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La tracciabilità dei rifiuti e le scelte del legislatore italiano

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Academic year: 2021

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INDICE-SOMMARIO

INTRODUZIONE

Perché si tracciano i rifiuti?

CAPITOLO I

LA NOZIONE DI RIFIUTO

1. Che cosa è un rifiuto? ……… Pag. 1

2. La perdita della qualifica di rifiuto: il c.d End of Waste ………11

CAPITOLO 2

LA CLASSIFICAZIONE DEI RIFIUTI

1. Rifiuti urbani e rifiuti speciali ………Pag. 15 2. Rifiuti pericolosi non pericolosi. La disciplina comunitaria ……… 22

1. L’elenco europeo dei rifiuti (EER) ………... 24

2. Le c.d. caratteristiche di pericolosità ……… 26

3. La disciplina italiana ………. 27

CAPITOLO 3

IL PRODUTTORE DI RIFIUTI

1. La responsabilità del produttore di rifiuti ……… Pag. 30 2. Evoluzione giurisprudenziale della nozione di produttore di rifiuti ……… 32

3. L’intervento normativo di riforma della nozione: il decreto legge n.92/2015 …………. 37

4. Le criticità della nuova nozione ………... 39

5. Il detentore di rifiuti ………...44

CAPITOLO 4

LA TRACCIABILITÀ DEI RIFIUTI

1. Introduzione alla disciplina giuridica della tracciabilità dei rifiuti in Italia ………...Pag. 47 1. Il c.d. doppio binario ………. 49

(4)

2. Il registro di carico e scarico ……… 53

1. L’ambito soggettivo ………. 54

2. La compilazione del registro di carico e scarico ……….. 58

3. Luoghi e tempi di conservazione dei registri ……….62

4. La numerazione e la vidimazione ………. 64

5. Il registro di carico e scarico in formato elettronico ………. 65

6. Casi particolari ……….. 67

7. Il sistema sanzionatorio correlato ai registri ………. 69

1. L’omessa o incompleta tenuta del registro (art. 258, comma 2) ……… 71

2. Le fattispecie ex art. 258, comma 5 ………73

3. Il formulario di identificazione del trasporto (FIR) ……….. 74

1. La disciplina previgente ……… 75

2. La disciplina attuale. L’ambito soggettivo ……… 76

1. L’albo nazionale dei gestori ambientali ………. 79

3. La gestione e la compilazione dei formulari ………. 82

4. Il sistema di responsabilità correlato al FIR ………. 84

5. L’apparato sanzionatorio: le fattispecie ex art.258, d.lgs. 152/2006 ……… 88

1. Il nuovo art.258, comma 4 ed il problema della depenalizzazione …… 90

4. Il modello unico di dichiarazione ambientale (MUD) ……….. 95

5. Il SISTRI ………... 99

1. L’istituzione del Sistri: evoluzione legislativa ……….100

2. La difficile attuazione del SISTRI ………...106

1. Proroghe ed operatività del Sistri ………. 106

2. Il problema dei soggetti interessati ………...114

3. La secretazione del progetto ……… …124

3. Il funzionamento del sistema ……….. 131

1. La procedura di adesione ………. 133

2. Il contributo d’iscrizione ………. 135

3. La consegna dei dispositivi ………. 137

1. Le chiavette USB ……… 140

2. Le black box ……… 141

3. I sistemi di videosorveglianza ………. 141

4. Le informazioni da fornire al SISTRI: le schede “Registro cronologico” e “ Area movimentazione” ……… 143

(5)

5. L’apparato sanzionatorio: istituzione normativa ………. 146 1. Le fattispecie ex artt. 260-bis e 260-ter ……….. 149 6. Le prospettive future: quale futuro per il Sistri? ………. 155

CAPITOLO 5

CONCLUSIONI

1. Considerazioni conclusive ……… Pag. 159

BIBLIOGRAFIA

(6)

I

NTRODUZIONE

PERCHÉ SI TRACCIANO I RIFIUTI?

La dimensione economica e l’intreccio di affari che interessano i traffici illeciti di rifiuti non sembrano risparmiare nessuna parte del globo ed i dati diffusi dalle polizie internazionali evidenziano flussi di portata planetaria che costituiscono una seria minaccia per l’ambiente, la salute e la sicurezza dei cittadini. Tra le attività illecite gestite dalla criminalità organizzata, sul piano economico, i traffici dei rifiuti sono secondi solo al traffico degli stupefacenti, con importi che in Italia superano i 19 miliardi di euro l’anno1. Tali situazioni si ripresentano a livello europeo, dove risulta che l’esportazione “teorica” nei Paesi con economie deboli risulta essere ancora oggi una pratica molto diffusa perché consente lo smaltimento definitivo a costi competitivi. Tuttavia tali rifiuti molto spesso non giungono a destinazione, se non sul piano documentale, e sono dirottati in territori europei a costi ancora inferiori poiché riferiti a smaltimenti illeciti. Pertanto questa pratica si è trasformata in un vero e proprio traffico che coinvolge soggetti privati, società di smaltimento e di trasporto ed è terreno fertile per le c.d. ecomafie2.

I problemi associati a questo tipo di traffico sono numerosi, soprattutto se esso riguarda i rifiuti pericolosi: esistono rischi connessi al trasporto per gli operai impiegati alla movimentazione e nel trasporto, nonché per l’ambiente delle aree di transito (sversamenti più o meno casuali) e di destinazione. Inoltre, molto spesso i Paesi che ricevono tali rifiuti non possiedono le tecnologie adatte per trattarli con metodi ecologicamente corretti ed in condizioni di sicurezza. Da ultimo, il trasporto all’estero costituisce un facile alibi per evitare di introdurre, nei luoghi di produzione, misure e tecnologie pulite che possano ridurre a monte la quantità e pericolosità dei rifiuti prodotti.

Come le cronache locali e giudiziarie ci raccontano quasi quotidianamente, purtroppo, il nostro Paese è da molto tempo “sensibile” a fenomeni di questo tipo e, in certi casi, anche molto più gravi: si va, infatti, dal trasporto illecito di rifiuti al loro smaltimento illecito nelle peggiori forme possibili per la salute dell’uomo e del nostro pianeta. Da questo punto vista, purtroppo,

1 Il dato è consultabile in “Ecomafia 2016, le storie e i numeri della criminalità ambientale”,

a cura di Osservatorio Ambiente e Legalità di Legambiente, Edizioni Ambiente, 2016.

2 Con tale termine intendo riferirmi a quei settori della criminalità organizzata che hanno scelto

il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, l'abusivismo edilizio e le attività di escavazione come nuovo grande business in cui sta acquistando sempre maggiore peso anche i traffici clandestini di opere d’arte rubate e di animali esotici.

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i riferimenti sono scontati e noti a tutti; terminologie quali “terra dei fuochi”3 richiamano inevitabilmente storie ed eventi che hanno dimostrato l’assenza di una disciplina legislativa in grado di combattere e fronteggiare pratiche criminali le cui conseguenze non hanno tardato a manifestarsi sulle popolazioni di quei territori. Ma attenzione: sarebbe altamente riduttivo e semplificatorio concepire tali problemi come esclusivi di una sola parte del territorio nazionale. Basta osservare infatti i dati contenuti nel “Rapporto Ecomafia 2016” per renderci facilmente conto di come nelle prime posizioni della classifica regionale dell’illegalità nel ciclo dei rifiuti si trovano la Toscana, il Lazio, il Veneto4.

Da ciò derivano due conclusioni: la prima è che, se vogliamo ricollegare certi illeciti ad attività della criminalità organizzata, dobbiamo “arrenderci” e prendere atto che questo è un fenomeno che interessa il territorio nazionale nella sua interezza e non più esclusivo della parte meridionale del nostro Paese5; la seconda è che le risposte dello Stato a questi problemi non sono state sufficienti.

Non è questo il luogo per affrontare specificamente tale argomento, ma basta evidenziare il modo in cui la dottrina e la giurisprudenza hanno accolto la legge del 22 maggio 2015, n. 686,

attesa da moltissimi anni e che per la prima volta ha introdotto nell’ordinamento delle nuove figure di “ecoreati”, per comprendere che si è trattata, molto probabilmente, di una ulteriore occasione persa. In particolar modo, il riferimento è a quella parte, maggioritaria, della dottrina7 che non ha mancato di sottolineare, ad esempio, come sia il delitto di disastro

3 La bibliografia, letteraria e non, che ha messo in luce ciò che è accaduto a partire dagli anni

’70 nelle campagne della Campania è ormai vasta. A titolo esemplificativo si veda: G. VASSALLO e D.DE CRESCENZO, in “Così vi ho avvelenato. Il grande affare dei rifiuti tossici raccontato da un manager della camorra”, Sperling & Kupfer, 2016.

4 La classifica è consultabile al seguente indirizzo:

http://noecomafia.it/2016/italia/rifiuti/numeri/i-rifiuti-i-numeri-nel-2015-2/

5 A suffragio di questa tesi si veda, ad es.: “L’espansione della criminalità organizzata

nell’attività d’impresa al nord”, ricerca condotta dall'Università commerciale "Luigi Bocconi" - Dipartimenti di Studi giuridici "Angelo Sraffa" e CREDI - Centro di ricerche europee sul diritto e la storia dell'impresa "Ariberto Mignoli", 2014

6 Per una spiegazione dettagliata del contenuto della legge, si veda: C.BOVINO, “Traguardo

storico: arriva la legge sui nuovi delitti contro l’ambiente”, in Ambiente&Sviluppo, fasc.6, 2015, p.351-354.

7 Ad esempio, si v.: A.L.VERGINE, “A proposito della prima (e della seconda) sentenza della

Cassazione sul delitto di inquinamento ambientale”, in Ambiente&Sviluppo, fasc.1, 2017, p. 5-6; G. AMENDOLA, “Il D.d.l. sui delitti ambientali oggi all’esame del parlamento: spunti di riflessione”, in www.lexambiente.it; M.SANTOLOCI, “Dietro la introduzione dei nuovi delitti ambientali (molto scenografici, ma scarsamente applicabili e di poco effetto pratico) si nasconde l’azzeramento di fatto di tutti gli illeciti ambientali oggi esistenti”, in www.dirittoambiente.net.

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ambientale, che quello di inquinamento, soffrissero di scarsa determinatezza (caratteristica non secondaria per reati che dovrebbero avere nella precisione dei contorni un requisito irrinunciabile), oppure la assoluta non necessità di eliminare la “stragrande parte dei reati contravvenzionali contemplati nel Codice dell’Ambiente, D.lgs 152/2006, trasformandoli in sanzioni amministrative con una procedura che definire fantascientifica è poco”8.

Da un punto di vista prettamente giuridico sarebbe limitativo, tuttavia, constatare che le uniche risposte legislative possibili siano quelle appena descritte; sarebbe limitativo, in altre parole, riferirsi solo alla parte per così dire “penalistica” della risposta, che come tale “vieta determinati fatti mediante la minaccia di una pena ed ha la finalità di regolare le azioni delle persone, e non di accertarle”9, perché questa rappresenta solo una faccia di una medesima medaglia. L’altra faccia di questa è rappresentata da tutte quelle previsioni normative che cercano di “prevenire”10 e di gettare le basi affinché i fenomeni illeciti di cui ho sommariamente parlato prima non possano verificarsi. In particolare mi sto riferendo al tema cruciale della c.d. tracciabilità dei rifiuti, ossia “di quel processo informativo che segue il flusso di materia da monte a valle della filiera di produzione-smaltimento del rifiuto”11.

Ad oggi le risposte agli obiettivi di tracciabilità possono essere fornite attraverso metodologie di tipo documentale o mediante sistemi innovativi altamente tecnologici: tali approcci non si escludono vicendevolmente ma, al contrario, come testimonia (seppur con tutte le difficoltà e le perplessità del caso di cui darò conto nei paragrafi successivi) l’esperienza italiana, possono proficuamente integrarsi.

Con riferimento alle metodologie tradizionali, note con il termine di tracciabilità di primo livello, è possibile considerare: il formulario d’identificazione rifiuti (FIR), il registro di carico e scarico, il modello unico di dichiarazione (MUD), la tracciabilità dei nodi con flusso di dati che accompagna ogni movimentazione, il sistema ottico a barre, la proprietà ed unicità dei contenitori etc. Tali strumenti si rivelano particolarmente utili per la realizzazione di opportuni controlli, tuttavia fondano la loro efficienza sulla correttezza dei comportamenti da parte dei principali attori impegnati nella filiera del ciclo di rifiuti e per questo, tenendo conto delle

8 G.AIELLO, “L’altra faccia della Legge n. 68/2015 sugli Ecoreati: il disastro

dell’eliminazione delle contravvenzionali in materia ambientale almeno l’80 % dei reati contravvenzionali buttati nella spazzatura”, www.lexambiente.it, 2 luglio 2015.

9 P.TONINI, “Manuale di procedura penale”, XVI ed., Giuffrè Editore, Milano, p. 2.

10 Sulla funzione di prevenzione della tracciabilità dei rifiuti si v.: M.GROTTO, “La

tracciabilità è legalità”, in Rifiuti-bollettino di informazione normativa, Edizioni Ambiente, fasc. 244/245, 2016, p. 2.

11 V.F.URICCHIO, “Le nuove frontiere della tecnologia per la tracciabilità dei rifiuti e il

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motivazioni richiamate ed delle concrete possibilità di infiltrazioni criminose nei circuiti della gestione del rifiuto, non è possibile affidarsi al senso di responsabilità e di correttezza nella regolare compilazione delle documentazioni menzionate. È chiaro dunque che la tecnologia e l’innovazione possono conferire un significativo valore aggiunto ai summenzionati strumenti convenzionali, consentendo di tracciare efficacemente i rifiuti e di rilevare comportamenti illeciti o impropri.

Tuttavia, come diceva Bobbio, “ci troviamo ancora una volta di fronte ad una delle consuete confusioni tra il piano ontologico della ricerca e quello deontologico, tra la constatazione dei fatti e la loro valutazione”12; come sottolinea Grotto, “tracciabilità è una parola che in questi ultimi anni è stata usata da tanti ma non altrettanto praticata”13. Il nostro Paese, infatti, lo vedremo nel dettaglio nei prossimi capitoli, ha da alcuni decenni fatto propri gran parte degli strumenti di tracciabilità summenzionati ma non è mai riuscito a tradurre in concreto gli obiettivi che si era prefissato e che la teoria dava per scontati, dando vita ad un sistema che in molti aspetti si dimostra non efficiente e “vecchio ancor prima di nascere”14.

Ai sensi dell’art.177, comma 4, D.lgs.152/2006 (come modificato dal D.lgs. 205/2010) i rifiuti “sono gestiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente […]”. Il “metodo” per garantire tutto questo è individuato dall’art. 188-bis nella tracciabilità dei rifiuti, che “deve essere garantita dalla loro produzione sino alla loro destinazione finale”. Fermo restando che rimane “una incognita assoluta capire come la tracciabilità possa evitare inconvenienti da rumori o odori”15 (ex art. 177, comma 4) l’articolo in questione stabilisce che “a tal fine” (cioè proprio per evitare i pregiudizi alla salute ed all’ambiente) la gestione dei rifiuti deve avvenire nel rispetto degli obblighi SISTRI (sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti) oppure degli obblighi relativi al sistema cartaceo (registri di carico e scarico, formulari di identificazione, MUD). Dunque il nostro sistema di tracciabilità dei rifiuti si compone di due elementi: da una parte il sistema informatico; dall’altra il sistema cartaceo. Questi si comportano secondo uno schema di residualità, in virtù del quale le categorie di rifiuti non rientranti nell’ambito applicativo del primo sono attratti da quello del secondo.

12 N.BOBBIO, “Per una classificazione delle norme giuridiche”, in “Studi per una teoria

generale del diritto”, T.GRECO (a cura di), Giappichelli Editore, Torino, 2012, p.19.

13 M.GROTTO, ult.op.cit, p.3.

14 P.FICCO, “Il curioso caso di un Sistri che nasce vecchio per diventare giovane”, in Rifiuti

bollettino di informazione normativa, Edizioni Ambiente, fasc. 241, 2016.

15 P.FICCO, “Finalità del Sistri e della tracciabilità dei rifiuti in genere: chi fa cosa”, in

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La complessità del tema, per quanto una lettura approssimativa della normativa potrebbe portare ad una conclusione diversa, deriva dal fatto che si tratta di un ambito in cui si manifestano gran parte dei problemi della produzione normativa caratterizzanti, ormai da troppi anni, il nostro Paese: conflitti fra fonti del diritto, mancata sistematicità della materia, continui rinvii dell’operatività del sistema informatico, continue modifiche della platea di soggetti interessati ad uno o all’altro sistema e, da ultimo, anche questioni di opportunità politica circa alcune scelte fondamentali per il funzionamento dell’intero sistema hanno portato ad una situazione di grave incertezza per gli operatori economici, i tecnici ed i giuristi ambientali.

(11)

C

APITOLO

I

LA NOZIONE GIURIDICA DI RIFIUTO

1. Che cosa è un rifiuto?

Secondo le informazioni Eurostat, integrate con i dati rilevati dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca dell’Ambiente (ISPRA) per quanto riguarda l’Italia, nell’Unione Europea a 28 Paesi, nel periodo intercorrente fra il 2012 e il 2015, sono stati prodotti circa 2,75 miliardi di tonnellate di rifiuti annuii.16 Se a ciò si aggiunge che qualsiasi attività dell’uomo, anche quella apparentemente più innocua e comune, genera rifiuti; che durante la fase di produzione, di confezionamento, di utilizzo e di gestione di qualsiasi prodotto o merce, si generano grandi quantitativi di rifiuti, molti dei quali caratterizzati dalla presenza di notevoli quantità di sostanze pericolose per la salute dell’uomo e dell’ambiente, si comprende che la conclusione non può che essere una: il tema dei rifiuti, della loro gestione, della loro regolamentazione giuridica, deve essere al centro delle attenzioni del legislatore comunitario e nazionale dei singoli Paesi membri.

È evidente, dunque, che per progettare un modello di sviluppo sostenibile17 , sia dal punto di vista economico che ambientale, non si può prescindere da una scrupolosa attenzione della pianificazione di pratiche industriali e condotte di vita che prestino la massima attenzione alla riduzione della produzione dei rifiuti, al riutilizzo dei prodotti, al recupero dei materiali ed alla corretta gestione dei rifiuti. Tanto questo tema è stato avvertito come centrale nella politica ambientale sovranazionale ed interna che le prime direttive europee in tema di diritto ambientale riguardavano i rifiuti o argomenti ad essi pertinenti18.

16 I dati sono tratti da ISPRA, Rapporti n. 252/2016 (c.d. Rapporto Rifiuti Urbani), 2016, p. 1;

ISPRA, Rapporti n. 247/2016 (c.d. Rapporto Rifiuti Speciali), 2016, p. 1 entrambi consultabili all’indirizzo http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti. In particolar modo, la situazione italiana si compone di 29,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani (prodotti nel 2015) e di circa 130,6 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (dato relativo all’anno 2014).

17 In riferimento al principio dello sviluppo sostenibile si veda, ad es: F.FRACCHIA, Il

principio dello sviluppo sostenibile, in Diritto dell’Ambiente, Giampaolo Rossi (a cura di), Giappichelli, Torino, 2015, p. 174-185.

18 Si tratta segnatamente della direttiva 75/439/Cee del Consiglio del 16 giungo 1975

sull’eliminazione degli oli usati; della direttiva 75/442/Cee del Consiglio del 15 luglio 1975 relativa ai rifiuti e della direttiva 78/319/Cee del Consiglio del 20 marzo 1978 relativa ai rifiuti tossici e nocivi.

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Proprio quest’ultima considerazione consente da subito di ricordare come “nella materia ambientale emerge, con singolare chiarezza, il ruolo che può esercitare l’ordinamento dell’Unione Europea anche al di là dell’assetto standard nel quale lo si descrive abitualmente”19.

Il Trattato istitutivo della Comunità economica europea (CEE) non conteneva alcun riferimento all’ambiente e, tanto meno, ai rifiuti. Ciò si spiega ponendo mente al fatto che la Comunità nasceva al fine di perseguire scopi di carattere prettamente economico, rispetto ai quali l’ambiente non costituiva una priorità. Dal punto di vista pratico ciò si traduceva nella mancanza in capo alle Istituzioni comunitarie di una qualsivoglia competenza in materia ambientale. Di conseguenza, nel momento in cui emersero le prime questioni inerenti a tale argomento si pose il problema del fondamento sostanziale, del titolo formale e degli strumenti utilizzabili per l’azione politica e gli interventi normativi del legislatore comunitario. Quanto al fondamento sostanziale dell’intervento comunitario, questo fu rinvenuto nell’art. 2 del Trattato Cee, mentre il titolo formale fu rintracciato negli originari artt. 100 e 235 del Trattato Cee, relativi rispettivamente al ravvicinamento delle legislazioni nazionali ed ai c.d. poteri impliciti della Comunità. È sulla base di questi argomenti, dunque, che le istituzioni (con l’avallo della Corte di Giustizia20) presero a giustificare i propri interventi in materia

ambientale affermando come gli stessi fossero animati dall’obiettivo di garantire, attraverso l’armonizzazione delle misure di tutela, la realizzazione e il mantenimento di un mercato comune, libero e concorrenziale.

La situazione così descritta ha poi conosciuto una svolta a partire dal 1986, quando, in occasione dell’Atto Unico europeo, è stato introdotto nel Trattato Cee un titolo ad hoc in materia ambientale (il settimo) e si è prevista una specifica competenza comunitaria in materia. A riguardo, ricorda M. Renna21 che “all’Atto Unico si deve quindi l’apertura di una nuova fase del diritto ambientale, caratterizzata da una crescita inarrestabile, sia quantitativa che qualitativa, degli interventi normativi in materia ambientale, che ha portato l’ambiente, in breve tempo, dall’essere un illustre sconosciuto (...) a costituire uno dei settori più importanti e sviluppati del diritto amministrativo europeo”. Successivamente, infatti, a partire dal Trattato di Maastricht, arrivando alla Carta di Nizza, alla materia ambientale è stato riconosciuto ampio

19 G. ROSSI, in G. Rossi (a cura di) Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2015, p. 35. 20 A titolo esemplificativo si veda la sentenza 7 febbraio 1985, causa n. 240/83, all’interno

della quale il giudice comunitario affermò che “la tutela ambientale costituisce uno degli scopi essenziali della Comunità e può consentire, pertanto, restrizioni ai principi della libertà del commercio e della concorrenza”.

21 M. RENNA, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo, in Rivista Italiana diritto

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risalto fino ad assurgere definitivamente a valore in sé dell’ordinamento europeo, oggetto di tutela diretta e non più solo di protezione mediata in quanto valore potenzialmente compromettibile con il processo di crescita economica dell’Unione.

Oggi l’importanza della normativa comunitaria in materia ambientale è riconosciuta al punto tale da consentire alla pressoché dottrina unanime22 di affermare che è raro riscontrare in altri ambiti della legislazione interna una incidenza così marcata. E dunque, ai fini di questo scritto, è utile ricordare che anche la materia dei rifiuti non fa eccezione a questa considerazione: la disciplina dei rifiuti rappresenta senz’altro l’ambito della politica ambientale dell’Unione nel quale la legislazione europea si è maggiormente sviluppata, formando ormai un sistema particolarmente articolato e complesso.23

Affrontare il tema della disciplina dei rifiuti impone un punto di partenza imprescindibile: la nozione di rifiuto. Essa è infatti il presupposto fondamentale di operatività della regolamentazione in esame ed è il suo elemento centrale, se è vero che dall’attribuzione della qualifica di rifiuto ad una sostanza o ad un materiale dipende l’acquisto di uno status giuridico per il detentore/produttore, cui deriva una serie di obblighi necessari al perseguimento degli scopi indicati nelle norme.

Anche in virtù di una propensione del legislatore nazionale a distinguersi per “la sua tenace volontà di limitare il più possibile l’ambito di applicazione della disciplina”24 o per “tentare di rendere più flessibile la nostra normativa di attuazione nei confronti dei più restrettivi principi delle direttive in materia di rifiuti” 25, in Italia, la nozione giuridica di rifiuto è stata al centro di una evoluzione normativa e di un dibattito giurisprudenziale-dottrinale26 che solo negli ultimi tempi, grazie soprattutto all’opera del legislatore sovranazionale, sembra aver trovato una conclusione condivisa27. Affrontare questo tema significa, ovviamente, fare continuo

22 I riferimenti sono molti. A titolo esemplificativo si veda G.ROSSI, op. ult. cit, p.39; F.DE

LEONARDIS, Trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’Ambiente, Giappichelli, Torino, 2015

23 In questi termini si esprime, ad esempio, D.RUSSO, La disciplina dell’UE sui rifiuti: profili

critici e prospettive di sviluppo dell’attuale quadro normativo, in Produzione, gestione, smaltimento dei rifiuti in Italia, Francia e Germania tra diritto, tecnologia, politica, di G.C. FERONI (a cura di), Giappichelli, Torino, 2014.

24 G. AMENDOLA, Ancora sulla nozione di rifiuto: l’ultimo intervento della cassazione 25 P. DELL’ANNO, Diritto dell’Ambiente, Giappichelli, Torino, 2016, p. 79.

26 La bibliografia è molto vasta. Su tutti si veda: M.G. VAGLIASINDI, La definizione di

rifiuto tra diritto ambientale e diritto comunitario, in Riv. Trim. dir. Pen. Econ., 2005, 959 s. (I parte) ed in Riv. Trim. dir. pen. Econ., 2006, 157 ss. (II parte).

27 Ad oggi, infatti, il dibattitto e l’interesse sembra essere piuttosto rivolto verso nozioni di più

recente introduzione e regolamentazione quali quella di “sottoprodotto” o di “end of waste”, anch’esse fondamentali per la cognizione completa della disciplina in esame ma che esulano dall’oggetto di questo lavoro.

(14)

riferimento a due piani normativi, quello comunitario e quello nazionale, nel senso che il secondo dovrebbe essere inteso come la sede in cui si attua ciò che si è stabilito nel primo. Tuttavia sarà facile comprendere dalle prossime pagine che ciò non rappresenta appieno la realtà dei fatti.

In continuità con quanto già previsto nel d.lgs.22/1997 (c.d. decreto Ronchi), anche il d.lgs. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente) definiva nella versione originaria rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’Allegato A alla Parte Quarta, di cui il detentore si disfi, abbia deciso od abbia l’obbligo di disfarsi”28. Tale definizione riprendeva pedissequamente quella contenuta nella prima direttiva europea madre in materia di rifiuti, la direttiva n. 75/442, che all’art.1, lett. a), definiva rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi, abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”29.

Da queste prime indicazioni normative è evidente di come ai sensi della definizione della direttiva del 1975 due apparivano gli elementi di tale nozione: l’appartenenza della sostanza o del materiale ad una delle categorie individuate nell’Allegato I della direttiva 75/442 (riprodotto fedelmente nell’Allegato I alla Parte Quarta del d.lgs.152/2016); ed il comportamento del detentore che “si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi” del materiale o della sostanza. Nell’Allegato I erano menzionate una serie di categorie di materiali la cui classificazione sarebbe stata completata con la decisione della Commissione n. 2000/532 istitutiva del c.d. Elenco Europeo dei Rifiuti (EER), più volte aggiornato, da ultimo ad opera della decisione 2014/995/Ue.

È necessario, da subito, “sfatare alcune leggende, tanto diffuse quanto erronee”30 ricollegate a queste prime considerazione. La prima riguarda la pretesa tassatività dell’elenco dei rifiuti: la lista di categorie e l’elenco rifiuti, infatti, non sono esaustive ed hanno un valore puramente indicativo, sono una sorta di nomenclatura di riferimento; per cui l’inclusione di un materiale nell’elenco non significa che questo sia un rifiuto in ogni circostanza, ma solo se ricorre anche la condizione necessaria del disfarsi. E viceversa: la mancata previsione di un materiale nell’elenco non esclude che esso possa divenire un rifiuto qualora il produttore o il detentore

28 Cfr. art.183, comma 1, lett.a.

29 A tale definizione, la successiva direttiva sui rifiuti 2006/12 aveva apportato una modifica

prevedendo, in luogo della decisione (“abbia deciso…di disfarsi”), l’intenzione di disfarsi (“abbia l’intenzione…di disfarsi”) come presupposto di qualificazione.

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compiano l’azione normativamente descritta.31 La seconda concerne l’ambito semantico dell’espressione comunitaria “disfarsi”: esso non coincide con le operazione finalizzate al recupero o allo smaltimento di un oggetto, innanzitutto perché queste non sono un elenco tassativo delle attività qualificabili con il termine “disfarsi”, in secondo luogo perché esso può comprendere anche il semplice abbondono del rifiuto, in terzo luogo perché può riguardare anche una operazione commerciale dovuta al fatto che il rifiuto mantenga un valore economico residuo.32

Quindi, se l’appartenenza all’elenco non era dominante, la qualifica di rifiuto appariva dipendere esclusivamente dal secondo elemento indicato nella definizione della direttiva: il comportamento del detentore. In altre parole: si riteneva che solo quest’ultimo potesse far acquistare ad una sostanza o materiale la qualifica di rifiuto tramite l’azione di disfarsene. Pertanto l’ambito di applicazione della nozione di rifiuto, nella prima direttiva, era condizionato principalmente dal significato del termine disfarsi; dal significato, cioè, di un verbo che, ricollegandosi al compimento di un comportamento, avrebbe potuto far ipotizzare la natura soggettiva della qualifica di rifiuto. In presenza di tali presupposti la nozione di rifiuto era (e, vedremo, continua ancora oggi ad essere) caratterizzata da un certa “ambiguità”33.

In realtà “il significato del verbo disfarsi dipendeva da una serie di fattori oggettivi e di indizi fattuali che relegavano la volontà del detentore a fattispecie del tutto residuali ed occasionali”34. In altre parole la qualifica di una sostanza come rifiuto era il risultato della ricerca di quegli elementi oggettivi sintomatici della volontà di disfarsi del rifiuto, interpretati alla luce della finalità della direttiva e dei principi della politica ambientale comunitaria.

31 Punto 3 e 5 della nota introduttiva alla direttiva. Successivamente la decisione n. 532/2000

affermerà esplicitamente il medesimo concetto. Sull’argomento è intervenuta anche la Corte di Giustizia fin dalla sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/1996.

32 Sul punto è utile ricordare anche che la Corte di giustizia ha cominciato, in più recenti

pronunce, ad attribuire valore discriminante alla rilevanza economica del riutilizzo di un determinato in quanto “se, oltre alla era possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. Per cui, in una situazione del genere, la sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui ci si voglia disfare, bensì un autentico prodotto” (sent. Niselli).

33 P.DELL’ANNO, in Diritto dell’Ambiente, Giappichelli, Torino, 2016, p.79. In particolare

l’Autore rileva che solo l’ipotesi in cui il soggetto “si disfa” di un materiale indicherebbe un azione individuabile ed oggettiva mentre la seconda ipotesi (“intenzione di disfarsi”) sembrerebbe riferirsi ad un elemento soggettivo da investigare. Quanto alla terza ipotesi (“l’obbligo di disfarsi”), per completezza, distingue fra un obbligo derivante da una necessità tecnologica ed uno derivante da una necessità giuridica.

34 M. BENOZZO, La gestione dei rifiuti, in Commento al Codice dell’Ambiente, Giappichelli,

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Il momento successivo della evoluzione normativa della nozione di rifiuto è rappresentato dalla direttiva 2008/98 in cui, all’art.3 n.1, viene meno ogni riferimento all’Allegato I e rimanendo esclusivamente la componente comportamentale del disfarsi quale indice di riferimento. Questa definizione è quella che, in seguito alle modifiche apportate al Codice dell’Ambiente dal d.lgs.205/2010 (c.d. quarto correttivo), ritroviamo attualmente all’art.183, comma 1, lettera a) del d.lgs.252/200635. Come è chiaro, nonostante la modifica normativa, e una certa “ignoranza”36 da parte del nostro legislatore, anche la definizione attuale di rifiuto continua a connotarsi “per un duplice criterio di identificazione: uno oggettivo, uno soggettivo”37. Pertanto la nozione continua a dipendere totalmente dalla componente comportamentale del detentore iniziale e da come questo venga interpretato. Innanzitutto – come ci ricorda G. Amendola – il termine “disfarsi” deve continuare ad essere interpretato non solo alla luce delle finalità essenziale della direttiva 2008/98 (la protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti), bensì anche dell’art.174, n 2, CE (“la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità…”). Ne consegue che il termine “disfarsi”, e quindi la nozione di rifiuto, che rimangono indeterminati e da individuare caso per caso in relazione alle circostanze di fatto che ricorrono nella gestione di una data di categoria di rifiuti, non possano essere interpretati in senso restrittivo.

L’interpretazione dell’elemento soggettivo, non supportata attualmente da disposizioni normative espresse38, continua ancora oggi ad essere agevolata dai c.d. “indizi di lettura” della Corte di Giustizia alla luce dei quali si riesce a qualificare un materiale o una sostanza come rifiuto. Con una serie di pronunce, la Corte ha identificato due tipologie di indizi: gli indizi

35 art.183, comma 1: “ai fini della parte quarta del presente decreto e fatte salve le ulteriori

definizioni contenute nelle disposizioni speciali, si intende per “rifiuto”: qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi”.

36 Il riferimento è alla relazione di accompagnamento del d.lgs.205/2010 in cui si legge che

“la modifica della definizione è una delle modifiche più rilevanti…in quanto pur restando inalterato il concetto di disfarsi nelle tre declinazione…viene eliminata la seconda condizione prevista dalla normativa vigente, vale a dire l’inserimento nell’elenco delle categorie di rifiuti previsto dal previgente Allegato A…[così giungendo ad una] definizione “aperta” di rifiuto (così alle pagine 6 e 7 del dossier dei servizi e degli uffici della Camera per l’attività degli organi parlamentari e dei parlamentari n. 220/1 del 31 gennaio 2011). È evidente che da questo punto di vista la nozione di rifiuto sia sempre stata “aperta”.

37 P.FICCO, in Gestire i rifiuti tra legge e tecnica, Paola Ficco (a cura di ), Edizioni ambiente,

2015, p.43

38 L’Italia ha conosciuto l’art.14, l. 178/2002, contenente l’interpretazione autentica della

nozione di rifiuto e delle operazioni costitutive del disfarsi. La legge è stata abrogata dal d.lgs.152/2006. Vedi infra.

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negativi e gli indizi positivi. I primi sono quelli che non consentono di escludere la qualifica di rifiuto ad un dato materiale o sostanza e di escluderli dalla loro gestione controllata; i secondi, invece, sono quelli che permettono il contrario. Infine, utile, ma non determinante, è la comune esperienza: una sostanza comunemente considerata rifiuto non è per sua natura tale se non risponde alla nozione giuridica in esame ma la qualifica sociale acquista rilevanza giuridica quale indizio interpretativo nel caso di dubbi di valutazione39.

Il richiamo all’avverbio “attualmente” allude all’esperienza italiana del d.l. 8 luglio 2002, n.138 (convertito nella legge 8 agosto 2002, n.178) con cui si volle introdurre nell’ordinamento nazionale una interpretazione autentica del concetto “rifiuto” e di “disfare”40. All’art.14, comma 1, si specificava che “le parole: "si disfi", "abbia deciso" o "abbia l'obbligo di disfarsi" di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, di seguito denominato: "decreto legislativo n. 22", si interpretano come segue: a) "si disfi": qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22; b) "abbia deciso": la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22, sostanze, materiali o beni; c) "abbia l'obbligo di disfarsi": l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del decreto legislativo n. 22.”. L’intervento legislativo ha da subito sollevato dubbi di legittimità per aver nella sostanza introdotto nel sistema nazionale sia una restrizione alla nozione generale di rifiuto, sia una doppia deroga41. Per ciò che interessa ai fini del presente scritto, la restrizione della nozione dipendeva dalla scelta di far svolgere alle attività di smaltimento e recupero di cui agli allegati B e C del decreto Ronchi, un ruolo determinante nella disciplina, stabilendo che l’attività del disfarsi qualificasse un oggetto come rifiuto solo quando essa fosse avvenuta attraverso una di tali attività. Evidentemente tale disciplina comportava che alcuni materiali o sostanze, pur rispondendo ai requisiti propri della categoria rifiuti come individuata

39 Corte di Giustizia 15 giugno 2000, ARCO, punto 71.

40 I commenti della dottrina a questo intervento normativo sono molteplici. A titolo

esemplificativo si veda: RÖTTGEN DAVID, Nozione di rifiuto e ambito di applicazione degli artt. 14 e 17 decreto ronchi, in Ambiente&Sviluppo, n.9/2004; F. GIAMPIETRO, La nozione di rifiuto: l’interpretazione autentica ex d.l. n.138/2002, in Ambiente&Sviluppo, n. 8/2002

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dal diritto europeo, non sarebbero state qualificabili tali per espressa volontà del legislatore italiano. Proprio in ragione di queste criticità la normativa italiana è stata bocciata due volte dalla Corte di Giustizia42 ed il Parlamento, dopo un tentativo di riprodurre la disciplina sanzionata con la legge delega n 308/2004, optò per ridisegnare l’intera materia, conformandosi al diritto comunitario allora vigente, con il d.lgs. 152/2006.

A prescindere da ciò la Corte di Giustizia, sin dagli anni 70, è riuscita ad individuare, delle presunzioni, degli elementi oggettivi utili a desumere la volontà del detentore di disfarsi di quella sostanza/materiale in suo possesso43,che sono stati ripresi anche dalla Commissione per articolare vere e proprie linee guida interpretative della nozione in esame44. Tra queste, ad esempio, hanno assunto rilevanza la circostanza che la sostanza sia un residuo di produzione o di consumo, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale, e che essa sia un residuo di produzione il cui eventuale utilizzo debba avvenire in condizioni di prudenza a causa della pericolosità per l’ambiente della sua composizione.

A siffatta impostazione si sono pienamente conformati anche i nostri giudici nazionali: “è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta ma, piuttosto, ciò che è qualificabile come tale sulla scorta di dati obiettivi. La definizione di rifiuto stabilità dal d.lgs.152/2006 deve essere interpretata estensivamente nel rispetto delle indicazioni giunte dalla Corte di Giustizia UE; risulta quindi inaccettabile qualsiasi valutazione soggettiva della natura dei materiali da classificare o meno quali rifiuti”45. In altre parole “può ben dirsi che a livello nazionale si è venuto affermando un orientamento monolitico della giurisprudenza, secondo cui l’accertamento della natura di un oggetto come rifiuto deve passare attraverso la lente comunitaria e risolversi in una quaestio

42 Negli ultimi mesi del 2002, da un lato la Commissione Europea avviava una procedura di

infrazione ex art. 226 del Trattato ai danni dell’Italia sul presupposto che l’art. 14 del d.lgs.138/2002 fosse incompatibile con il diritto comunitario, dall’altro il Tribunale di Terni rimetteva la norma alla Corte di Giustizia per le medesime ragioni. Le due questioni si conclusero (la prima con la causa C-263/05, la seconda con la c.d. sentenza Niselli) con la constatazione che effettivamente sussistesse una violazione del diritto comunitario da parte di quello italiano e si invitava l’Italia a conformarsi ad esso in un termine prestabilito. Sul punto la bibliografia è vasta, a titolo esemplificativo si veda S.PALLOTTA, Art.14: interpretazione autentica della nozione di rifiuto. La corte di giustizia accoglie il ricorso del Tribunale di Terni, consultabile in http://www.dirittoambiente.net.

43 Sono molti gli interventi in dottrina in cui si riporta un elenco esemplificativo dei vari

interventi in materia da parte della Corte di Giustizia. Vedi: M.BENOZZO, ult. op. cit; GIUSEPPE DE FALCO, Nozione di rifiuto e di sottoprodotto, classificazione dei rifiuti, particolari tipologie di materiali ed ambito di applicazione della normativa, in http://industrieambiente.it, 2013; P. FICCO, ult. op. cit.

44 A titolo esemplificativo si veda il documento COM/2007/0059 def. 45 Corte Cass. 16 novembre 2016, c. 48316.

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facti che il giudice di merito è chiamato ad accertare esaminando la fattispecie concreta”46. La Corte Costituzionale47 ha ribadito in tale materia la supremazia del diritto comunitario e la necessità di ricorrere ai criteri interpretativi della Corte di Giustizia per definire i confini applicativi della definizione di rifiuto, escludendo che il legislatore nazionale possa intervenire restringendone la portata.

Ma, aldilà della corretta interpretazione del verbo “disfarsi”, sussiste un altro problema che sta a cuore della dottrina: senza considerare le locuzioni “si disfi” ed “abbia l’obbligo di disfarsi”, che sono entrambe ancorate a presupposti oggettivi (nel primo caso la condotta oggettiva, nel secondo il dovere di disfarsi imposto da una norma o da un provvedimento della Pubblica Amministrazione), è evidente che “l’intenzione di disfarsi” rappresenti il momento di più difficile applicazione perché attiene all’elemento psicologico della condotta. Perciò: come si dimostra l’esistenza di una tale intenzione? Per rispondere a tale domanda, parte della dottrina48 ha sostenuto la possibilità di riferirsi al “sistema tencico-giuridico” fornito dall’art.56 c.p. (relativo agli elementi costitutivi del delitto tentato). Ciò non significa che la logica codicistica del “tentativo” si travasi integralmente nel d.lgs.152/2006. È quindi ragionevole ritenere che l’intenzione di disfarsi di una sostanza si formi in capo a chi pone in essere azioni idonee dirette in modo inequivoco a disfarsene, rendendo così evidente, oggettivamente, la decisione presa a monte del “disfarsi”.

Se queste erano le premesse, la conclusione non poteva che essere una: nella nozione di rifiuto dovevano essere ricompresi non solo i rifiuti come tali sin dall’origine, ma anche quelle sostanze, materiali e oggetti che, pur non ancora caratterizzati da valore economico e quindi potenzialmente destinabili ad uso ulteriore, non si presentano più idonei a soddisfare i bisogni cui essi erano originariamente destinati. Tant’è che “il fatto che una sostanza utilizzata sia un residuo di produzione costituisce, in via di principio, un indizio dell’esistenza di un’azione, di un’intenzione, o di un obbligo di disfarsene”49. Una simile conclusione però necessita di un correttivo che si desume proprio da quei principi normativi e dallo strumentario interpretativo offerto dalla giurisprudenza, dove i i residui di produzione non sono sempre rifiuto.

46 M. BENOZZO, ult. op. cit.

47 Corte Cost. 28 gennaio, n. 28; Corte Cost. 8 aprile 2010, n. 127; Corte Cost. 28 marzo 2008,

n.83. In dottrina, si veda: D.FRANZIN, La Corte costituzionale e la definizione di rifiuto: nuovo capitolo di una complessa vicenda di illegittimità comunitaria, in Cass. Pen., 2011.

48 P. FICCO, ult.op.cit, p.45; M. BENOZZO, L’interpretazione autentica della nozione di

rifiuto tra diritto comunitario e nazionale.

49 Corte Giust., 11 novembre 2004, proc. C-457/02; nello stesso senso, Corte Giust., sentenza

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È in virtù di queste considerazioni che nasce, dapprima in ambito giurisprudenziale50, in seguito in ambito legislativo comunitario e nazionale51, la nozione fondamentale di sottoprodotto52 che – a determinate condizioni di origine, merceologiche e di impiego – è integralmente sottratta alla disciplina nazionale dei rifiuti. Come ricorda D. Russo, “a partire dal 2000, si è affermato un orientamento giurisprudenziale più flessibile, teso a valorizzare le prospettive di riutilizzazione degli oggetti o dei prodotti derivanti da un processo di produzione ed ancora suscettibili di funzione commerciale, e dunque ad ancorare la definizione di rifiuto a parametri di carattere oggettivo. Ciò, in particolare, al fine di incentivare gli sforzi degli operatori economici per il recupero dei residui e degli scarti della produzione e di evitare i costi dello smaltimento in casi in cui non siano indispensabili”. Così, la corte ha ammesso la categoria dei sottoprodotti come oggetti che, pur non rappresentando lo scopo dell’attività principale, nascono in via continuativa e prevedibile dal processo produttivo e sono destinati ad un ulteriore impego o consumo senza trasformazioni ulteriori. Perciò, in determinate condizioni, un residuo di lavorazione precedente potrebbe costituire non un rifiuto quanto un sottoprodotto, del quale il produttore non ha l’intenzione di disfarsi ma di sfruttare e commercializzare.

A livello normativo, invece, sia nella direttiva 2008/98 che nel d.lgs.152/2006 (post d.lgs.205/2010), si elencano sostanzialmente 4 condizioni essenziali e cumulative affinché si possa attribuire la qualifica di sottoprodotto ad un materiale ed estrometterlo dalla disciplina dei rifiuti: abbia origine da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, pur non costituendo l’oggetto principale; il suo utilizzo deve essere certo nel corso di un processo di produzione o di uso da parte dello stesso produttore o di un soggetto terzo; non deve essere necessario alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; esso deve soddisfare i requisiti pertinenti per tale tipologia di oggetti ed il nuovo impiego non comporti impatti complessivi negativi per l’ambiente o la salute umana. Oltre a questi requisiti normativi la giurisprudenza interna, sulla base delle premesse comunitarie, è intervenuta da tempo sul tema mettendo l’accento su due punti fondamentali e connessi: da un lato, la questione se si tratta di un “rifiuto” va posta con esclusivo riferimento alla figura del produttore-detentore e non in quella di chi ha interesse al suo utilizzo; e dall’altro, la qualifica

50 Corte Giust., 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit. 51 Cfr art. 5, dir.2008/98; art. 184-bis, d.lgs.152/2006.

52 Per una ricostruzione accurata della nozione, si vede: MATTEO BENOZZO, ult. op. cit.,

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di “rifiuto” può essere esclusa solo se, - con riferimento, appunto, alla figura del produttore-detentore -, vi è la prova della certezza oggettiva del riutilizzo53.

2. La perdita della qualifica di rifiuto: il c.d. End of Waste

Per completezza è necessario concludere questo primo paragrafo con un accenno ad un ulteriore concetto fondamentale: il c.d. end of waste (EoW). La definizione di rifiuto, infatti, assume rilevanza sia nel caso in cui un residuo di produzione diventa rifiuto (c.d. sottoprodotto), sia nel caso in cui un bene di consumo divenuto cessa di essere tale a valle di determinate operazioni di recupero (c.d. end of waste). Parlare di end of waste significa parlare “di quel meccanismo giuridico che chiarisca quando un rifiuto cessi, a valle di determinate operazioni di recupero, di essere tale diventando nuovamente fruibile per il mercato come prodotto”54. L’end of waste, come vedremo introdotto per la prima volta a livello europeo con l’art. 6 della Direttiva 2008/98/Ce, segna un importante passo in avanti, giacché inizia a porre fine al concetto antiquato (e consumista) del “tutto rifiuto” e all’assenza di una regolamentazione normativa del meccanismo EoW, che ha pregiudicato a lungo la realizzazione del potenziale dell’EoW in termini sia economici che ambientali.

La valenza ambientale dell’EoW è data dal fatto che esso rappresenta una misura concreta per realizzare, come vuole l’Europa, una società del riciclo e recupero, ossia una economia circolare. Infatti, la messa in atto di un’economia a ciclo chiuso e lo sviluppo di una società del riciclo e recupero, obiettivo dichiarato dagli organi comunitari, presuppongono necessariamente l’istituzione di un meccanismo EoW. La realizzazione di una società del recupero e riciclo sarà possibile solamente quando i materiali risultanti da processi di riciclaggio o di recupero di alta qualità potranno nuovamente essere introdotti sul mercato ed essere in grado di competere con le materie prime vergini. Ciò sarà possibile solo qualora sia accordato ai primi lo stesso status giuridico delle seconde, ossia quello di prodotto. Al contrario, fino a quando un oggetto o una sostanza conserveranno – nonostante siano il risultato di un riciclaggio o recupero di alta qualità – lo status giuridico di rifiuto, essi non potranno competere con le materie prime risultando, di conseguenza, fortemente discriminati.

53 Corte Cass. pen, sez 3, 15 ottobre-2dicembre 2014, n. 50309, Rizzi.

54 D.RÖTTGEN, “La fine del rifiuto (end of waste): finalmente arrivano le indicazioni di

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Dalla valenza ambientale consegue anche la valenza economica dell’EoW. Tale valenza economica sussiste non solo per il singolo soggetto, ma anche per la collettività generando, pertanto, anche benefici sociali. Il beneficio è dato dal fatto di non avere un rifiuto bensì un prodotto che, in quanto tale, potrà avere un mercato e quindi un valore positivo rispetto al rifiuto che, nella stragrande maggioranza dei casi, non ha alcun valore, ma costituisce piuttosto una passività a carico del singolo o della collettività.

Venendo alla disciplina giuridica dell’istituto in questione, anche in questo caso, due sono i piani normativi da tenere in considerazione: quello comunitario e quello nazionale. Quanto al primo, la base giuridica di riferimento è rappresentato dall’art.6 della direttiva 2008/98/Ce che recita: “taluni rifiuti specifici cessano di essere tali ai sensi dell’articolo 3, punto 1, quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, e soddisfino criteri specifici da elaborare conformemente alle seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzata/o per scopi specifici; b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto. 2. Le misure intese a modificare elementi non essenziali della presente direttiva, completandola, che riguardano l’adozione dei criteri di cui al paragrafo 1 e specificano il tipo di rifiuti ai quali si applicano tali criteri, sono adottate secondo la procedura di regolamentazione con controllo di cui all’articolo 39, paragrafo 2. Criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale dovrebbero essere considerati, tra gli altri, almeno per gli aggregati, i rifiuti di carta e di vetro, i metalli, i pneumatici e i rifiuti tessili. 3. I rifiuti che cessano di essere tali conformemente ai paragrafi 1 e 2 cessano di essere tali anche ai fini degli obiettivi di recupero e riciclaggio stabiliti nelle direttive 94/62/CE, 2000/53/CE, 2002/96/CE e 2006/66/CE e nell’altra normativa comunitaria pertinente quando sono soddisfatti i requisiti in materia di riciclaggio o recupero di tale legislazione. 4. Se non sono stati stabiliti criteri a livello comunitario in conformità della procedura di cui ai paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile. Essi notificano tali decisioni alla Commissione in conformità della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 1998 che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle

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regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, ove quest’ultima lo imponga”.

I tratti essenziali di tale disciplina, dunque, possono essere riassunti come segue: viene fissato un quadro di riferimento da tenere in considerazione nello sviluppare per determinati rifiuti specifici criteri end of waste; per lo sviluppo, a livello comunitario, di specifici criteri end of waste è previsto un iter istituzionalizzato (c.d. Comitologia) espletato, in gran parte, dalla Commissione per definire quando un rifiuto cessi di essere tale; in assenza di attività a livello comunitario finalizzate allo sviluppo, per determinati rifiuti, di specifici criteri end of waste, a livello nazionale ogni Stato momento potrà decidere, nel rispetto della “giurisprudenza comunitaria applicabile”55 e previa comunicazione alla Commissione, caso per caso se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale. “Vengono pertanto a delinearsi due distinti binari in cui un rifiuto deve essere convogliato per perdere la sua qualifica di rifiuto: il primo, ove confluiscono tutti quei flussi di rifiuti che si conformano a ci criteri specifici stabiliti nei regolamenti di attuazione dell’art.6, par. 1 della direttiva; il secondo, in cui vengono canalizzati tutti gli altri rifiuti ed il cui percorso rifiuto-EoW deve essere effettuato sotto stretta vigilanza giurisprudenziale”56.

Ad oggi sono stati emanati tre regolamenti comunitari, “in larga parte non accolti dal settore per motivi di impraticabilità”57: il Regolamento Ue 715/2013 riferito ai rottami di rame, il Regolamento Ue 1179/2012 riferito ai rottami vetrosi, il Regolamento Ue 333/2011 riferito ad alcuni rottami metallici. Pertanto, in attesa di ulteriori atti comunitari, la palla passa ai legislatori nazionali.

Ad oggi, la disciplina italiana relativa al meccanismo di end of waste si ritrova nell’art. 184-ter, d.lgs. 152/2006. Tale disposizione prevede la possibilità di accertare la cessazione della qualifica di rifiuto mediante due modalità: in via ordinaria, per specifiche tipologie di rifiuto, in base ad appositi decreti ministeriali di emanazione del Ministro dell’Ambiente58; in via transitoria, in base alle procedure indicate dall’art. 184-ter, comma 3, secondo cui, nelle more

55 M.G.BOCCIA, “La Corte di Giustizia si pronuncia sull’End of Waste (nota a Corte Ue

7/3/2013, in causa C-358/11), in Ambiente & Sviluppo, 2013, n. 6, p. 515. L’A. ricorda che nella sentenza citata il giudice comunitario “non ha certo inteso circoscrivere il termine giurisprudenza applicabile alla sola giurisprudenza resa in funzione del quadro legislativo vigente, quanto estenderlo all’intera opera di ricostruzione della nozione di rifiuto dalla stessa svolta nel corso degli anni.

56 M.G.BOCCIA, ult.op.cit, p. 516.

57 D.RÖTTGEN, “È arrivata la conferma per l’End of waste tramite provvedimenti

autorizzativi”, in Ambiente & Sviluppo, 2016, n. 10, p. 636.

58 Ad oggi esiste un solo decreto, il decreto ministeriale del 14 febbraio 2013, n.22 ex

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dell’adozione dei suddetti decreti ministeriali, continuano ad applicarsi i requisiti e le procedure di determinazione dell’EoW previsti dalla normativa italiana previgente alle modifiche introdotte con il d.lgs. 205/2010, ossia le procedure EoW di cui ai dd.mm. 5 febbraio 1998 e 12 giugno 2002, n. 161 (procedure semplificate), in base a prescrizioni fissate da appositi accordi di programma in conformità a quanto previsto dall’art.9-bis, lett. b) del d.l. 6 novembre 2008, n. 172, in base ad autorizzazioni in procedura ordinaria rilasciate ai sensi dell’art. 9-bis, lett. a), del d.l. 6 novembre 2008, n. 172.

Considerato che in Italia è stato approvato un solo decreto ministeriale, che sempre di più si evidenzia l’inadeguatezza della normativa sul recupero in procedura semplificata e che sono del tutto residuali, del resto, le possibilità di stabilire l’EoW tramite accordi di programma59, appare evidente che lo strumento maggiormente realistico, e anche più flessibile, per realizzare l’obiettivo dell’EoW consiste nella possibilità di concedere all’autorità amministrativa competente la possibilità di determinare i criteri dell’EoW. Proprio per superare una prassi di varie amministrazioni che si sono rifiutate di rilasciare autorizzazioni in tal senso, in data 1° luglio 2016, il Ministero dell’Ambiente ha confermato che “un’autorità competente al rilascio di un’autorizzazione ordinaria o un’AIA per un impianto di trattamento rifiuti possa definire all’interno di tale autorizzazione, i criteri al ricorrere dei quali un rifiuto, a valle di determinate operazioni di recupero, cessi di essere qualificato tale”.60

59 Ad oggi ne esiste solo uno, relativo ai c.d. stracci industriali. 60 D.RÖTTGEN, ult.op.cit, p.632.

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C

APITOLO

II

LA CLASSIFICAZIONE DEI RIFIUTI

1. Rifiuti urbani e rifiuti speciali.

Sin dalla prima regolamentazione, rappresentata dal D.P.R. 915/1982 e relativo regolamento di attuazione, delibera del 27 luglio 1984, la normativa sulla gestione dei rifiuti è stata costruita secondo un regime amministrativo binario61: disciplina per origine o per composizione dei

rifiuti; rifiuti urbani o rifiuti speciali; smaltimento e recupero; autorizzazioni e comunicazioni; sanzioni penali o sanzioni amministrative. A questa “dualità, che accompagna il pensiero occidentale, sin dai primi secoli”62 si è, infatti, pienamente conformato, dapprima il d.lgs. 22/1997 (c.d Decreto Ronchi) e, da ultimo, il d.lgs. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente). Tale impostazione è ciò che caratterizza anche l’argomento, in qualche modo, prodromico e fondamentale per la corretta applicazione della disciplina legislativa: la classificazione dei rifiuti. In generale, mutuando nozioni dal diritto internazionale e comunitario, il legislatore nazionale classifica i rifiuti in categorie distinte per origine e per caratteristiche o composizione. Secondo il primo discriminante i rifiuti si distinguono fra rifiuti urbani o rifiuti speciali; questi, a loro volta, secondo il secondo discriminante possono distinguersi in rifiuti pericolosi o rifiuti non pericolosi.

La prima modalità di classificazione sfrutta come criterio di distinzione la provenienza, o meglio, l’origine, e distingue fra rifiuti urbani e rifiuti speciali.

Quello della provenienza è un criterio che la nostra esperienza legislativa ha conosciuto sin dal 1982: ai sensi dell’art.2, commi da 2 a 5, del D.P.R. 915/1982 (in attuazione delle direttive CEE n.75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 sullo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e n.78/319) concernente i rifiuti tossici e nocivi, i rifiuti venivano classificati in base alla loro provenienza, composizione e pericolosità63.

Dalla lettura di questa disposizione, così come di quelle attuali, si comprende che la tecnica normativa utilizzata dal legislatore competente è sempre stata la medesima: si stabilisce un

61 P. DELL’ANNO, voce “Rifiuti”, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico,

Giuffrè, Milano 2006, p. 5303.

62 A.PIEROBON, Ancora sulla qualificazione (non solo giuridica) del trattamento come

discrimine classificatorio tra rifiuti urbani e speciali, in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’Ambiente, fasc. 2/2013, p.109-114.

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criterio discriminante (l’origine, per esempio) e da qui si procede alla stesura di un elenco, più o meno completo, più o meno tassativo, che va a formare il contenuto delle categorie di classificazione. In questo modo è facile comprendere, alla luce dell’evoluzione normativa interna e sovranazionale, perché i criteri di classificazione siano rimasti, sostanzialmente, i medesimi negli ultimi 50 anni e perché, invece, le modifiche (seppur terminologiche e minime in certi casi) abbiano avuto ad oggetto gli elenchi.

Il riferimento normativo attuale per questa parte della disciplina dei rifiuti è rappresentato dall’art.184 del Codice dell’Ambiente (post quarto correttivo): rubricato come “Classificazione”, il quale afferma che: “Ai fini dell'attuazione della parte quarta del presente decreto i rifiuti sono classificati, secondo l'origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali […]. 1. Sono rifiuti urbani: a) i rifiuti domestici, anche ingombranti, provenienti da locali e luoghi adibiti ad uso di civile abitazione; b) i rifiuti non pericolosi provenienti da locali e luoghi adibiti ad usi diversi da quelli di cui alla lettera a), assimilati ai rifiuti urbani per qualità e quantità, ai sensi dell'articolo 198, comma 2, lettera g); c) i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade; d) i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime e lacuali e sulle rive dei corsi d'acqua; e) i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali; f) i rifiuti provenienti da esumazioni ed estumulazioni, nonché gli altri rifiuti provenienti da attività cimiteriale diversi da quelli di cui alle lettere b), c) ed e). 2. Sono rifiuti speciali: a) i rifiuti da attività agricole e agro-industriali, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2135 c.c.; b) i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto disposto dall'articolo 184-bis; c) i rifiuti da lavorazioni industriali,; d) i rifiuti da lavorazioni artigianali; e) i rifiuti da attività commerciali; f) i rifiuti da attività di servizio; g) i rifiuti derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi; h) i rifiuti derivanti da attività sanitarie […]”64.

Per quanto riguarda la categoria dei rifiuti speciali, il decreto correttivo n. 4/2008 è intervenuto al secondo comma del testo in tre punti, eliminando alla lett. b la specificazione di “pericolosi” per i rifiuti derivanti da attività di scavo (così da estendere la qualifica di speciale anche al rifiuto non pericoloso originato da tali attività), cancellando nella lett. c l’esclusione prevista

64 A conferma di ciò che è stato detto precedentemente, questo articolo (seppur con qualche

minima modifica) rappresenta l’esatta trasposizione dell’art.7 del Decreto Ronchi anch’esso riferimento normativo per la classificazione dei rifiuti nel sistema allora in vigore.

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in precedenza per il coke da petrolio e sopprimendo la lett. n che faceva riferimento ai “rifiuti derivati dalle attività di selezione meccanica dei rifiuti solidi urbani”, così potendo portare questi all’interno della qualifica dei rifiuti urbani ove possibile. Il d.lgs. 205/2010, invece, ha aggiunto la specificazione alle lett. a dell’art. 2135 c.c. e ha eliminato le ulteriori lett. i, l e m, in precedenza previste e salvate anche dal correttivo del 2008 (ossia “i) i macchinari e le apparecchiature deteriorati ed obsoleti; l) i veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e le loro parti; m) il combustibile derivato da rifiuti”). Le ragioni di queste modifiche non sono trasparenti perché in alcuni casi possono essere giustificate con l’esistenza di una disciplina speciale65 (anche se nell’elenco rimangono rifiuti disciplinati altrove, vedi il d.p.r. 254/2003 per i rifiuti sanitari), dal pregiudizio ideologico nei confronti dell’incenerimento dei rifiuti a fini energetici ed, infine, da considerazioni tecniche.

Alla luce di questa normativa si può concludere affermando che “qualsiasi oggetto ovvero sostanza – anche se ingombrante – che provenga da locali, luoghi o attività sancita dall’art.184, comma 2, d.lgs.152/2006 è qualificato jursi et de jure come un rifiuto domestico e dunque urbano”66, mentre i rifiuti speciali sono oggetto di una disciplina più articolata ex art.184,

comma 3, nella quale rileva l’origine, cioè il processo da cui sono prodotti, quanto la loro struttura merceologica e la loro composizione chimico-fisica. In altre parole: l’origine domestica assume valore classificatorio dominante sulla composizione merceologica del rifiuto cosicché la categoria dei rifiuti speciali può essere intesa come residuale rispetto a quella dei rifiuti urbani67

La distinzione tra rifiuti urbani e rifiuti speciali rileva sotto vari punti di vista di cui, il principale, ha a riguardo le modalità di gestione degli stessi: ai sensi dell’art. 198 d.lgs. 152/2006, i servizi pubblici di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli assimilati sono di competenza dei Comuni68. Proprio in riferimento a ciò è importante sottolineare che parte della dottrina69 ha criticato (e continua ancora oggi a criticare) la scelta di distinguere i rifiuti mediante il criterio dell’origine. Abbiamo già visto che la categoria dei rifiuti urbani segue, per la classificazione, il criterio della provenienza dei rifiuti, ma che questi non sono solo quelli provenienti dalle cosiddette utenze domestiche o dai nuclei familiari (essendo considerati tali anche i rifiuti provenienti dai luoghi o dalle attività così come indicate

65 Ad es. la disciplina degli autoveicoli fuori uso è dettata dal d.lgs. 209/2003. 66 P.DELL’ANNO, Diritto dell’Ambiente, Cedam, 2016, p.83.

67 P.FICCO, Rifiuti speciali: sono sempre tali quelli diversi dagli urbani.

68 Sul tema si veda, ad es., G.F.CARTEI-P-MILAZZO, Rifiuti: i nodi della disciplina

nazionale. S.MAGLIA- M. TAINA, Adempimenti amministrativi della gestione dei rifiuti: le novità introdotte dal decreto 205/2010, in Ambiente & Sviluppo, 1/2011, p. 5 ss.

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