• Non ci sono risultati.

2. Lo storytelling come mezzo di comunicazione e di relazione

2.3. L’autobiografia come cura di sé

Raccogliere materiali narrativi sugli studenti immigrati, dove i narratori sono appartenenti a classi o a gruppi sociali svantaggiati in difficoltà, esprime un impegno etico; lo studioso Jedlowski dice che si tratta del “riconoscimento di una dignità, dell’attribuzione di un certo valore alla voce di coloro a cui questo valore è stato negato dalla storia ufficiale” (Jedlowski, 2000: 109). Prestare loro ascolto vuol dire assumere il ruolo di storytakers , ovvero di un destinatario che sa capire la funzione “terapeutica” del 45

racconto di sé, soprattutto se a raccontarsi sono persone anziane, emarginate o con esperienze traumatiche. Lo storyteller, d’altra parte, nel raccontare la propria storia sta attribuendo alla sua vita la dignità di essere raccontata. Tuttavia, prima di essere una terapia, l’autobiografia è un riconoscersi. Ricordare il proprio passato è simile all’esperienza del “risveglio, dove si prende coscienza di qualcosa che è sempre stato sotto il nostro naso”; durante questo risveglio si dà spazio ad emozioni e saperi di cui prima non ci rendevamo conto. Il primo passo per riconoscersi viene dall’organizzazione dei propri ricordi in un modo sensato, che possa essere raccontato. Se vogliamo raccontare la nostra storia, siamo costretti a darle un filo logico, una struttura, in modo che possa essere compresa dal nostro destinatario. Scegliendo come impostare il nostro racconto, stiamo selezionando gli eventi per noi significativi e li stiamo ponendo in relazione tra loro; stiamo costruendo una vera e propria trama , definita come “il modo in cui la vita 46

acquista significato grazie alla forma che il racconto le conferisce” (Jedlowski, 2000: 112). Si tratta di un vero e proprio processo cognitivo dove, occupandoci in prima persona di individuare i nostri stili di vita, scopriamo che la nostra mente “non si diletta soltanto con i

Jedlowski conia questo termine per accostarlo in maniera simmetrica a quello di storyteller, ossia il

45

narratore (Jedlowski, 2000: 109).

Jedlowski da una chiara definizione di trama, per distinguerla dalla storia e dal racconto: situata

46

tra questi ultimi, “essa è infatti il percorso che, tracciato dentro al racconto, invita chi ascolta a seguirlo per giungere a

decifrare la storia […]; la trama non è solo ciò che muove l’attenzione dall’uno all’altro degli eventi narrati, ma è ciò che connette fra loro gli eventi” (Jedlowski, 2000: 17 - 18).

ricordi o li respinge, ma li riordina stabilendo priorità e marginalità, proporzioni e lunghezze, classi e tipi” (Demetrio, 1996: 23).

Di questo processo e del racconto di se stessi come cura ne parla approfonditamente il pedagogista Duccio Demetrio. Più precisamente, egli parla di pensiero

autobiografico: una sensazione, quasi un’urgenza che ciascuno di noi avverte nel

corso della vita di mettere insieme i ricordi di una vita trascorsa, di fare un sunto di ciò che si è fatto, una sorta di “diario retrospettivo che vuole ridare senso alla vita stessa” (Demetrio, 1996: 10), che vuole rispondere alle domande “chi sono?”, “chi sono stato?”. Nel caso di un passato doloroso, il pensiero autobiografico diventa occasione di riconciliazione con se stessi, “procura all’autore della propria vita emozioni di quiete” (ibid.: 11). Una volta che ci siamo riappacificati con noi stessi, divenuti capaci di accettare la nostra storia e di guardarla con amore, siamo anche più propensi ad aprirci all’altro, senza giudicarlo. Questo perché, quando ripensiamo al nostro vissuto, diventiamo spettatori della nostra stessa storia, usciamo da noi stessi; è come la “sospensione di sé” che viene dopo il “conoscersi” nel corso dello sviluppo dell’empatia. In questo caso, a guidare la nostra immaginazione non è l’altro ma siamo noi stessi, con l’intento di soffermarci su una storia quasi sconosciuta perché, nell’atto di viverla, presi da diverse esigenze ed emozioni, non abbiamo trovato il tempo di osservarla. Se la osserviamo attentamente, impariamo a ridimensionare sia le difficoltà che il senso di onnipotenza che spesso contraddistingue chi ha avuto molti successi; qualsiasi sia stato il nostro passato, ripercorrerlo tramite il pensiero autobiografico produce un arricchimento interiore. Questo, però, a patto di non prendere le distanze dal presente, da vivere più consapevolmente grazie a ciò che abbiamo scoperto di noi stessi (dinamiche interiori, sentimenti, ecc.) attraverso l’autobiografia; “la vera cura di sé inizia quando il presente entra in scena” (ibid.: 15). Si tratta, dunque, di un “viaggio formativo” che ci permette di crescere sia per se stessi che per gli altri. Durante questo viaggio, ci rendiamo conto di aver incontrato diverse versioni di noi stessi, diversi “io”, spesso in contraddizione l’uno con l’altro; riconoscere questo essere molteplici, pur in un unico essere, in un’unica forma corporea, ci rende molto più elastici mentalmente e può permetterci di riconoscere ed accettare, se non addirittura amare, la molteplicità culturale di “io” che troviamo nel mondo superdiverso che ci circonda. A volte pensiamo ci debba essere un “io vincente”, un “io demiurgo”, come lo chiama Demetrio, che ci comandi di essere sempre coerenti di fronte al mondo e a se stessi, perfetti, lineari, e che metta a tacere le nostre voci che propendono al cambiamento. Grazie al “lavoro autobiografico” , questo “io” si ridimensiona, accettando che ci sia un “io tessitore” 47

che in un certo momento della nostra vita si occupi di mettere insieme, di intessere in

Per “lavoro autobiografico”, il pedagogista intende il passo successivo da fare al “pensiero

47

una trama sensata i diversi “io” che siamo stati in passato. Demetrio dice che “è vero che scruto il mio passato per trovare chi sono, da dove vengo, chi mi ha aiutato a essere ciò che poi sono divenuto; però è pure vero che, già con quest'opera di scavo mi apro al mondo, ad altre possibilità. La ricerca dell’unità e la scoperta della molteplicità costituiscono il ritmo musicale, la colonna sonora del lavoro autobiografico” (Demetrio, 1996: 20). Accettando questa molteplicità, divenendo più modesti, moderati con noi stessi, saremo capaci di esserlo anche con l’altro. Scopriamo così che come la nostra vita è simile ad un edificio unico e bello perché costruito mettendo insieme diversi stili architettonici, anche il mondo esterno è bello perché contraddistinto da molteplici culture che si intrecciano. L’altro, inoltre, contribuisce ad arricchire il nostro edificio, ci interroga sulla sua solidità e ci stimola a volerlo rinnovare ed abbellire continuamente; “nel pensiero dell’umanità su se stessa, laddove le culture hanno raggiunto un grado elevato di complessità sociale, e quindi intellettuale, un notevole livello di differenziazione, gli adulti hanno di necessità avvertito il bisogno di essere dentro di sé in tanti […]; la depressione grave è sintomo di una resa all’unicità, che diventa nullità; è la crisi più drammatica di una vita adulta che si arrende, che non tollera più di essere tanti e dinamici” (ibid.: 32). Riscrivere il proprio passato, dunque, diventa non tanto occasione di rintracciare il nostro vero “io”, “il vero personaggio” che siamo o che siamo stati, quanto “la ricerca dei molti ruoli, delle molte parti recitate e della figura che più ci interessa personificare in un determinato momento o istante di vita” (ibid.: 35). È proprio il cambio di prospettiva di cui ci parla Bennett nel percorso di sviluppo dell’empatia, tra il lasciarsi guidare nell’immaginazione e il coinvolgimento empatico; riconosciamo di essere in una realtà multipla, dove siamo in grado di personificare un “io” appartenente ad un’altra cultura. Così come è possibile arrivare a dei conflitti con le persone diverse che ci circondano, anche interiormente si può vivere una battaglia; si giunge al cosiddetto “conflitto autobiografico”, dove ci ritroviamo a lottare con quelle parti di noi stessi che ci risultano scomode o spiacevoli. È qui che interviene l’ “io mediatore”, che non vuole evitare i conflitti o evitare le contraddizioni, ma invita tutte le parti ad un’accettazione reciproca. Soltanto in seguito a questa accettazione può intervenire l’“io tessitore” sopra citato che, lungi dall’essere autopunitivo, parla liberamente di sé, si regala un po’ di quiete ed arriva alla “tregua autobiografica”. Non si tratta, quindi, di voler firmare a tutti i costi un armistizio; piuttosto è una consapevole accettazione delle differenze e delle difficoltà, delle luci ma anche delle ombre, delle forze e delle debolezze; è una consapevolezza alla quale si giunge solo se dedichiamo il giusto tempo allo “spazio autobiografico” di cui ciascuno di noi necessita; solo così la “tregua” si rivela pedagogica e si arriva ad una vera cura di sé.

Riconoscersi come luogo di contraddizioni e di molteplicità, vuol dire anche riconoscere di essere impotenti, che non solo ci permette di imparare ad amare di più i nostri successi (anche se piccoli), ma ci fa soprattutto rendere conto dell’importanza dell’altro, con cui abbiamo bisogno di entrare in relazione per rispondere al desiderio

di colmare le parti di noi incompiute, di far luce sulle nostre ombre. L’autobiografia, quindi, oltre che a curare noi stessi, ci stimola ad entrare in relazione con l’altro e a diventare consapevoli del fatto che tanto più l’altro è diverso (culturalmente, intellettualmente, ecc.), tanto più può aiutarci a rivelare quelle molteplicità di “io” che ci abita.

L’autobiografia, oltre ad essere cura, è anche un piacere: raccontare se stessi provoca una senso di benessere, di liberazione . Per questo motivo, già nell’antichità molti 48

poeti e filosofi scrivevano lettere autobiografiche (basti pensare a Seneca). Si tratta di quel piacere della narrativa di cui parla anche Jedlowski, facendo riferimento a “quell’incessante lavorio della cultura che trasforma l’universo naturale in un universo di senso” (Jedlowski, 2000: 49). Tuttavia, affinché l’autobiografia sia curativa, soprattutto in quei casi in cui la vita è stata contraddistinta da ingiustizie e sofferenza, c’è bisogno di sottostare a determinate condizioni; Demetrio parla di cinque “condizioni lenitive” grazie alle quali si può star bene con la propria storia:

• dissolvenze; • convivenze; • ricomposizioni; • invenzioni;

• spersonalizzazioni.

La prima condizione fa riferimento ai ricordi sfocati, ai quali si accede distaccandosi dai fastidi quotidiani; il suo “potere analgesico” sta nel fatto che possiamo ricordare con “malinconica gioia” eventi passati le cui emozioni/sensazioni, a differenza delle felicità, sofferenze, gioie o conquiste presenti, non sono esposte al rischio di essere perse. Grazie alla dissolvenza, riusciamo a distaccarci, con la mente e con il cuore, dall’inquietudine del presente e provare un senso di benessere. La seconda condizione implica di riflettere per fare ordine, facendo riferimento non a un momento di crisi particolare, ma all’intera traiettoria su cui si è posizionata la nostra vita; da questa visione complessiva riusciamo a trarre coraggio; riusciamo ad essere coraggiosi, tuttavia, solo quando gli altri ci “costringono” a dar conto di noi stessi. Pur non volendo condividere con l’altro la nostra storia, in qualche modo già stiamo raccontando di noi stessi con il nostro volto, con il nostro essere presenti. Il benessere di questa condizione, dunque, si amplifica nel momento in cui condividiamo la nostra storia con l’altro, che ci “aiuta ad aiutare noi stessi”. La terza condizione fa riferimento alla connessione tra i ricordi, alla creazione di una “trama interiore” che sviluppa un

L’autore, pensando al senso di liberazione, fa riferimento alle Confessioni di Sant’Agostino.

senso di pienezza. Jedlowski parla di “intelligenza narrativa” (Jedlowski, 2000: 20) che risponde al desidero di dare un ordine e un senso ad eventi che altrimenti ci sembrerebbero mere espressioni di discontinuità; è la soddisfazione di tale desiderio a procurare piacere. La quarta condizione vuole farci osservare la nostra vita come fosse quella di un altro, di guardare ad essa come ad una fiction; il modo per farlo è scrivere. Nel momento in cui scriviamo la nostra storia, ne diamo una rappresentazione “fantasiosa”: “la vita rappresentata con un codice qualsiasi è un’altra vita ancora” (Demetrio, 1996: 54); in questo modo, riusciamo a dar concretezza a quei molteplici “io” che ci abitano, traendo da ciò piacere e cura. L’ultima condizione, infine, implica che il distaccamento da noi stessi, raggiunto grazie alle invenzioni, si elevi a una vera e propria spersonalizzazione: andando lontano da noi stessi, evitiamo di restare “intrappolati nei nostri pensieri e compiacimenti” (ibid.: 57). Affinché ciò sia possibile, dobbiamo occuparci delle storie altrui, entrare in relazione con l’altro. Ecco che ritorna la dimensione relazionale di cui ci parlava Jedlowski, quell’approccio dialogico che è necessario anche quando scaviamo in noi stessi; è inutile far dialogare i diversi “io” che ci abitano, capire noi stessi, curarci, se non abbiamo il fine di entrare in relazione, di comunicare con l’altro.

2.4. Le potenzialità dello storytelling per la comunicazione