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Identità e individualizzazione nella postmodernità

Quella che possiamo considerare una virtualità incarnata dell’immaginario sociale ci spinge ad accettare credenze e valori indotti, ad assumere ruoli e comportamenti che rispondono più alla domanda di consenso, che al bisogno di relazioni significative. Inoltre, ci avverte Lasch,133proprio

l’eccessiva liberalizzazione dei modelli culturali dominanti condiziona un individualismo esasperato, un edonismo diffuso il cui primato è l’ossessione per l’autorealizzazione. Quest’ultima, come risposta alla                                                                                                                

131Ivi, p. 103 132Ivi, p. 103 - 104

perdita di un’identità collettiva, trasforma gli stili e i comportamenti della vita quotidiana, anteponendo all’esigenza di dare senso e significato alle nostre esistenze valori come il culto del corpo, il consumismo omologante e la deresponsabilizzazione sociale.

Così Ehrenberg, in un testo dal titolo emblematico, “La fatica di essere se stessi”,134 descrive un individuo che, pur caratterizzato dalla propria

fragilità, è obbligato ad essere performativo, in una società che lascia a ciascuno il compito di definire la propria vita. In un contesto in cui l’individuo si ritrova schiacciato dalla necessità di mostrarsi sempre all’altezza, la depressione diffusa si rivela come la contropartita che ciascuno di noi è costretto a spendere per diventare se stesso. L’inibizione, legata a quest’esperienza soggettiva di scacco nella realizzazione personale e sociale, si costituisce come una modalità di vivere incompatibile con l’immagine che la società richiede a ciascuno di noi. Il nuovo orientamento verso il privato e l’intimità non ha nulla a che vedere con quell’individualismo che abbiamo descritto analizzando i romanzi di formazione dell’ottocento. Quel “privato” aveva perso la sua identità soggettiva per diventare oggetto condizionato del mercato e delle istituzioni sociali. Attualmente, l’attenzione al privato si presenta, al contrario, da un lato nel rifiuto di una socializzazione programmata, dall’altro come pretesa di essere soggetto. L’impossibilità per il singolo individuo di contrastare il “macro” sociale, lo costringe a difendersi nel “micro”, nel tentativo di riconfigurare un nuovo approccio al mondo. Questo nuovo cammino della “soggettività” si compie in un mondo segnato da una dimensione di eccessi e di de-simbolizzazione.

La “società ipermoderna”, come la descrive M. Augé,135 caratterizzata da

una sovrabbondanza di eventi reali e virtuali, ci induce a consumare i molteplici segni, messaggi e oggetti che circolano ogni giorno nel mondo. Questa stessa sovrabbondanza potrebbe ispirarci nuovi significati,                                                                                                                

134 Cfr. Ehrenberg A., La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino,

1999.

135 Cfr. Augé M., Non luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità,

suggerirci associazioni differenti da quelle imposte dal mercato, dalle mode, dai media. Da questo punto di vista l’”iper” può essere letto come un dato che segnala un eccesso, ma anche come una prospettiva che va al di là di norme e quadri di riferimento definiti.

Secondo Beck136 l’individualizzazione è la conseguenza di un processo di

abbandono delle grandi strutture della modernità, di “detradizionalizzazione”. L’ipermodernità ci presenta un nuovo tipo di individuo, che è sì più libero e autonomo, ma anche più solo, proprio perché libero da quei vincoli di appartenenza famigliare, comunitaria, di classe, tramite i quali declinava le sue scelte, ricavava e incrementava le proprie risorse, costruiva la sua storia e la sua identità. Una volta sciolto da tali legami, la sua vita dipende sempre più dalle proprie scelte e decisioni, in un contesto dove prevedere diventa sempre più difficile. Ma proprio la grande complessità delle interazioni sociali, della frammentazione delle responsabilità e delle situazioni, gli impedisce di essere realmente protagonista della scena sociale, di valutare l’efficacia, il valore e le conseguenze delle sue azioni.

L’individualizzazione può essere interpretata secondo diversi orientamenti. Come ci suggeriscono Benasayag e Schmit:

“La questione è sapere se, considerando l’insieme delle persone che compongono una società, la somma delle loro singole ‘risultanti’ determini, come pretende l’ideologia utilitarista, una serie di esseri isolati gli uni dagli altri che intrecciano tra loro relazioni di tipo contrattuale e utilitaristico. O se invece tale insieme risulti costituito da individui che, come isole nel mare, sono sicuramente irrimediabilmente isolati, anche se a ben vedere queste ‘isole’ sono in effetti le pieghe del mare”.137

                                                                                                               

136 Cfr. Beck U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma

2013.

La separazione tra gli individui consente a ciascuno di avere un’identità e una storia unica e singolare, ma al tempo stesso si fonda su una base comune, che costituisce il fondamento di ogni differenza. Secondo gli autori, le strutture dell’organizzazione sociale sono forme “sufficientemente buone” in senso winnicottiano, corrispondenti ad una visione del mondo, ad un insieme di determinanti culturali, geografiche, storiche, biologiche, che ci portano a vivere e ad organizzarci secondo determinate forme e strutture. Nello stesso tempo tale ordine è vissuto da ciascun individuo come qualcosa di molto intimo e segreto. In questo senso, il mondo non comincia sulla soglia di casa, ma al suo interno; il privato e l’intimo hanno una corrispondenza con l’ordine storico sociale di quel determinato momento del divenire umano di una civiltà.

“Di conseguenza, credere troppo alla ‘separatezza’ del privato significa confondere la griglia di lettura con ciò che consente di leggere o, ancora, la mappa con il territorio”.138

Per Benasayag e Schmit l’identità e l’autentica autonomia della persona si realizzano con la consapevolezza della propria molteplicità e si alimentano attraverso la costruzione di legami significativi con gli altri, al di là di ogni utilitarismo e lotta per il dominio. Similmente per Serres,139 la questione

dell’identità non va confusa con le molteplici “appartenenze” dei soggetti. Le scienze logiche e razionali hanno per lungo tempo identificato l’identità come “stato in luogo”, separando l’unità personale dalle particolarità funzionali dell’esistenza come la professione, il genere, la razza. La loro separatezza era funzionale al controllo e al dominio economico, sociale e istituzionale. L’identità personale è in realtà un processo evolutivo aperto, una “ominescenza”, come la definisce il filosofo. Ciò che ci caratterizza è proprio la pluralità e la complessità di appartenenze simultanee e successive, che possono essere più o meno integrate o dissonanti. Tale                                                                                                                

138  Ivi, p. 56  

139 Cfr. Serres M., Non è un mondo per vecchi. Come i giovani rivoluzionano il sapere,

identità plurale, nutrendosi di diverse confluenze e di diversi rapporti, ci permette di condividere esperienze, di partecipare a differenti gruppi e culture. Il rischio è di ripiegarsi su di un’unica appartenenza, di costringere la propria identità ad una sola dimensione personale, sociale, etnica.