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Lo storytelling digitale a servizio della comunicazione interculturale: un caso di studio

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea Magistrale in Informatica Umanistica

Lo Storytelling Digitale a servizio

della comunicazione interculturale:

un caso di studio

Relatore

Prof.ssa Daria Carmina Coppola

Correlatore

Bruno Lo Cicero

Candidata

Roberta Fischetti

Matr. 526314

Anno Accademico 2016 /2017


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Alla mia famiglia.

Ai miei amici, del mio paese di origine, di altre parti d’Italia, di altre parti del mondo.

A quanti credono alle seguenti parole di Papa Francesco: “il Popolo di Dio si incarna nei popoli della Terra, ciascuno dei quali ha la propria cultura […] Nei diversi popoli che sperimentano il dono di Dio secondo la propria cultura, la Chiesa esprime la sua

autentica cattolicità e mostra la bellezza di questo volto pluriforme”. (Evangelii Gaudium, par. 115)

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Sommario

Storytelling e comunicazione interculturale sono due espressioni che

ultimamente si sentono spesso nel nostro contesto socio-culturale; la prima riguarda l’arte di raccontare storie, la seconda l’incontro e lo scambio tra culture diverse. Apparentemente, sembrano due concetti lontani, entrambi, tuttavia, fanno riferimento alla comunicazione che, nel mondo odierno, non può prescindere dall’ambiente

digitale.

In questo lavoro di tesi, vogliamo mostrare come sia possibile una proficua combinazione dei tre concetti (Storytelling, comunicazione interculturale, ambiente digitale), attraverso uno studio di caso che riporta interessanti storie di persone di culture diverse. La nostra indagine ha in particolare riguardato un’associazione non profit che sostiene studenti stranieri in difficoltà. Per presentare le loro storie nell’ambiente digitale, abbiamo utilizzato la tecnica dello storytelling, che ci ha consentito di creare alcuni video da condividere sulle piattaforme online della suddetta associazione. Oltre allo studio delle teorie sulla comunicazione, delle tecniche che possono facilitare la comunicazione tra culture diverse e delle modalità più idonee per raccontare storie emozionanti, abbiamo anche condotto alcune indagini nell’ambito del digital marketing, al fine di capire come rendere più efficace la creazione e la condivisione delle video-storie e più accattivante l’immagine online dell’associazione studiata.

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Indice

Introduzione 4

1. La comunicazione interculturale: un confronto tra diversi modelli 6

1.1. I processi comunicativi nelle prospettive monologica e dialogica 6 1.2. Un approccio costruttivista per la comunicazione interculturale 7

1.2.1. L’empatia: una strategia comunicativa efficace in un contesto

multiculturale 11

1.3. La metafora del software di Hofstede 15

1.4. Il concetto di Superdiversità di Vertovec 19

1.4.1. Superdiversità culturale e linguistica in Italia 22

2. Lo storytelling come mezzo di comunicazione e di relazione 26

2.1. Le origini dello Storytelling e sue definizioni 26

2.2. La dimensione relazionale nello storytelling 28

2.3. L’autobiografia come cura di sé 29

2.4. Le potenzialità dello storytelling per la comunicazione interculturale 33

2.5. Il digital storytelling nel mondo del terzo settore 38

3. Strategie di marketing e comunicazione digitale: dall'azienda al terzo

settore 49

3.1. Un piano strategico per il mondo profit: definizione delle cinque fasi 49

3.2. Importanza dei contenuti nel marketing aziendale 53

3.2.1. Diversi tipi di contenuti in relazione al sales funnel 54

3.2.2. La produzione dei contenuti: le quattro fasi 55

3.3. Lo storytelling nel mondo profit 64

3.3.1. Le storie nel contesto comunicativo odierno 64

3.3.2. Le “buone storie”: struttura, universi discorsivi, trama e genere 65 3.4. Le regole del marketing aziendale applicate al terzo settore 67

4. Un caso di studio 72

4.1. Analisi: situazione attuale dell’associazione Sante Malatesta e dei suoi

(5)

4.2. Strategia e Piano Operativo: definizione degli obiettivi 78 4.3. Strategia e Piano Operativo: ascolto delle fonti e definizione delle Personas 80

4.4. Contenuti: ideazione 85

4.5. Contenuti: produzione 87

4.6. Contenuti: struttura pentadica delle storie 89

4.6.1. Struttura delle video storie 90

4.6.2. Flusso di lavoro 92

4.7. Disseminazione: definizione del calendario editoriale 94

4.8. Verifica dei risultati: analisi qualitativa delle video-interviste 95

5. Conclusioni 97

6. Bibliografia e sitografia 98

Appendice 101

A. Questionario per l’analisi qualitativa dei video promozionali dell’associazione

Sante Malatesta 101

B. Trascrizione dell’intervista a Ester Morelli, donatore dell’associazione 102 C. Trascrizioni delle interviste fatte ai membri dell’associazione 104 C.1. Intervista a Giuseppina Barsacchi, ex-presidente dell’associazione 104 C.2. Intervista a Cinzia Diciotti, volontaria che ospita una studentessa 109 C.3. Intervista a Maria Elena Consorti, volontaria presso il centro d’ascolto 111 C.4. Intervista a Giuseppe Bavaro, volontario presso il centro d’ascolto 114 D. Trascrizioni delle interviste fatte agli studenti aiutati dall’associazione 116 D.1. Intervista ad Aditya, studente indiano di Ingegneria Aerospaziale 116 D.2. Intervista a Tresor, studente camerunese di Ingegneria delle

Telecomunicazioni 119

D.3. Intervista a Yanet, studentessa peruviana di Ingegneria Robotica e

dell’Automazione 122

D.4. Intervista a Aurel, camerunese laureato in Ingegneria Energetica 124

(6)
(7)

Introduzione

L’idea di questo progetto di tesi nasce in seguito alla mia attività di volontariato presso l’associazione Onlus “Sante Malatesta”, che si occupa di offrire sostegno, economico e non solo, a studenti stranieri in difficoltà. Per far ciò, l’associazione dispone di un centro d’ascolto dove numerosi volontari ricevono una volta a settimana, in una determinata fascia oraria, tutti gli studenti che si presentano, ascoltando le richieste di ciascuno tramite un colloquio individuale; tali richieste riguardano principalmente la ricerca di un alloggio, il pagamento delle tasse universitarie e anche ricerca di tutor o di assistenza medica. Il mio compito, in qualità di volontaria, consisteva nell’offrire una prima accoglienza agli studenti che si rivolgevano all’associazione, conversando con loro mentre attendevano di essere ricevuti nel centro d’ascolto. Durante una di queste conversazioni con uno studente camerunese, sono rimasta colpita dalla bellezza della sua storia di migrazione, dalla sua passione, dalla dedizione per il percorso universitario scelto e dall’intervento decisivo dell’associazione nelle sue difficoltà riscontrate durante il periodo di studi; così ho cercato come condividere in modo efficace le storie di questo e di altri studenti con le persone esterne all’associazione. Questa ricerca si è concretizzata nella stesura di quattro capitoli, volti a giustificare e a valorizzare la realizzazione di brevi video-storie di studenti e volontari, finalizzate alla condivisione sulle piattaforme online dell’associazione.

Trattandosi di studenti stranieri, il primo capitolo si focalizza sulla comunicazione interculturale, tema molto discusso nel periodo storico che stiamo vivendo. Per far sì che ci sia una convivenza serena e pacifica tra culture molto diverse, molti studiosi, tra cui la mia relatrice, la prof.ssa Coppola, suggeriscono di adottare un approccio comunicativo di tipo dialogico, che presuppone una negoziazione di senso tra gli interlocutori, una co-costruzione di significati; così facendo, si favorisce una comprensione empatica dell’altro, difficile in un contesto multiculturale (o meglio

superdiverso) come il nostro, ma davvero proficua e arricchente se messa in atto.

Un modo semplice ed efficace di attuare tale tipo di comunicazione è utilizzare la tecnica dello storytelling, ovvero l’arte di raccontare storie, approfondita nel secondo capitolo. Si tratta di una buzzword molto diffusa, applicabile a diversi contesti; per questo ne ho ricercato le origini, concentrandomi sulle sue applicazioni nei campi relazionale e interculturale, oltre che nel campo pedagogico dove acquisisce importanza l’autobiografia, in quanto elemento di cura e riconciliazione con se stessi e con gli altri. È chiaro che nel mondo odierno, permeato di virtualità, lo storytelling ha ottenuto un upgrade al digital storytelling, dove le storie amplificano la loro visibilità grazie ad internet e ai nuovi media.

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Tale visibilità è stata sfruttata a pieno dalle aziende, che hanno saputo estrarre da questa arte efficaci strategie di marketing in grado di attrarre l’attenzione del pubblico e di mantenerla viva per lungo tempo; nel terzo capitolo, dunque, si analizzano l’importanza e la definizione di queste strategie, propedeutiche alla creazione di contenuti digitali da parte delle aziende. Il fine è quello di applicare le stesse strategie al mondo del terzo settore, in particolare all’associazione Sante Malatesta, in modo da verificare se vi siano risultati positivi anche in questo contesto.

Nel quarto ed ultimo capitolo, quindi, ho definito accuratamente una strategia di comunicazione finalizzata prima di tutto ad aumentare la visibilità dell’associazione Sante Malatesta, per poi mirare ad ottenere più donazioni e più volontari. I contenuti digitali che sono venuti fuori sono diciannove video che, alla luce di quanto detto sullo storytelling, mostrano le storie di studenti e volontari al fine di coinvolgere in maniera empatica lo spettatore per stimolarlo a collaborare con l’associazione. Più in dettaglio, si tratta di dieci video più brevi, finalizzati alla condivisione sui social, e nove video più lunghi, da visualizzare sul sito web, che mostrano le storie complete dei protagonisti. Lo scopo di questo progetto, in sintesi, è quello di voler dimostrare le potenzialità dello storytelling digitale in un contesto interculturale, dove questa tecnica si può applicare sia a favore di un’associazione non profit, aumentandone la visibilità, sia a favore del pubblico, arricchendo la sua sensibilità interculturale, intesa come abilità di riconoscere ed affrontare le principali differenze tra culture nel mondo. Più in dettaglio, l’obiettivo è quello di valutare se le storie personali sono effettivamente in grado di generare forti emozioni nel pubblico, in modo da stimolarlo ad un cambiamento in favore dell’altro (in questo caso, nei confronti di chi è di una cultura diversa); in questa valutazione, rientra anche l’efficacia del codice video utilizzato per strutturare tali storie. Infine, si vuole mostrare anche l’importanza del ruolo dell’informatico-umanista, una figura interdisciplinare in grado di operare in diversi campi e di comunicare con esperti di vari settori.

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1.

La comunicazione interculturale: un confronto tra diversi

modelli

In una società multietnica come quella odierna, è necessario imparare a comunicare e a convivere con persone che hanno culture diverse dalle nostre. La comunicazione interculturale cerca di dare una soluzione efficiente a tale necessità, andando oltre approcci superficiali che mirano ad evitare, cambiare o, addirittura, ad eliminare il diverso. Comprensione, rispetto e apprezzamento della diversità sono alla base di questo tipo di comunicazione dove un interlocutore non può prevedere la risposta dell’altro basandosi soltanto su ciò che farebbe al suo posto perché non c’è la condivisione di una realtà culturale comune. C’è dunque bisogno di fare uno sforzo intenzionale, attento e consapevole, affinché ci sia uno scambio proficuo di significati tra interlocutori di culture diverse. Prima di analizzare l’aspetto interculturale, tuttavia, occorre concentrarsi sulla comunicazione in sé, oggetto di molti studi di cui spesso non se ne apprezza l’importanza.

1.1. I processi comunicativi nelle prospettive monologica e dialogica

Bisogna, prima di tutto, fare una distinzione tra “comunicare” e “saper comunicare”; spesso si considera la comunicazione come una competenza spontanea e naturale; al contrario, occorre considerarla come un processo permeato di sforzo e riflessione, elementi necessari in tutti i tipi di interscambio, soprattutto in quello interculturale. In secondo luogo, non bisogna sottovalutare la dipendenza dei contenuti del messaggio comunicativo “dalla modalità con cui vengono trasmessi, dai mezzi che li veicolano e dal rapporto che intercorre tra gli interlocutori” (Coppola, 2014: 2). Infine, bisogna superare l’approccio utilitaristico e strumentale che studia la comunicazione come una pratica volta al raggiungimento di scopi personali per abbracciare una logica molto più ampia, che studia i processi comunicativi sia in una prospettiva semplice e statica, sia in una visione più complessa e dinamica.

Queste prospettive fanno riferimento rispettivamente ai modelli di comunicazione

monologici e a quelli dialogici , due approcci che considerano in modi quasi 1

opposti gli interlocutori, l’interscambio e il contesto in cui questo avviene. Per i modelli del primo tipo, gli interlocutori sono considerati separatamente, nei ruoli di parlante e ascoltatore, mentre l’interscambio viene descritto come un insieme di atti linguistici isolati che avvengono in certo contesto spazio-temporale; per i modelli del secondo

La distinzione tra i modelli monologici e dialogici è nel primo capitolo di Comunicazione e processi di

1

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tipo, invece, gli interlocutori agiscono in modo congiunto, co-costruendo il significato dell’interscambio, negoziandone il senso e tessendo delle relazioni in un contesto definito da coordinate spazio-temporali, psicologiche, socio-culturali, conversazionali e semiotiche.

La prospettiva dialogica, dunque, avvalendosi delle nozioni di intersoggettività (dove i soggetti interagenti sono disposti ad accogliersi a vicenda per costruire insieme un senso condiviso) e di agire comunicativo (dove gli interlocutori sono disposti a cooperare per giungere ad una comprensione reciproca), permette di dare una definizione di comunicazione che abbraccia gli scopi della comunicazione interculturale; infatti, la definizione di comunicazione come “attiva costruzione di spazi comuni e condivisi, al cui interno si può realizzare, negoziare un’intesa, che è frutto della capacità dialogica e relazionale dei partecipanti” (Coppola, 2014: 4) si sposa perfettamente con la 2

sensibilità interculturale di cui parla Bennett (2015), secondo cui ciascun interlocutore è disposto a riconoscere le ragioni dell’altro, ad assumere un diverso punto di vista per giungere ad un dialogo costruttivo.

1.2. Un approccio costruttivista per la comunicazione interculturale

Data la definizione di comunicazione in una prospettiva dialogica, per comprendere a pieno gli scopi della comunicazione interculturale resta da chiarire cosa s’intende per cultura. Si tratta di un contesto in cui è rilevante il comportamento e l’esperienza dei gruppi umani. All’interno di questi gruppi, ogni persona ha la propria visione della realtà sociale di cui fa parte (“cultura soggettiva”), una realtà caratterizzata da determinati aspetti istituzionali, da sistemi politici ed economici e da prodotti artistici (“cultura oggettiva”). In sintesi, si potrebbe definire la cultura come il prodotto della dialettica tra le istituzioni culturali e le persone che ne fanno esperienza, “un sistema che esiste solo nella misura in cui la generazione precedente ha perpetuato la stessa costruzione della realtà in cui è stata socializzata […]. Essa non è un oggetto, ma un processo per mezzo del quale le persone di un gruppo definito coordinano il proprio comportamento” (Bennett, 2015: 27).

La suddetta definizione di cultura si fonda sul principio del cognitivismo

costruttivista, secondo cui l’esperienza della realtà non è diretta ma viene filtrata da

categorie in base alle quali noi percepiamo e classifichiamo i fenomeni. Se tali categorie sono più differenziate, allora riusciremo a fare distinzioni più sottili e

Coppola fa riferimento all’etimologia latina del verbo comunicare, che mette insieme l’aggettivo

2

communis (comune, condiviso) e il sostantivo munus (incarico ricevuto, dono dovuto in cambio), per

sottolineare l’ “osmosi bidirezionale” della comunicazione, dove “comunica soltanto chi riceve e partecipa, chi

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possiamo definirci individui complessi cognitivamente. Gli individui di questo tipo hanno una competenza comunicativa interculturale maggiore perché sono maggiormente in grado di assumere una prospettiva diversa. Oltre alla conoscenza di altri valori e schemi di comportamento, tuttavia, è necessaria, secondo Bennett, anche una certa sensibilità che permetta di percepire l’adeguatezza di alcuni comportamenti, ossia una percezione che deriva sia da una sensazione fisica che da una coscienza consapevole. Per arrivare a comprendere il motivo per cui la comunicazione interculturale si fonda sul costruttivismo e su questa sensibilità, bisogna analizzare prima i paradigmi positivista e relativista.

Il primo nasce dal Paradigma di Newton, secondo il quale ogni evento risponde ad un’osservazione scientifica, da parte di un osservatore esterno (l’evento risulta uguale agli occhi di tutti gli osservatori con competenze simili), e alla causalità lineare (l’evento è generato da una causa e provoca un effetto, in una linea unidirezionale); studiando la correlazione tra causa ed effetto, si possono prevedere gli eventi. Compte (cit. in Bennett, 2015: 39) applica tale paradigma al mondo delle relazioni sociali parlando di Positivismo, approccio secondo cui l’uomo conosce soltanto i fenomeni che può esperire attraverso i sensi. Individuando tali fenomeni nelle relazioni sociali, possiamo dire, in un’ottica positivista, di poterli controllare e di poter fare delle previsioni, con il fine di riportare le relazioni sociali ad un livello ideale in cui prevalga un ordine gerarchico naturale (secondo quest’ordine, vengono prima i civilizzati, poi i barbari, poi i selvaggi; questo assunto è alla base del colonialismo e della schiavitù). Adottare questo approccio nella comunicazione interculturale comporta delle implicazioni, sia a livello teorico che a livello pratico, che rendono necessario in modo evidente il superamento di tale modello. Infatti, a livello teorico, il positivismo implica una reificazione della cultura, resa mero oggetto di osservazione che esiste indipendentemente dall’osservatore, e dei processi psicologici alla base dei comportamenti, intesi come universali e indipendenti dal contesto culturale; dal punto di vista pratico, tale paradigma afferma essere sufficiente soltanto la conoscenza dell’altra cultura, derivante da semplici descrizioni o da informazioni relative a cosa fare e a cosa non fare. Ma in questo modo avverrebbe solo un processo di assimilazione e non di adattamento .3

Bennett distingue l’assimilazione dall’adattamento: nel primo caso, si rischia di “perdere la propria

3

identità culturale primaria per agire differentemente in un contesto culturale diverso”; nel secondo, vi è “l’allargamento del proprio repertorio di credenza e comportamenti”. Adattarsi, quindi, vuol dire percepire come comportarsi in

modo appropriato all’altra cultura, cambiare prospettiva non soltanto dal punto di vista cognitivo ma anche “nell’organizzazione dell’esperienza vissuta, di cui fanno necessariamente parte il comportamento e le

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Per fare un’esperienza profonda dell’altra cultura, quindi, bisogna andare oltre il paradigma positivista e adottare un approccio diverso. Una soluzione potrebbe rivelarsi nell’approccio relativista che nasce dal Paradigma di Einstein, secondo cui l’osservazione dipende dal quadro di riferimento dell’osservatore. Quest’ultimo può variare da persona a persona e ciascun osservatore può soltanto conoscere i quadri degli altri, restando “prigioniero” all’interno del proprio.

Ciò implica, a livello teorico, che non ci si può spostare da una visione del mondo all’altra perché ognuna di esse costituisce un insieme chiuso e limitato, disgiunto dagli altri insiemi. Quindi, per conoscere un’altra cultura non bisogna mai fare riferimenti a concetti esterni alla cultura stessa. Si tratta di un relativismo culturale che considera ogni cultura come un insieme a sé stante. Pur precludendo una reale comunicazione interculturale, questo assunto di relatività, insieme alla relatività linguistica e a quella percettiva, è alla base della comunicazione interculturale poiché, a differenza del positivismo, non fa più riferimento a leggi universali per predire i comportamenti umani ma cerca di descrivere come le diverse culture interagiscono in un sistema complesso. Secondo la relatività linguistica, infatti, il linguaggio è un vero e proprio sistema di rappresentazione della realtà che influisce sul modo di pensare, su come percepiamo gli oggetti e su come li categorizziamo; secondo la relatività percettiva, chi percepisce risponde a categorizzazioni di stimoli influenzate dalla cultura. Più in dettaglio, secondo il relativismo percettivo, percependo un fenomeno, lo distinguiamo da un insieme indistinto di fenomeni creando dei confini che fanno emergere una figura da uno sfondo; tale figura può appartenere a diverse categorie (oggetti, sentimenti o concetti). Il modo in cui tracciamo questi confini è dettato dalla cultura attraverso il linguaggio; “la cultura ci fornisce la tendenza a percepire i fenomeni che sono importanti per la sopravvivenza sia fisica che sociale” (Bennett, 2015: 47). Allo stesso modo, il relativismo linguistico pone in relazione la sintassi linguistica con la rappresentazione grammaticale, spaziale e anche sociale dei fenomeni (ad esempio, i micronesiani hanno un’esperienza più ricca dello spazio che è confermata dai diversi marcatori di luogo che usano per specificare la posizione degli oggetti in relazione al parlante e all’ascoltatore; similmente, alcuni asiatici hanno un’esperienza più profonda della differenza di status sociale, esplicata dai diversi modi che hanno per indicare la seconda o la prima persona singolare).

Dal punto di vista pratico, il relativismo implica che ciascuno guardi al mondo da un punto di vista che è influenzato dalla propria cultura e che cambia da persona da persona; esiste, dunque, una realtà universale sottostante che si manifesta diversamente nei diversi contesti culturali. Volendo riprendere l’efficace metafora degli occhiali che usa Bennett, è come se ciascuno indossasse un paio di occhiali il cui colore

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delle lenti varia a seconda della cultura; basterebbe indossare occhiali diversi per entrare in una prospettiva culturale altra. Così facendo, però, si torna alla visione del positivismo, dove l’altra cultura può essere conosciuta, o al massimo assimilata, ma mai compresa nel profondo. Al fine di giungere ad un adattamento, bisogna diventare più sensibili e cercare di capire perché una certa cultura ha scelto un determinato modello di occhiali per guardare al mondo (ad esempio, sapere che l’inchino è il gesto di saluto asiatico non è sufficiente; ai fini di un’efficace comunicazione interculturale, bisogna capire cosa vuole esprimere un asiatico attraverso quel gesto). In sintesi, il limite dell’approccio relativista sta nella sua rigidità che, considerando le diverse culture come sistemi a propri che non interagiscono tra loro all’interno di una sistema complesso, preclude ogni possibilità di reale adattamento interculturale.

Entrando in una prospettiva di maggiore interazione tra i diversi elementi all’interno del sistema, si comprendono le basi dell’approccio costruttivista, secondo cui l’osservatore, osservando la realtà e descrivendola, interagisce con essa e la costruisce; l’osservatore, tracciando i confini che permettono a una cosa di essere osservata, costruisce sia la figura osservata che lo sfondo da cui emerge, due cose distinte che non esistevano prima della determinazione di tali confini. Dunque, non c’è un significato insito nei fenomeni stessi ma, come suggerisce Kelly (cit. in Bennett, 2015: 53), è 4

l’osservatore a darvi un significato attraverso un’interazione con essi. Quest’ultima, a differenza del relativismo, può avvenire anche tra diversi contesti culturali.

Il paradigma costruttivista implica che la cultura, lungi dall’essere reificata, è definibile come “la nostra descrizione di schemi di comportamento generali attraverso l’interazione umana entro delle condizioni di confine” (ibid.: 54). In altri termini, non ci si limita ad indossare un paio di occhiali per vedere il mondo con una prospettiva diversa, ma si partecipa all’azione sociale, utilizzando un certo linguaggio e mettendo in atto determinati comportamenti. In quest’esperienza entra in gioco anche il corpo dell’osservatore, oltre che la sua mente, dando origine a quello che Bennett definisce “incorporamento” della cultura: un individuo costruisce la propria esperienza interagendo con l’ambiente e gli individui circostanti mediante il suo corpo, con un certo linguaggio e con delle emozioni. Da un punto di vista più pratico, per capire più in profondità una cultura diversa bisogna assumere un atteggiamento auto-riflessivo, ossia ridefinire la propria cultura secondo le categorizzazioni della cultura target per poter osservare quest’ultima secondo il suo modo specifico di organizzare la realtà. Si tratta di un’empatia interculturale che migliora notevolmente la comunicazione senza, però, privarla di due limiti principali che consistono nell’impossibilità di abbandonare

George Alexander Kelly è stato uno psicologo statunitense, vissuto nella prima metà del Novecento,

4

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completamente il modo di organizzare la realtà secondo la propria cultura e nell’incompletezza della comprensione di una cultura altra. Al di là di questi limiti, bisogna tener conto della difficoltà dell’incorporamento dell’altra cultura, dovuta principalmente alle emozioni che entrano in gioco nelle relazioni interpersonali (è molto più facile entrare in empatia con un oggetto, ad esempio con uno strumento musicale nel momento in cui lo si suona, dove estendiamo i confini del nostro corpo per includere quelli dell’oggetto stesso). Nonostante i limiti e le difficoltà, è indispensabile adottare questo approccio per acquisire la consapevolezza di come l’altro vorrebbe essere trattato dalla sua prospettiva, per divenire capaci di estendere i confini del proprio corpo ed includere quelli dell’altro e, infine, per trascendere la limitata esperienza personale ed immaginare il mondo come altri lo stanno esperendo.

1.2.1. L’empatia: una strategia comunicativa efficace in un contesto multiculturale

Per capire cosa intende Bennett quando parla di empatia interculturale, bisogna chiarire il concetto stesso di empatia. Bennett ne chiarisce il significato nel suo saggio Superare la regola d’oro: simpatia ed empatia , partendo dalla necessità del superamento 5

della cosiddetta Regola d’Oro. Tale regola, secondo cui, per una pacifica convivenza, ciascuno fa all’altro ciò che vorrebbe fosse fatto a se stesso, presuppone una verità di fondo, ossia che tutti noi siamo ugualmente umani. È chiaro che questa regola ha dei limiti a livello individuale (pur essendo tutti esseri umani, siamo tutti diversi gli uni dagli altri) e, soprattutto, in un contesto multiculturale, dove alle differenze nelle persone si aggiungono le differenze nei valori. Applicare tale regola vorrebbe dire negare la diversità e comunicare in modo non efficace: “pensare che gli altri siano come noi quando parliamo con loro è l’equivalente che parlare con noi stessi” (Bennett, 2015: 154). Per avere una comunicazione efficace con l’altro, diverso da noi e proveniente da un’altra cultura, bisogna far riferimento, secondo Bennett, all’assunto di diversità sul quale si basa l’empatia, ben diversa dalla strategia di comunicazione della simpatia, basata sull’assunto di similarità. In base a quest’ultimo esiste solo un modo in cui le cose sono veramente; la realtà, quindi, non dipende dalle nostre categorie di osservazione ma è un qualcosa di ideale, di unico, che esiste a prescindere. Si tratta della teoria della “realtà unica” che trova concretezza nell’etnocentrismo, ossia la “tendenza a vedere la nostra cultura come il centro dell’universo […], a vedere le persone inconsciamente usando il nostro gruppo e le nostre usanze come standard di riferimento […], a vedere i nostri gruppi, il nostro paese, la nostra cultura come i migliori, come i più morali […]. È una posizione assoluta che, otre a negare

Il saggio è contenuto in Principi di Comunicazione Interculturale. Paradigmi e pratiche (Bennett, 2015). 5

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l’esistenza di qualsiasi altro quadro di riferimento” (ibid.: 157). Essere in una prospettiva etnocentrica , dunque, vuol dire non riuscire ad accettare che l’altro sia diverso e che 6

stia agendo in modo giusto in base ai valori e ai principi della propria realtà di provenienza. In base alla regola d’oro, per noi è naturale, e addirittura morale, usare i valori alla base del nostro comportamento verso gli altri; tuttavia, se questi ultimi non rispondono in base alle nostre aspettative, siamo convinti che debbano essere loro a cambiare piuttosto che il nostro atteggiamento nei loro confronti. In una interazione faccia a faccia con l’altro, tali comportamenti si traducono nella strategia di comunicazione della simpatia, secondo cui utilizziamo la nostra immaginazione per porre noi stessi nella posizione dell’altra persona. Non si tratta di mettersi nei panni dell’altro, ma piuttosto “ci riferiamo a come noi potremmo pensare o sentire in circostanze simili” (ibid.: 159). Si tratta, dunque, di proiettare noi stessi sull’altro, presupposto simile a noi, ed imputare a lui i nostri pensieri e sentimenti, secondo la nostra prospettiva. Questa proiezione può avvenire facendo riferimento alla nostra memoria (“simpatia reminiscente”), oppure ricorrendo alla nostra immaginazione (“simpatia immaginativa”). Nel primo caso orientiamo la nostra conversazione con l’altro cercando di ricordare, nella nostra esperienza passata, circostanze simili a quelle esposte dall’altra persona (emblematica, in questi casi, è la frase “so esattamente come ti senti; ci sono passato anch’io”) ; nel secondo ci sforziamo di immaginare noi stessi nella 7

circostanza esposta dal nostro interlocutore, pur non avendo mai vissuto nulla di simile . È chiaro che adottare la strategia della simpatia, riminescente o immaginativa 8

che sia, ha i suoi vantaggi; Bennett ne elenca quattro:

• “la simpatia è facile” (poiché è angosciante destreggiarci in un ambiente a noi poco familiare, ci sentiamo più a nostro agio con le cose che già conosciamo, identificando i fenomeni in categorie preesistenti);

Bennett, nel suo “Modello di Sviluppo della Sensibilità Interculturale”, contrappone l’etnocentrismo

6

all’etnorelativismo: il primo è un atteggiamento che presuppone la propria cultura come centrale, come unico parametro di riferimento per classificare e valutare gli altri; il secondo, invece, classifica e valuta gli altri a seconda dei diversi contesti culturali. È chiaro che per sviluppare una buona sensibilità interculturale bisogna spostarsi dall’etnocentrismo all’etnorelativismo.

In riferimento alla simpatia reminiscente, Bennett riporta il seguente esempio: se uno dei due

7

interlocutori ha un problema col bere, l’altro cerca di ricordare un periodo in cui ha avuto la stessa difficoltà e ricostruisce i suoi sentimenti di quel tempo; in base a questi ultimi, che siano uguali o meno a quelli provati dall’altra persona, prosegue la conversazione (Bennett, 2015: 160).

Per spiegare meglio la simpatia immaginativa, Bennett fa riferimento al caso di un terribile incidente

8

d’auto vissuto da soltanto uno dei due interlocutori; in questo caso, l’altro cerca di immaginare come si sentirebbe in questa circostanza (Bennett, 2015: 161).

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• “la simpatia è credibile” (credendo che circostanze simili producano esperienze simili, cosa invece non sempre vera ma che riteniamo tale in base all’assunto di similarità, siamo portati a dare credito alle persone che ci dicono di aver vissuto la nostra stessa situazione);

• “la simpatia è spesso accurata” (quest’accuratezza si riferisce alla comprensione dell’altro; tuttavia, essa non dipende dal processo simpatico ma deriva dal fatto che tendiamo a circondarci più facilmente di persone simili a noi);

• “la simpatia può essere confortante” (spesso troviamo conforto in persone che hanno vissuto, anche se in maniera diversa, circostanze simili alla nostra, specialmente in casi di situazioni negative).

Tuttavia, Bennett non indugia a sottolineare altrettanti svantaggi:

• “la simpatia è insensibile alla differenza” (nel caso in cui il nostro interlocutore sia diverso, per età, sesso, cultura o altro, è chiaro che l’accuratezza della simpatia viene meno);

• “di fronte alla diversità la simpatia è paternalistica” (poiché l’assunto di similarità ci colloca in un’ottica etnocentrica, presupporre che la nostra esperienza sia lo standard migliore con cui misurare il mondo vuol dire far sentire l’altro, proveniente da un mondo diverso, svalutato);

• “di fronte alla diversità la simpatia alimenta un atteggiamento difensivo” (nel momento in cui ci sentiamo svalutati dall’altro, a causa della sua visione etnocentrica, tendiamo a metterci sulla difensiva in modo da proteggere il nostro sistema di valori);

• “la simpatia favorisce la perpetrazione dell’assunto di similarità” (poiché la nostra scelta di strategia comunicativa è interattiva, fintanto che ci circondiamo di persone simili a noi, la simpatia si adatterà sempre alla nostra realtà fino a sembrare un qualcosa di necessario).

Facendo questo confronto tra vantaggi e svantaggi, Bennett non vuole demonizzare la regola d’oro, ma vuole semplicemente sottolineare che essa non funziona in un mondo contraddistinto dalla diversità (o meglio, dalla superdiversità, di cui si parlerà in dettaglio più avanti); per questo bisogna superarla, partendo dall’assunto di diversità per poi arrivare alla strategia comunicativa dell’empatia. Sarebbe scontato pensare che secondo questo assunto siamo tutti diversi; Bennett si sposta più nel profondo, dicendo che “potremo assumere che ogni essere umano sia essenzialmente unico” (Bennett, 2015: 165). Questo non vuol dire avere un approccio individualistico che non si cura dell’altro; si

(17)

tratta, piuttosto, di andare oltre le generalizzazioni che si rischia di fare applicando la 9

regola d’oro per cogliere nell’altro sia le differenze più evidenti, che riguardano linguaggio e cultura, che quelle più particolari, ossia quelle fisiologiche e psicologiche della persona. In base a queste caratteristiche, ciascuno di noi ha una visione unica del mondo, organizza gli eventi e costruisce la propria esperienza; gli stessi eventi, quindi, possono essere interpretati in modo diverso. Si tratta di una “realtà multipla” , ovvero 10

una realtà che “non è una quantità data e scopribile; piuttosto è una qualità creata e variabile” (ibid.: 167). Di questa costruzione della realtà ce ne parla il sopra citato studioso Kelly, che sfata il mito creato dall’assunto di similarità, secondo cui un’esperienza particolare è connessa a circostanze particolari, dicendo che la realtà che sperimentiamo è una questione di percezione e comunicazione, fattori altamente variabili soprattutto in un contesto interculturale. Detto ciò, potrebbe sembrare impossibile comprendere l’altro ma esiste una soluzione: applicare la strategia comunicativa dell’empatia. Bennett ne dà la seguente definizione: l’empatia consiste nella “partecipazione intellettuale immaginativa ed emotiva all’esperienza di un’altra persona” (ibid.: 169). Rispetto alla simpatia, dove per mettersi nei panni dell’altro bisogna condividere una similarità di esperienza, l’empatia si preoccupa di partecipare all’esperienza dell’altro, entrando nella sua testa e nel suo cuore; si attua una “presa di prospettiva”, secondo cui cerchiamo di percepire i sentimenti dell’altro come se fossero i nostri, immaginando i suoi pensieri. In questo modo si potrebbero evitare molte incomprensioni che spesso ci sono nella comunicazione interculturale . Partendo dal 11

cambiamento di prospettiva e dalla volontà di essere partecipi dell’esperienza dell’altra persona, riusciremo a comportarci in maniera appropriata all’esperienza dell’altro fino a godere delle sue differenze piuttosto che a soffrirne.

È chiaro che questa presa di prospettiva richiede uno sforzo; secondo Bennett è necessario un vero e proprio “sviluppo dell’empatia” che consta delle seguenti sei fasi, ciascuna propedeutica alla successiva:

• assumere la diversità (solo se accettiamo che possiamo essere differenti, ovvero che ciascuno di noi ha una sua costrizione della realtà, siamo liberi di immaginare i nostri pensieri e sentimenti da un’altra prospettiva);

Esempi di “generalizzazione” sono alcune categorie di similarità di base, come quelle di genere

9

sessuale.

Teoria opposta a quella della realtà unica, basata sull’assunto di similarità.

10

Bennett cita un esempio di empatia interculturale descrivendo l’immagine su un giornale che

11

ritraeva il Segretario di Stato americano mano nella mano con il presidente egiziano; con questo gesto il Segretario si è comportato in modo appropriato rispetto alla cultura egiziana, andando oltre il significato che lui stesso avrebbe dato al tenersi per mano tra uomini in base alle sue esperienze e alla sua cultura (Bennett, 2015: 170).

(18)

• conoscersi (per evitare di perdersi nella prospettiva dell’altro, è necessario conoscere molto bene la propria identità, a partire dai propri valori, assunti, credenze culturali ed individuali; questa auto-conoscenza ci permetterà di evitare di essere assorbiti dagli stati emotivi altrui ma dobbiamo essere attenti a non degenerare nell’auto-celebrazione);

• sospendere il sé (si tratta di mettere da parte la propria identità per estendere quel confine immaginario che tracciamo tra noi e il resto del mondo);

• consentire l’immaginazione guidata (una volta che il sé è sospeso, dobbiamo consentire alla nostra immaginazione di essere catturata dall’altra persona; si tratta di uno spostamento di consapevolezza molto simile alla partecipazione immaginativa in una rappresentazione teatrale o in un romanzo ); 12

• consentire l’esperienza empatica (o meglio, sperimentare l’altra persona che sta guidando la nostra immaginazione come se fosse noi stessi; quest’esperienza può diventare così intensa da risultarci aliena: anche se si tratta di un’attività a noi familiare, è pur sempre fatta da un’altra persona);

• ristabilire il sé (una volta compresa l’altra persona, è necessario ristabilire i confini del sé precedentemente sospesi; in questo modo si dà valore sia alla differenza dell’altro che alla propria unicità).

Intraprendendo questo percorso di sviluppo dell’empatia, si può giungere all’applicazione della Regola di Platino, secondo cui facciamo agli altri “ciò che loro stessi farebbero a loro stessi” (ibid.: 175). Solo in questo modo si diventa in grado di espandere il proprio Io senza mai annullarlo, di immedesimarsi nell’altro restando pienamente consapevoli del proprio sistema di valori e della propria cultura, di entrare in relazione con l’altro e di riconoscerlo; solo così si giunge ad una piena consapevolezza della diversità culturale.

1.3. La metafora del software di Hofstede

Entrare in empatia con l’altro è molto difficile, soprattutto a causa dei diversi modelli mentali tramite cui l’altra persona decodifica la realtà. Hofstede (cit. in Balboni, 2007: 19 - 21), antropologo e psicologo olandese, paragona tali modelli a dei software per sottolinearne l’indipendenza dalle persone che li realizzano (così come il software è indipendente dall’hardware su cui è installato). Non potendo insegnare la

La rappresentazione teatrale e il romanzo sono forme di storytelling, ossia l’arte di raccontare storie,

12

(19)

comunicazione interculturale, sia perché in continua evoluzione sia per l’esistenza di troppe culture, lo studioso ha ideato un modello di competenza comunicativa

interculturale, applicabile a qualsiasi cultura. All’interno di questo modello, egli

opera una distinzione tra software culturale, software comunicativo e software

contestuale.

Il software culturale comprende tutti quei valori e quegli assunti culturali che spesso si danno per scontati. Si tratta degli aspetti più evidenti di una cultura che, proprio a causa di questa evidenza, sono spesso conosciuti in modo superficiale, sia nel caso di una cultura altra (di cui non si comprendono le regole profonde che sono alla base di determinati valori) che della propria (i cui valori di fondo rischiano di essere perpetuati per inerzia o tradizione, senza mai essere messi in discussione). Tra questi aspetti ad esempio, troviamo il concetto di tempo, quello della famiglia e quello della gerarchia. Per quanto riguarda il tempo, Balboni (2007) cita la diversa concezione del tempo vuoto o del silenzio da parte di diverse culture. Un italiano, come altri abitanti dell’Europa meridionale, teme il silenzio e, di conseguenza, tende a parlare spesso per colmare qualsiasi vuoto; questo può risultare sgradevole all’orecchio di un nordeuropeo. D’altro canto, un cinese che resta un momento in silenzio dopo una domanda può risultare poco sveglio agli occhi di un occidentale mentre, in realtà, vuole dare enfasi ed importanza alla domanda stessa tramite questo atteggiamento. Per la famiglia, si pensi a come ne differisce il valore per un americano e per un giapponese: il primo va via di casa a 17 anni per andare al college e per avere una sua privacy; il secondo valuta il suo interlocutore anche in base alla famiglia di appartenenza e, alle volte, incentra sulla propria famiglia il suo lavoro. In quest’ultimo caso, una critica alla sua azienda viene interpretata come una critica alla sua famiglia e può generare un conflitto. Per il concetto di gerarchia, infine, un classico esempio si può ritrovare nella cultura cinese: come in altre culture orientali, c’è un grande rispetto per l’anziano (che si riflette, ad esempio, nell’uso di registri formali) a differenza di alcune culture occidentali.

Il software di comunicazione comprende tutti i codici verbali e non verbali che si utilizzano negli interscambi. Spesso si presta poca attenzione ai codici del secondo tipo, sottovalutati perché ritenuti universali e naturali mentre in realtà sono dipendenti dall’aspetto culturale così come lo sono le lingue verbali. Per provarne l’importanza, Balboni espone le seguenti affermazioni:

• “siamo prima visti poi ascoltati”; • “siamo più visti che ascoltati”;

(20)

• “sulla base di quel che si vede si decide se comunicare o non comunicare”; • “l’informazione visiva prevale su quella linguistica”.

La nostra mente, dunque, elabora le informazioni visive prima di quelle linguistiche, informazioni che provengono per la maggior parte da ciò che vediamo; in base a quest’ultimo processo, decidiamo se comunicare o meno con l’altro, scambiando informazioni soprattutto visive, oltre che linguistiche. Tali informazioni visive possono generare incomprensioni interculturali attraverso la cinesica (gesti ed espressioni), la 13

prossemica (distanza interpersonale), la vestemica (vestiti indossati) e 14 15

l’oggettemica (oggetti e status symbol).16

Per quanto riguarda i codici verbali, Balboni distingue le incomprensioni interculturali che ci possono essere a causa degli aspetti para-verbali (volume e tono della voce), 17

Balboni cita il confronto tra alcune culture orientali, dove le persone sono abituate ad essere

13

riservate e a non mostrare i propri sentimenti, e la cultura latina, dove è assolutamente spontaneo far emergere i propri sentimenti da alcune espressioni del viso (Balboni, 2007: 59).

Si pensi al gesto del bacio: in Giappone non è opportuno baciarsi in pubblico, nemmeno tra padre e

14

figlio; in Argentina o in Brasile, invece, il bacio è un normale, e addirittura dovuto, gesto di saluto tra due persone, anche se dello stesso sesso (Balboni, 2007: 71).

Un certo modo di vestire può comunicare rispetto e formalità. Vestirsi con un abito spezzato, ad

15

esempio, è considerato formale da un maschio italiano ma non vale lo stesso per un americano, che lo riconduce all’abbigliamento degli “immigrati straccioni”; per un americano, infatti, la formalità si comunica attraverso un vestito di un unico colore, composto di tre pezzi: giacca, panciotto e pantalone (Balboni, 2007: 72 - 73).

A tal riguardo, Balboni fa l’esempio dei gioielli etnici che ultimamente vanno molto di moda tra le

16

donne europee; indossarli in un incontro con una persona originaria del paese da cui essi provengono, tuttavia, può essere quasi offensivo poiché rappresentano un passato doloroso e povero di cui la suddetta persona si vergogna (Balboni, 2007: 75 - 76).

Gli italiani, ad esempio, ritengono che parlare con un tono di voce alto sia indice di partecipazione;

17

interrompere l’altro o parlarci contemporaneamente è ritenuto normalissimo. Le stesse azioni, d’altro canto, sono del tutto fuori luogo nel resto d’Europa e in Oriente, dove possono risultare aggressive e poco rispettose (Balboni, 2007: 86).

(21)

della scelta delle parole e degli argomenti , di alcuni aspetti grammaticali , della 18 19

struttura del testo (modo in cui il pensiero viene tradotto in struttura linguistica) e 20

degli aspetti sociolinguistici e pragmatici .21

Il software contestuale, infine, riguarda gli eventi nei quali la comunicazione si realizza e come questi vengono gestiti a livello socio-pragmatico. A differenza dei due software mentali precedenti, che costituiscono la competenza comunicativa , questo 22

software costituisce la performance, l’atto della comunicazione che può manifestarsi in una telefonata, in un lavoro di gruppo, durante un pasto, ecc. A fronte di una pluralità di modi in cui la comunicazione si realizza, esiste un unico elemento in comune tra tutte le situazioni comunicative possibili: il dialogo. Si tratta di un genere comunicativo 23

La scelta di usare parole tecniche o specifiche inglesi all’interno di un ambito scientifico indica

18

appartenenza, modernità e positività per la maggior parte degli occidentali; tuttavia, utilizzare la micro lingua inglese in contesti francofoni è sinonimo di ridicolezza (Balboni, 2007: 88).

Dal punto di vista della morfologia e della sintassi, Balboni cita degli esempi interessanti che

19

possono portare ad incomprensione interculturale; tra quesi vi è la differenza dell’uso dei superlativi e dei comparativi tra Stati Uniti e Inghilterra: nel primo paese, essendo una forza competitiva, si tende a farne ampio uso; nel secondo, invece, si evitano per ragioni di cortesia; l’americano che usa queste forme grammaticali, dunque, risulterà uno sbruffone agli occhi dell’inglese mentre quest’ultimo sarà considerato poco chiaro (Balboni, 2007: 90).

L’autore distingue quattro diverse strutture testuali: quella “lineare a prevalenza paratattica”, tipica

20

dei testi anglosassoni; quella a “prevalenza ipotattica”, tipica dei testi latini, slavi e tedeschi; quella “per costruzioni parallele”, che si ritrova nei testi arabi o iraniani; quella “a spirale”, tipica di alcuni testi orientali. Un americano che legge un testo italiano o tedesco, ad esempio, lo riterrà poco chiaro e ambiguo perché pieno di digressioni; al contrario, l’europeo riterrà il testo americano semplicistico (Balboni, 2007: 95 - 96).

Per quanto riguarda gli aspetti sociolinguistici, un’incomprensione potrebbe nascere dalla mancanza

21

di una forma alternativa alla seconda persona per indicare formalità nella lingua inglese. Per sopperire a tale mancanza, gli inglesi usano spesso forme come “please” o “thank you”; gli italiani, invece, limitandosi ad usare il “lei”, raramente ringraziano o dicono “per piacere”, risultando poco cortesi agli inglesi (percezione amplificata, del resto, dal tono alto di voce e dai gesti evidenti). Dal punto di vista pragmatico, tra le diverse “mosse comunicative” a cui l’autore fa riferimento, c’è quella del tacere di fronte a una domanda, che, a seconda della cultura, può essere inteso come mancanza di capacità o come enfasi della riflessione.

Secondo l’antropologo Hymes, una persona competente a livello comunicativo non solo ha l’abilità

22

di formulare enunciati linguistici corretti dal punto di vista grammaticale, ma ha anche la consapevolezza di come e quando formulare tali enunciati; “la competenza comunicativa […] é intesa da

Hymes come la capacità del parlante di usare una lingua nel modo ritenuto più appropriato all’evento comunicativo in atto” (Cilberti, 2012: 2).

Per dare una definizione di genere comunicativo, Balboni ricorre a una metafora informatica,

23

paragonandolo a un template: un modello di riferimento con dei campi già predisposti in cui riversare dei contenuti (Balboni, 2007: 114).

(22)

che, più di altri, può causare fraintendimenti a livello interculturale. Questo perché, oltre al messaggio che si sente, vi è anche un meta-messaggio che ci dice come interpretare il messaggio veicolato. Messaggio e meta-messaggio devono essere decodificati contemporaneamente e questo risulta ancora più difficile nella comunicazione interculturale, dove gli interlocutori hanno diverse regole alla base di stessi generi comunicativi .24

Divenire consapevoli dei diversi software mentali, dunque, non è un modo per accettare passivamente la difficoltà che sta dietro ad ogni tipo di comunicazione tra culture diverse, ma dovrebbe essere uno stimolo ad imparare a gestire più software contemporaneamente, come i potenti computer di ultima generazione. Secondo Hofstede, una corretta gestione di tali software viene prima di tutto dalla consapevolezza della loro esistenza (ciascuno riconosce di avere un proprio software mentale, che deriva dalla cultura in cui è cresciuto), dalla conoscenza degli aspetti principali di altre culture e, infine, dall’abilità di comunicare con membri di queste ultime entrando in una prospettiva interculturale, dove la tolleranza e il rispetto per il diverso permettono un’interazione più vera e profonda tra le diverse culture, ben diversa dall’omogenizzazione.

1.4. Il concetto di Superdiversità di Vertovec

Oltre alla consapevolezza e alla conoscenza dei diversi software mentali e all’abilità di saperli applicare ad una comunicazione con altre culture, bisogna tener conto della

superdiversità che caratterizza l’ambiente e l’epoca in cui viviamo, dove la

complessa realtà dell’immigrazione ci fa vedere “il mondo radunato in un’unica città” (Vertovec, 2007: 1024). Si tratta di un concetto che vuole sottolineare come nel mondo odierno vi sia un’interazione di diverse variabili che ridefinisce la diversità, non più relativa soltanto alla differenza di etnie ma anche alle diverse condizioni dei singoli immigrati, ai loro diritti, alle loro diverse esperienze lavorative oltre che alle differenze di età e di genere sessuale. Adottare questa prospettiva multi-dimensionale nei confronti della diversità può aiutarci ad andare ben oltre il considerare il gruppo etnico come mero oggetto di studio per arrivare ad apprezzare la concomitanza dei diversi fattori che condizionano la vita delle persone. Vertovec parla principalmente del fenomeno dell’immigrazione a Londra e nella Gran Bretagna, ma il suo discorso si

Si pensi alla puntualità nell’arrivare ad un party o ad una cena: nel Nord Europa e in America si

24

cena molto presto e, volendo invitare altre persone, si comunica anche l’orario di fine evento; questo è totalmente diverso in un contesto latino, dove si ritiene lecito arrivare in ritardo rispetto ad un invito a cena alle 18:00 e si ha paura di offendere qualcuno se si va via presto. La mancanza di puntualità di un latino, dunque, può essere motivo di offesa per un americano o per un nord europeo.

(23)

può applicare anche in un contesto più ampio poiché le variabili a cui fa riferimento sussistono in diversi paesi dell’Europa e del mondo. Tra queste variabili, che, a partire dai primi anni Novanta in poi, concorrono a formare la “nuova migrazione” , 25

troviamo:

• il Paese d’origine (spesso si tratta di paesi soggetti a conflitti quotidiani, che non 26

condividono nessun legame storico con il Regno Unito);

• la lingua (solo a Londra, ad esempio, si parlano circa 300 lingue ); 27

• la religione (all’interno di ciascuna religione, ci sono particolari tradizioni e usanze di cui bisogna tener conto).

Queste variabili si influenzano a vicenda. Per la lingua, ad esempio, si nota che a Londra gruppi di persone che parlano lingue diverse dall’inglese si concentrano in certi luoghi piuttosto che in altri; di fronte a questa complessità, nasce l’esigenza, da parte dei fornitori di servizi locali, di prendere iniziative ed offrire alla gente degli interpreti. La religione, invece, è molto influenzata dal paese d’origine degli immigrati (coloro che vengono dall’Irlanda e dalla Giamaica sono per la maggior parte cristiani mentre quelli provenienti dal Bangladesh sono musulmani).

Altre variabili sono i canali di migrazione e i diversi status giuridici che ne conseguono. Con l’aumentare degli afflussi di immigrati, infatti, aumentano anche le categorie che li differenziano e le particolari condizioni di ciascuno; ogni migrante porta nella sua “valigia” specifici diritti, condizioni e vincoli che possono essere diversi da un altro migrante, pur appartenente alla stessa categoria (diverse categorie possono essere le seguenti: studenti, lavoratori, famiglia, richiedenti asilo, migranti clandestini, ecc.). Risulta chiaro, dunque, che in un contesto simile non sono più efficienti i modelli di analisi basati solo sull’etnia, poiché risultano inadeguati di fronte alle esigenze individuali di ciascun immigrato. Per comprendere queste ultime, bisogna capire come i diversi canali di immigrazione e i diversi status giuridici si intersecano con le dimensioni socio-culturali e socio-economiche. Il genere sessuale, ad esempio, dipende

Parlando di “nuova migrazione”, Vertovec sottolinea che, a partire dagli anni Novanta in poi, i flussi

25

migratori sono molto cambiati: c’è stato un notevole aumento degli afflussi, una diversificazione dei paesi di origine e una significativa espansione dei richiedenti asilo (Vertovec, 2007: 1028).

Secondo un rapporto del GLA (Greater London Authority) del 2005, solo il 30% degli immigrati

26

proviene da paesi ad alto reddito mentre il restante 70% proviene da paesi in via di sviluppo (ibid.: 1030).

Tale stima si deve a un sondaggio di Baker e Mohieldeen nel 2000, basato sulla lingua che circa

27

(24)

molto dal Paese d’origine e dallo status del migrante (ad esempio, la maggior parte dei richiedenti asilo è di genere maschile e proviene dai paesi dove regnano i conflitti); anche l’età è legata alle stesse variabili del sesso (la maggior parte delle persone provenienti da paesi in difficoltà è costituita da migranti in cerca di lavoro con un’età compresa tra i 25 e i 44 anni, range di età che ben riflette le esigenze lavorative dei migranti ). Per quanto riguarda i luoghi di stabilimento nel paese di accoglienza, non 28

è detto che un gruppo di migranti che parte da uno stesso luogo si stabilisca in una stessa zona del luogo di arrivo; anzi, ultimamente molti i gruppi di migranti, raggiunta la meta di destinazione, tendono a dividersi e a stabilirsi in quartieri diversi . Anche il 29

transnazionalismo è influenzato da alcune dimensioni socio-economiche; esso, infatti, è facilitato dalle nuove tecnologie, dal progresso nel campo delle telecomunicazioni e dai costi ridotti dei viaggi. In questo modo, gli immigrati riescono maggiormente a mantenere collegamenti con comunità al di fuori del Regno Unito. Tuttavia, non tutti possono restare in contato con la loro cultura d’origine a causa di determinati vincoli (si ripensi ai canali di migrazione e agli status giuridici). Ne consegue che le pratiche transnazionali all’interno dei diversi gruppi di immigrati sono molto diverse.

Di fronte a questa interazione di più variabili in un sistema multidimensionale, sia i sociologi che i politici devono ripensare agli approcci con cui affrontano il grande afflusso di immigrati. I primi devono abbandonare teorie e metodi basati sull’analisi comparativa dei processi di assimilazione di determinati gruppi etnici per analizzare l’interazione di diversi fattori quali: il paese d’origine (che comprende diversi sottoinsiemi tra cui l’etnia, le lingue, la tradizione religiosa, le identità locali, i valori e le pratiche culturali); i canali di migrazione (spesso legati a flussi differenziati per genere sessuale); gli status giuridici; il background formativo; l’accesso al lavoro (che può dipendere o meno dai migranti stessi); il transnazionalismo e le risposte delle autorità, dei servizi e dei residenti locali. Bisogna, dunque, rimodellare ed estendere quei metodi che si focalizzano sull’etnia per poter analizzare i processi sociali nelle loro diversità e per esplorare la complessità di gruppi multietnici. I secondi, insieme ai dipartimenti sociali e alle ONG (organizzazioni senza fini di lucro), devono prima di tutto essere consapevoli della natura e dell’estensione della diversità per sviluppare politiche adeguate in termini sia locali che nazionali. Per giungere a tale consapevolezza, possono richiedere l’aiuto della ricerca scientifica in campo sociale.

Al contrario delle persone provenienti da paesi ad alto reddito, solo una minima parte ha un’età

28

compresa tra i 25 e i 44 anni, a dimostrazione del fatto che le loro esigenze di spostamento non sono primariamente lavorative.

Secondo la suddetta analisi del GLA del 2005, un singolo posto può essere popolato da culture

29

diverse mentre una singola identità culturale è spesso situata in spazi multipli e interconnessi (ibid.: 1042).

(25)

In sintesi, “il concetto di superdiversità punta alla necessità di considerare le condizioni e i processi multi-dimensionali che influenzano gli immigrati della società contemporanea. Il suo riconoscimento, potrà portare a provvedimenti pubblici che si adattino meglio alle condizioni e ai bisogno degli immigrati, delle minoranze etniche e dell’ampia popolazione di cui fanno parte” (ibid.: 1050).

1.4.1. Superdiversità culturale e linguistica in Italia

Tale multidimensionalità si ritrova anche negli studi sociologici sull’immigrazione nel contesto italiano e, più precisamente, in quegli studi che si concentrano sul concetto di integrazione; ponendo l’accento su processualità, multidimensionalità e bidirezionalità, essi ne danno la seguente definizione: “processo multidimensionale finalizzato alla pacifica convivenza, entro una determinata realtà storico-sociale, tra individui e gruppi culturalmente e/o etnicamente differenti, fondato sul reciproco rispetto delle diversità etno-culturali, a condizione che queste non ledano i diritti umani fondamentali e non mettano a rischio le istituzioni democratiche. L’integrazione consiste sempre in un processo che necessita di tempo; essa è una meta che non si acquisisce una volta per tutte, ma che viene costantemente perseguita. Essa si declina a livello economico, sociale, culturale e politico. Proprio per questa sua natura multidimensionale, se si limita ad un solo ambito, essa sarà necessariamente parziale. Ciascuna di queste dimensioni dà vita a gradi diversi di integrazione […]. L’integrazione è bidirezionale in quanto essa non riguarda solo gli immigrati ma anche e congiuntamente i cittadini del Paese ricevente” (Boccagni, Pollini, 2012: 30

63 - 64).

Purtroppo, questo concetto di integrazione non è così chiaro e condiviso da tutti in ambito nazionale, dove sono carenti riflessioni ed esperienze sui rapporti tra maggioranza e minoranze rispetto ad altri paesi d’Europa. Carenti sono anche gli interventi politici nei confronti dell’investimento di risorse pubbliche. Ne sono esempio alcune grandi città italiane, tra cui Milano, dove si manifesta la super diversità similmente alla Londra di cui ci parla Vertovec. Nel capoluogo lombardo, infatti, circa un quinto della popolazione è costituito da residenti di origine straniera ; nelle 31

periferie si percepisce moltissimo la differenza tra “noi” e “loro”, percezione dovuta a dinamiche di processi di insediamento ricorrenti. Tra queste c’è la tendenza a stabilirsi in preesistenti quartieri operai e popolari, dall’aspetto fatiscente, già meta di

Questa definizione si deve al gruppo di ricerca della Fondazione ISMU, partner italiano del

30

progetto internazionale MIPEX di rilevazione comparativa dell’integrazione.

Tale stima risale al 2014 ed è stata fornita dal Settore Statistica del Comune di Milano (Cipolla,

31

(26)

immigrazioni interne , per via dei bassi prezzi dovuti al degrado e a progressive 32

situazioni di disagio. Ciò è dovuto all’incapacità da parte del sistema delle infrastrutture edili di rispondere alla domanda di casa da parte degli immigrati. In questo modo, nelle periferie si ritrovano a vivere le persone più povere, sia autoctone che immigrate, che si erano trasferite in città alla ricerca di una vita migliore; si vengono a creare zone concentrate di disagio dove si riscontrano difficoltà di tipo diverso (anziani poveri, malati psichici e immigrati stranieri) che possono sfociare in conflitti. I problemi preesistenti delle persone meno abbienti diventano più complessi quando ci sono anche differenze di tipo etnico e culturale. Si creano molteplici difficoltà di convivenza poiché gli autoctoni competono sia tra loro che con gli stranieri per le scarse risorse a disposizione (assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, posti negli asili nido, ecc.). Dal punto di vista dell’immigrato, inoltre, le difficoltà della marginalizzazione sono accentuate rispetto a quelle degli autoctoni poiché ad esse si aggiungono il problema di un lavoro regolare, la discriminazione razziale e l’apprendimento della lingua.

Da quest’ultimo punto di vista, l’Italia ha sempre vissuto e vive tuttora una diversità linguistica storica (basti pensare alla “questione della lingua”, riguardante gli anni dell’unità d’Italia, e la persistenza dei tantissimi dialetti); tale diversità deve fare i conti con le lingue che portano gli immigrati. Tuttavia, a differenza della Londra di Vertovec, nella società italiana le lingue straniere non sono conosciute in modo “esteso, solido e sicuro” (Barni, Vedovelli, 2011: 182); di questo risente anche l’economia del nostro Paese, poiché la mancata conoscenza sia dell’inglese che di altre lingue non ci permette di competere con gli altri paesi del mondo, escludendo il nostro sistema di piccole imprese dai processi di internazionalizzazione da cui potrebbe trarre grandi benefici.

Tornando al contatto linguistico degli immigrati con la popolazione italiana, bisogna analizzarlo facendo ricorso al concetto di superdiversità di Vertovec ; applicando tale 33

concetto alla questione linguistica, si definisce la superdiversità linguistica come “la presenza in un determinato territorio di parlanti lingue diverse in numero assolutamente non confrontabile con situazioni precedenti, e, oltre al numero, con l’evidenza di una serie di altri tratti che separano l’attuale situazione di superdiversità dai normali casi di contatto linguistico” (ibid.: 186). Di fronte a questa situazione, anche nel contesto italiano bisogna adottare approcci

Gli autori fanno riferimento agli immigrati situati in via Padova di Milano, quartiere operaio in

32

precedenza meta degli immigrati dal Sud Italia (Cipolla, Colozzi, Moruzzi, 2016: 50).

Nei confronti della superdiversità, Barni e Vedovelli riprendono la metafora del socio-linguista belga

33

Blommaert secondo cui il mondo non è divenuto un villaggio (come nella visione di McLuhan), ma piuttosto una rete complessa dove si connettono villaggi, città, quartieri, insediamenti in base a legami materiali o simbolici del tutto imprevedibili (Barni, Vedovelli, 2011: 185).

(27)

diversi, proprio come suggerisce Vertovec nei confronti degli ambiti socio-politici. Bisogna uscire dall’ottica del “monolitismo linguistico” e rinunciare a descrizioni 34

statiche e descrittive dei contesti per abbracciare un nuovo paradigma teorico, descrittivo e gestionale, che tenga conto della mobilità delle risorse linguistiche e dell’imprevedibilità delle persone che le usano. Tale paradigma si deve applicare soprattutto in quelle città dove la convivenza tra il parlato italiano comune, i dialetti tradizionali e le diverse lingue portate dagli immigrati assume grandi dimensioni. La città di Roma, ad esempio, si può sicuramente paragonare ad una “babele di alfabeti, suoni e lingue” (ibid.: 188), più di altre situazioni italiane. Secondo un’indagine svolta dall’Università per Stranieri di Siena, nel quartiere Esquilino della Capitale ci sono 24 lingue diverse che si manifestano in ben 15 tipologie testuali distinte (insegne, manifesti, avvisi, ecc.); dall’analisi emerge che le lingue non rispondono soltanto ad esigenze comunicative, ma servono soprattutto a tracciare i confini di diverse identità culturali. Altre indagini in altre città italiane rivelano la concomitanza di diversi fattori che incidono sul contatto linguistico: tra questi vi sono il periodo di permanenza dell’immigrato, gli atteggiamenti che egli assume nei confronti della propria lingua ma anche gli aspetti culturali e, soprattutto, politici della società che lo riceve. Per mostrare la rilevanza degli interessi politici, basti pensare alla riduzione delle possibilità espressive nell’Esquilino, dove si sono ridotte drasticamente le insegne e le scritte multilingue in seguito a divieti imposti dall’amministrazione locale . La limitazione 35

dell’espressione linguistica dell’altro sottende una chiusura nei confronti della sua intera persona; questo va contro i principi della comunicazione interculturale, dove l’apertura a nuove prospettive è un elemento fondamentale per entrare in relazione con l’altro, il diverso.

Secondo Barni e Vedovelli, per imparare ad avere questo atteggiamento di apertura e a gestire queste superdiversità (sia culturale che linguistica) in modo costruttivo, bisogna ripartire dalle scuole, ambito dove le diversità si manifestano in modo molto evidente . Anche in questo contesto c’è spesso il rischio di chiudersi all’altro, nel senso 36

di non percepire la ricchezza linguistica costituita dalle lingue immigrate; tale rischio comincia a prendere forma nel momento in cui gli stessi insegnanti non conoscono

Metafora di Tullio De Mauro per descrivere come in passato, nonostante la compresenza di diversi

34

idiomi in uno stesso paese, le molte lingue non sono mai uscite da determinati confini contestuali grazie a grandi stati o a grandi imperi coloniali che hanno sviluppato un centro linguistico unitario, funzione del centro politico (Barni, Vedovelli, 2011: 186).

L’analisi risale ad un’indagine svolta nel 2010 presso il suddetto quartiere della Capitale (ibid.: 187).

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Nel 2001 si evidenziavano 130 lingue diverse presenti nella scuola italiana. Con il passare degli

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anni, la situazione si è ulteriormente differenziata per la presenza di giovanissimi, o arrivati dall’estero a seguito dei loro genitori immigrati o nati in Italia (ibid.: 187).

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