Per ideare contenuti in grado di suscitare l’interesse del pubblico ed intercettare i suoi bisogni, bisogna avere una conoscenza approfondita dei potenziali clienti, dei loro gusti, dei loro comportamenti e del loro modo di fruire dei canali social e dei media
Le persone che si fanno promotrici dell’azienda vengono dette evangelist; nel caso dell’associazione
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Sante Malatesta si tratta degli studenti stranieri che hanno tratto beneficio dall’associazione e ne parlano bene con gli altri esprimendo, talvolta, il desiderio di divenire a loro volta volontari.
classici. Per conoscere tutto ciò, l’autore consiglia di far riferimento o a “fonti di ascolto interne” o a “fonti di ascolto esterne” all’azienda.
La prima strada prevede la raccolta di informazioni da parte di quei membri dell’azienda che sono a stretto contatto con il pubblico (come, ad esempio, l’addetto al centralino, il personale del call center, il gestore della pagina Facebook, ecc.); affinché tutte queste informazioni non restino inutilizzate, c’è bisogno di sistematizzarle, o attraverso la partecipazione diretta di chi ne dispone al processo produttivo o tramite la condivisione con il team che si occupa dell’ideazione dei contenuti. In quest’ultimo caso si ricorre ad interviste individuali con il personale a contatto con i clienti o a questionari semi-strutturati, costituiti dalle domande più frequenti fatte dai clienti durante le diverse fasi del sales funnel . 74
La seconda prevede l’ascolto di tutto ciò che accade sul web relativamente ai prodotti/ servizi dell’azienda e, più in generale, al settore in cui essa opera; si possono valutare: • i social (social media listening), ossia interpretare le conversazioni online dei pubblici e
partecipare attivamente agli altri ambienti social riguardanti quei settori di interesse uguali o simili a quello dell’azienda, per vedere i temi più discussi e le domande più frequenti fatte dagli utenti;
• le query fatte dagli utenti sui motori di ricerca, sfruttando i diversi software relativi al 75
web analytics, per verificare con quali domande l’azienda viene tendenzialmente cercata, per vedere come si modifica nel tempo e nello spazio l’uso di tali query e quale correlazione statistica esiste tra le domande;
• il posizionamento SEO del sito/blog o altra presenza digitale dell’azienda, 76
individuando le parole chiave (tag) che funzionano di più o quelle da evitare; • il comportamento dei competitor, per evitare di realizzare contenuti simili;
• il comportamento di aziende attive su altri mercati, per individuare i loro contenuti più interessanti, prendervi spunto e adattarli al proprio contesto;
• le ricerche di mercato che prevedono ricerche ad hoc sui clienti, di tipo quantitativo (somministrando questionari attraverso il web) o qualitativo (facendo interviste a
Nel mio caso, ho intervistato sia un membro dell’associazione a stretto contatto con i donatori che
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un donatore.
Nel linguaggio informatico una query è una “procedura di ricerca all’interno di una banca dati” (http://
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www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=query, consultato il 9 Agosto 2017).
Per Search Engine Optimization (SEO) s’intende l’insieme delle attività “finalizzate all’ottimizzazione di un
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sito web con l’obiettivo di migliorarne il posizionamento sulle pagine dei risultati dei motori di ricerca, quindi la visibilità” (http://www.treccani.it/enciclopedia/seo_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/, consultato il 9
distanza). Anche in questo caso vi sono tool informatici a facilitare la suddetta ricerca. Nel caso quantitativo, si possono proporre le CAWI (Computer Assisted Web Interviews), componendo un questionario a risposta multipla ed inviandolo alla persone interessate (le cui risposte saranno registrate in un database che esegue delle analisi); nel caso qualitativo si possono usare strumenti di video-chiamata online per realizzare delle interviste classiche o dei focus group. Tuttavia, affinché tali ricerche siano utili ai fini dei processi decisionali aziendali, devono essere effettuate con le necessarie competenze statistiche e con le giuste metodologie di ricerca sui media digitali.
Una volta raccolte tutte le informazioni relative al pubblico di interesse, bisogna strutturarle per renderle utili agli scopi dell’azienda. Per far ciò si utilizzano le Personas, ossia dei “personaggi di finzione le cui caratteristiche descrivono specifiche tipologie di consumatori e utenti, effettivi e potenziali, di prodotti/servizi. Ogni Personas è costruita per sintetizzare, in una personificazione più realistica possibile, tutte le informazioni possibili sui diversi pubblici di riferimento” (ibid.: par. 2.1). Si tratta di costruire dei veri e propri profili dettagliati di persone che rappresentano un certo segmento tra i vari pubblici di interesse per l’azienda . L’autore sottolinea l’utilizzo del termine “pubblici”, sia per la sua forma al 77
plurale (che indica le diverse tipologie di persone che l’azienda vuole intercettare) sia per porlo in contrasto con il termine target (che è un’entità astratta, un aggregato di individui che condividono delle caratteristiche che non ha una corrispondenza diretta con il mondo reale). L’autore parla dell’evoluzione storica della definizione dei target da parte delle aziende, sottolineando che si è passati da una segmentazione basata su caratteristiche socio-demografiche (età, sesso, reddito, residenza, ecc.) ad una molto più complessa, che aggiunge diverse variabili di tipo comportamentale (tratti psicologici, atteggiamenti, valori, esposizione ai media, ecc.); si tratta di “stili di vita”, un modello di analisi affermatosi negli anni Settanta che, a seguito di lunghe interviste condotte su un grande campione della popolazione, raccoglie i risultati e li processa
Di Fraia, a titolo di esempio, riporta un identikit di una Personas dove sono presenti: nome, fotografia,
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tratti socio-demografici (età, sesso, ecc.), professione, obiettivi, valori, tratti caratterizzanti, uso dei media (ibid.: par. 2.1). Nel mondo non profit queste figure di riferimento sono note come Supporter
Personas; per capire al meglio il comportamento di un potenziale sostenitore, si creano dei profili
dettagliati, seguendo questi passi:
• fare ipotesi (costruire più Personas, basandosi sulle caratteristiche di persone reali, tra cui età, fonte di reddito, professione, contesto socio-culturale e esperienze di vita quotidiana);
• validare le ipotesi (si confrontano i profili ipotizzati con quelli dei sostenitori reali); • ultimare i profili
(https://www.causevox.com/blog/making-your-message-relevant-supporter-personas/, consultato il 7 Giugno 2017).
con analisi statistiche. Nonostante l’efficacia e il successo di queste analisi, Di Fraia sostiene che nel mondo del marketing digitale bisogna andare oltre, facendo riferimento non ad aggregati statistici ma ai “pubblici connessi”, ossia alle reali persone che si relazionano tra loro attraverso internet; è su di loro che bisogna costruire i profili delle Personas in base ai quali ideare i contenuti.
b. Produzione
L’autore insiste sulla qualità dei contenuti che devono:
• essere professionali, rispettando le regole di un determinato linguaggio ; 78
• rispettare un certo stile comunicativo, che rispecchi lo stile distintivo, l’identità dell’azienda;
• esprimersi con un tono di voce colloquiale, che abbatta le tradizionali barriere e asimmetrie tra azienda e cliente e che rispetti gli stili linguistici delle Personas di riferimento;
• essere di tipo UGC (User Generated Content), ossia in grado di intercettare le motivazioni che spingono le persone a connettersi alla rete, attraverso il possesso di “valenze informative, educative, ludico-ricreative o di stimolo alla conversazione e alla creazione attiva di contenuti da parte degli utenti”;
• tenere conto dei diversi codici e format con cui possono essere espressi attraverso i 79
media digitali (tra questi ultimi, alcuni possono veicolare solo un tipo di codice - audiovisivo per Youtube, ad esempio - mentre altri supportano format multimediali - come le pagine web o i social); poiché ce ne sono di moltissimi tipi, l’autore ha raggruppato i format in base alle tipologie di bisogno a cui possono rispondere. Ad esempio, per le funzioni formative-educative ci sono i tutorial; per quelle informative sono più adatte le news ma anche i contenuti narrativi (che raccontano la storia dell’azienda, i suoi valori e la sua mission, o le esperienze vissute del personale o dei clienti); anche per le funzioni ludico-ricreative sono adatte le storie, gli aneddoti o
L’autore riporta l’esempio di un contenuto audiovisivo, dove la professionalità si vede prima di tutto
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dalla qualità delle immagini e poi dalle sincronizzazione tra audio e video (ibid.: par. 5).
L’autore sottolinea la differenza tra format e codice; quest’ultimo è il linguaggio che permette di
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realizzare il primo, la cui definizione deriva dal mondo della televisione; si tratta di “uno schema di
svolgimento di un programma televisivo, riproducibile in varie emittenti anche con diversi adattamenti, in genere tutelato da copyright” (http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=format, consultato il 12 Giugno 2017). Per
ciascun format, dunque, ci possono essere più codici che possono realizzarlo (un tutorial, ad esempio, è un format che può essere realizzato tramite i codici video, solo testo, sequenza di immagini, ecc.) (ibid.: par. 5.4).
anche proverbi e citazioni di autori celebri; per le funzioni di stimolo all’interazione, invece, ci sono i concorsi o le attività di crowdsourcing . Queste ultime funzioni, però, 80
sono ancora molto poco considerate dalla maggior parte delle aziende italiane; da quanto emerge da un’analisi sui social nel 2014, i post si concentrano perlopiù su contenuti di tipo informativo, che raccontano dell’azienda stessa e dei suoi prodotti (ibid.: par. 5). Qualsiasi sia la funzione a cui deve rispondere il contenuto, il format deve abbandonare la logica push per offrire agli utenti prodotti/servizi centrati sui loro bisogni e interessi (tali format, ad esempio, sono i tutorial, le informazioni aggiuntive sulle modalità di utilizzo di un prodotto o, anche, schemi delle varie fasi progettuali del prodotto stesso che ne ricostruiscano la storia).
Visto cosa contraddistingue un contenuto di qualità, bisogna trovare il giusto mix tra tipo di contenuto, format, codice e media da usare, basandosi da un lato sull’azienda (sulla sua identità, i suoi valori, i suoi prodotti/servizi), dall’altro sulle Personas (aggiungendo agli identikit voci relative a: temi da trattare, format, tono di voce, media utilizzati, ecc.) . Di primaria importanza, secondo l’autore, è rendere gli utenti 81
partecipi (coinvolgerli nel mettere un semplice like, nel condividere un contenuto o nel generarlo a loro volta); dovrebbe essere questo l’obiettivo primario di ogni comunicazione sui social. Dunque, anche un contenuto pensato per essere fruito “passivamente” dal pubblico può rendere partecipe il fruitore attraverso semplici meccanismi, come quello di poter essere condiviso sui social . “L’importante è che ogni 82
atto comunicativo da parte dell’azienda sia sempre pensato e strutturato come il turno di parola in un dialogo con gli utenti” (ibid.: par. 5.4); si tratta di un’applicazione dell’approccio dialogico di cui ho parlato a livello teorico nel primo capitolo. Affinché questo dialogo sia continuo e duraturo, c’è bisogno di comporre un “calendario editoriale”, ossia un prospetto che indica al produttore di contenuti cosa pubblicare e quando pubblicarlo, tenendo a mente che ciascun contenuto prodotto deve essere sfruttato al massimo (nel
Per crowdsourcing, neologismo inventato da Wired e nato dalla sintesi di crowd (folla) e outsourcing
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(delega in esterno di alcune attività), s’intende un “modello di business secondo cui un’azienda esternalizza un
lavoro generalmente realizzato all’interno verso un gruppo di persone attraverso un appello aperto in rete” (http://
www.treccani.it/vocabolario/crowdsourcing_%28Neologismi%29/, consultato il 9 Agosto 2017). Nel mio caso, il codice più utilizzato sarà il linguaggio audiovisivo, il tipo di contenuto è
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un’intervista di tipo narrativo (che risponde principalmente alla funzione informativa), i media saranno Facebook e la pagina web dell’associazione e il format sarà la video-storia del singolo, adattata nella sua lunghezza in base ai diversi media: nel primo caso, saranno video molto brevi (di circa 50 sec.); nel secondo, saranno video di circa 3 minuti che raccontano tutta la storia del singolo.
L’autore riporta l’esempio di un’immagine evocativa pubblicata su Facebook da un’azienda,
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senso di riutilizzarlo su diverse piattaforme, secondo le caratteristiche di ciascuna ) e 83
che spesso è utile disporre dei contenuti già presenti e disponibili in rete. Si tratta, rispettivamente, di content creation e content curation. In entrambi i casi, ciò che conta è distinguere i contenuti a seconda delle Personas e delle loro posizioni nel processo di acquisto . Un’azienda che vuole intercettare Personas che ancora non la conoscono, ad 84
esempio, può puntare su contenuti accattivanti, in grado di intrattenere, poco connessi con i suoi prodotti/servizi, in modo da invogliare il pubblico a tornare a far visita ai suoi spazi digitali. Tali contenuti possono essere i cosiddetti virals, i quali, come un virus, riescono ad espandersi molto velocemente in una data popolazione. Essi sono il frutto di una campagna di Viral Marketing, il cui obiettivo è la diffusione di un messaggio (non sempre palesemente pubblicitario) al fine di dare risalto e visibilità ad un prodotto e/o ad un brand, principalmente attraverso le piattaforme Facebook e YouTube . Secondo Rudy Bandiera, un digital storyteller, nonché docente, blogger e 85
giornalista (https://www.rudybandiera.com/info), per creare contenuti potenzialmente virali occorre seguire cinque linee guida secondo cui i contenuti devono:
• generare curiosità (attraverso racconti personali, che riguardino il pubblico da vicino);
• spiegare mentre raccontano;
• “schierarsi” (ovvero devono connotare l’appartenenza dell’azienda ad un certo schieramento piuttosto che ad un altro; questo funziona perché le persone tendono a solidificare le loro opinioni in base a quelle degli altri);
• girare attorno a un cardine socialmente riconosciuto (poiché le persone si identificano nei contenuti dell’azienda, c’è bisogno di mostrare cose positive e, quindi, socialmente riconosciute - l’unione tra due persone, il lavoro duro, ecc.);
Si ripensi a quanto detto sul transmediale. A questo proposito, Di Fraia sottolinea che non bisogna
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riutilizzare lo stesso contenuto, ma riproporre in diversi format lo stesso meme, ossia “qualsiasi parte
d’informazione che sia in grado di essere trasmessa da una mente a un’altra” (ibid.: par. 5.4).
L’autore ripropone il Content Marketing Template di SmartInsights (http://www.smartinsights.com/
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content-management/content-marketing-strategy/the-content-marketing-matrix-new-infographic/ attachment/content-matrix/, consultato il 22 Maggio 2017), ossia un grafico il cui asse orizzontale parte dall’awareness (conoscenza dell’azienda) e arriva al purchase (acquisto del prodotto), mentre l’asse verticale parte dal coinvolgimento emotivo per arrivare a quello razionale (ibid.: par. 5.4).
Secondo l’enciclopedia Treccani, il Marketing Virale si può definire come una “strategia di
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commercializzazione basata sul passaparola, sulla propagazione della conoscenza di un prodotto entro gruppi omogenei di consumatori” (http://www.treccani.it/vocabolario/viral-marketing_(Neologismi), consultato il 9
• provocare (per generare dibattito, senza però essere offensivi nei confronti di un certo pubblico) (https://www.rudybandiera.com/creare-contenuti-virali-1031.html, consultato il 14 Giugno 2017).
Inoltre, secondo Stefano Gallon, consulente di web marketing e curatore del sito web Social Media Expert (https://social-media-expert.net), per progettare una campagna di questo tipo bisogna tenere a mente i seguenti principi del viral marketing:
• la non prevedibilità della viralità di un contenuto;
• l’importanza di un messaggio emozionante, che susciti una reazione emotiva in chi lo guarda (si tratta, principalmente di: far divertire, far riflettere, far piangere, far paura o far arrabbiare);
• la spontaneità della condivisione del contenuto da parte di chi lo vede;
• la crescita esponenziale (e non lineare) e rapida della visibilità del contenuto . 86
Per dare una spinta iniziale alla condivisione dei contenuti, si potrebbero coinvolgere gli influencers (che ricordo essere quelle persone, ritenute così interessanti ed esperte di un certo settore da riuscire ad influenzare le opinioni, i comportamenti e gli atteggiamenti di alcuni consumatori), i quali, condividendo per primi i contenuti, spingeranno gli utenti a condividerli a loro volta in modo spontaneo. È come l’evoluzione del passaparola: un utente della rete che ritiene interessante un contenuto, lo passa ad altri contatti che, a loro volta, lo passeranno ad altri ancora . 87
A seguito di questa crescita, vi è una lenta decrescita (in termini di condivisione) che arriva a una
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stabilità (che si può tradurre con la domanda: “Ti ricordi di quella pubblicità?”) (https://social-media- expert.net/2016/11/viral-marketing/, consultato il 14 Giugno 2017).
Come esempio significativo di contenuto virale, l’esperto di consulenza web marketing riporta un
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video di Always, un’azienda facente parte del gruppo P&G che si occupa di prodotti per l’igiene femminile e di educazione alla pubertà con lo scopo di “empower women to live life without limits” (https:// always.com/en-us/about-us, consultato il 14 Giugno 2017); il video (visibile al seguente link https:// youtu.be/XjJQBjWYDTs) ha oltre 64 milioni di visualizzazioni e rispetta i principi sopra citati in quanto genera riflessione, ma anche rabbia. Segue, inoltre, le cinque linee guida proposte da Rudy Bandiera, soprattutto riguardo al tema della donna (cardine socialmente riconosciuto) e alla provocazione.