d Verifica dei risultat
D. Trascrizioni delle interviste fatte agli studenti aiutati dall’associazione
D.4. Intervista a Aurel, camerunese laureato in Ingegneria Energetica
• Descrivi chi sei e come sei arrivato in Italia
“Sono Aurel Belmond, detto Nino, un nome che ho da quando sono nato. Sono del Camerun, in Africa centrale. Sono arrivato in Italia tanti anni fa a fare Ingegneria Energetica. La mia prima scelta non era ingegneria, nonostante io sia un diplomato tecnico… volevo fare il magistrato, ma mia madre mi ha detto che non voleva perdere il figlio molto presto… Alla sua epoca, i magistrati venivano spesso ammazzati, o vivevano sotto scorta; lei non voleva questa vita per suo figlio. Io avevo 16 anni e dialogavo molto con i miei genitori, li ascoltavo. Lei non mi ha permesso di fare giurisprudenza… mi ha detto: «Vai in Italia e scegli tu cosa fare». Inoltre, avevo già i miei zii e mia sorella qui in Italia… anche se non sono andato dove stavano loro… Quindi, è stata una scelta personale ma anche dettata dal dialogo con i genitori. E questo è importante. Quando trovi il modo di dialogare con i tuoi genitori o, in questo caso, con l’associazione che è come un genitore, hai qualcuno che ti dà un consiglio che non fa mai male… ti indica la via per il successo […]. Ho studiato l’italiano nel mio Paese prima di venire qui e subito, da quando lo studiavo, ho avuto un amore per Pisa. Tanti miei amici, che hanno scelto Milano, erano perplessi del fatto che io, di una capitale con milioni di abitanti, avessi scelto Pisa. Da me non aveva una grande nomea… erano più conosciute Milano, Roma… ma, avendo un amore per Galileo Galilei e avendo visto il livello
dell’università, pensavo, all’epoca, che poteva essere una buona scelta […]. Quando sono arrivato qui mi sono sentito subito bene; sono stato accolto, nonostante all’epoca non ci fossero così tanti camerunesi… c’erano più comunità dell’Africa, ma pochi del Camerun […]. Il primo impatto è stato: «Hey Nino, sei arrivato… non ci sono molti africani…»; ma io ho subito sentito l’abbraccio di Pisa, della città… questo è stato fondamentale per gli studi che ho compiuto”.
• Come ti sei integrato negli ambienti sociale ed universitario?
“La mia integrazione è stata velocissima perché qui ho trovato persone che avevano un pezzo di Africa in loro ma che sapevano anche molto dell’Italia. L’apprendimento è stato veloce […]. Gli altri dicono che io sono un ragazzo molto aperto… questa apertura mi ha aiutato ad integrarmi, sia a livello culturale, perché un anno dopo sono diventato arbitro di calcio, dopo aver fatto il corso, che a livello accademico… ho avuto vari compagni e ancora oggi la nostra amicizia rimane […]. L’integrazione c’è stata anche con le altre nazioni presenti a Pisa… ho avuto la possibilità di dialogare con tante culture… questo è il bello di Pisa; eravamo in pochi e siamo riusciti a comunicare tutti… in italiano ovviamente.
Sull’aspetto dell’università, erano in pochi che studiavano ingegneria (africani, intendo) e quindi mi rivolgevo agli italiani per gli appunti, per il metodo di studio… io vengo da un sistema di educazione alla francese… non c’è l’orale. Sono stato aiuto molto, moltissimo, dai miei amici italiani su questo. Sono loro molto grato.
Per l’aspetto socio-culturale, mi hanno aiutato entrambe le parti, sia i ragazzi africani che gli italiani. Tante persone hanno problemi di integrazione rispetto all’educazione che hanno avuto… io sono stato educato secondo i principi del cattolicesimo… con un senso di rispetto e di apertura verso l’altro. Questo mi ha aiutato molto perché non stavo ad aspettare che la gente venisse da me… ero io ad andare dalle persone. A volte capita che molti non vogliono parlare, o non vogliono interagire… ma non tutti sono così. Ho bussato a più porte e molte mi sono state aperte. Perciò consiglio a quei ragazzi che arrivano, un po’ timidi, di vincere la timidezza, di andare a bussare alle persone, di non dar retta agli stereotipi. La persona deve valutare chi ha di fronte… tu ci provi… male che vada non ti risponde… e se ti risponde, è un mattone che metti per la casa che stai costruendo”.
• Come sei arrivato all’associazione Sante Malatesta?
“Ho avuto la borsa di studio e l’ho mantenuta per 5 anni, ma durante l’ultimo anno ho dovuto spostarmi per un progetto da seguire a Napoli. Per me non era facile continuare a dare gli esami e seguire questo progetto. È risultato che non potevo avere più la borsa di studio… i primi mesi sono stati difficilissimi. Grazie a qualche risparmio ho tirato la cinghia, come si dice qua… poi ho cercato sulle varie piattaforme, sui vari siti, associazioni che aiutavano… così è venuta alla luce l’associazione Sante Malatesta di cui avevo già sentito parlare tempo prima ma, non avendo bisogno, non mi ci ero mai rivolto. Ci sono andato… la prima cosa che mi ha sorpreso è stata la presenza dei volontari… perché molti pensano che siano dei funzionari o delle persone che sono lì per guadagnare qualcosa… ma io ho avuto la possibilità di vedere il cuore delle persone che ti può aiutare […]. Per fortuna la Malatesta mi ha accolto, mi ha preso come un figlio dell’associazione, mi ha pagato le tasse scolastiche per il mio primo anno fuori corso… mi aiutavano anche dal punto di vista psicologico. Soltanto il modo di parlare dei volontari, il sentire alcuni ragazzi che ti raccontavano delle loro difficoltà negli studi e del perché si stanno dedicando al servizio di volontariato… ti conferma che quello che si sente in giro non è vero… e vederlo mi fa sentire in dovere di parlarne, di mettere in risalto questo aspetto perché è molto importante. Non basta dire: «Io li ho aiutati così…»… va oltre. Questa è stata la chiave per me per un successo negli studi. Ad esempio, quando uno va a fare un esame e prende un risultato diverso da quello atteso, per prima cosa chiama una persona vicina con cui sfogarsi. Questo aspetto l’ho ritrovato nella Malatesta, dove potevi andare a dialogare con le persone, sentirti accolto, senza nessun pregiudizio, senza nessun motivo di ipocrisia… questa è stata la base per cui ho potuto ultimare i miei studi. Loro mi hanno offerto anche la possibilità di avere un alloggio e questo è stato molto bello”.
• Perché, secondo te, una persona dovrebbe donare soldi all’associazione?
“Mi piace raccontare le cose partendo dalla mia esperienza… se parlo di altri non ho tutte le informazioni che mi servono per poter dare un giudizio. Perciò parlo di me e delle mie
entrare in un contatto molto profondo con le persone […]; i miei esami li davo con gli
appunti di tre ragazzi italiani… nel primo anno non riuscivo a prendere appunti a causa della lingua… i miei esami li davo dopo che i ragazzi che mi davano gli appunti avessero fatto i propri esami. Mi programmavo la sessione in base alla loro… Questo lo racconto per
sottolineare una cosa molto importante: l’associazione Malatesta mette un accento particolare sul rapporto tra le persone. Si dice: «Tu hai bisogno di aiuto, ma se l’aiuto ti viene dato con tanto affetto fa un doppio effetto» … scusate la rima. Però è quello che succede davvero… tu vieni, vedi i volontari… delle persone tranquille, che si siedono e hanno sempre una
domanda: «Raccontaci un po’ la tua storia». Non è dato ad ogni persona di poter avere la possibilità di raccontare la propria storia, di sentirsi ascoltato dalle persone, con lo scopo di darti delle indicazioni, per poter portare a termine un progetto, il progetto degli studi, della laurea. Questo rapporto con i volontari è stato molto forte. Oltre ai volontari, ci sono altre persone che lavorano per l’associazione… anche a quelle persone dico veramente grazie, un grazie di cuore… loro mi hanno permesso di finire i miei studi, dandomi un supporto economico, mentale, psicologico… mi hanno incoraggiato, sono state come una seconda famiglia”.
• Riusciresti a definire la mission della Sante Malatesta in poche parole, in uno slogan?
“Io dico sempre che l’associazione Malatesta non si può definire con alcune parole… è come chiedere la dimensione del mare o quella del cielo… non so dirtelo… ma l’unica cosa che posso dire è che è un luogo… un luogo d’incontro, un luogo dove tutto si può sviluppare. È un luogo dove venire per condividere, dove si trasmette la pace, dove ti senti una persona che può dare un valore aggiunto alla società… un luogo di integrazione, di cultura, di scambio… la lista sarebbe infinta. È un insieme di cose che fanno nascere e mantenere i rapporti sociali. Di questo ha bisogno la nostra società, per mettere in contatto le persone e dimenticare la solitudine, il senso di egoismo… noi siamo nel mondo dello share, della condivisione, dello scambio… e questo tipo di associazione trova il suo posto in questa epoca… e chi non ci viene, perde qualcosa… sì, perde qualcosa […]. Il mio augurio è quello di diventare anch’io volontario, per poter condividere la mia esperienza e per portare le persone a compiere degli atti che faranno bene, sia alla società che ai loro familiari […].