per quanto concerne i termini di durata delle pubblicazioni dei documenti delle pubbliche amministrazioni, l'articolo 8 del decreto 33/2013 precisa che siano « pubblicati tempestivamente sul sito

istituzionale dell'amministrazione », ma soprattutto, a differenza

della precedente disciplina che aveva creato molte incertezze, ne fissa la durata « per un periodo di 5 anni decorrenti dal 1° gennaio

dell'anno successivo a quello da cui decorre l'obbligo di

pubblicazione, e comunque fino a che gli atti pubblicati producono i loro effetti ». Il legislatore col decreto 97/2016 ha anche previsto, con

l'introduzione del comma 3-bis, che l'Autorità nazionale

anticorruzione, valutando caso per caso le differenti esigenze, può optare per una durata della pubblicazione inferiore ai 5 anni. Infine, all'articolo 9, il legislatore indica la regola standardizzata per cui le pubblicazioni, per essere facilmente reperibili sui siti

istituzionali di qualsiasi amministrazione, si devono trovare nella apposita sezione denominata “Amministrazione trasparente” della homepage dei siti stessi. Il decreto legislativo 97/2016 precisa che, per evitare che uno stesso documento venga pubblicato più volte in diverse sezioni del medesimo sito, è sufficiente l'esistenza di un collegamento ipertestuale. L'articolo 9 pone però un divieto alle amministrazioni: non possono limitare con filtri o altre tecniche informatiche la ricerca, da parte dei cittadini, dei dati pubblicati, attraverso i comuni motori di ricerca web. Il d. lgs. 33/2013 stabiliva anche che alla scadenza del termine dell'articolo 8 le stesse

pubblicazioni non dovevano essere rimosse, ma trasferite in altre sezioni di archiviazione dello stesso sito istituzionale. Questa norma è stata abrogata nel 2016, sicuramente per favorire una diminuzione degli oneri.

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Sin dalla sua entrata in vigore, il decreto legislativo 33/2013 aveva attirato su di sé numerose critiche proprio a proposito degli

adempimenti pubblicitari imposti dal legislatore, per la loro

complessità di attuazione. Non veniva infatti fatta alcuna distinzione in base alle dimensioni delle pubbliche amministrazioni, alle risorse a loro disposizione, ai problemi più o meno accentuati di corruzione.2

Le norme erano generali e valevano per tutti gli enti, centrali e territoriali, pur essendo ovvio che per una piccola pubblica

amministrazione con a disposizione pochi dipendenti e scarse risorse finanziarie fosse molto pesante e complessa l'attuazione di tutti questi oneri pubblicitari. Per di più non essendo previsti nuovi

finanziamenti da parte dello Stato, e considerando anzi che si va sempre più nella direzione di una riduzione degli stessi con tagli indiscriminati.

Gran parte di questi problemi, come si è visto, sono stati presi in considerazione dal legislatore, inizialmente con la legge delega 124/2015, articolo 7 “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza”, e successivamente messe in atto nel decreto legislativo del 2016, sia con riferimento alla possibilità di pubblicare solamente riassunti di determinati atti (articolo 3, comma 1-bis), dato che una maggiore trasparenza non si ottiene realmente con una maggiore quantità di dati, che anzi riduce i controlli da parte dei cittadini che possono incontrare difficoltà nel reperire le informazioni, sia nella

determinazione a carico dell'Autorità nazionale anticorruzione di pubblicazioni con durata inferiore al termine generico di 5 anni (articolo 8, comma 3-bis). Oltre a ciò, all'articolo 3 del d. lgs. 33/2013, è stato aggiunto il comma 3-ter, in cui si prevedono per le 2 Merloni, L'applicazione della legislazione anticorruzione nelle Regioni e negli

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pubblicazioni obbligatorie « modalità semplificate per i comuni con

popolazione inferiore a 15.000 abitanti », evidenziando come il

legislatore sia stato finalmente più attento alle diverse esigenze che indubbiamente esistono sul territorio nazionale.

1.3 L'AMBITO SOGGETTIVO DI APPLICAZIONE Prima della riforma del 2016, l'ambito soggettivo di applicazione della normativa sulla trasparenza era disciplinato dall'articolo 11 del decreto legislativo 33/2013, che ricomprendeva innanzitutto tutte le amministrazioni pubbliche, definite tali dall'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165: « tutte le amministrazioni

dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le

Comunità montane e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario

nazionale. »

La norma parlava poi, in termini ampi, delle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni e delle società da esse controllate ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile, ma limitando l'applicazione della disciplina sulla trasparenza alla « attività di pubblico interesse

disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione Europea » secondo

quanto stabilito dall'articolo 1, commi da 15 a 33, della legge anticorruzione, legge 190/2012 (art. 11, comma 2, d.lgs. 33/2013). Questa normativa apriva la strada a dubbi e contraddizioni: le regole

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sulla trasparenza amministrativa venivano estese solo in parte a queste società partecipate, cioè limitatamente all'esercizio delle attività di pubblico interesse, mai peraltro definite con chiarezza dal legislatore, e, inoltre, veniva ad esse applicata soltanto la normativa sulla trasparenza, non altre norme anticorruzione.

Infine, l'articolo 11, comma 3, lasciava alle varie Autorità

indipendenti l'attuazione della normativa sulla trasparenza secondo un regime differenziato, proprio dei rispettivi ordinamenti.

Una prima modifica era stata apportata dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, di conversione del decreto legge n. 90 del 2014, che aveva previsto che le Autorità indipendenti fossero sottoposte direttamente alla disciplina sulla trasparenza, senza deroga ad un regime

differenziato per i vari ordinamenti, assimilandole dunque alle altre pubbliche amministrazioni.3

Il secondo comma dell'articolo 11 era stato modificato estendendo espressamente il regime di trasparenza « a) agli enti di diritto

pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica

amministrazione che conferisce l'incarico, ovvero i cui amministratori siano da questa nominati; b) limitatamente

all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea, agli enti di diritto privato in controllo pubblico, ossia alle società e agli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile da parte di pubbliche amministrazioni, oppure agli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in 3 C. Raiola, La trasparenza nelle Autorità indipendenti, in Giornale di diritto

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assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi ».

Infine, il terzo comma sostituiva alle autorità indipendenti le società partecipate in misura non maggioritaria dalle pubbliche

amministrazioni, per l'applicazione della disciplina limitatamente alle disposizioni dell'articolo 1, commi da 15 a 33, della legge

anticorruzione.

Il legislatore aveva fatto propri i dubbi interpretativi in merito al perimetro dei soggetti vincolati dal regime di trasparenza disegnato dal decreto legislativo 33/2013, prevedendo nella delega della lettera

a) del comma 1 dell'articolo 7 della legge 124/2015 la « ridefinizione e precisazione dell'ambito soggettivo di applicazione degli obblighi e delle misure in materia di trasparenza ». D'altronde, il quadro

normativo in materia era in continua evoluzione ed espansione e risultava sempre più complesso, determinando nei soggetti coinvolti incertezze e difficoltà.4

Oltre a ciò, per quanto riguarda l'applicazione della disciplina sulla trasparenza alle società partecipate, l'Autorità Nazionale

Anticorruzione, all'interno delle sue Linee guida del giugno 2015, aveva ritenuto che spettasse alle amministrazioni pubbliche che vigilano, partecipano e controllano gli enti di diritto privato e gli enti pubblici economici, promuovere l'applicazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza, in ragione dei poteri che esercitano nei confronti di detti enti. L'ANAC aveva evidenziato che la differenza esistente tra società in controllo pubblico e società a partecipazione pubblica non di controllo, era dovuta proprio al diverso grado di coinvolgimento delle pubbliche 4 P. Canaparo, L'anticorruzione e la trasparenza: le questioni aperte e la delega

sulla riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni, in Federalismi.it, 13

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amministrazioni all'interno di queste due tipologie di società: dato che l'influenza che l'amministrazione esercita sulle società controllate è più penetrante rispetto a quella che deriva dalla mera

partecipazione, il rischio che insorgano fenomeni corruttivi

all'interno delle prime è maggiore, ed essendo l'idea di fondo della normativa quella di prevenire tali rischi, sono state assimilate alle stesse amministrazioni nell'applicazione della disciplina. Così l'ANAC aveva anche chiarito la definizione di “controllo”, facendo rientrare tra le società controllate direttamente o indirettamente da amministrazioni pubbliche quelle individuate dall'articolo 2359 c.c., comma 1, punti 1) e 2), ossia in funzione della disponibilità della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria, o, di voti sufficienti per esercitarvi un'influenza dominante. Per gli enti di diritto privato partecipati che non erano tra i destinatari diretti delle disposizioni del decreto legislativo 33/2013, l'Autorità aveva

espresso l'avviso che le amministrazioni partecipanti promuovessero, con protocolli di legalità, l'applicazione da parte di tali enti degli obblighi di trasparenza imposti agli altri tipi societari.

Nonostante ciò, l'Autorità Nazionale Anticorruzione, ritenendo il quadro normativo comunque complesso e lacunoso, aveva auspicato un intervento legislativo in grado di chiarire in modo inequivocabile l'ambito soggettivo di applicazione di tutta la normativa in materia di trasparenza, sempre tenendo conto delle differenze tra soggetti pubblici e privati interessati.5

Il decreto legislativo 97/2016 ha abrogato l'articolo 11 e ha introdotto un nuovo articolo 2-bis, sempre intitolato “Ambito soggettivo di applicazione”.

5 ANAC, Linee guida per l'attuazione della normativa in materia di prevenzione

della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti

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Per prima cosa, il primo comma del nuovo articolo ricalca

esattamente il suo precedessore, con un'unica novità, che consiste nello stabilire che per “pubbliche amministrazioni” si debbano intendere anche le autorità portuali. Il Consiglio di Stato nel parere n. 515/2016 ha rilevato come, tra i soggetti tenuti al rispetto degli stessi obblighi previsti per le pubbliche amministrazioni, non fosse

necessario fare esplicito riferimento alle autorità portuali, tenendo conto che ormai è pacifico che si tratti di enti pubblici non

economici, ricompresi dunque tra le pubbliche amministrazioni dell'articolo 1, comma 2, d. lgs. 165/2001, e delle riforme del 2015 che avevano già sostituito le dette autorità portuali con le “autorità di sistema portuale”, ribadendone la natura di ente pubblico non economico.

Tra le novità dell'articolo 2-bis troviamo l'inciso “in quanto compatibile” riferito all'applicazione della medesima disciplina. Questa formula fa già prevedere un suo futuro uso strumentale, da parte dei soggetti a cui si riferisce, per sottrarsi all'applicazione della normativa, e, quindi, necessiterà sicuramente di interventi

interpretativi da parte di ANAC.6

Il cambiamento più significativo è, per l'appunto, la precisazione dei soggetti tenuti all'applicazione, in quanto compatibile, della stessa disciplina delle pubbliche amministrazioni, come richiesto dalla legge 124/2015. Al secondo comma si parla di applicazione « a) agli

enti pubblici economici e agli ordini professionali; b) alle società in controllo pubblico come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell'articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124. Sono escluse le società quotate come definite dallo stesso decreto legislativo emanato in attuazione dell'articolo 18 della legge 7

6 B. Neri, Le novità dei decreti in materia di trasparenza, intervento al convengo “Trasparenza e anticorruzione tra buon andamento e imparzialità. Oltre l'adempimento”, Venezia, 4 aprile 2016

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agosto 2015, n. 124; c) alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato comunque denominati, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi nell'ultimo triennio da pubbliche

amministrazioni e in cui la totalità dei titolari o dei componenti dell'organo d'amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche amministrazioni ».

In aggiunta, il terzo comma statuisce che « la medesima disciplina

prevista per le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 si applica, in quanto compatibile, limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione europea, alle società in partecipazione pubblica come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell'articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124, e alle

associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici ».

Come precisazione, innanzitutto, il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, che attua la delega dell'articolo 18 della legge 124/2015, definisce come “società a partecipazione pubblica” « le società a controllo pubblico, nonché le altre società partecipate

direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico », ossia quelle in cui una o più amministrazioni pubbliche

esercitano poteri di controllo, come stabilito dall'articolo 2359 del codice civile, disponendo della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria, o di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante, o le società che sono sotto l'influenza

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dominate di un'altra in virtù di particolari vincoli contrattuali. E, come “società quotate”, escluse dalla applicazione della disciplina sulla trasparenza, « le società a partecipazione pubblica che

emettono azioni quotate in mercati regolamentati; le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati; le società partecipate dalle une o dalle altre, salvo che le stesse siano anche controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche ».

Della nuova disciplina si può osservare come vengano coinvolti soggetti giuridici, che solitamente sono ritenuti estranei alle pubbliche amministrazioni, e dei quali queste si avvalgono spesso anche per aggirare alcuni vincoli operativi, attirati nella sfera del “pubblico” dal momento che svolgono funzioni pubbliche o traggono rilevanti finanziamenti della propria attività da risorse di tipo

pubblico. Ecco perché rimangono escluse le società che svolgono servizi economici di rilevanza pubblica, ma che si finanziano sul mercato con strumenti azionari o altri sistemi regolamentati di stampo concorrenziale.

Ad oggi, dunque, dovranno garantire l'accesso ai dati e ai documenti relativi all'attività di pubblico interesse addirittura associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato anche privi di personalità giuridica, non organizzati in forma societaria, a condizione, però, che:

– esercitino funzioni amministrative, ossia sussista un rapporto contrattuale tra amministrazione pubblica ed ente di diritto privato, con cui la prima abbia espressamente indicato proprie funzioni amministrative svolte a favore dell'ente;

– svolgano attività di produzione di beni o servizi a favore delle amministrazioni pubbliche, cioè, soggetti di diritto privato, anche diversi da società commerciali, che abbiano stipulato

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contratti di servizio con ad oggetto commesse di beni o servizi non rivolti al mercato, ma all'ente pubblico costituente o partecipante;

– svolgano attività di gestione di servizi pubblici, dunque, non è escluso che, in particolare gli enti locali, gestiscano servizi pubblici non aventi rilevanza economica, attraverso accordi con soggetti di diritto privato, per esempio nel caso di servizi culturali;

– abbiano un bilancio superiore a 500.000 euro, quindi, in ogni caso, soggetti aventi un giro d'affari molto rilevante.

Inizialmente, il Governo aveva approvato un testo del terzo comma del d. lgs. 97/2016 che avrebbe attratto nella sfera della disciplina della trasparenza una gamma molto più ampia di soggetti privati. Infatti si voleva estendere la normativa del d. lgs. 33/2013 a tutti i soggetti privati che riconoscessero alle pubbliche amministrazioni poteri di nomina dei componenti degli organi di governo.

Invece, il testo finale riduce di molto la portata della normativa perché la soglia di 500.000 euro taglia fuori molti soggetti che la norma avrebbe voluto coinvolgere.

Un'altra considerazione che può essere fatta, è che risulta cancellata la distinzione tra società controllate e società partecipate, prevista dall'abrogato articolo 11, come modificato dalla legge 114/2014, che prevedeva che i medesimi obblighi di trasparenza previsti per le pubbliche amministrazioni si applicassero, limitatamente all'attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell'Unione Europea, solo agli enti di diritto privato in controllo pubblico, e non alle società partecipate in misura non maggioritaria, a cui si

applicava una disciplina della trasparenza ridotta. In realtà, anche se il nuovo articolo 2-bis non distingue più fra società controllate e società partecipate, una minima differenza esiste ancora, perché

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relativamente alle seconde è previsto che la pubblicazione avvenga limitatamente a dati e documenti inerenti l'attività di pubblico interesse, mentre le società controllate devono pubblicare dati e informazioni su tutti i rami delle attività che svolgono, incluse le attività commerciali. Differenza che, a parer mio, potrebbe essere opportuno del tutto eliminare, visto che l'ottica della riforma è quella di una sempre maggiore trasparenza in ogni campo.

1.4 IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA COME LIMITE ALLA TRASPARENZA

Le pubbliche amministrazioni, nell'attuare la disciplina della

trasparenza e della pubblicità, da sempre si trovano a dover prestare molta attenzione al diritto alla riservatezza, che tutela la sfera personale dei singoli individui, impedendo che informazioni riguardanti la vita privata siano divulgate e conosciute da terzi. L'articolo 4 del decreto legislativo 33/2013, abrogato dal decreto legislativo 97/2016, si occupava proprio di questa limitazione, prevedendo un'autorizzazione generale alla diffusione attraverso i siti istituzionali, al trattamento tramite motori di ricerca web ed al riutilizzo ai sensi dell'articolo 7 del decreto, dei dati personali diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari, senza che le amministrazioni dovessero ottenere per ogni pubblicazione un'autorizzazione dell'Autorità garante della privacy.

Innanzitutto, si escludeva quindi la pubblicazione di dati sensibili e giudiziari, che rimanevano obbligatoriamente riservati.

Secondo l'articolo 4, comma 1, lettera d) ed e), del Codice in materia di protezione dei dati personali, adottato con il decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, per dati sensibili si devono intendere « i dati

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personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche,

l'adesione a partiti, sindacati, associazioni ed organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale », e per

dati giudiziari quei « dati personali idonei a rivelare provvedimenti

(…) in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti, o la qualità di imputato o indagato ».

Per quanto concerne i dati personali, l'articolo 4, comma 1, lettera b) del Codice, li definisce come « qualunque informazione relativa a

persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale ».

Inoltre, il Codice in materia di protezione dei dati personali definisce il concetto di “diffusione” come « il dare conoscenza dei dati

personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione » (articolo 4,

comma 1, lettera m)), e, mentre il trattamento di questi dati, diversi da quelli sensibili e giudiziari, da parte dei soggetti pubblici è consentito anche in assenza di una previsione esplicita da parte di una norma di legge o di regolamento (articolo 19, comma 1, del Codice), la comunicazione, e conseguente diffusione, a terzi, sono ammesse solamente per espressa previsione (articolo 19, comma 3, del Codice).

Per questo motivo, il Garante della privacy, nelle sue “Linee guida in materia di trattamento dei dati personali” del 15 maggio 2014, ha osservato che in relazione all'operazione di diffusione dei dati personali, occorre che le pubbliche amministrazioni, prima di pubblicare documenti amministrativi sui propri siti web, verifichino

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che la normativa in materia di trasparenza lo preveda come obbligo, e, di conseguenza, selezioni i dati personali da inserire, controllando caso per caso se ricorrono i presupposti per la censura di determinate informazioni.

Tra l'altro, lo stesso articolo 4, comma 1, del decreto legislativo 33/2013, prevedeva in ogni caso il rispetto dei principi generali sul trattamento dei dati personali. Uno di questi è il così detto “principio di necessità” (articolo 3, comma 1, del Codice di protezione dei dati personali), per il quale i soggetti pubblici sono tenuti ad utilizzare al minimo i dati personali ed identificativi, ed evitarne del tutto il trattamento quando questi possono essere sostituiti da dati anonimi o con altre modalità. Questo assunto era sostenuto anche dall'articolo 4, comma 4, del decreto trasparenza, che stabiliva che le pubbliche amministrazioni dovessero « rendere non intelligibili i dati personali

non pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione ». Infatti, si

seguiva anche il principio di proporzionalità, volto a garantire la pertinenza e non eccedenza nella pubblicazione dei dati personali, di cui all'articolo 11, comma 1, lettera d), del Codice.

Il secondo comma dell'abrogato articolo 4 del decreto legislativo 33/2013, stabiliva che la pubblicazione sui siti istituzionali dei dati riguardanti incarichi di politici e dirigenti all'interno delle

amministrazioni avesse il determinato scopo di realizzare proprio la trasparenza attesa dall'interesse pubblico, che dunque era libera da autorizzazioni. In questo modo si voleva consentire ai cittadini di conoscere carriera, curriculum, tipologia di incarichi, responsabilità e retribuzioni dei soggetti che formano la pubblica amministrazione. In ogni caso, secondo l'articolo 4, comma 3, le amministrazioni potevano pubblicare sui propri siti istituzionali anche altri dati, informazioni e documenti la cui pubblicazione non era richiesta

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obbligatoriamente per legge o regolamento, incrementando così la trasparenza e l'accessibilità, sempre però rispettando i limiti previsti da previsioni di legge e ricorrendo semmai alla anonimizzazione dei dati personali presenti.

In proposito però, il Garante per la protezione dei dati personali, nel 2014, aveva evidenziato la prassi di alcune amministrazioni di sostituire il nome e il cognome dell'interessato con le sole iniziali, operazione insufficiente ad anonimizzare i dati personali,

considerando anche che accanto ad essi si trovano altre informazioni che rendono comunque identificabile l'interessato, e che, in molti casi, ad esempio nei piccoli comuni, la pubblicazione online di detti dati è sufficiente a far riconoscere la persona a cui si riferiscono. Per questo motivo l'unica via per rendere realmente anonimi i dati pubblicati online, è, secondo il Garante, l'oscuramento totale delle varie informazioni che possono consentirne l'identificazione. Tra le informazioni considerate sempre accessibili ai cittadini, per effetto del comma 5 dell'articolo 4 del decreto trasparenza, vi erano le notizie concernenti le prestazioni di chiunque fosse addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione, sempre nell'ottica di permettere ai cittadini di controllare l'efficienza dell'azione

amministrativa e, dall'altro lato, di costringere le stesse istituzioni ad adottare comportamenti virtuosi.

Al contrario, a meno che non fosse diversamente previsto dalla legge, non potevano essere rese note le notizie sulle infermità e sugli impedimenti personali e familiari che avessero causato l'astensione da lavoro, e le valutazioni o notizie riguardanti il rapporto di lavoro tra dipendente e amministrazione che potessero contenere dati sensibili.

Tuttavia, il sesto comma dell'articolo 4, rappresentava una norma piuttosto in contraddizione con l'intento del decreto stesso di aprire

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ad una accessibilità totale, sottraendo alla libera pubblicazione, e quindi conoscibilità, un ventaglio ampio di documenti.

Il Garante per la privacy è stato più volte chiamato a pronunciarsi su numerose questioni in tema di diffusione di dati personali online per finalità di trasparenza e pubblicità dell'azione amministrativa.

Come esso espone nella Relazione Annuale 2015, ad esempio con riferimento al problema della illecita diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute dei soggetti, è stata dichiarata l'indebita pubblicazione in internet, effettuata da una Regione, di elenchi recanti i nominativi dei soggetti che avevano presentato domanda di manifestazione di interesse per la partecipazione ad un progetto riservato a persone con disabilità motoria o affette da gravi patologie neurodegenerative.7

Un altro intervento significativo ha riguardato la pubblicazione sul sito web istituzionale di un Comune dei nomi di soggetti morosi nel pagamento dei tributi. Il Garante ha infatti evidenziato che la

legislazione statale di settore non prevede tale diffusione e che l'ente locale non può introdurre con proprio regolamento un obbligo di pubblicazione e diffondere informazioni non obbligatorie senza aver prima anonimizzato i dati personali eventualmente presenti,

risultando quindi tale atto un irragionevole strumento vessatorio.8

E' stata poi dichiarata illegittima la pubblicazione dell'elenco contenente i dati di coloro che avevano diritto all'esonero dal

pagamento della quota contributiva della mensa scolastica, riservato alle famiglie meno abbienti, che riportavano informazioni personali, 7 Garante per la protezione dei dati personali, Relazione annuale 2015,

provvedimento 8 gennaio 2015, n. 3, documento web n. 3946725

8 Garante per la protezione dei dati personali, nota 7 luglio 2015 alla Relazione annuale 2015, in www.garante.it

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come nominativo e data di nascita dei bambini, nominativo e indirizzo dei genitori, scuola frequentata e percentuale di esonero.9

Il decreto legislativo 97/2016 ha abrogato l'articolo 4 del decreto legislativo 33/2013, i cui precetti sono però confluiti nelle novità introdotte dal decreto stesso in tema di accesso civico e soprattutto tutte le disposizioni di questo articolo sono oggi riportate,

esattamente identiche, nel nuovo articolo 7-bis.

1.5 DALL'ACCESSO CIVICO DEL D.LGS. 33/2013 AL FOIA ITALIANO

L'accesso civico consiste in una specifica tutela, garantita dalla legge ai cittadini contro le amministrazioni che non adempiono

correttamente agli obblighi di trasparenza, per rendere effettiva la possibilità per chiunque di ottenere le informazioni sull'attività amministrativa. Il decreto legislativo 97/2016 riforma in modo radicale l'istituto dell'accesso civico.

La legge sul procedimento amministrativo, legge 241/1990, ex articolo 22, comma 1, disciplina un istituto vicino all'accesso civico, e di questo precursore, se pur differente. Si tratta infatti di accesso ai documenti amministrativi, accesso definito conoscitivo od

informativo, ed anche detto extra-procedimentale, in quanto si realizza a procedimento concluso e mira a soddisfare un'esigenza conoscitiva del contenuto degli atti. Questa tipologia di accesso si differenzia da quella partecipativa, o endo-procedimentale, disciplinata dall'articolo 10 della stessa legge, che si esplica come 9 Garante per la protezione dei dati personali, nota 31 luglio 2015 alla Relazione

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modalità di partecipazione del privato, interventore necessario o volontario, al procedimento amministrativo.

L'accesso ai documenti amministrativi rappresenta il diritto di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, ed è indirizzato alla protezione di un interesse giuridico particolare, differenziato e qualificato. Infatti il Consiglio di Stato ha espresso il suo orientamento interpretativo affermando che « l'interesse che

legittima la richiesta di accesso, oltre ad essere serio e non

emulativo, deve essere personale e concreto, ossia ricollegabile alla persona dell'istante da uno specifico nesso: in sostanza occorre che il richiedente intenda difendere una situazione di cui è portatore, qualificata dall'ordinamento come meritevole di tutela, non essendo sufficiente il generico e indistinto interesse di ogni cittadino alla legalità o al buon andamento della attività amministrativa ».10

Quindi può essere esercitato soltanto dal soggetto portatore di tale interesse e ha ad oggetto atti e documenti individuati. In tal senso è stata ritenuta inammissibile la richiesta di accesso alla

documentazione della pubblica amministrazione che risultasse caratterizzata da una formulazione eccessivamente generalizzata, perché l'eventuale soddisfazione di tale richiesta avrebbe comportato un'opera di ricerca, catalogazione e sistemazione, non rientrante nei doveri posti in capo all'amministrazione, e, di conseguenza, anche un generalizzato controllo su un ramo di essa.11 Dunque, l'accesso ai

documenti amministrativi incontra limiti soggettivi, oggettivi e soprattutto funzionali, data l'espressa inammissibilità di istanze di accesso documentale indirizzate ad un controllo generale dell'operato delle pubbliche amministrazioni ed escludendo la sua configurazione come mezzo di controllo democratico del processo decisionale 10 Consiglio di Stato, sez. VI, 1 febbraio 2007 n. 416

11 Consiglio di Stato, sez. V, n. 4721/2012 e Tar Emilia Romagna – Parma, sez. I, n. 75/2013

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dell'amministrazione da parte della società civile.

Nella versione del decreto legislativo 33/2013, l'accesso civico, disciplinato dall'articolo 5, fondava esclusivamente il diritto di qualsiasi persona ad accedere ai siti delle pubbliche amministrazioni, organizzati nella sezione “Amministrazione trasparente”, ed

acquisire tutti i documenti, i dati e le informazioni soggetti a pubblicazione obbligatoria. L'accesso civico discendeva dal riconoscimento del diritto alla conoscibilità diffusa dell'azione amministrativa, che aveva limitati precedenti nel nostro ordinamento. Da un lato esisteva l'accesso agli atti delle istituzioni comunitarie, infatti nell'Unione europea il diritto all'informazione si era affermato a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, in concomitanza con il consolidamento delle istituzioni comunitarie e l'esigenza di

perseguire un processo di democratizzazione di esse, attraverso l'applicazione del principio generale della trasparenza, di cui il diritto di accesso alle informazioni costituisce una componente

fondamentale. Con il Trattato di Amsterdam del 1997, il diritto di accesso aveva trovato un esplicito riconoscimento nell'articolo 255 del Trattato CE, a seguito del quale fu adottato il Regolamento CE 1049/2001 del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativo all'accesso del pubblico ai documenti del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione. Infine, nel 2007 il Trattato di Lisbona aveva operato un ulteriore rafforzamento, affermando l'obbligo per le istituzioni europee di assumere le decisioni nel modo più trasparente possibile.

Dall'altro lato, il diritto alla conoscibilità sussisteva già nelle discipline speciali di accesso previste in materia di informazione ambientale e di enti locali.

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riteneva che l'autorità pubblica dovesse rendere disponibile l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne avesse fatto richiesta, senza dover dichiarare il proprio specifico interesse. Una parte della giurisprudenza aveva sostenuto che in materia di tutela ambientale non solo non fosse necessaria l'indicazione puntuale degli atti richiesti, ma fosse sufficiente una generica richiesta di informazioni sulle condizioni di un determinato contesto. Questo pensiero richiese l'intervento di una diversa parte della

giurisprudenza per limitare la natura estesa del diritto di accesso in materia ambientale ed impedire la paralisi dell'attività

amministrativa, provocata da un abuso nell'esercizio del diritto di accesso stesso. Alcuni giudici avevano sostenuto infatti che l'ambito applicativo del decreto legislativo 195/2005, per quanto esteso, non potesse aprire la strada ad una forma di accesso indiscriminato a tutte le pratiche riguardanti un determinato settore di attività

amministrativa, anche perché non doveva tradursi in uno strumento di controllo sistematico e generalizzato sull'intera attività di un ente pubblico. In questo filone giurisprudenziale si inserì anche una sentenza del Consiglio di Stato del 2014 (Sezione IV, n. 2557/2014), che precisò che tale normativa prevedeva un regime di pubblicità tendenzialmente integrale dell'informativa ambientale, sia per quanto concernente la legittimazione attiva, ampliando il novero dei soggetti legittimati all'accesso in materia, sia per ciò che riguarda il profilo oggettivo, prevedendo una accessibilità più ampia e svincolata rispetto ai presupposti della legge 241/1990. Inoltre, i giudici specificarono che la normativa intendeva soltanto informazioni riguardanti lo stato dell'ambiente (per esempio l'aria) ed i fattori che possono incidere su di esso (sostanze, energie, rumore, emissioni), sulla salute e sulla sicurezza umana, con esclusione quindi di tutti i fatti ed i documenti che non avessero un rilievo ambientale, e che,

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infine, l'accesso poteva essere negato nei casi di richieste irragionevoli o espresse in termini eccessivamente generici.

Nel secondo caso, il Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, articolo 10, commi 1 e 2, tratta del diritto di accesso dei cittadini a tutti i provvedimenti dell'amministrazione non classificati come segreti o contenenti dati sensibili, che devono essere

consegnati al richiedente sulla base e con le modalità dettate dalle specifiche norme regolamentari degli enti stessi. Sul punto è stato espresso un interessante parere anche dal Ministero dell'Interno, nel 2014, in risposta ad un quesito di un comune, dicendo che l'articolo 10 del decreto legislativo 267/2000 non era soggetto alle limitazioni della legge 241/1990 sulla dimostrazione di un effettivo interesse alla conoscenza di un provvedimento, perché questa norma dispone che tutti gli atti dell'amministrazione comunale sono pubblici,

rafforzando il diritto alla trasparenza dell'azione amministrativa locale per il cittadino-elettore.

L'accesso civico “versione 2013” si distingueva profondamente dal diritto di accesso regolato dalla legge 241/1990, ed anche l'ANAC attraverso alcune sue “frequently asked questions” (Faq) ha spiegato la differenza fra questi due istituti:

- (Faq 2.1) « Che cosa è l'accesso civico? »

« Secondo quanto previsto dall'art. 5 del d.lgs. n. 33/2013, l'accesso

civico è il diritto di chiunque di richiedere la pubblicazione di documenti, informazioni o dati per i quali sussistono specifici obblighi di trasparenza, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione. Pertanto, l'accesso civico si configura come rimedio alla mancata pubblicazione, obbligatoria per legge, di documenti, informazioni o dati sul sito istituzionale »

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completo agli obblighi di pubblicità imposti dal decreto legislativo 33/2013, mentre il diritto di accesso previsto dalla legge 241/1990 fonda la pretesa di ottenere dall'amministrazione pubblica i

documenti necessari alla posizione di chi vanti un « interesse diretto,

concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso »12, ex

articolo 22, comma 1, lettera b), della medesima legge n. 241. Occorre, quindi, una posizione giuridica “differenziata”

nell'ordinamento ed un legame tra tale posizione e i documenti. Invece, nel caso dell'accesso civico “vecchia maniera” non si richiedeva alcuna posizione particolare del richiedente, meno che mai occorreva un collegamento tra la sfera di chi chiede l'accesso civico ed i dati da pubblicare, che, infatti, devono essere

obbligatoriamente pubblicati a prescindere dalla situazione giuridica di qualsiasi singolo soggetto. Sostanzialmente, l'accesso civico è un rimedio offerto al pubblico contro l'inadempienza delle pubbliche amministrazioni agli obblighi di pubblicità imposti dalla legge. - (Faq 2.6) L'accesso civico di cui all'art. 5 del d.lgs. 33/2013 e il diritto di accesso agli atti di cui alla legge 241/1990 hanno le medesime funzioni?

« No, si tratta di due istituti diversi. L'accesso civico di cui all'art. 5

del d.lgs. 33/2013 introduce una legittimazione generalizzata a richiedere la pubblicazione di documenti, informazioni o dati per i quali sussiste l'obbligo di pubblicazione da parte delle pubbliche amministrazioni ai sensi della normativa vigente. Secondo quanto previsto dall'art. 3 del d.lgs. 33/2013, tutti i documenti, le

informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, e di utilizzarli e riutilizzarli. Il

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diritto di accesso agli atti di cui alla legge 241/1990, invece, è finalizzato alla protezione di un interesse giuridico particolare, può essere esercitato solo da soggetti portatori di tali interessi e ha per oggetto atti e documenti individuati ».13

Ecco come anche ANAC ha spiegato in modo sintetico e chiaro la differenza tra i due istituti.

Pertanto, per l'esercizio del diritto di accesso è necessaria l'esistenza materiale di un documento già formato e la dimostrazione della sua idoneità ad essere utilizzato per tutelare o difendere la posizione soggettiva del richiedente, mentre nell'accesso civico importa solo la sussistenza di un vincolo di legge per la diffusione dell'informazione. Comunque, in entrambi i casi le amministrazioni non hanno potere discrezionale per decidere se accogliere o meno l'istanza, perché, dopo aver accertato la sussistenza delle condizioni legittimanti, devono dare seguito ad attività, vincolate per legge, di pubblicazione obbligatoria dell'informazione e, del dato di offerta della visione in un caso, ed estrazione di copia nell'altro.

Bisogna aver sempre chiaro, comunque, che si tratta di due istituti diversi che convivono nel nostro ordinamento, e non pensare che l'accesso civico abbia sostituito il diritto di accesso agli atti. Per cui, riassumendo le caratteristiche di ognuno dei due istituti, possiamo concludere che: l'accesso documentale presuppone che il documento non sia sottoposto al dettagliato regime di pubblicazione imposto invece dal decreto trasparenza del 2013, costituisce un accesso caratterizzato dalla pertinenza ad un'attività amministrativa di interesse di un singolo ed azionabile nella sola ipotesi in cui sussista un collegamento diretto, concreto e personale tra l'atto richiesto e un interesse specifico del richiedente (c.d. “need to know”), la sua soddisfazione si realizza con l'esame e l'estrazione di

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copia dei documenti.

Diversamente, l'accesso civico ha una funzione integrativa e correttiva della trasparenza che prevede gli obblighi di

pubblicazione, alla richiesta consegue la trasmissione del documento, dell'informazione o del dato al richiedente e la sua pubblicazione sul sito istituzionale dell'ente, garantendo anche la soddisfazione del diritto alla conoscibilità diffusa dell'azione amministrativa (c.d. “right to know”), chiunque ha il potere di controllare

democraticamente la conformità dell'attività dell'amministrazione. Si comprende allora che, con la disciplina del decreto legislativo 33/2013, e l'introduzione dell'accesso civico nel nostro ordinamento, per gli atti compresi negli obblighi di pubblicazione potranno

esercitarsi cumulativamente sia il diritto di accesso “classico” della legge 241/1990, sia il diritto di accesso civico del decreto

trasparenza, mentre, per gli atti che non rientrano tra tali obblighi di pubblicazione, opererà il solo diritto di accesso procedimentale. L'articolo 7, comma 1, della legge delega 124/2015 ha introdotto due ulteriori forme di accesso: alla lettera f) prevede la « definizione (…)

dei diritti dei membri del Parlamento inerenti all'accesso ai documenti amministrativi e alla verifica dell'applicazione delle norme sulla trasparenza amministrativa, nonché dei limiti derivanti dal segreto o dal divieto di divulgazione e dei casi di esclusione a tutela di interessi pubblici e privati », una forma di accesso classica,

legata alle esigenze connesse allo svolgimento dei compiti istituzionali, come quella già riconosciuta ai consiglieri degli enti locali dall'articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 267/2000 ed ai consiglieri delle Regioni.

Alla lettera h) si inserisce un diritto di accesso « anche per via

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situazioni giuridicamente rilevanti, ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni », con esclusione dei casi di segreto

o divieto di divulgazione previsti dall'ordinamento ed è richiesto il rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati. Il nuovo istituto è finalizzato a « favorire forme diffuse di controllo sul

perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche ».

Il legislatore, con questa previsione, ha segnato l'ingresso nel nostro ordinamento di modalità di accesso generalizzato analoghe a quelle previste dal “Freedom of information act” (FOIA) statunitense, letteralmente traducibile in “Atto per la libertà di informazione”, emanato il 4 luglio 1966, che ha ispirato l'adozione in più di novanta Paesi del Mondo di un modello di trasparenza pubblica che

garantisce la conoscibilità di tutti i documenti, gli atti, le

informazioni e i dati detenuti, o comunque in possesso di un soggetto pubblico, con eccezioni chiare e tassative, nell'ambito di più ampie politiche di “Open Government”. Tali politiche ridefiniscono alla base il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino, spostando l'elemento fondamentale della relazione da un approccio orientato all'erogazione di servizi, in cui il cittadino è solo fruitore, ad uno basato su un processo di collaborazione reale, in cui il cittadino partecipa alle scelte di governo. L'ormai ex Presidente degli Stati Uniti d'America Barack Obama ha spiegato che questo “Open Government” si basa su tre elementi:

1) la trasparenza dell'azione amministrativa: favorisce e promuove la responsabilità fornendo ai cittadini le informazioni sulle attività dell'amministrazione. Un'amministrazione trasparente, ovviamente, è un'amministrazione più controllata e allo stesso tempo più aperta e affidabile;

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2) la partecipazione dei cittadini alle scelte della pubblica

amministrazione: aumenta l'efficacia dell'azione amministrativa e migliora la qualità delle decisioni prese, anche grazie all'uso delle nuove tecnologie di comunicazione i cittadini devono essere coinvolti nei processi decisionali e potervi contribuire attivamente; 3) la collaborazione: vede un coinvolgimento diretto dei cittadini nelle attività dell'amministrazione, che non sottende certo una delega di responsabilità dell'amministrazione nei riguardi del cittadino, ma contempla la possibilità di monitorare la qualità del servizio pubblico in tutte le sue fasi di esecuzione.14

La riforma ha subito ricevuto critiche, ben prima della sua definitiva approvazione, soprattutto contro l'introduzione, non efficace quanto sperata, del FOIA, meccanismo inglese nel nome ma italianissimo nei fatti, da parte degli esperti di settore, in particolare le 30 associazioni riunite nel cartello del “Foia4Italy”, ma anche dell'Autorità anticorruzione, dei giudici amministrativi e delle commissioni parlamentari. Le correzioni suggerite, e sperate,

puntavano, ad esempio, a cancellare dal testo definitivo del decreto la previsione del silenzio-rifiuto, tagliare i costi in capo ai cittadini e ridurre le eccezioni agli obblighi di trasparenza. Critiche accolte dalla stessa ministra per la semplificazione e la pubblica amministrazione, Marianna Madia.15

Il decreto legislativo 97/2016, all'articolo 6 ha innovato quasi del tutto il testo dell'articolo 5 del decreto legislativo 33/2013, 14 B. Obama, Memorandum for the Heads of Executive Departments and

Agencies on Transparency and Open Government, 2009, in

www.whitehouse.gov/the_press_office/TransparencyandOpenGovernment 15 G. Trovati, Riforma Madia, la mappa delle novità, 25 aprile 2016, in

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cambiando notevolmente la portata dell'istituto dell'accesso civico, anzi, avvicinandolo molto più al diritto di accesso dell'articolo 22 della legge 241/1990, tanto che si è venuto a creare un vero e proprio nuovo tipo di accesso civico che assorbe ed amplia quello

precedentemente regolato.

Il contenuto dell'accesso civico del decreto legislativo 33/2013 è riportato al comma 1 del nuovo articolo 5: « L'obbligo previsto dalla

normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione ». Per il resto, l'articolo 5 cambia radicalmente

rispetto al suo predecessore, presentando forti innovazioni ed ampliamenti, a partire dalla presenza di 11 commi, contro i 6 del testo previgente.

Il comma 2 fa comprendere la nuova struttura dell'istituto. Innanzitutto, ampliando il diritto di accesso come richiesto nella legge delega 124/2015, stabilisce che i fini a cui il nuovo accesso civico risponde sono: « favorire forme diffuse di controllo sul

perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico ».

Si capisce, quindi, che il legislatore non vuole che l'accesso civico sia soltanto un rimedio contro l'inadempienza delle amministrazioni a pubblicare sui propri siti istituzionali i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria, ma che lo fa divenire uno strumento per favorire vere e proprie forme di controllo pubblico sul modo di agire delle

amministrazioni e su come esse spendono le risorse per perseguire tali attività. Inoltre, nell'ottica di un ampliamento della

partecipazione dei cittadini alle scelte che le istituzioni devono prendere e che ricadono su di essi, si vuole fare dell'accesso civico lo strumento con il quale cittadini e imprese entrano in contatto con le

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amministrazioni per fornire critiche, suggerimenti o esprimere il proprio parere su tematiche generali.

Da questo punto di vista l'accesso civico rimane molto differente dal diritto di accesso agli atti dell'articolo 22 della legge 241/1990, il quale è pur sempre un diritto riguardante la sfera giuridica di un singolo individuo, che accede a quegli specifici documenti

amministrativi direttamente collegati ad essa, e che non è finalizzato ad un controllo generico dell'attività amministrativa.

E' bene sottolineare, però, che il nuovo accesso civico non consente istanze per mera curiosità, anche se per le amministrazioni sarà molto difficile negarlo, dato che l'accesso continuerà, come prima, a non richiedere una specifica motivazione. Problema, questo, abbastanza frequente per gli enti locali, quando si trovano di fronte ad istanze che richiedono una enorme quantità di dati, che non siano realmente funzionali al controllo sull'espletamento delle funzioni pubbliche o delle modalità di spesa. Essendo i margini per il diniego legittimo non molto chiari, c'è il rischio che si aprano contenziosi lunghi e complessi.

Per quanto riguarda i soggetti legittimati, mentre nel diritto di

accesso agli atti classico la legittimazione soggettiva spetta soltanto a chi vanta una posizione giuridica differenziata che lo collega ai documenti richiesti, l'articolo 5 parla di “chiunque”, quindi la legittimazione spetta a qualsiasi persona, senza nessuno specifico requisito soggettivo.

La principale differenza tra l'accesso civico “vecchia versione” e l'attuale si evidenzia nell'oggetto della disciplina. Il comma 2 fa riferimento « ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche

amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto ». Come già detto, nel decreto

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