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Il metodo narrativo. Paesaggi mentali della formazione

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Academic year: 2021

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Università Cà Foscari di Venez

ia

Corso di Laurea magistrale

(

ordinamento ex D.M. 270/2004

)

in Filologia e Letteratura Italiana

Tesi di Laurea

Il Metodo Narrativo

Paesaggi mentali della formazione

Relatore: Ch. Prof. Ivana Padoan

Correlatore: Ch. Prof. Ricciarda Ricorda

Laureando: Tiziano Battaggia

Matricola: 825124

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INDICE

Abstract pag. 3

Introduzione pag. 5

1 Identità e narrazione

1.1 Il racconto dell’esperienza pag. 13

1.2 I dispositivi della narrazione pag. 16

1.3 La costruzione narrativa del sé pag. 22

2 La creazione del sé nel romanzo di formazione

2.1 La metafora formativa del Bildungroman pag. 27 2.2 Principio di classificazione e principio di trasformazione pag. 30

2.3 La Bildung goethiana pag. 33

2.4 Bildungroman e identità professionale pag. 39

2.5 Bildungroman e quotidianità pag. 42

2.6 Il rapporto figura sfondo nel Bildungroman pag. 45 2.7 L’integrazione tra socialità, orgoglio e pregiudizio pag. 49 2.8 Il romanzo di formazione nella modernità pag. 53 2.9 Realismo narrativo e relativismo sociale pag. 56

3 Autoformazione tra riflessività e narazione

3.1 Aspetti dell’autoformazione pag. 59

3.2 Autoformazione e identità sociale pag. 63

3.3 Identità complesse e complessità sociale pag. 66 3.4 Autoformazione e riflessività nell’azione pag. 69

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3.5 L’importanza del contesto nell’autoformazione pag. 76 3.6 L’apprendimento situato e le comunità di pratica pag. 79

3.7 Lo sfondo integratore pag. 82

3.8 La funzione del fantastico nell’autoformazione pag. 89 3.9 Identità, immaginazione e immaginario sociale pag. 99 3.10 Identità e individualizzazione nella postmodernità pag. 101 3.11 Per un apprendimento trasformativo pag. 105

4 Formazione narrativa e Narrazione formativa

4.1 Verso una Formazione Narrativa pag. 112

4.2 La Narrazione Formativa come “cura sui” pag. 116 4.3 La lettura per formarsi: una questione di metodi pag. 120 4.4 “Dimmi cosa leggi...”:

la lettura come comunità di pratica pag. 122 4.5 Un laboratorio di Lettura Performativa pag. 127 4.6 La scrittura-di-sé:

verso una definizione di metodi pag. 132

4.7 Le scritture-di-sé:

l’approccio esistenzialista di Pineau pag. 138 4.8 Le scritture-di-sé:

l’approccio fenomenologico di Demetrio pag. 142 4.9 Le scritture-di-sé:

l’approccio costruttivo-relazionale di Le Bohec pag. 148

Conclusioni pag. 155

Appendice pag. 159

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Abstract

La tesi vuole analizzare le influenze del pensiero narrativo, fondamentale modo di funzionamento della mente, nella costruzione delle esperienze formative degli adulti. È noto il potere pervasivo della dimensione narrativa nei percorsi di apprendimento. Ciò che ci interessa è individuare come la narrazione delle esperienze e sulle esperienze orienti l’identità professionale, le costruzioni di senso dell’agire, le epistemologie implicite ed esplicite sottese alle prassi, la produzione di modelli significativi e di dispositivi efficaci. Si tratta di esaminare i diversi approcci culturali alla dimensione narrativa dell’individuo, da quelli letterari, a quelli psicologici e terapeutici, fino agli ambiti scientifici delle neuroscienze e degli studi riguardo l’apprendimento e il lifelong learning.

L’intento è di ricavare indicatori validi per definire una proposta di metodo o, forse, sarebbe meglio parlare di metodi narrativi utili a supportare la problematicità dei ruoli professionali, in particolare di quelli educativi e sociali.

The purpose of this thesis is to analyze the influences of narrative thinking, fundamental mind mode of operation, in building the learning experiences of adults.

The pervasive power of the narrative dimension in learning pathways is a renown fact. What we are interested in is to identify how telling experiences orientates professional identity, the construction of the meaning of acting, implicit and explicit epistemologies underlying the common practice, the production of meaningful models and effective devices.

It is about examining the different cultural approaches to narrative dimension of the individual, from the literary, psychological and therapeutic ones, until the scientific fields of neuroscience and studies about learning and lifelong learning.

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We aim to obtain valid markers able to define a proposal for a method, or rather say narrative methods, useful to support the problematic nature of professional roles, especially educational and social ones.

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Introduzione

La narrazione è uno dei modi privilegiati attraverso cui l'uomo si pone in rapporto con il mondo. Infatti, attraverso i racconti, l'uomo ha potuto tramandare la sua cultura e assicurare così la continuità fra le generazioni. Raccontando storie gli uomini condividono emozioni ed esperienze, trasmettono conoscenze utili per la sopravvivenza, e costruiscono le forme e i modi delle relazioni.

Per il tramite del pensiero narrativo, diventiamo nel corso del nostro sviluppo via via sempre più capaci di descrivere, spiegare e comprendere eventi, atti e comportamenti, inscrivendoli in strutture di senso che sono personali, e al tempo stesso connessi con i modi sociali e culturali attraverso cui la realtà è letta e interpretata.

Il pensiero narrativo ci permette, quindi, di organizzare le esperienze in racconti, che stimolano e orientano le nostre riflessioni, sostenendo i processi di formazione e cambiamento.

La tesi presenta alcune declinazioni di tale processo, iscrivendole nell’ambito educativo e sociale, dove la dimensione formativa, intesa come costruzione del sé e della propria identità nel tempo, coinvolge sia gli operatori, sia gli utenti. L'attribuzione di significati attraverso la narrazione è un fatto soggettivo, che si rispecchia e amplifica nell’interpretazione dei contesti di vita e di lavoro condivisi con altri. In tal modo, non solo mettiamo in relazione i propri stati interiori con la realtà esterna, ma costruiamo e spesso, nelle relazioni d’aiuto alla persona, de-costruiamo e ricostruiamo il significato stesso di tali contesti per accedere a livelli di integrazione più rispondenti ai bisogni personali e sociali.

Scopo della tesi è individuare in quali modi, attraverso quali funzioni e con quali mezzi la narrazione delle esperienze e sulle esperienze orienta l’identità professionale, le costruzioni di senso dell’agire, le epistemologie implicite ed esplicite sottese alle prassi, fino a giungere alla produzione di modelli significativi e di dispositivi efficaci nell’ambito della formazione.

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Nel primo capito si delinea uno degli sfondi epistemologici portanti della tesi, a partire dall’analisi della prospettiva socio-costruttivista di Bruner. Secondo l’autore, la realtà che percepiamo è una realtà costruita e noi strutturiamo la conoscenza e l’esperienza soprattutto tramite il pensiero narrativo. Lo sviluppo di tale competenza è, quindi, fondamentale sia per la strutturazione dell’identità individuale sia per la coesione della cultura, o meglio, delle culture cui apparteniamo. Con l’aiuto di Bruner si cercherà di analizzare cosa costituisce un racconto, e attraverso quali dispositivi la narrazione ci fornisce le chiavi d’interpretazione per trasformare l’indicativo della nostra realtà nel congiuntivo delle possibilità, al fine di affrontare l’imprevedibile delle nostre esistenze nella società dell’incertezza in cui viviamo. Sta, come vedremo, nel significato e nella funzione della metafora la “raccontabilità” delle storie: ciò che ci spinge a far coincidere la costruzione della propria identità con la narrazione di sé, come una vera e propria arte narrativa.

Proprio a quest’arte narrativa è dedicato il secondo capitolo. È preso in esame il “romanzo di formazione”, sulla base della ricca e complessa analisi di Franco Moretti. L’intento è di comprendere la dialettica che intercorre tra letteratura e modelli culturali della formazione di sé; e come dal “Bildungroman” si avvia la trasformazione del carattere privato dell’esperienza in divenire sociale e storico. Infatti, l’influenza dei temi narrativi e dei modelli d’individuo che i romanzi di formazione veicolano, la stessa rappresentazione psicologica e sociale dei rapporti tra privato e pubblico, nonché le idee di gioventù e di maturità, che il romanzo di formazione scandisce nelle sue trame, si estendono ben al di là della letteratura in genere, giungendo fino ai giorni nostri. Mobilità sociale, come rapporto storico con la propria epoca e interiorità, come intimità del quotidiano, sono i motivi privilegiati del romanzo di formazione, che si fissano nell’immaginario collettivo continuando a condizionare le idee sull’identità e sulla costruzione del sé, assumendo contenuti via via differenti, in particolare nel passaggio dalla modernità alla cosiddetta post-modernità. Analizzando le differenze d’intreccio tra il “Bildungroman”

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goethiano, basato sul “principio di classificazione” e i successivi romanzi di Stendhal e Puškin, fondati sul “principio di trasformazione”, si comprendono le diverse declinazioni che può assumere il paradigma dell’autodeterminazione del soggetto e della sua socializzazione. Si tratta di leggere le vicende dei protagonisti in un rapporto “figura/sfondo”, per comprendere come l’introduzione di nuovi elementi a livello di trama narrativa può rendere ancor più disfunzionale l’integrazione dell’individuo, oppure permettere di riorganizzare le situazioni problematiche in senso co-evolutivo. Da questo punto di vista, matura nella tesi l’ipotesi che la lettura dei “romanzi di formazione” fornisce ancor oggi indicazioni utili su come favorire quei cambiamenti di paradigma personale necessari per operare una più attiva e consapevole integrazione del sé. In particolare, la molteplicità dei punti di vista, che rende realistico il romanzo moderno, col suo moltiplicarsi delle prospettive, il continuo passaggio dal piano del racconto a quello del discorso e del commento, richiede un lettore attento a non farsi attrare dalle lusinghe del disincanto, optando invece per un atteggiamento curioso e duttile, aperto ed empirico, responsabile e maturo.

Possiamo approfondire quegli elementi e quei dispositivi narrativi intrinsechi alle nostre esistenze, che la letteratura contribuisce a rendere esemplari e rappresentativi, a condizione di sviluppare un percorso consapevole e intenzionale di “autoformazione”. È questo il tema affrontato nel terzo capitolo della tesi. Esaminando gli aspetti e quei modelli di autoformazione che privilegiano l’approccio narrativo, non si può far a meno di analizzare la condizione contemporanea dell’identità individuale e ciò che la caratterizza in rapporto alle dinamiche sociali della post-modernità. Zygmunt Bauman ci avverte del rischio al quale siamo esposti nella società dell’incertezza di eludere la problematicità delle nostre esistenze quotidiane, rifugiandoci nel consumo delle merci, illudendoci di garantirci nell’esperienza dell’effimero l’autoaffermazione di sé; invece di cogliere le opportunità che una società più libera da ideologie, strumenti e modelli istituzionali coercitivi potrebbe offrire in

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termini di costruzione di sé, di nuove forme di legame e di relazione con gli altri.

La prospettiva che s’intende indagare e far propria per affrontare l’indeterminatezza della società fluida e in continua trasformazione nella quale viviamo è quella sistemica e relazionale, che s’ispira alle tesi di Maturana e Varela. Cioè, interpretare il rapporto “interno/esterno” come un “accoppiamento strutturale” fra realtà che si sviluppano mantenendo la propria organizzazione: in questo senso le due realtà, soggetto e contesto, costruiscono un “mondo” condiviso, cioè una “storia”. Di fronte alla complessità sociale, si propone, allora, un processo di autoformazione, in cui risalti la complessità della persona (leggi: le intelligenze multiple di Gardner), e la necessità di un apprendimento come costruzione attiva e consapevole di saperi e competenze. Tale complessità del soggetto è declinabile, in senso batesoniano, in termini di “narrazione”, quale espressione della propria “riflessività”. Qui sta uno dei fulcri intorno ai quali si articola la tesi: la reciprocità dialettica, appunto, tra narrazione e riflessività, in cui l’una implica l’altra, le nutre e la arricchisce. Da Schön e Mezirow ricaviamo indicazioni precise e pertinenti, che orientano l’autoformazione verso pratiche di razionalità riflessiva: col primo per superare la tradizionale scissione tra pensare e agire; col secondo, per imparare a distinguere le teorie “dichiarate” da quelle “in uso” e a modificare quest’ultime trasformando le proprie “prospettive di significato”.

Ciò può realizzarsi solo a condizione che il processo auto-formativo si sviluppi attraverso pratiche cognitive “situate” e “interattive”, non in termini solipsistici e di mera acquisizione di conoscenze. L’integrazione tra dimensione individuale, collettiva e sociale dell’apprendere presuppone contesti di vita e di lavoro che mettono in gioco l’”intersoggettività”. S’è ritenuto, quindi, importante analizzare le diverse definizioni di “contesto", da concetto linguistico, ai significati psicologici e culturali che ha assunto, dando sempre più rilievo all’esperienza socio-relazionale dell’individuo. In tal senso, la visione sistemica di Bateson, che interpreta il contesto come

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coevoluzione di parti interagenti, e l’approccio socioculturale di Vygotsky, per il quale l’apprendimento è il prodotto di contesti socializzanti, hanno favorito lo sviluppo di una serie di proposte metodologiche in ambito educativo, sociale e professionale caratterizzate dalla partecipazione attiva e dal coinvolgimento dei soggetti nella progettazione e realizzazione di azioni volte all’acquisizione di abilità e competenze. Le “comunità di pratica” e la metodologia dello “sfondo integratore” sono le due proposte esposte nel capitolo, scelte in quanto considerate affini all’ambito dell’autoformazione, e nelle quali la narrazione si rivela una dimensione determinante della relazione educativa e dei processi di apprendimento. Un terzo aspetto che s’è ritenuto importante analizzare e che connette tra loro le diverse proposizioni della tesi, è quello dell’”immaginario”. La capacità riflessiva si articola in una narrazione di sé che coinvolge la persona nella sua globalità, gli aspetti cognitivi e la sua intelligenza emotiva, la razionalità e l’intuizione, la logica e l’immaginazione. Quest’ultima si alimenta a sua volta di quell’immaginario “diurno” e “notturno”, che struttura la nostra personalità. Infatti, indagando alcune tra le fondamentali concezioni dell’immaginario, s’è potuto verificare come tutte condividono l’importante funzione che riveste nella costruzione del sé. Indugiare nell’immaginario e nel fantastico permette al soggetto di riassorbire il “negativo” delle proprie esperienze, di rassicurarsi sulla propria consistenza, di realizzare un rapporto più dinamico tra gli aspetti esperienziali e soggettivi con quelli più razionali e istituiti, di affrontare la pluralità e la molteplicità dell’esistente come nuove opportunità e ispirare la ricerca di equilibri diversi, tenendo in considerazione gli impensati della coscienza e le dinamiche dell’inconsapevolezza e del tacito.

È nei colori dell’immaginario e in quelli della cognizione che attingiamo il pennello della nostra immaginazione, delle nostre ipotesi, delle nostre aspettative e intraprese, per dipingere i quadri che rappresentano i paesaggi della formazione esposti in questa tesi.

Per restare nella metafora, l’ultimo capitolo è dedicato proprio alle tecniche di pittura. Sono analizzati gli elementi strutturanti del paesaggio

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formativo: i contesti e gli attori, i linguaggi e la comunicazione, le tecniche e gli strumenti operativi, le dinamiche dei gruppi e le architetture relazionali. Un particolare riferimento è dedicato all’ambito delle neuroscienze, in quanto la scoperta dei neuroni specchio conferma come

l’empatia sia lo sfondo della nostra intelligenza. L’imitazione degli stati d’animo altrui ci consente di dedurre l’ordine delle relazioni affettive e sociali, i complessi di valori che le organizzano, gli schemi di comportamento individuali e collettivi, e di conseguenza, di creare un mondo possibile, evocando su di noi il richiamo della condizione umana nel linguaggio della rappresentazione metaforizzata.

Sulla scia di Franco Cambi s’intende declinare la “formazione”, o meglio, l’”autoformazione” come una “cura del sé”, che favorisce da una parte una lettura dell’identità soggettiva e intersoggettiva, dall’altra il recupero delle dimensioni di tipo processuale caratteristiche dei percorsi di evoluzione e crescita, di interpretazione e cambiamento.

“Cura del sé” che riguarda sia chi ha il compito di prendersi cura di altri, sia la cura di coloro che ci sono affidati, dei soggetti a rischio, per sostenerli nel loro sviluppo emotivo e cognitivo e in vista del raggiungimento di una migliore integrazione. Cura, quindi, legata anche a interventi di “risveglio del sé”, intesi a rafforzare l’identità dei soggetti e a promuoverne la capacità di costruire propri progetti esistenziali.

Trova conferma in Cambi l’ipotesi intorno alla quale si muove la tesi: la narrazione come via maestra della “costruzione del sé”, attività primaria, fondamentale e permanente da presidiare e coltivare come un paradigma formativo della mente e collante culturale in tutte le civiltà.

L’indagine sui “metodi narrativi” è preceduta dall’analisi di quelle tecniche di vita fondamentali per innescare e sviluppare la propria autoformazione come processo continuo, da portare avanti con rigore e disciplina, indispensabili nella guida di se stessi: la “lettura” per formarsi e conoscere il mondo, la “scrittura” per il piacere formativo e pensare i propri pensieri, e, in particolare, l’”autobiografia” come cura di sé.

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civiltà occidentale, da quella ellenistica, per declinarsi in seguito con Sant’Agostino nella cultura cristiana e con Rousseau nell’illuminismo. In tempi più recenti, un paradigma d’eccellenza dell’autobiografia è rappresentato senz’altro dalla “Recherche” proustiana, il cui modello letterario ha ispirato e continua a farlo molti autori anche in Italia, come Svevo e Calvino. Con Proust l’autobiografia abbandona definitivamente l’intento celebrativo e giustificatorio, per assumerne uno più problematico di ripensamento dell’io e di ricerca di sé. Il rischio attuale è che la scrittura perda la sua “aura”, si desublimi per farsi mezzo, e come tale merce. Blog e forum, insieme alle altre forme di multimedialità, pur con le loro evidenti potenzialità creative e articolazioni comunicative, si consumano nell’immediatezza della loro funzionalità. Ciò mette a repentaglio il ruolo cognitivo-espressivo, problematico e interpretativo che sta alla base della testualità. Si è ritenuto importante registrare alcune considerazioni sul ruolo da attribuire alla “scrittura-di-sé” nella post-modernità, e sulle funzioni che può assumere per le generazioni dei cosiddetti nativi digitali avvezzi all’uso delle tecnologie informatiche.

Riguardo alla prima tecnica, sono descritti due laboratori che partono dalla lettura per ritornare ad essa e su di essa tramite vissuti condivisi e partecipati in gruppo. La loro valenza formativa sta nella rielaborazione di una pratica personale e intima in un’attività di relazione e di scambio. Tale esperienza implica un ascolto reciproco ed una restituzione, intesa sia come impressione personale sia come espressione di reciprocità, per giungere in uno dei casi anche ad una vera e propria produzione espressiva e creativa.

Il metodo della “scrittura di sé” è esaminato attraverso la descrizione di tre diversi approcci, che condividono l’attenzione agli aspetti problematici dell’esistenza.

Per gli autori delle proposte metodologiche esposte l’uso dell’”autobiografia” avanza pretese di “decostruzione-ricostruzione” dell’identità personale e professionale dei soggetti coinvolti in tali pratiche, per rispondere alle esigenze della società complessa, ma anche e

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soprattutto ai bisogni personali e sociali di cambiamento e di trasformazione in senso etico ed ecologico.

L’”approccio esistenzialista” di Pineau propone le “biografie di vita” per ricostruire i frammenti delle proprie esistenze e cercare di dare senso e valore alle “transazioni”, che permettono di modificare e di cambiare il proprio agire nel mondo.

Attraverso il suo “approccio fenomenologico” Demetrio contestualizza la forma “auto-educativa” in una rilettura “originale/originaria” della condizione fenomenologico esistenziale del soggetto, includendo in essa l’insieme dei paradigmi della vita e della morte, del lavoro e del gioco. L’”approccio costruttivo-relazionale” di Le Bohec, infine, sviluppa il metodo delle “co-biografie” nella formazione. Con la raccolta e il confronto in gruppo di biografie personali, si cerca di individuare i debiti familiari e il progetto di vita di ognuno, quale fonte della propria e dell’altrui formazione.

Il quadro delle proposte metodologiche si chiude in appendice con il resoconto di un “seminario di formazione” condotto dal sottoscritto e da Nerina Vretenar. Con tale documentazione si vuole proporre e divulgare un esempio di applicazione pratica di un dispositivo, che richiama l’insieme delle considerazioni e delle ipotesi avanzate nella tesi, ispirandosi alle teorie e ai modelli esposti.

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1 Identità e narrazione

La grande sfida lanciata alla nostra civiltà è quindi quella di promuovere spazi e forme di socializzazione animati dal desiderio, pratiche concrete che riescano ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano. Educare alla cultura e alla civiltà significava – e significa ancora – creare legami sociali e legami di pensiero.

(M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi)

1.1 Il racconto dell’esperienza

Nell’incipit di un recente articolo apparso su “La Repubblica” Eugenio Scalfari introduce un’intervista al Presidente Giorgio Napolitano, affermando che la narrazione serve

“… a guardare il passato e a raccontarlo con gli occhi di oggi ricavandone un’esperienza da utilizzare per agire sul presente e costruire il futuro. Narrare il passato è dunque un elemento indispensabile per dare un senso alla vita. Chi rinuncia a raccontare vive schiacciato sul presente e il senso, cioè il significato e la nobiltà della propria esistenza, fugge via.” 1

Subito dopo, l’illustre giornalista descrive la differenza tra la narrazione, in cui il riscontro con i fatti avvenuti si rivela doveroso, e le favole che, senza alcun riscontro con la realtà,

                                                                                                               

1 Scalfari E., Due testimoni alle prese con i mali dell’Italia, in “La Repubblica, 2 giugno

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“sono lo strumento preferito dei demagoghi e servono solo per accalappiare gli allocchi.” 2

In questa pur sintetica ma puntuale “lezione” si può leggere e intuire l’influenza della narrazione nelle nostre vite.

Bruner,3 considera la capacità di narrare una dimensione fondamentale del

pensiero umano. Nel momento stesso in cui la raccontiamo, noi interpretiamo la realtà e la organizziamo per dare senso e significato al rapporto col mondo. Il racconto s’intreccia con la cultura, dando luogo a un processo di scambio di significati, che ci consente di aderire a una comunità, condividendo il sistema simbolico culturale. I racconti, però, ci avverte l’autore, non sono innocenti, possono strutturare o distorcere la nostra visione della realtà: non basta distinguerli dalle “favole dei demagoghi”, sono entrambi narrazioni.

Per gli scopi di questa tesi sono di particolare interesse gli ultimi sviluppi della prospettiva bruneriana. In uno dei suoi saggi più recenti, “La fabbrica delle storie”,4 con l’intento di spiegare cosa costituisce un racconto,

l’autore fa riferimento al concetto aristotelico di “peripéteia”5. Si tratta del

meccanismo letterario della “peripezia”, individuato da Aristotele nella Poetica; il significato etimologico è “accadimento improvviso”. L’esempio di Aristotele è illuminante.

“Nell’Edipo [re di Sofocle], il messo, venuto ad allietare Edipo e a liberarlo dal timore nei confronti della madre, quando svelò chi fosse, produsse il contrario.” 6

Secondo Bruner

                                                                                                               

2Ivi.

3 Cfr. Bruner J. S., La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 1988 e Bruner J. S., La

ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

4 Cfr. Bruner J. S., La fabbrica delle storie, Laterza, Bari 2002. 5Ivi, p. 5 – 6.

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“ […] i racconti cominciano sempre dando per scontata (e invitando il lettore o l’ascoltatore a dare per scontata) l’ordinarietà o normalità di qualche particolare stato di cose nel mondo – la situazione che dovrebbe esistere quando Cappuccetto Rosso va a far visita alla nonna […]. A questo punto, la peripéteia sconvolge le attese: è un lupo travestito da nonna […]. Il racconto è partito, con l’iniziale messaggio normativo in agguato sullo sfondo. Forse la saggezza popolare riconosce che è meglio lasciare che il messaggio normativo rimanga implicito piuttosto che rischiare un confronto aperto su di esso. Vorrebbe la Chiesa che i lettori della Genesi criticassero l’iniziale ‘vuoto’ del Cielo e della Terra, protestando ‘ex nihilo nihil’?” 7

C’è da chiedersi come nei racconti della propria formazione si genera la “peripéteia” attraverso gli eventi “ordinari” della nostra esistenza; quali indicatori ci consentono di cogliere i momenti di svolta nella complessità delle esperienze personali e professionali; perché, invece, proprio a causa dell’incapacità di leggere nella complessità delle nostre vite, rischiamo spesso di eluderli o di lasciarcene travolgere, senza raggiungere cambiamenti significativi e soddisfacenti. Ci troviamo già di fronte ad una di quelle questioni di metodo che s’intendono affrontare e chiarire nella tesi. Bruner ci suggerisce di rivolgere la nostra attenzione al modo implicito e di conseguenza reticente con cui interpretiamo le nostre esperienze. Nei tentativi di comprendere ciò che ci succede costruiamo le nostre narrazioni, ma

“raramente ci chiediamo quale forma venga imposta alla realtà quando le diamo la veste di un racconto. Il senso comune si ostina ad affermare che la forma di un racconto è una finestra                                                                                                                

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trasparente sulla realtà, non uno stampo che le impone la sua forma.” 8

Per chiarire quest’aspetto fondamentale della nostra capacità di narrare, Bruner riprende la distinzione di Gottlob Frege tra il “senso”, che è connotativo e la “referenza”, che è denotativa.9 La narrazione, in quanto

finzione letteraria e non pura esperienza, non ci consente di pervenire alla vera realtà, ma ci offre un mezzo indispensabile per dare senso all’esistenza, rendendo così possibile la referenza alla vita reale. La narrazione diventa, allora, l’espressione della propria visione della realtà, del proprio punto di vista, delle proprie credenze e intenzioni, che diventano interpretabili. Così, attraverso le relazioni, le successive sedimentazioni delle interazioni sociali, le esperienze individuali si convertono in esperienze collettive e queste, a loro volta trasformano le prime.

In questa visione, la cultura in cui siamo cresciuti, che abbiamo appreso, o sarebbe meglio dire, le culture che si sono depositate in noi, ci vincolano a particolari modelli narrativi della realtà, che utilizziamo per dar forma alle nostre esperienze. Possiamo intendere i “vincoli” come limiti da riconoscere per reinterpretare le nostre esperienze, e come possibilità, orizzonti culturali dai quali aprirsi a nuove prospettive di senso.

1.2 I dispositivi della narrazione

Nel capitolo successivo vedremo come la letteratura ci abbia fornito, e continua a farlo, i modelli narrativi di riferimento per la costruzione del sé. Sceglieremo in particolare di analizzare quelli più rilevanti nella nostra cultura occidentale, nell’ipotesi di poterne ricavare efficaci indicatori di metodo negli ambiti della nostra formazione personale e professionale.

                                                                                                               

8Ivi, p. 7

9 Cfr. Frege F.G., Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco ed E. Picardi, Laterza,

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Prima di accingerci a questo compito, è importante proseguire la nostra visita alla fabbrica delle storie di Bruner, per attrezzarci con strumenti utili a comprendere e manovrare i dispositivi della narrazione.

Innanzitutto, il rapporto tra esistenza e racconto implica una disponibilità ad aprire spazi di ascolto e di lettura, di dialogo e di confronto tra la soggettivizzazione e la pluralità di prospettive, per transitare dalla prevedibilità del quotidiano all’eventualità dell’inatteso, dal familiare e consolidato al possibile e immaginabile. Per Bruner si tratta di “coniugare la realtà al congiuntivo”,10 partire da chi e cosa noi siamo per esplorare

cosa potremmo essere.

Questa capacità di “congiuntivizzare” la realtà assume una particolare rilevanza nelle attuali società complesse. L’identità culturale attraversa una profonda crisi per effetto dei processi di omologazione dei mass-media, di sradicamento dovuti ai flussi emigratori e alle nuove mobilità territoriali, per i problemi derivanti dall’accelerazione sociale, dalla globalizzazione e dalla stessa crisi economica. Tutto ciò genera incertezza nel futuro e un sentimento di insicurezza, che incide profondamente sul senso delle identità sia individuali che collettive.

Soprattutto per le giovani generazioni, il futuro come “promessa”, prospettiva fondamentale della cultura occidentale moderna, si è trasformato in futuro come “minaccia”. La risposta a questo permanente stato di emergenza e fragilità individuale e sociale, come avvertono Benasayag e Schmit,11 è l’imporsi di un’ideologia dell’utilitarismo, che

invita i giovani a crescere ed apprendere, a costruire la propria identità, i propri ruoli sociali in una logica di produttività ed efficienza immediata. Tale “narrazione” si oppone alla possibilità di proporre ai giovani la loro integrazione sociale attraverso una più equilibrata coniugazione del desiderio profondo con le necessità sociali.

La narrativa letteraria può offrire non solo modelli o esempi, ma soprattutto chiavi di interpretazione e strategie per trasformare l’indicativo                                                                                                                

10 Cfr. Bruner J. S., La mente a più dimensioni, op. cit..

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della propria realtà familiare e quotidiana nel congiuntivo regno del possibile. La narrativa letteraria è un’occasione per orientare la nostra disponibilità a creare alternativi racconti produttori del sé.

La sensibilità del racconto a sfidare la nostra concezione del canonico, ci aiuta a prevenire il prevedibile, ma anche ad aprirci al possibile e ad affrontare l’imprevedibile.

La nostra capacità di leggere gli stati mentali altrui, la reciproca intersoggettività che ci contraddistingue come specie umana è generata, secondo Bruner, proprio dalla consuetudine di organizzare e comunicare l’esperienza in forma di racconto. Dipende, quindi, dalla condivisione di un comune fondo di miti e racconti.

“E dato che la narrativa popolare, come la narrativa in genere, è organizzata sulla dialettica fra norme che sostengono l’attesa e trasgressioni di tali norme evocanti la possibilità, come la stessa cultura, non stupisce che il racconto sia la moneta corrente della cultura.”12

C’è da chiedersi come si coniuga questa duplice e reciproca costruzione del sé e costruzione di cultura attraverso la narrazione con l’avvento della società globalizzata. Come condividere nella contemporaneità il comune fondo di miti e di racconti nella sovrabbondante e immediata disponibilità di credenze e narrazioni, che caratterizza la cosiddetta società della conoscenza? La fine delle “grandi narrazioni” implica una rinuncia nella ricerca di integrare la propria identità in un contesto riconosciuto, proprio in quanto delimitato, oppure offre nuove possibilità di coevoluzione tra identità e sfondo, entrambi non riducibili ed in continua trasformazione? Si avverte il bisogno di maggior “riflessività”, proprio quando appare incrementarsi sempre più il rapporto tra la previsione degli eventi e l’influenza che essa ha sul loro verificarsi, a causa della velocità di diffusione di informazioni e credenze. Questo effetto di schiacciamento sul                                                                                                                

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presente che ci impedisce di mediare i propri desideri, di dilazionarli nel tempo, confondendoli con bisogni immediati, ci induce a scegliere più sulla base di fattori esterni e secondari, che sulle motivazioni più profonde del nostro agire. Il rischio è di ridurre a nulla tutto il resto, nella sensazione dell’impossibilità di poter considerare i molteplici e frammentari contenuti esistenziali da selezionare, rielaborare, re-integrare.13

Proprio per collocarci come registi e non solo come attori negli scenari della contemporaneità, con la miriade di sollecitazioni, a cui siamo sottoposti, nel tentativo di dirigere le proprie esperienze e dar senso alle nostre esistenze, la narrazione diventa un valido strumento. Infatti, la narrazione, non solo crea modelli di mondi possibili, ma modifica anche i modelli del narratore e le menti di coloro che nel racconto ricercano i suoi significati. Come ci ricorda ancora Bruner

“… narrare deriva sia dal latino narrare, sia da gnarus, che è ‘chi sa in un particolare modo’ - il che ci fa pensare che il raccontare implichi sia un modo di conoscere, sia un modo di narrare, in una mescolanza inestricabile.”14

Aggiungerei, un particolare modo di conoscere, riferito agli elementi emergenti delle routine quotidiane, quelli che riteniamo significativi pur nella consuetudine delle esperienze, ed il cui riconoscimento ci permette di trattare gli esiti incerti delle nostre aspettative. Allora, quella distorsione nel rapporto tra la previsione degli eventi e l’influenza che essa ha sul loro verificarsi, può essere riequilibrata proprio dal racconto, che dilata lo spazio tra le resistenze del presente e l’attesa del futuro, connettendoci di volta in volta con i ricordi del passato. La nostra capacità di progettare non deriva solo da cosa sappiamo di noi stessi, delle nostre relazioni, da cosa conosciamo riguardo ciò che ci accade e ci è accaduto, ma anche dal

                                                                                                               

13 Cfr. Batini F., Del Sarto G., Narrazioni di narrazioni, Erickson, Trento 2005. 14 Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 31.

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modo in cui conosciamo le cose, da come siamo abituati a prevederle, dalle nostre reazioni di fronte agli eventi inaspettati.

Se da una parte siamo specializzati nell’adattarci all’ordinarietà del quotidiano, dall’altra siamo altrettanto specializzati a mantenerci vigili di fronte alle deviazioni dalla routine. Con riferimento alle scoperte neurofisiologiche di Giuseppe Moruzzi e Horace Winchell Magoun, Bruner ci ricorda come

“… i messaggi sensoriali inviati alla corteccia cerebrale vengono trasmessi non solo per i consueti tramiti sensori, ma sono portati al cervello anche per un’altra via, il sistema reticolare ascendente, la cui principale funzione è quella di risvegliare la corteccia, di sgombrarla dal monotono tipo di onde in cui l’Es si adagia quando siamo confortevolmente annoiati.” 15

A questo proposito azzardo una considerazione riguardo la nostra attuale capacità di narrare, riferendomi in particolare ai giovani ed alla loro frequentazione dei videogiochi. Il problema del loro uso continuo non riguarda tanto il pericolo di confondere il virtuale con il reale, trasferendo nella realtà la violenza che molti di essi contengono, quanto piuttosto il rischio di compromettere la funzione narrativa del pensiero. Infatti, nei videogiochi l’elemento narrativo è rappresentato esclusivamente da una sorta di ricompensa al giocatore degli sforzi accumulati nelle fasi giocate. La stessa pratica interattiva non porta ad una più ampia conoscenza del racconto in cui si sviluppa il gioco, ma solo ad un aumento dell’abilità del giocatore, che si basa essenzialmente sulla prontezza dei riflessi. Secondo Miguel Benasayag e Gérard Schmit ciò provoca uno “stato di coscienza alterato”, che si mantiene grazie al meccanismo del “feed-back”: per non perdere il filo della partita, l’attenzione viene costantemente sollecitata.

                                                                                                               

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“In questo modo i giocatori si abituano ad un livello di tensione nervosa più elevato del normale. Ciò significa che gli adepti di questi giochi avranno la tendenza ad annoiarsi di fronte a qualunque situazione che non esiga una soglia elevata di attenzione – eccitazione nervosa (il sintomo tipico dello zapping: è necessario che accada costantemente qualcosa). Diventa quindi difficile per loro seguire una trama, interessarsi a una storia se l’attenzione richiesta non raggiunge la soglia di eccitazione delle sinapsi da cui sono ormai dipendenti.” 16

Si potrebbe, a questo punto, azzardare un confronto tra videogioco e narrazione, senza per questo demonizzare le nuove tecnologie, il cui corretto utilizzo in particolare da parte dei cosiddetti “nativi digitali”, apre ampie e indubbie possibilità di conoscenza e di comunicazione. Comunque, nonostante le numerose ricerche per sviluppare videogiochi in cui il giocatore sia messo in grado di influenzarne la trama, le reazioni cognitive si riducono sempre al puro riflesso. Tale abilità si dimostra affatto vantaggiosa nel gestire la prevedibilità e governare l’imprevedibilità degli eventi nelle nostre esistenze. Al contrario, i racconti e la narrativa in genere continuano a offrire modi assai più indicativi e significativi per riflettere sulle proprie aspettative e per elaborare le proprie prospettive personali.

Ci deve far riflettere, per rimanere in ambito educativo, il fatto che, ancor prima di sviluppare le proprie abilità linguistiche, già da piccoli comprendiamo e interagiamo con soddisfazione a quei “muti drammi dell’inaspettato” 17 che gli adulti mettono in scena per noi come nel gioco

del “bubusettete”. Ciò che Bruner considera una precoce sensibilità narrativa radicata nell’interesse per lo sconvolgimento di attese consolidate è una predisposizione, che andrebbe tutelata e sviluppata

                                                                                                               

16 Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, op. cit., p. 96. 17  Bruner J. S., La fabbrica delle storie, op. cit., p. 36  

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nell’ambito delle relazioni educative dove si genera, divenendo nel tempo fondamentale per le future interazioni sociali.

Altro aspetto fondamentale della narrazione e della narrativa in genere è quella che Bruner chiama “la ‘spinta metaforica’ delle storie”.18 Se la

cosiddetta “grammatica dei casi”, tipica delle lingue naturali, offre uno strumento privilegiato quando rappresentiamo le cose in forma di racconto, la sua conoscenza non giustifica da sola la capacità di narrare. “Chi ha fatto che cosa a chi, a che scopo, con quale risultato, dove, quando e con che mezzi” è un dispositivo essenziale, ma occorre un altro livello di “grammatica” per spiegare la raccontabilità delle storie. Ci viene in aiuto, secondo Bruner, la “pentade scenica” di Kenneth Burke.19 Per lo

studioso, una storia reale o fantastica richiede un attore, un’azione, un fine, dei mezzi e un contesto riconoscibile. A motivare una storia è una qualche discordanza tra gli elementi fondamentali della pentade. Si tratta sempre di situazioni particolari, che a causa della loro emblematicità, finiscono per assumere la funzione di cliché narrativi per l’esperienza umana. È il caso, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, del “Bildungroman”: i romanzi appartenenti a questo genere sono un paradigma fondamentale dell’attività dell’individuo nel suo processo formativo. Le vicende dei giovani protagonisti, che attraverso una serie di prove, sofferenze e interrogativi, subiscono un processo di maturazione interiore alla scoperta della loro vocazione e della loro collocazione in rapporto con la società, sono uniche e particolari ma, al tempo stesso, metafore potenti della formazione e costruzione del sé. Costruzione del sé, che Bruner indica, quindi, come una vera e propria arte narrativa.

1.3 La costruzione narrativa del sé

Per l’autore non conosciamo intuitivamente un sé, piuttosto lo costruiamo e ricostruiamo continuamente in base alle esigenze delle situazioni che incontriamo, orientati sia dai nostri ricordi, sia dalle nostre paure e                                                                                                                

18Ivi, p. 38

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speranze. Memoria, sentimenti, idee e credenze costituirebbero il suo lato interiore, parte del quale innato (il nostro senso di continuità nel tempo e nello spazio, il sentimento posturale di noi stessi…); le fonti esterne deriverebbero dall’apparente stima degli altri e dalle innumerevoli attese, anche inconsapevoli, provenienti dalla cultura in cui siamo immersi. Il dato più significativo della tesi dell’autore sta nell’aspetto relazionale della creazione del sé, veicolato proprio dalla narrazione e dalla cultura in genere, dai modelli che fornisce, quali presupposti e prospettive sull’identità, che ci permettono di parlare di noi a noi stessi e agli altri. Dall’ampia documentazione del capitolo dedicato specificatamente al tema, val la pena di riportare il brillante confronto di Bruner, che fa corrispondere una serie di “definizioni – lampo” psicologiche dell’identità del Sé con altrettante regole utili per la narrazione di un buon racconto (vedi lo schema della pagina seguente).20

                                                                                                               

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1. Il Sé è teleologico, pieno di desideri, intenzioni, aspirazioni, sempre intento a

perseguire degli scopi. 1. Un racconto vuole una trama. 2. Di conseguenza, è sensibile agli

ostacoli: risponde al successo o al fallimento, è vacillante nell'affrontare esiti incerti.

2. Alle trame servono ostacoli al conseguimento di un fine. 3. Risponde a quelli che sono giudicati i

suoi successi o fallimenti modificando le sue aspirazioni e ambizioni e

cambiando i suoi gruppi di riferimento.

3. Gli ostacoli fanno riflettere le persone. 4. Ricorre alla memoria selettiva per

adattare il passato alle esigenze del presente e alle attese future.

4. Esponi soltanto il passato che ha rilevanza per il racconto.

5. È orientato su ‘gruppi di riferimento’ e su ‘altre persone importanti’ che forniscono i criteri culturali mediante i quali giudica se stesso.

5. Fornisci i tuoi personaggi di alleati e relazioni.

6. È possessivo ed estensibile, in quanto adotta credenze, valori, devozioni, perfino oggetti come aspetti della

propria identità. 6. Fa' sviluppare i tuoi personaggi. 7. Tuttavia, sembra capace di spogliarsi di

questi valori e acquisizioni a seconda delle circostanze, senza perdere la propria continuità.

7. Ma lascia intatta la loro identità.

8. È continuo nelle sue esperienze al di là del tempo e delle circostanze, malgrado sorprendenti trasformazioni dei suoi contenuti e delle sue attività.

8. E mantieni anche evidente la loro continuità.

9. È sensibile a dove e con chi si trova a

essere nel mondo. 9. Colloca i tuoi personaggi nel mondo della gente. Può rendere ragione e assumersi la

responsabilità delle parole con cui formula se stesso e prova fastidio se non trova le parole.

Fa' che i tuoi personaggi si spieghino per quanto necessario.

È capriccioso, emotivo, labile e

sensibile alle situazioni. Fa' che i tuoi personaggi abbiano cambiamenti di umore. Ricerca e difende la coerenza, evitando

la dissonanza e la contraddizione mediante procedure psichiche altamente evolute.

I personaggi debbono preoccuparsi quando appaiono assurdi.

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Da questo confronto si potrebbe supporre che il nostro senso d’identità sia all’origine della narrativa, come anche l’inverso, e cioè, che sia la nostra capacità di narrare a conferire all’identità la sua forma. In realtà, non è possibile verbalizzare l’esperienza senza assumere una prospettiva attraverso l’impiego del linguaggio, né tutto il nostro pensiero è formato al fine esclusivo della parola. In questo senso, nessuna autobiografia può dirsi completa, ma è solo una versione, un modo di dare un senso coerente alla propria esistenza. Possiamo affermare, in termini psicanalitici, che sulla scena della nostra identità recita un “cast di personaggi”, ai quali ogni costruzione narrativa del Sé tenta di dar voce, ma nessun racconto riuscirà mai a parlare a nome di tutti, né a tener conto della complessità delle nostre relazioni.

Secondo Bruner, una narrazione creatrice del Sé è una specie di atto di bilanciamento tra istanze di autonomia e impegno verso gli altri. Il carattere profondamente relazionale dell’identità è indissolubilmente legato alla capacità di narrare. Infatti, quando tale capacità viene meno, come in quelle patologie neurologiche, citate dall’autore, che prendono il nome di “dysnarrativie”, le persone che ne sono affette sembrano aver perduto il senso del sé, ma anche il senso dell’altro.21 La narrazione

connette la nostra singolarità alla molteplicità che ci abita e ci spinge a creare legami con la molteplicità delle nostre relazioni: così si produce la nostra identità, sullo sfondo di un rapporto dialettico più ampio con la cultura di cui siamo espressione, che si riflette nelle nostre storie. Il rischio della nostra epoca delle “passioni tristi”,22 segnata dall’incertezza del

presente, da un passato, le cui promesse appaiono irrimediabilmente smentite e da un futuro percepito come una minaccia, è quello di smarrire il senso di questo processo in una crisi che ci sprofonda sempre più nella nostra fragilità. Dovremmo, altresì, accettare tale condizione come connaturata all’esperienza umana, leggerla come apertura al mondo e ai suoi possibili cambiamenti. Sono i nostri vissuti a rivelarci che non siamo                                                                                                                

21 Cfr. Bruner J. S., La Fabbrica delle storie, op. cit., pp. 98 – 99. 22 Cfr. Benasayag M., Schmit G., op. cit.  

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individui isolati, separati gli uni dagli altri, ma “persone”,23 la cui

molteplicità non ci permette di conoscere i propri limiti; la nostra etica consiste nell’accettare tale incompletezza come una certa forma di “neotenia”,24 così da favorire il processo formativo della costruzione di sé.

È in questa ricerca di prospettive e di metodo che la narrazione può aiutarci a ricostruire, perfino a reinventare il nostro passato per meglio coltivare attese e progetti futuri.

                                                                                                               

23 Mi riferisco alla distinzione tra individuo e persona formulata da Benasayag M. e Schmit

G.. “L’individuo […] è il prodotto di quell’ordine sociale che pensa che l’umanità sia composta da una serie di esseri separati gli uni dagli altri, che stabiliscono contratti con il loro ambiente e con gli altri. […] La persona è l’alternativa all’individuo. Etimologicamente, ‘persona’ viene dal latino persona, che significa maschera. Una maschera che non nasconde un vero volto, ma una molteplicità di volti. […] Le persone, al contrario degli individui-contratti, hanno un rapporto di apertura con il mondo.” Da Benasayag M., Schmit G., op. cit., p. 107.

24 “Viene definito neotenia il fenomeno evolutivo per cui negli individui adulti di una

specie permangono le caratteristiche morfologiche e fisiologiche tipiche delle forme giovanili. Essa può essere importante per fornire un più ampio spettro di adattabilità ambientale rispetto alla specie ancestrale più specializzata.” La definizione è tratta da Wikipedia, <http://it.wikipedia.org/wiki/Neotenia>, 2013, p. 1.

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2 La creazione del sé nel romanzo di formazione

L’altro motivo per studiare la narrativa consiste nel comprenderla per meglio coltivare le sue illusioni di realtà, nel ‘congiuntivizzare’ gli ovvi indicativi della vita di tutti i giorni.

(Bruner J., La fabbrica delle storie)

2.1 La metafora formativa del Bildungroman

Per comprendere il rapporto dialettico che esiste tra la creazione del sé e la cultura di cui siamo espressione, ci affidiamo all’analisi di quel genere letterario che va sotto il nome di “romanzo di formazione”, a partire dal cosiddetto “Bildungroman”.

Il termine stesso che caratterizza questo genere di romanzo, vale a dire la “Bildung”, indica tanto il processo di formazione che il suo risultato, la forma e la cultura, le conoscenze e i modi in cui sono acquisite. È sul finire del ‘700 che il termine acquista il suo attuale significato sullo sfondo di un rinnovato umanesimo, che promuove il progetto di una formazione armonica di tutte le forze fisiche e spirituali dell’uomo.25

Nell’ambito di questa tesi assume particolare interesse l’esame di tale forma di romanzo, che ha come capostipite il Wilhelm Meister di Goethe,26

sia perché istituisce un nuovo paradigma nella concezione della formazione dell’individuo fin allora prevalente nella cultura occidentale, sia perché seleziona e sviluppa una serie di temi narrativi, la cui influenza si estende ben al di là della letteratura in genere, giungendo fino ai giorni nostri. Franco Moretti li ha descritti e ben argomentati in un saggio, che

                                                                                                               

25 Nel 1820 il critico tedesco Karl von Morgenstern in una sua opera, Über das Wesendes

Bildungsromans, introduce per la prima volta la definizione di Bildungsroman con riferimento al Wilhelm Meister di Goethe. È interessante come lo studioso non si limiti a definire il genere letterario in base al contenuto, che deve rappresentare un processo di formazione del protagonista, ma vede rappresentata in questo tipo di romanzo anche un’evoluzione interiore dell’autore, che promuove attraverso la sua opera una Bildung del lettore. Cfr. http://www.cinziatani.it/2011/01/10/romanzo-di-formazione>, 2013, p. 1.

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ripercorre la parabola del romanzo di formazione, letto come “forma simbolica della modernità”.27

Innanzitutto, la nascita del Bildungroman segna uno spostamento simbolico nella gerarchia dei valori generazionali, rappresentando la “gioventù” come la fase più significativa dell’esistenza. È il riflesso del crollo della società di stato, con l’esodo dalle campagne e la crescita delle città, la rapida trasformazione del mondo del lavoro, il formarsi di nuove classi sociali, tutti fattori che comportano un crescente spaesamento degli individui di fronte ad una realtà in continuo movimento.

Se nelle società tradizionali l’essere giovane si realizzava solo nella differenziazione biologica e nell’introduzione a ruoli preesistenti, con l’avvento della rivoluzione industriale l’apprendistato non comporta più un lento e prevedibile cammino verso il lavoro del padre, ma spinge verso un’incerta quanto necessaria esplorazione del nuovo spazio sociale. Ciò avviene in uno sfondo d’inquietudine, ansia e incertezza generando, al tempo stesso, desideri, aspettative e nuove speranze.

Di sicuro, come indica Moretti, la gioventù che sale alla ribalta della nuova scena sociale non si esaurisce in questo quadro, ma la finzione letteraria nel fornire un senso alla realtà, la connota privilegiando alcuni aspetti a scapito di altri, ispirando particolari referenze alla vita reale.28

Due sono i motivi privilegiati del romanzo di formazione: “mobilità” e “interiorità”. Tali motivi, visti come attributi giovanili caratterizzanti le nuove generazioni nell’epoca della rivoluzione industriale, in una visione più ampia dei processi sociali, finirono per racchiudere il senso della “modernità”. Potremmo dire, senza timore di essere smentiti, che questi due temi si sono fissati nell’immaginario collettivo e hanno continuato a influenzare le idee sull’identità e la costruzione del sé, assumendo contenuti via via differenti secondo i diversi periodi e vicende storiche, fino ai giorni nostri.

                                                                                                               

27 Cfr. Moretti F., Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1999.

28 L’autore indica tra gli altri “la crescente influenza della scuola, il rinsaldarsi dei legami

interni di generazione, un rapporto interamente nuovo con la natura, la ‘spiritualizzazione’ della gioventù: ecco alcune caratteristiche altrettanto salienti della sua storia ‘reale’”. Moretti F., op. cit., p. 5.

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Abbiamo visto nel capitolo precedente come il tema dell’interiorità si declini nell’incertezza dell’attuale crisi sociale, nella mancanza di prospettive di un futuro vissuto come minaccia; in un rapporto più diretto e complesso rispetto al passato, lo stesso tema si coniuga oggi con quello della mobilità. Secondo il sociologo Appadurai,29 la convergenza di mobilità

fisiche, relazioni interpersonali mediate e comunicazione di massa esercitano un effetto combinato sull’immaginazione, che diventa un fatto sociale, fino al punto di determinare la realtà attraverso la nostra capacità di immaginarla.

Con lo scopo di rappresentare, di dare una forma alla natura sconfinata e inarrestabile della modernità, nel romanzo di formazione emerge un'altra caratteristica della gioventù: il fatto che “non dura in eterno”. Questo tentativo di esorcizzare la modernità, trova espressione sul piano tematico nel cammino verso la socializzazione dell’eroe – protagonista.

È un processo dialettico di socializzazione nel quale il giovane protagonista, partito da un’iniziale opposizione alle norme del vivere associati, in particolare dell’etica borghese, passando attraverso alterne vicende, finisce o per sposare tali norme (spesso è proprio un matrimonio a rappresentare l’avvenuta integrazione), oppure per rifiutarle definitivamente. Così il giovane si forma attraverso le sue esperienze e acquista la propria maturità o, quantomeno, scopre il senso del suo essere al mondo. Lo script narrativo del Bildungsroman racchiude così la storia della formazione di un uomo, incarnandosi nello sviluppo naturale del romanzo stesso, come fosse una sua espressione quasi fisiologica. Viene spontaneo affermare che la vita di ogni uomo è, in un certo senso, un romanzo, con un protagonista che deve affrontare delle prove, subendo talvolta lo smacco di qualche sconfitta ed è spesso chiamato a scendere a compromessi con la realtà circostante. Tale visione, tuttavia, non esaurisce né la complessità del processo di costruzione dell’identità, né tantomeno la rappresentazione che ne offre il romanzo di formazione, le                                                                                                                

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cui caratteristiche vanno ben al di là di una prospettiva che si affidi esclusivamente al buon senso.

2.2 Principio di classificazione e principio di trasformazione

Lo studio di Moretti si basa sulle “differenze di intreccio”, e più esattamente sul modo in cui l’intreccio perviene all’istituzione del senso nei diversi tipi di romanzo di formazione. Seguendo la distinzione classica di Lotman tra “principio di classificazione” e “principio di trasformazione”,30 lo

studioso rivela come, pur essendo entrambi presenti nelle opere del genere, il prevalere dell’uno o dell’altro comporta opzioni di valore molto diverse, che si traducono in differenti strategie narrative e indicano atteggiamenti opposti nei confronti della modernità.

Quando prevale il principio di classificazione l’intreccio narrativo si risolve in un finale particolarmente marcato, in cui il significato degli eventi, come nel pensiero hegeliano, conduce ad un unico scopo; la storia acquista senso quanto più riesce a sopprimersi come racconto. Esempi di questo tipo sono il classico Wilhelm Meister di Goethe, e il “romanzo familiare” della tradizione inglese, come Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen.31

Quando, invece, a predominare è il principio di trasformazione, a conferire senso al racconto è la sua “narratività”, che si declina in un processo aperto, instabile e mai definitivo; come nel pensiero di Darwin, prevale una logica narrativa, secondo la quale il senso della storia consiste proprio nell’impossibilità di poterlo fissare. Romanzi di questo tipo sono il Rosso e Nero di Stendhal e l’Onegin di Puškin.32

I due modelli del romanzo di formazione rappresentano visioni opposte della gioventù e di conseguenza, identificando quest’ultima con l’avvento della nuova epoca, incarnano idee contrapposte nei confronti della modernità.

                                                                                                               

30 Cfr. Lotman J., La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1990. 31 Cfr. Austen J., Orgoglio e pregiudizio, Einaudi, Torino 2010.

32 Cfr. Stendhal, Il Rosso e il Nero, Einaudi, Torino 2005 e Puškin A. S., Eugenio Onegin,

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Il contrasto rivela un vero e proprio sdoppiamento dell’immagine della gioventù. Sotto il segno del principio di classificazione la gioventù, vista come fase della vita che deve inevitabilmente finire, è subordinata all’idea di “maturità”. Come il racconto ha un senso perché si conclude con un finale determinato, così la gioventù acquista il suo significato come tirocinio verso la vita adulta, verso un’identità stabile ed integrata.

Al contrario, all’insegna del principio di trasformazione la gioventù appare in tutta la sua irrequietezza e inquietudine; è una gioventù incapace di tradursi in maturità, perché vede tale conclusione come un tradimento, che la priverebbe di senso.

Proseguendo nell’analisi, c’è da rilevare come fu proprio il carattere contraddittorio del romanzo di formazione a decretarne il successo e, potremmo dire, ad affermare la sua influenza sull’idea di creazione del sé.

“Giacché la contraddizione tra opposte valutazioni della modernità e della gioventù, o tra opposti valori e rapporti simbolici, non è un difetto – o magari è anche un difetto – ma è soprattutto il paradossale principio di funzionamento di larga parte della cultura moderna.” 33

In questo genere di narrativa i contrasti tra libertà e felicità, tra identità e cambiamento, tra sicurezza e metamorfosi, tipici della mentalità occidentale moderna, pur sviluppandosi in una dialettica conflittuale nella relazione con se stessi e con l’altro, tendono a risolversi in una logica di “compromesso”. Da questo punto di vista, il romanzo di formazione non produce alcuna formalizzazione concettuale, come nel caso del Faust goethiano, il cui ideale di sintesi si riflette nella filosofia di Hegel.34 È più

affine, invece, alla sfera del quotidiano, agli eventi ordinari della nostra                                                                                                                

33 Moretti F., Il romanzo di formazione, op. cit. p. 10

34 Attraverso la figura simbolo del Faust goethiano, Hegel afferma che l’unione con

l’universale è l’aspirazione massima della coscienza. Tale unione è possibile se e quando l’individuo scopre che la sua felicità è concepibile unicamente nella vita Etica, all’interno di un tessuto sociale, dove poter realizzare la propria essenza e le proprie autentiche finalità. Non è possibile quindi rimanere allo stato di pura individualità perché lo Spirito è universalità concreta.

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esistenza, nella quale, attraverso diverse forme di compromesso, proviamo a convivere con le contraddizioni che ci abitano.

Non solo la filosofia, ma nemmeno la psicanalisi, al contrario delle interpretazioni in cui s’è spinta nei confronti del mito, della tragedia, della fiaba e della commedia, ha tentato simili analisi riguardo al romanzo di formazione. Il motivo di questa mancata riflessione è da individuare, secondo Moretti, nel diverso approccio di psicanalisi e romanzo nei confronti dell’individuo. La prima tende a scomporre la psiche tra le sue opposte forze, guardando sempre e dovunque oltre l’Io; il romanzo si pone invece il compito di amalgamare e far coesistere gli aspetti contraddittori della personalità, per costruire l’Io, ponendolo al centro della propria struttura. Abbiamo visto come il “plot narrativo” del romanzo di formazione sviluppi sempre, attraverso la molteplicità degli intrecci e delle trame, il tema della socializzazione

“… che consiste, in larga misura, nel ‘buon funzionamento’ dell’Io grazie a quel compromesso particolarmente ben riuscito che è per Freud il ‘principio di realtà’”.35

Questa continua tensione verso l’integrazione sociale del protagonista, sia nelle circostanze in cui si realizza, sia nei casi di rifiuto o di impossibilità ad attuarla, ci porta a interrogarci su un’idea terribilmente imbarazzante per la nostra cultura, come quella di “normalità”. È una normalità letta dall’interno, anti – eroica e prosaica, che rende i personaggi più unici che tipici, e al tempo stesso familiari al nostro senso della vita, alle narrazioni che accompagnano la costruzione del sé nell’esperienza quotidiana.

Proprio l’affinità delle caratteristiche dei romanzi di formazione con quelle intrinseche ai modi delle nostre esistenze quotidiane, ci invita a indagare nei primi quei fattori utili per comprendere ed elaborare i secondi. Non si tratta di ricercare modelli, ai quali ispirare le proprie vite, ma di analizzare quegli elementi narrativi “sporgenti”, la cui scelta da parte degli scrittori                                                                                                                

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Nota Bene: nella procedura devono comparire almeno una volta tutte le variabili dichiarate (A, B, C, D, E, H, K, M).. Scrivere la soluzione nella