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L'apprendimento lessicale dell'italiano L2 nella scuola dell'infanzia: un confronto tra metodo ludico e storytelling

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LINGUISTICA

TESI DI LAUREA

L'apprendimento lessicale dell'italiano L2 nella scuola dell'infanzia:

un confronto tra metodo ludico e storytelling

CANDIDATO RELATORE

Veronica Marasco Chiar.ma Prof.ssa Francesca Gallina

CORRELATORE

Chiar.ma Prof.ssa Roberta Nepi

CONTRORELATORE

Chiar.ma Prof.ssa Roberta Cella

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Indice

Introduzione 5

1. I fondamenti neuropsicologici dell’apprendimento linguistico e le ricadute sulla didattica 7

1.1. La rivoluzione umanistica e l’importanza degli aspetti neuro e psicolinguistici nell’apprendimento delle lingue 7

1.2 Le basi neurobiologiche dell’apprendimento linguistico 10

1.2.1. Dall’area di Broca al modello neuro-funzionale 10

1.2.1.1 I moduli neurofunzionali 10

1.2.1.1.1 I moduli neurofunzionali del linguaggio 12

1.2.2 Il fattore età 14

1.3 Memoria e linguaggio 16

1.3.1 La memoria come pluralità di sistemi 16

1.3.2 Memoria e apprendimento linguistico 19

1.4 Il cervello bilingue 20

1.5 L’apporto della neuropsicologia all’educazione linguistica 23

1.5.1 Aspetti neuroanatomici e neurofisiologici 23

1.5.2 La motivazione come valutazione emotiva 25

1.5.3 Il modello tripolare 27

1.5.4 I principi di Bimodalità e Direzionalità 29

1.5.5 Intelligenza, stile cognitivo e stile di apprendimento 29

1.6 I fattori neuropsicologici dell’acquisizione linguistica nel bambino 31

1.6.1 L’acquisizione linguistica su base sensoriale 31

1.6.2 Il linguaggio come introduzione alla socialità 32

1.6.3 I benefici dell’educazione multilingue 33

2. Le politiche linguistiche e la formazione scolastica dei “nuovi italiani” 35

2.1 I bambini stranieri nella scuola italiana 37

2.1.1 I Numeri 37

2.1.2 La dimensione sociale: tra difficoltà integrative e vantaggi per la società 40

2.2 Le lingue e le varietà linguistiche dei bambini stranieri 42

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2.2.2 Italiano per bambini immigrati: L2, lingua di contatto o interlingua? 44

2.3 La scuola nel contesto plurilingue e le indicazioni politiche 47

2.3.1. Le politiche linguistiche europee 48

2.3.2. Le politiche linguistiche italiane 52

2.3.3 Documenti e Indicazioni per la scuola dell’infanzia 56

2.3.3.1 Dalle Dieci Tesi Giscel al Decalogo dei primi diritti linguistici 64

3. La competenza lessicale: acquisizione e sviluppo 68

3.1 Parametri neuropsicologici dell’acquisizione lessicale 71

3.1.1 Memoria e lessico 73

3.1.2 I modelli acquisizionali 74

3.1.3 Transfer e code-mixing 76

3.1.4 I processi di produzione e comprensione lessicale 77

3.2 Lo sviluppo e le caratteristiche della competenza lessicale 80

3.2.1 Lo sviluppo della comprensione e della produzione 82

3.3 Lo sviluppo della competenza lessicale in L1 e L2 nella prima e seconda infanzia 86

3.4 L’input 88

4. La glottodidattica per l’infanzia: metodologie e tecniche 93

4.1 La glottodidattica per l’infanzia 95

4.1.1 La didattica esperienziale 97

4.1.2 Indicazioni per gli insegnanti 100

4.2 Metodologie e tecniche per l’apprendimento lessicale dei bambini 104

4.2.1 Il metodo ludico 106

4.2.1.1 Le flashcard 110

4.2.2 Lo storytelling 111

4.3 Esperienze e progetti di accostamento all’italiano L2 nella scuola dell’infanzia 115

5. All’interno del progetto: metodi e procedure 118

5.1 Metodo e partecipanti 119

5.2 Materiali 120

5.3 Procedure 122

5.4 Sessioni didattiche 125

5.4.1 I blu e gli animali 127

5.4.2 I rossi e il cibo 127

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6.1 La valutazione linguistica in età prescolare 132

6.2 Il Test Fono Lessicale 134

6.3 Analisi dei dati 137

6.3.1 I risultati dei blu 138

6.3.2 I risultati dei rossi 140

6.3.3 La comparazione dei risultati dei blu e dei rossi 142

6.3.4 La comparazione tra i soggetti stranieri e i soggetti italiani 145

6.3.4.1 I blu 145

6.3.4.2 I rossi 147

6.3.5 La comparazione tra soggetti stranieri e italiani dei blu e dei rossi 149

Conclusioni 154

Bibliografia e sitografia 158

Appendice A 171

Appendice B 174

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Introduzione

Il numero di bambini con background migratorio che frequentano le scuole nel nostro Paese continua a essere ingente, alcuni di essi hanno già iniziato il percorso di studi nello Stato di origine, altri sono nati in Italia o sono arrivati fin da piccolissimi e vengono inseriti nel nostro sistema scolastico sin dalla scuola dell’infanzia.

Nonostante l’educazione linguistica di questi soggetti sembra ad oggi non godere della necessaria importanza sino al momento della loro alfabetizzazione con l’accesso alla scuola primaria, un precoce supporto volto al potenziamento delle competenze linguistiche di questi alunni è necessario al fine di favorirne una più rapida integrazione nel tessuto scolastico e sociale, nonché per evitare gap nello sviluppo linguistico della seconda lingua che potrebbero implicare difficoltà una volta giunti nei gradi scolastici successivi.

Non per ultimo, i bambini di questa età godono di una notevole plasticità neuronale e di un sistema di immagazzinamento delle informazioni ad opera prevalentemente della memoria implicita, condizioni che garantiscono una più agevole acquisizione linguistica.

La naturale predisposizione all’apprendimento plurilinguistico va sostenuta, in contesto scolastico, attraverso metodologie glottodidattiche adatte alle capacità e alle necessità dei bambini, tenendo conto del loro sviluppo cognitivo, neurologico ed emotivo e, allo stesso tempo, dei loro bisogni comunicativi.

Le metodologie glottodidattiche utilizzate con i bambini sono principalmente quelle afferenti all’approccio umanistico-affettivo che mette in primo piano l’apprendente, ci siamo allora chiesti quali tra quelle che ne derivano fossero le più efficaci per promuovere l’apprendimento dell’italiano L2 per i soggetti con background migratorio nella scuola dell’infanzia, scegliendo di metterne a confronto due tra quelle più adottate, il metodo ludico e lo storytelling.

Lo studio ha l’obiettivo di indagare l’efficacia della combinazione delle due metodologie, nello specifico, di valutare i benefici apportati dall’integrazione dello storytelling al metodo ludico rispetto al singolo impiego di quest’ultimo.

La narrazione di storie e fiabe è una pratica molto diffusa nella scuola dell’infanzia, l’ascolto di testi narrativi destinati a bambini, di norma ricchi di dialoghi e immagini, è, infatti, particolarmente adatto a stimolare lo sviluppo di competenze su vari livelli; in ambito linguistico-lessicale promuove, in particolar modo, l’ampliamento della dimensione ricettiva, grazie a un’elevata possibilità di contestualizzazione dei nuovi input lessicali.

Dall’altro lato, il gioco è parte integrante di moltissime attività educative nel periodo prescolastico; attraverso le attività ludiche si soddisfano i principi della didattica esperienziale

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per la quale si impara facendo e, allo stesso tempo, ci si diverte sollecitando sia la motivazione che l’attenzione, due dei fattori che più influenzano i processi di apprendimento.

Con riferimento alla strutturazione del progetto, indichiamo che i due gruppi selezionati, costituiti da soggetti tra i 3 e i 6 anni di età frequentanti due sezioni di una scuola dell’infanzia, sono stati sottoposti a una fase sperimentale in cui è avvenuta l’esposizione all’input e a due fasi in cui sono stati somministrati dei test, una precedente e una posteriore a quella sperimentale.

Passiamo ora brevemente in rassegna i temi trattati in questo studio attraverso una breve descrizione dei capitoli.

Il primo capitolo, di carattere introduttivo, rende conto dei processi di acquisizione del linguaggio in ambito neurologico e psicologico.

Nel secondo capitolo si affronta il tema relativo alla gestione educativa dei bambini di origine straniera presenti nel sistema scolastico italiano, esaminando le politiche linguistiche europee e nazionali a riguardo.

Il terzo capitolo si focalizza sull’acquisizione lessicale e sul suo sviluppo, evidenziando i processi che riguardano la dimensione ricettiva e quella produttiva.

Il quarto capitolo approfondisce gli approcci pedagogici e didattici adoperati con i bambini nella scuola dell’infanzia e illustra le metodologie glottodidattiche di cui ci siamo avvalsi per il nostro progetto.

Il quinto capitolo espone il metodo utilizzato per la sperimentazione, descrivendo i soggetti partecipanti, il materiale adottato e le procedure impiegate; sono inseriti, inoltre, esempi pratici di sessioni didattiche.

Nel capitolo sesto vengono analizzati i dati elaborati attraverso la somministrazione dei test con l’aiuto di appositi grafici.

Il lavoro svolto offre una prima panoramica sull’efficacia dell’adozione del metodo ludico e dello storytelling nell’educazione linguistica dell’italiano L2 nella scuola dell’infanzia, tramite la presentazione di un caso di studio i cui i risultati saranno discussi dettagliatamente nelle conclusioni finali di questa tesi.

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Capitolo 1

I fondamenti neuropsicologici dell’apprendimento linguistico e

le ricadute sulla didattica

1.1 La rivoluzione umanistica e l’importanza degli aspetti neuro e psicolinguistici

nell’apprendimento delle lingue

Negli anni Settanta si diffonde in ambito glottodidattico e linguistico-acquisizionale il termine “psiconeurolinguistica”, tale vocabolo indica un campo di ricerca interdisciplinare che si occupa, da un lato, delle basi neurofisiologiche dell’acquisizione e dell’elaborazione linguistica e, dall’altro, dell’architettura funzionale del linguaggio e del suo funzionamento cognitivo. Il decennio precedente era stato un periodo di profondi mutamenti all’interno della comunità scientifica: l’impianto psicologico di Freud e Jung, che Skinner aveva portato agli estremi, era stato totalmente ribaltato da ciò che potremmo definire come la nascita di un secondo Umanesimo.

In Balboni (2017: 8) troviamo una disamina delle concause e degli eventi che hanno portato a un cambiamento tanto rapido quanto radicale attraverso il vaglio del pensiero e delle opere fondamentali di quattro autori: la prima “Syntactic Structure” (1957) è l’opera con cui si propone alla comunità scientifica l’allora linguista emergente Noam Chomsky, mentre i testi successivi “Emotion and Personality” (1960), “On Becaming a Person” (1961) e “Cognitive Psychology” (1967) sono contributi dati alle stampe da psicologi, rispettivamente Magda Arnold, Carl Rogers e Urlic Neisser.

Suddetti volumi contribuiscono, nei rispettivi campi di appartenenza delle scienze umane, a valorizzare per la prima volta in ambito scientifico l’interesse per la persona che diviene, da questo momento, punto focale della ricerca.

L’opera di Chomsky mette al centro dell’acquisizione linguistica la mente, distanziandosi nettamente da quelle che erano state fino ad allora le teorie più diffuse: il meccanicismo di Bloomfield e lo strutturalismo più in generale, con ricadute anche in ambito psicolinguistico, dove il comportamentismo di Skinner aveva giocato per molto tempo un ruolo determinante. “Emotion and personality” di Arnold teorizza l’esistenza di una dimensione cognitiva all’interno delle emozioni, di cui queste ultime sono causa e nutrimento, tale dimensione consiste nella capacità di valutare cognitivamente l’emozione stessa. Le emozioni vengono

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considerate come risposte adattive della mente alle pressioni esterne, cioè come reazioni psico-fisiologiche a degli eventi, ma è la parte cognitiva a valutarle. In ricerche sull’acquisizione linguistica in L2 ritroviamo questi concetti nell’ “Ipotesi del filtro affettivo” di Krashen e qualche anno dopo nel modello dell’“Input appraisal” di Schumann, in entrambi i quali, anche se con modalità diverse, l’input decade oppure viene trattenuto in base alle emozioni scaturite dalla sua ricezione.

Il terzo libro, “On Becaming a Person” di Rogers, segna l’avvio di una vera e propria rivoluzione umanistica che, dall’ambito psicologico, si diffonde rapidamente a tutto il campo delle scienze umane. Secondo l’autore la persona acquisisce, o meglio, ritrova il suo lato umano attraverso la piena accettazione di ciò che di più umano c’è in sé stessa: emozioni, sensazioni e debolezze. L’essere umano è tale se riesce a convivere con la sua vera natura senza il bisogno di maschere e integrando l’intera complessità che gli appartiene e cioè emozioni e cognizione, mente e corpo.

Nel 1969 viene pubblicato “Freedom to Learn”, nel quale lo psicologo adatta la sua teoria all'ambito pedagogico: così come il cliente nella psicoterapia, anche l’alunno diviene il centro dell’atto pedagogico; ne consegue una forte attenzione per i suoi bisogni, linguistici e non, per il setting formativo e per il ruolo dell’insegnante che abbandona lo stile direttivo per diventare un facilitatore dell’apprendimento.

L’ultimo dei quattro testi a essere pubblicato è “Cognitive Psychology” di Neisser del 1967, anche in questo caso si tratta di un’opera di netta rottura con l’impianto comportamentista prevalente all’epoca, fatto che fa guadagnare all'autore il ruolo di fondatore del cognitivismo. Neisser paragona la mente umana a quelli che al tempo venivano definiti cervelli elettronici, poiché ritiene che abbiano un analogo funzionamento, consistente nel ricevere input dall’esterno (nel caso degli umani dalla realtà e attraverso la percezione), rielaborarli, memorizzarli e riutilizzarli in seguito.

Negli stessi anni, due neurochirurghi operanti in Canada, Wilder Penfield e il suo allievo Lamar Roberts, sono impegnati nello studio del cervello dal punto di vista fisiologico e anatomico-funzionale attraverso esperimenti elettrofisiologici. Suddetti esperimenti consistono nella stimolazione di parti scoperte del cervello di pazienti epilettici per creare una mappa delle loro funzioni cognitive, motorie e sensoriali. I due medici numerano i punti in cui la stimolazione ha prodotto specifiche reazioni con dei pezzetti di carta e alla fine dell’esperimento fotografano la corteccia così enumerata.

Nel 1959 appare “Speech and Brain Mechanism”, testo nel quale Penfield e Roberts presentano l’“Ipotesi del periodo critico”: per la prima volta nel campo della ricerca sull’acquisizione linguistica viene avanzato l'assunto per il quale l’apprendimento di una o più lingue può avere

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come discriminante il fattore età. I risultati dei test su casi clinici avevano già rivelato che il recupero totale delle funzioni del linguaggio era possibile solo se la lesione era stata subita prima del decimo anno di età, analogamente per i due autori "for the purposes of learning

languages, the human brain becomes progressively stiff and rigid after the age of 9" (Penfield

and Roberts, 1959:236). L’ apprendimento di una lingua dopo il decimo anno di età comporterebbe, quindi, maggiori difficoltà poiché non sarebbe più supportato a livello fisiologico.

Due anni dopo, nel 1967, Eric H. Lenneberg neurologo e linguista di stampo innatista (nel 1960 aveva pubblicato “The Capacity of Language Acquisition”), ribadisce l’importanza della variabile età nel processo di apprendimento linguistico, precisando che per la prima lingua esiste un momento iniziale (intorno ai due anni) e uno finale (la pubertà), coincidente con il processo di lateralizzazione, ovvero con la specializzazione dell’emisfero cerebrale dominante per le funzioni linguistiche, vale a dire quello sinistro.

Il decennio si chiudecon l’articolo “L’aphasie” di Henry Hécaen del 1968, in cui compare per la prima volta il termine neurolinguistique, descritta dall’autore come un ramo della neuropsicologia. La nuova disciplina si propone, questa volta in veste ufficiale, di descrivere e classificare i deficit linguistici sulla base delle loro cause, ipotetiche o accertate, di identificare aree lesionate e appurare eventuali correlazioni tra il tipo di deficit e l’area in cui viene individuata la lesione.

La rivoluzione umanista e le conquiste in ambito neurolinguistico aprono la strada alla psiconeurolinguistica, base fondante di tutti gli studi successivi in ambito acquisizionale e glottodidattico. Il punto di rottura con le teorie e le pratiche utilizzate in passato risiede nell’aver posto l’accento sulla duplice natura dell’essere umano, il quale risulta, ora, costituito da una dimensione razionale e da una emozionale.

Dal punto di vista didattico, questa considerazione mette in evidenza il fatto che lo studente percepisce le informazioni e apprende nuovi contenuti attraverso innate capacità cognitive integrate, però, all’aspetto emotivo e a quello sociale, da qui la propensione nell’ultimo ventennio allo sviluppo di metodologie glottodidattiche tese a potenziare la competenza comunicativa del discente.

In Italia, gli iniziatori della disciplina sono stati Renzo Titone, tra le altre opere citiamo “Psicolinguistica Applicata” del 1971 e “Psicodidattica” del 1977, e Giovanni Freddi che negli stessi anni scrive “Metodologia e didattica delle lingue straniere” (1970); a loro dobbiamo il primo modello di Unità Didattica specifico per l’apprendimento delle lingue straniere.

Le intuizioni teoriche di Titone e Freddi e le successive ricerche empiriche dagli anni Settanta fino ad oggi, i contributi provenienti da neurolinguisti e psicologi come Paradis e Rogers ci

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inducono ad attribuire un ruolo centrale alla conoscenza dei meccanismi neuropsicologici alla base dell’apprendimento linguistico, una consapevolezza che rappresenta una condizione imprescindibile per la realizzazione di approcci, metodi e tecniche realmente efficaci.

Una conoscenza sempre più precisa dei meccanismi neuropsicologici sottesi all’apprendimento linguistico rappresenta, inoltre, un presupposto indispensabile per l’elaborazione di modelli di educazione linguistica che pongano realmente l’allievo al centro del processo educativo.

1.2 Le basi neurobiologiche dell’apprendimento linguistico

Fabbro (1996), ci ricorda come il nesso consequenziale tra lesioni cerebrali e disfunzioni cognitive e motorie fosse già noto ai tempi di Ippocrate (V secolo a. C.). Proprio il padre della medicina moderna insieme agli scienziati suoi contemporanei, aveva accertato la presenza di afasia in alcuni pazienti a seguito di crisi convulsive con paralisi della parte destra del corpo. Ma l’interesse per il funzionamento del cervello umano non è stato notevole fino alla seconda metà del 1800 quando ci si iniziò a chiedere se i due emisferi fossero del tutto equivalenti nella loro conformazione ma soprattutto nelle funzioni esplicate. Da questo momento la ricerca non ha mai smesso di porsi quesiti e di raggiungere enormi risultati, grazie ai quali oggi possiamo avere una visione sempre più chiara di come funziona il nostro sistema nervoso.

1.2.1. Dall’area di Broca al modello neuro-funzionale

Per quanto concerne il nostro campo di interesse e cioè la linguistica acquisizionale, le principali rivelazioni del secolo XIX sono state l’identificazione di due aree cerebrali dedicate al linguaggio: l’area del linguaggio articolato, detta anche area di Broca e l’area percettiva del linguaggio, conosciuta come area di Wernicke, entrambe prendono il nome dal loro scopritore. Il chirurgo Pierre P. Broca, durante la visita a un paziente affetto da gangrena alla gamba destra, si accorge che l’uomo era in possesso di capacità intellettive e di comprensione del linguaggio nella norma, ma che riesce a produrre solamente il monosillabo “tan”, presumibilmente a causa di frequenti crisi epilettiche; lo stesso paziente presenta, inoltre, una paralisi agli arti di destra che appaiono privi di sensibilità. Alla morte del paziente, l’autopsia rivela una lesione al lobo frontale sinistro, precisamente alla terza circonvoluzione frontale della corteccia cerebrale dell’emisfero sinistro: per la prima volta viene localizzata un’area del cervello con una specifica funzione linguistica e cioè quella del linguaggio articolato, che risulta indipendente sia dalla comprensione verbale che dalla comunicazione non verbale, considerato che il paziente riusciva a comprendere il parlato e a comunicare attraverso la gestualità. Negli anni successivi Broca

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continua i suoi studi prevalentemente con pazienti afasici e giunge alla conclusione che non solo le funzioni del linguaggio sono localizzate in alcune zone corticali, ma sono anche tutte lateralizzate nell’emisfero cerebrale sinistro.

Qualche anno dopo, il neurologo Carl Wernicke, sempre lavorando con soggetti afasici, individua un’altra area fondamentale responsabile della comprensione del linguaggio e in parte anche dell’aspetto semantico della produzione. I pazienti con una lesione in questa area, situata nel lobo temporale sinistro della corteccia cerebrale, sono in grado di produrre suoni vocali e non di rado anche di mostrare un eloquio fluente ma spesso privo di significato, oltre a una quasi totale incapacità di comprensione.

Le scoperte del XIX secolo ci presentano, dunque, un modello linguistico in cui le due aree sono indipendenti e con compiti diversi: l’area di Wernicke è responsabile della comprensione e del significato mentre l’area di Broca trasforma il significato in movimenti muscolari e quindi in produzione del linguaggio.

Nonostante queste novità si siano rivelate di centrale importanza per gli studi successivi, la ricerca oggi ci dice che un modello linguistico come quello sopracitato è eccessivamente semplicistico poiché le funzioni del linguaggio non possono essere limitate a comprensione e produzione e, allo stesso modo, non possono essere ricondotte a due sole aree del cervello, né tantomeno a un solo emisfero.

1.2.1.1 I moduli neurofunzionali

Le tecniche di indagine contemporanee mettono in luce come il processamento del linguaggio, così come tutte le altre capacità cognitive, vengano organizzate ed esplicate attraverso la collaborazione di numerosi sistemi neuronali, i cui sistemi di base sono detti moduli neurofunzionali. Ogni modulo neurofunzionale è, inoltre, un assembramento di cellule neuronali specializzatesi in una funzione ben precisa. Suddette cellule neuronali, più comunemente denominate neuroni, sono gli elementi costitutivi del sistema nervoso, sono circa 100 miliardi e il loro compito principale “consiste nel coordinare l’attività umana a livello sia

di funzionamento che di comportamento” (Daloiso, 2009:26), attraverso lo scambio e

l’elaborazione continua di informazioni tra i vari sistemi neuronali, ma anche da e verso gli altri sistemi del corpo umano. Una cellula neuronale è composta da tre elementi primari: la soma che è il corpo principale dove troviamo il nucleo e quindi il codice genetico della cellula, i

dendriti che sono filamenti fibrosi che trasportano il segnale nervoso verso il nucleo e l’assone,

un prolungamento sottile che si comporta come un conduttore elettrico portando le informazioni verso l’esterno della cellula e scaricandole, attraverso la sinapsi, ai dendriti della cellula

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ricevente sotto forma di neurotrasmettitori (dopamina, serotonina, adrenalina etc.). Lo scambio prolungato di messaggi tra un determinato gruppo di neuroni durante un compito funzionale migliora la trasmissione tra gli stessi neuroni poiché diminuisce l’energia necessaria per attivare il circuito di neuroni impegnato in quel compito.

L’organizzazione delle cellule in sistemi più ampi non è mai casuale ma sottostà a due tipi di fattori: genetici e ambientali. I primi sono responsabili delle funzioni cognitive che sono innate e quindi non devono essere apprese, ad esempio il pianto di un neonato o i meccanismi di imitazione, mentre i secondi sono fondamentali per l’organizzazione e lo sviluppo di moduli e sistemi che si originano proprio grazie e soltanto all’esperienza e alle reazioni e interazioni che il soggetto ha con il nuovo input. Il ruolo dell’input è di fondamentale importanza anche per la stabilizzazione dei moduli neurofunzionali, poiché la ripetizione di un determinato input favorisce il rafforzamento di specifiche connessioni sinaptiche e ne elimina altre; tale ripetizione può determinare, inoltre, la modifica delle rappresentazioni neuronali nelle aree che processano la funzione stimolata.

A tal proposito Mario Cardona (2001: 126) asserisce: “il cervello è configurato geneticamente,

ma poi si sviluppa dinamicamente in base alle esperienze dell’essere umano. Per questo motivo […] non esistono due cervelli uguali”.

1.2.1.1.1 I moduli neurofunzionali del linguaggio

Il linguaggio viene processato attraverso una rete di connessioni neuronali che si organizzano in moduli neurofunzionali detti appunto del linguaggio. Tutti i moduli sono interdipendenti, sebbene ognuno di essi sia autonomo e specializzato nel processamento di uno o più specifici aspetti del linguaggio. Daloiso (2009:27), sulla base di quanto asserito da Michel Paradis (2004:192), propone quattro moduli neuro-funzionali che governano rispettivamente:

la competenza linguistica (localizzata in larga misura nelle note aree di Broca per la produzione e di Wernicke, per la comprensione), che abbraccia una serie di sub-sistemi modulari deputati all’elaborazione distinta delle dimensioni morfosintattica, lessicale-semantica e fonologica; le competenze controllate da questo modulo sono per lo più automatizzate e coinvolgono i magazzini della memoria implicita, che consente l’apprendimento di procedure e azioni;

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la competenza metalinguistica, intesa come conoscenza esplicita delle regole di funzionamento della lingua. In questo modulo risiedono nozioni enciclopediche sulla lingua appresa coscientemente, che coinvolgono i magazzini semantici della memoria esplicita, la quale viene attivata per la memorizzazione e la rielaborazione di concetti e nozioni;

la pragmatica, localizzata diffusamente nelle aree corticali dell’emisfero destro, che opera in sinergia con il modulo della competenza linguistica, in quanto ne influenza le scelte ad ogni livello di elaborazione linguistica;

le dinamiche emotive e motivazionali, governate dal sistema limbico, che costituisce un centro di controllo e di valutazione emotiva dell’input, la cui attivazione positiva rappresenta un prerequisito al buon funzionamento degli altri moduli funzionali.

1.2.2 Il fattore età

Se un ruolo di rilievo è rappresentato dalle connessioni tra i vari moduli neuro-funzionali che lavorano insieme per decodificare/codificare ed elaborare il messaggio linguistico, tra i parametri fondamentali da cui dipende l’apprendimento del linguaggio e soprattutto quello di una seconda lingua c’è l’età. Così come tutti gli altri organi anche il cervello, infatti, presenta delle tempistiche di evoluzione e maturazione che sono necessarie per lo sviluppo delle capacità cognitive.

Alla nascita, per esempio, il cervello pesa mediamente 350 grammi mentre a soli 5 anni raggiunge il 90% del peso dell’organo in un adulto: di norma 1.250 grammi per le donne e 1.400 per gli uomini. Ed è proprio nei primi anni di vita che si manifesta un’elevata e rapida maturazione delle aree cerebrali che seguono tutte il medesimo percorso ma con tempistiche diverse.

Gli indici di maturazione del cervello di maggior rilievo sono (Fabbro, 2004:18-23):

la densità neuronale: il numero di neuroni per millimetro cubo, esso è massimo nel periodo fetale e tende a diminuire con il passare degli anni;

lo sviluppo dei dendriti: allungamento dei dendriti e formazione delle spine dendritiche, che contribuiscono ad incrementare il numero di informazioni che arrivano da altre cellule;

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la densità sinaptica: il numero di sinapsi per millimetro cubo, che dipende sia da fattori genetici (innati) che da input esterni (ambientali) e che aumenta o diminuisce in base alla fase di sviluppo cognitivo del cervello;

la mielinizzazione: gli assoni vengono rivestiti da guaine isolanti dette mieliniche, la velocità e l’efficienza della trasmissione migliorano notevolmente indicando che quell’aerea è pronta per svolgere la funzione a cui è preposta;

l’attività metabolica: il livello di assorbimento delle sostanze nutritive (glucosio), che raggiunge il picco massimo intorno ai quattro anni e poi si riduce lentamente fino a stabilizzarsi verso i sedici anni.

Questi fattori possono evolversi simultaneamente o in periodi diversi secondo quelle che sono le fasi della maturazione cerebrale e i quattro processi attraverso i quali si realizza: la

proliferazione che comprende l’aumento della densità neuronale e lo sviluppo dei dendriti; la sinaptogenesi, la fase in cui si registra un incremento delle connessioni sinaptiche; il pruning e

cioè la selezione tramite eliminazione o rafforzamento di determinate sinapsi perché poco utili o poco utilizzate, in questo caso il contributo degli input esterni è fondamentale; la

mielinizzazione, che determina la stabilizzazione delle reti neuronali ma allo stesso tempo

incide notevolmente sulla diminuzione della plasticità neuronale.

Il concetto di plasticità neuronale si ricollega a quello di periodo critico, ma negli ultimi decenni i ricercatori si sono distanziati dalle ipotesi di Penfield e Lenneberg, preferendo una visione che ammettesse una serie di periodi critici diversi per ognuna delle componenti del linguaggio, piuttosto che un unicum temporale dopo il quale imparare una lingua implicasse maggiori difficoltà in tutte le parti costituenti della lingua. Paradis (2004:59) ipotizza che: “This period

has an upper limit that varies with respect to which component of the implicit language system is acquired, namely in chronological order, prosody, phonology, morphology and syntax […] But the vocabulary, i.e., the sound meaning pairing of words […]; consequently is not susceptible to the critical periods that apply to the various components of implicit competence”.

A questo proposito, la teoria dei periodi critici multipli (Knudsen, 2004) prevede la presenza di finestre temporali per alcune componenti del linguaggio (fonetica e morfosintassi in primis), mentre non ci sarebbero periodi critici per altri aspetti come semantica e pragmatica. A determinare la fine dei suddetti periodi è la maturazione e conseguente stabilizzazione cerebrale delle diverse aree e dei diversi moduli neuro-funzionali che fanno capo a ciascuna della abilità linguistico-cognitive che man mano vengono apprese.

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Daloiso (2009:100) propone nella seguente tabella una sintesi dei tre principali periodi critici per l’acquisizione del linguaggio:

PERIODI CRITICI PER L’ACQUISIZIONE DEL LINGUAGGIO

PRIMO PERIODO

SECONDO

PERIODO TERZO PERIODO

(0-3 anni) (4-8 anni) (da 9 anni)

-pronuncia perfetta -pronuncia perfetta -accento straniero caratteristiche ottimo sviluppo ottimo sviluppo difficoltà sintattiche linguistiche delle abilità delle abilità difficoltà

nell'acquisi-linguistiche linguistiche zione di parole

-ottima competenza -ottima competenza funzionali

grammaticale grammaticale -maggiore possibilità

-possibili interferenze di fossilizzazione

tra lingue

-fattori maturazionali -fattori maturazionali -funzioni cognitive correlati -memoria implicita -maturazione memoria stabilizzate

neurologici esplicita -lateralizzazione

-inizio lateralizzazione completa

-le lingue acquisite -le lingue sono -le lingue acquisite rappresentazione sono rappresentate rappresentate in parte tardivamente sono cerebrale nelle stesse aree nelle stesse aree rappresentate in

cerebrali. cerebrali regioni diverse di

quelle della lingua

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Come si evince dalla sintesi di Daloiso, la stabilizzazione delle reti neuronali implica anche la fine del processo di lateralizzazione che determina, a sua volta, il consolidamento dell’elaborazione di specifiche funzioni cognitive da parte di aree e moduli neuro-funzionali localizzate o nell’emisfero sinistro o in quello destro. Se però fino a pochi anni fa si pensava che il linguaggio venisse processato esclusivamente dall’emisfero sinistro, come avevano fatto presagire le scoperte di Broca e Wernicke, le più recenti tecnologie di neuroimmagine1 ci

dimostrano che le funzioni cognitive, tra cui anche il linguaggio, sono generate dall’interazione di subsistemi neuro-funzionali i cui componenti si trovano distribuiti in entrambi gli emisferi (Salmon e Mariani, 2012: 26).

Per l’elaborazione del linguaggio, ad oggi, si ipotizza che l’emisfero sinistro sia selettivamente specializzato nel processamento della componente fonologica e di quella sintattica, mentre il destro per la pragmatica, la prosodia e l’aspetto semantico-lessicale, componenti responsabili della comprensione degli atti linguistici indiretti attraverso lo sviluppo della capacità di integrare le informazioni linguistiche verbali con quelle del contesto situazionale e della conoscenza del mondo. Dunque, nonostante l’apporto di queste ultime componenti linguistiche sia stato a lungo considerato secondario rispetto a quelle regolate dall’emisfero sinistro, esse sono in realtà essenziali per la decodificazione di un messaggio poiché: provvedono alla disambiguazione di frasi, a trarre inferenze logiche, a capire un doppio senso, ad afferrare l’umorismo, il sarcasmo e le richieste indirette, a comprendere le metafore integrando le informazioni linguistiche verbali con quelle del contesto situazionale e della pregressa conoscenza del mondo e a captare e produrre le emozioni veicolate dalla prosodia.

Sebbene, a partire dagli anni Settanta, si susseguano tentativi di localizzazione di un’area specifica dell’emisfero destro deputata a governare la componente pragmatica, ad oggi non abbiamo nessuna certezza riguardo ad una precisa collocazione in merito; la causa potrebbe risiedere nella complessità della componente stessa dovuta all’eterogeneità delle operazioni linguistiche che è chiamata a governare e al compito di processare informazioni sia linguistiche che extralinguistiche.

1.3 Memoria e linguaggio

1.3.1 La memoria come pluralità di sistemi

1 Le tecniche di neuroimaging funzionale più utilizzate in ambito neurolinguistico sono: Tomografia ad

emissione di postitroni (PET), Risonanza magnetica funzionale (Fmri), Elettroencefalografia (EEG),

Magnetoencefalografia (MEG). Le prime due registrano l’attività metabolica del cervello mentre le seconde monitorano l’attività neurale elettrica ed elettromagnetica.

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Tra i fattori che scandiscono il susseguirsi dei tre periodi critici contemplati nella tabella di Daloiso, troviamo la maturazione della memoria o meglio delle memorie: constatare che la memoria non è una funzione unitaria ma è formata da un insieme di moduli parzialmente indipendenti è stata, infatti, una delle maggiori scoperte del secolo scorso nel campo di indagine delle neuroscienze.

Il primo a sostenere la presenza di più memorie è William James, uno psicologo statunitense, il quale ipotizza l’esistenza di una memoria primaria, di breve durata, e di una memoria

secondaria, capace di custodire le esperienze e le conoscenze per un periodo molto più lungo.

Attualmente si assume che le informazioni vengano memorizzate e poi immagazzinate nel cervello attraverso tre tipi di memoria: memoria sensoriale, memoria di lavoro e memoria a

lungo termine.

Figura 1. I magazzini di memoria2

La memoria sensoriale elabora l’input secondo le sue proprietà percettive e, sebbene abbia una capacità quasi illimitata di catturare chunck3, ne trattiene solo il 25%. Questo tipo di memoria

2Daloiso, 2009:66.

3Unità significativa di informazione.

Input ambientale MEMORIA SENSORIALE MEMORIA DI LAVORO MEMORIA A LUNGO TERMINE IMPLICITA MEMORIA A LUNGO TERMINE ESPLICITA

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può anche essere definita iconica se si serve del registro visivo ed ecoica se utilizza quello uditivo, in entrambi i casi le informazioni vengono trattenute per pochi secondi, rispettivamente mezzo secondo nel primo caso e 3-4 nel secondo.

Negli anni Settanta per descrivere con più accuratezza le dinamiche della memoria a breve termine viene introdotto un modello denominato memoria di lavoro e dotato delle seguenti caratteristiche: la sua attivazione dipende dall’attenzione selettiva attraverso la quale vengono individuati gli aspetti rilevanti dell’input e si inibiscono gli stimoli distrattori; è un sistema con uno span4 medio pari a sette chunck; riesce a trattenere le informazioni per un arco temporale

di circa trenta secondi ma se si vuole conservare le informazioni per un periodo più lungo e impedirne il decadimento si possono compiere operazioni di reiterazione.

Neanche la memoria di lavoro è un sistema unitario, essa, infatti, comprende un esecutore centrale e una serie di sistemi sussidiari tra cui il più rilevante a livello verbale è il circuito

fonologico. Tale sottocomponente si suddivide a sua volta in due sottosistemi: il magazzino fonologico che sottende l’attivazione del lobo fronto-parietale inferiore sinistro e nel quale gli

input sonori di carattere rilevante vengono depositati per 1-2 secondi e il sistema di ripasso

articolatorio che attraverso la ripetizione subvocalica trattiene per qualche secondo in più

l’informazione e implica l’attivazione dell’area di Broca.

L’ultimo tipo di memora di cui il cervello umano è dotato è la memoria a lungo termine, così detta perché le informazioni che vi arrivano possono essere conservate per molto tempo, in alcuni casi per sempre. La memoria a lungo termine consta di due subsistemi indipendenti che elaborano tipi diversi di input: la memoria implicita e la memoria esplicita.

Il sistema della memoria implicita trattiene informazioni in maniera:

❖ automatica > senza alcuna intenzione o controllo;

❖ casuale > non ci sono sequenze di apprendimento specifiche o premeditate;

❖ inconsapevole > le conoscenze memorizzate non possono essere descritte consapevolmente;

❖ involontaria > non è necessario prestare attenzione o concentrarsi.

4Quantità specifica di informazioni che possono essere trattenute nella memoria a breve termine. “Lo span

della memoria per numeri o parole corrisponde al numero di elementi di una sequenza che un soggetto riesce a ripetere correttamente per almeno il 50% delle volte in cui viene sottoposto al compito di memorizzazione” (Fabbro, 1996:102)

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Si tratta per lo più di procedure e sequenze motorie e comportamentali immagazzinate nelle strutture sottocorticali e nelle aree percettive e motorie.

La memoria esplicita riguarda, invece, tutte quelle informazioni ed esperienze che acquisiamo e fissiamo nella nostra mente in maniera consapevole. Anche questo tipo di memoria è suddivisa in due ulteriori sottocomponenti: la memoria episodica che immagazzina eventi ed episodi di vita e la memoria semantica che conserva informazioni, nozioni e conoscenze enciclopediche sul mondo.

In maniera quasi speculare rispetto alla memoria implicita le caratteristiche dei processi di immagazzinamento della memoria esplicita sono i seguenti:

❖ consapevolezza > il soggetto è completamente cosciente di star apprendendo ed è capace di recuperare le informazioni e di comunicarle (dopo i 3 anni);

❖ multifunzionalità > si immagazzinano sia episodi ed eventi che nozioni;

❖ volontà > il tasso di attenzione è alto poiché c’è la volontà di apprendimento.

A livello neuroanatomico la memoria esplicita coinvolge più aree funzionali e ognuna di esse fa capo a uno specifico processo di memorizzazione: l’ippocampo per la fase di fissazione, le

aree associative della corteccia cerebrale, i lobi temporale, parietale, occipitale e frontale per

l’immagazzinamento e il sistema frontale5 per la terza fase che è quella del recupero delle

informazioni (Agliotti e Fabbro, 2006).

1.3.2 Memoria e apprendimento linguistico

Dal punto di vista linguistico, la memoria procedurale, un sottotipo della memoria implicita, è responsabile dell’acquisizione della componente fonologica e di quella morfosintattica tramite l’attivazione di alcune strutture sottocorticali (gangli della base dell’emisfero sinistro e nuclei dentati del cervelletto) e di alcune aree specifiche della corteccia cerebrale coinvolte nella percezione (somatica e uditiva) e nel movimento (area di Broca, area motoria supplementare) (Paradis, 1994).

5Insieme delle strutture del lobo frontale, soprattutto quello di destra, e di altre strutture dell’emisfero destro

coinvolte nell’organizzazione dei comportamenti emozionali e attentivi quali la corteccia anteriore del cingolo e i nuclei anteriori del talamo (Fabbro, 2004:65).

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Nonostante si tratti di capacità e conoscenze che si acquisiscono implicitamente, una pratica costante delle stesse produce un netto miglioramento delle prestazioni e assicura il mantenimento di alti livelli di competenza: per parlare fluentemente una lingua, anche se appresa da bambini, bisogna quindi praticarla, pena un decadimento generale delle abilità, incluse quelle afferenti alla dimensione fono-sintattica.

Se la memoria implicita si occupa dell’acquisizione delle componenti fonologiche e morfosintattiche, la memoria esplicita ha, invece, un ruolo di primo ordine nella memorizzazione del lessico. Ciò nega la generica assunzione secondo la quale l’acquisizione di una prima lingua sia basata su processi di memorizzazione esclusivamente impliciti, dimostrando che, a essere coinvolte, sono sia componenti della memoria implicita che di quella esplicita. Ne sono un esempio i compiti di comprensione, durante i quali vengono attivate contemporaneamente componenti della memoria semantica (esplicita) per il riconoscimento del lessico e componenti della memoria implicita per la comprensione grammaticale.

Per quanto riguarda l’apprendimento di una seconda lingua Fabbro (2004:95) afferma che: “la

maturazione differenziata di alcune strutture della memoria impedisce che una seconda lingua appresa dopo il periodo critico venga depositata nelle strutture della memoria procedurale”.

Ciò giustifica casi clinici in cui un soggetto bilingue (tardivo) colpito da afasia perde l’uso di una sola delle due lingue, in quanto la lesione al cervello può colpire selettivamente un tipo di memoria e danneggiare una sola lingua risparmiando gli altri sistemi di memoria e di conseguenza il processamento dell’altra lingua.

1.4 Il cervello bilingue

I sistemi attraverso i quali si origina e viene processato il linguaggio sono diversi e suddivisi a loro volta in sottosistemi, a tal proposito Paradis (2004:119) sostiene che il sistema della comunicazione verbale consti di almeno quattro moduli: il modulo della pragmatica, il modulo delle competenze metalinguistiche, quello inerente alle dinamiche emotive e motivazionali e quello rappresentato della competenza linguistica (cfr. 1.2.1.2).

Il modulo della competenza linguistica, il principale dei quattro sopracitati, è suddiviso in vari subsistemi neuro-funzionali che servono rispettivamente la fonologia, la morfosintassi, il lessico e la semantica e ognuna di queste dimensioni è ripartita, a propria volta, in tanti sottosistemi quante sono le lingue parlate da un individuo.

Le lingue nel cervello di un bilingue o poliglotta sono quindi governate da un sistema comune ma con aree indipendenti che collaborano nel caso delle componenti del linguaggio (fonologia, morfosintassi e semantica) e che, invece, non interagiscono tra di loro per ciò che concerne i

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sottosistemi di ogni singola lingua. Ciascun modulo destinato a una specifica lingua è, infatti, caratterizzato da una propria architettura neurale e può essere inibito per evitare interferenze tra le lingue (Paradis, 2004:132).

I rapporti tra i moduli neuro-funzionali e i loro subsistemi sono regolati da due fattori che ne determinano il funzionamento: l’età di acquisizione della lingua e la soglia di attivazione

linguistica.

Per i bilingui precoci i sistemi dei due codici sono sovrapposti poiché entrambe le lingue vengono acquisite tramite sistemi procedurali mentre nei bilingui tardivi sono separati poiché la L2 viene generalmente processata da sistemi espliciti (Paradis 2004). In quest’ultimo caso, è inoltre doveroso fare una distinzione tra il sistema lessico-semantico e quello sintattico di una L2 rispetto a una L1: il sistema semantico sembra essere più facilmente accomunabile alle due lingue mentre la rappresentazione sintattica di L2 è di norma distinta.

Se la seconda lingua viene appresa nella prima e nella seconda infanzia e cioè entro i primi 7-8 anni di vita, inoltre, l’input di entrambe le lingue viene percepito, analizzato e processato direttamente dai subsistemi specifici per ciascuna di esse, poiché l’accesso ai suddetti subsistemi è diretto.

Numerosi sono gli studi di neuroimaging che confermano l’attivazione di circuiti neuronali comuni per entrambe le lingue parlate da un bilingue cosiddetto native-like: le aree temporo-parietali e frontali sinistre, per esempio, vengono utilizzate sia da monolingui che da bilingui in compiti di produzione di singole parole (Hernandez et al. 2001, in Callerone, 2011)). Allo stesso tempo la teoria viene avvalorata da ricerche su bilingui con un basso livello di competenza che, per lo svolgimento di alcuni compiti linguistici, impiegano attività cerebrali addizionali in aree non usuali: le regioni visive posteriori bilaterali, ad esempio, vengono selezionate per il processamento delle parole, siano queste ultime presentate in forma scritta o in quella orale (Leonard et al. 2001, in Callerone, 2011).

Per quanto concerne ilprincipio della soglia di attivazione linguistica, esso richiama quello più generico di livello critico di attivazione utilizzato in neurobiologia per indicare la soglia minima di attivazione da raggiungere affinché la cellula cerebrale possa generare un potenziale di attivazione (Kandel, Schwartz, Jessell, 2003).

Analogamente, Paradis (2004:28) nella sua “The Activation Threshold Hypothesis” afferma che l’attivazione dei moduli neuro-funzionali e dei loro subsistemi necessita di una quantità di impulsi neuronali positivi sufficiente a raggiungere le aree neurali deputate al processamento di quel determinato subsistema o lingua. Nel caso dei bilingui, posto che la prima lingua sia, eccetto casi patologici, pienamente padroneggiata, la soglia di attivazione linguistica per la seconda lingua è più alta di quella per la lingua materna. Ciò spiega il motivo per cui apprendere

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una seconda lingua può risultare più difficile in termini di lentezza, necessita di uno sforzo attentivo e cognitivo superiori, problemi di comprensione etc.

La selezione di una lingua determina l’inibizione dell’altra proprio attraverso l’elevazione della soglia di attivazione della seconda, ciò significa che il substrato neurologico della lingua non utilizzata è inibito mentre quello della lingua usata è attivato. Il grado di inibizione è variabile in base alla situazione e ai bisogni della persona: se il parlante si trova in un contesto in cui utilizza una lingua alla volta, il grado di inibizione sarà più elevato rispetto a quando, invece, dovrà parlare più lingue contemporaneamente. E’ ciò che avviene durante il fenomeno detto

code switching6, in questo caso la soglia di attivazione della lingua non utilizzata sarà di poco

più alta di quella della lingua selezionata nella comunicazione.

Ogni qualvolta un codice viene attivato la sua soglia di attivazione si abbassa ed è necessario un minor numero di impulsi per la sua riattivazione; l’esposizione frequente ad una L2 comporta, dunque, una soglia d’attivazione più bassa per quella lingua. La frequenza e la “recency”, che indicano rispettivamente le effettive occasioni di utilizzo della lingua e il periodo trascorso dell’ultima attivazione di suddetta lingua, riducono la soglia di attivazione della seconda lingua in quanto determinano una prolungata attivazione dei subsistemi neurali specifici per quest’ultima.

Abutalebi e Green (2007) propongono l’Ipotesi della convergenza secondo la quale nei bilingui tardivi che usano la L2 con alta frequenza e hanno un livello di competenza molto alto i sistemi neuronali delle due lingue tendono a sovrapporsi. La proficiency è accompagnata da un passaggio graduale da elaborazioni controllate ad automatizzate e da una riduzione dell’attività prefrontale, per cui man mano che la competenza linguistica aumenta, la differenza a livello neurale tra parlante nativo e parlante di L2 diminuisce (Leonard et al., 2011, in Callerone, 2011). La competenza raggiunta in una L2 può dipendere, dunque, da numerosi fattori, tra i quali:

l’età iniziale di apprendimento della nuova lingua: se l’acquisizione della seconda lingua inizia in concomitanza con quella della prima lingua o comunque nei primi anni di età, i sistemi linguistici che processano la L2 saranno gli stessi che processano la lingua materna;

la frequenza di esposizione: apprendere la lingua in ambito familiare o farlo in un contesto istituzionale come la scuola implicano una notevole differenza in termini di tempo di esposizione alla lingua seconda o straniera e quindi anche di energia cerebrale

6 Con code switching si indica quel fenomeno linguistico per cui un parlante bilingue passa da una lingua all’altra

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necessaria per l’attivazione dei sub-sistemi che processano quella lingua. Perani et al. (2003) asseriscono che tanto maggiore è l’esposizione a L2, tanto minore è l’attivazione della corteccia prefrontale sinistra. A riprova di questa tesi, gli autori sostengono che un bambino adottato prima degli otto anni che perde ogni contatto con la sua lingua madre può dimenticarla e sostituirla con quella appresa nel nuovo ambiente di vita;

il coinvolgimento emotivo: le modalità di accostamento alla L2 e di presentazione degli input influiscono in maniera rilevante sull’attivazione di circuiti neuronali specifici per l’apprendimento del linguaggio; è importante a tal fine mostrare un atteggiamento positivo e stimolante nei confronti del nuovo codice da apprendere;

la correttezza dell’input linguistico: se per l’acquisizione della lingua materna l’apprendente ha a disposizione un set variegato di parlanti nativi e di situazioni spontanee, per quanto riguarda l’apprendimento di L2, specialmente in ambito didattico, è necessario assicurarsi che chi fornisce l’input possegga un’ottima competenza della lingua che insegna, onde evitare il radicarsi di atteggiamenti linguistici scorretti e molto difficili da modificare in seguito.

1.5 L’apporto della neuropsicologia all’educazione linguistica

Nel corso degli anni Novanta, accanto allo studio ormai sempre più efficiente dei meccanismi neurologici alla base dell’apprendimento linguistico, dovuto a strumenti di indagine sempre più efficaci, l’interesse ricade verso un nuovo orizzonte di ricerca e cioè quello della psicolinguistica. Damasio e Goleman in generale, Krashen, Schumann, Jane Arnold e Titone in ambito più strettamente glottodidattico sono stati i punti di riferimento per conferire un ruolo di tutto rilievo all’aspetto emotivo nell’acquisizione linguistica nel panorama della ricerca linguistica di quegli anni in Italia.

1.5.1 Aspetti neuroanatomici e neurofisiologici

Il sistema limbico è deputato a governare sia le emozioni che alcuni aspetti dell’apprendimento, tra le strutture neuronali che lo costituiscono l’amigdala, l’ipotalamo e l’ippocampo sono le più rilevanti al fine di definire l’influenza delle emozioni sull’apprendimento linguistico.

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L’ amigdala, situata al centro del sistema limbico, connettendosi con altre strutture nervose crea due tipi di circuiti neurali (Daloiso 2009:43):

il circuito subcorticale, che valuta rapidamente l’input e celermente provvede a generare risposte;

il circuito corticale, attraverso il quale si valutano cognitivamente gli eventi emotigeni e si attribuiscono significati emotivi.

L’ipotalamo ha il compito di regolare i rapporti tra ambiente ed organismo, controllare le risposte automatiche a specifici stimoli e governare gli istinti naturali.

L’ippocampo, infine, è responsabile di molti meccanismi di apprendimento e del processo di immagazzinamento delle informazioni.

Figura 2. Il sistema limbico7

Quando un soggetto considera un input negativo o pericoloso si crea una situazione di stress tale per cui, a livello neurofisiologico, l’amigdala invia dei messaggi all’ipotalamo che, a sua volta, ne invia alla ghiandola pituaria mettendo in circolo un ormone chiamato ACTH che

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stimola la produzione da parte della ghiandola surrenale di cortisolo, detto anche ormone dello stress. Una situazione di stress prolungata mette però in contrapposizione l’amigdala, che continua a richiedere il rilascio di cortisolo, e l’ippocampo che ne regola e gestisce la secrezione. Se suddetta condizione si protrae per un periodo notevole i dendriti delle cellule neuronali dell’ippocampo si atrofizzano, questa limitazione congiuntamente al blocco del neurotrasmettitore noradrenalina comporta problemi di memorizzazione delle informazioni nella memoria esplicita.

Come suggerisce Cardona (2001), in sede di apprendimento formale di una lingua, una reazione di questo tipo potrebbe manifestarsi durante una prova di verifica, un’interrogazione di fronte all’intera classe o una qualsiasi attività che rappresenti per l’allievo una minaccia al proprio senso di autostima.

Le emozioni non condizionano, però, l’apprendimento linguistico solo in uno specifico momento, ma si rivelano fondamentali per determinare la tipologia di acquisizione della lingua selezionata.

Ledoux (1994) citato da Daloiso 2009, parla di due tipi di memoria per ogni emozione: la

memoria emozionale, che è una forma di memoria implicita e la memoria dell’emozione che è

un tipo di memoria episodica e quindi esplicita. La prima registra gli stimoli sensoriali associandole alle risposte vegetative e a quelle motorie, la seconda memorizza “il fatto” così come poi verrà ricordato e descritto.

A livello linguistico, tutte le emozioni suscitate dal contatto con la lingua e con l’ambiente in cui avviene confluiscono nella memoria emozionale, che è una memoria implicita a tutti gli effetti, con la particolarità di non necessitare di reiterazione dell’input per il suo immagazzinamento. Durante l’acquisizione di una lingua un bambino piccolo “associa” le memorie procedurali coinvolte nell’acquisizione del linguaggio all’insieme delle memorie emozionali inconsce che vanno a formare il bagaglio emozionale e la sua struttura di personalità.

Apprendere una lingua in tenera età e attraverso modalità naturali implicherà un impatto emozionale sul sistema nervoso molto diverso da quello provocato da un apprendimento scolastico, soprattutto se in quest’ultimo caso viene utilizzato un approccio formalistico con un metodo basato sulla trasmissione di regole grammaticali.

1.5.2 La motivazione come valutazione emotiva

Uno dei fattori più incidenti nel processo di acquisizione linguistica è la motivazione; la teoria di riferimento nell’ambito delle scienze dell’educazione e in glottodidattica per spiegarne le

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modalità di attivazione è la Cognitive Theory of Emotions, detta, più frequentemente, teoria dell’input appraisal. Tale teoria viene sviluppata intorno agli anni Sessanta da una psicologa americana di nome Magda B. Arnold e successivamente rielaborata in chiave glottodidattica da Jane Arnold e da J. Schumann, rispettivamente nel 1999 e nel 2004.

A livello cognitivo la teoria comporta tre momenti (Balboni, 2013:12):

1. un evento avviene e un input viene recepito;

2. l’input viene valutato (appraisal);

3. dalla valutazione dipende l’attivazione di una reazione per la gestione dell’evento (arousal).

In ambito glottodidattico, seguendo questa prospettiva, si può sostenere che il cervello dell’apprendente riceve continuamente input tramite eventi quali un’attività di ascolto, una lettura, un lavoro di gruppo ecc; la valutazione dell’input avviene, in maniera più o meno cosciente, rapportando l’input alle proprie aspettative, bisogni e desideri. Sulla base di queste comparazioni l’informazione viene giudicata positiva o negativa e di conseguenza elaborata e immagazzinata nella memoria a lungo termine oppure bloccata e lasciata decadere.

La valutazione delle informazioni provenienti dall’esterno rimanda ad alcuni criteri (Scherer, Ekman,1984; Schumann, 1999) che Daloiso (2009:45) riassume nel modo seguente:

a. novità: l’organismo valuta anzitutto la novità e la discrepanza tra l’input e le proprie aspettative;

b. piacevolezza intrinseca: in secondo luogo l’organismo valuta il senso di piacere o dis-piacere suscitato dall’input; una valutazione positiva di questo parametro induce a reazioni di avvicinamento e di appartenenza rispetto alla situazione;

c. pertinenza rispetto ai bisogni e agli obiettivi: il soggetto procede nella valutazione dell’input giudicando se esso ostacola o favorisce il raggiungimento dei suoi obiettivi formativi, sociali, culturali;

d. realizzabilità: il soggetto valuta poi la comprensibilità dell’input e la sua adeguatezza rispetto alle proprie capacità;

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e. sicurezza psico-sociale: l’organismo determina se la situazione è conforme agli

standard e alle aspettative del proprio gruppo sociale, e se può minare o rafforzare la

propria immagine sociale.

L’ appraisal innesca una reazione, sia psicologica che fisiologica, atta a gestire l’evento in maniera tale da trarne piacere e successivamente voler reiterare l’esperienza, oppure, al contrario, ridurne l’eventuale dispiacere. In campo glottodidattico questo si traduce nella somministrazione di input che suscitino emozioni positive primarie come gioia e sorpresa, le quali a loro volta servono da fondamenta per generare autostima e sicurezza, indispensabili per l’apprendimento linguistico e non.

1.5.3 Il modello tripolare

Se passiamo da una visione microanalitica a una più ampia, per descrivere la motivazione possiamo usufruire del modello tripolare tratto dalla teoria della motivazione applicata al marketing e proposto in ambito glottodidattico da Balboni (2014). Secondo questo modello, la motivazione a più ampio raggio, quella che, per esempio, serve per decidere di seguire e portare a termine un corso di lingua, dipende da tre variabili: dovere, bisogno e piacere.

La maggior parte dei discenti è obbligata, per gran parte del percorso di formazione scolastico, a studiare almeno una lingua straniera, questa condizione, volendo utilizzare la terminologia propria di Krashen, attiva un filtro affettivo8 tale per cui l’input rimane nella memoria a medio

termine ma non viene immagazzinata in quella a lungo termine. Le nozioni saranno così disponibili per un breve periodo, in alcuni casi fino alla fine dell’anno scolastico, e si parlerà quindi di apprendimento ma non di acquisizione.9

La motivazione legata al bisogno di imparare una lingua, pensiamo anche solo alle migliaia di persone che emigrano dal proprio Paese ogni anno, è un tipo di motivazione consapevole e razionale, legata all’emisfero sinistro e solitamente di grande efficacia poiché soddisfare i propri bisogni suscita emozioni positive. Ciò nonostante essa presenta due limiti: il primo

8 Il filtro affettivo è una delle cinque ipotesi della teoria sull’acquisizione linguistica di Stephen D. Krashen.

Secondo l’autore esiste un filtro regolato da fattori affettivi (ansia, autostima, etc.) che impedisce a una parte dell’input di essere processato e immagazzinato.

9 La teoria di Krashen postula anche la distinzione tra acquisizione e apprendimento linguistico: il primo processo,

inconscio e automatico, dà luogo a una conoscenza stabile e duratura mentre nel secondo caso si avrà un processo conscio e volontario con risultati non durevoli. * In questo lavoro i due termini saranno utilizzati indifferentemente, ad eccezione dei casi specificati.

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riguarda il fatto che non sempre si è consapevoli dei propri bisogni e il secondo si riferisce alla tendenza dello studente a sentirsi appagato molto prima di aver raggiunto un livello di competenza adeguato a soddisfarepienamente i propri bisogni.

Il piacere coinvolge prevalentemente l’emisfero destro ed è il vero motore della motivazione, sia essa legata a singoli momenti o a un progetto di più ampio respiro. Coloro i quali decidono di seguire un corso di lingue per il piacere di imparare, per girare il mondo senza l’inconveniente delle barriere linguistiche o per recuperare le proprie radici etniche partono con un bagaglio emozionale positivo che basta mantenere attivo.

L’obiettivo è dunque far sì che imparare una lingua possa essere piacevole e soddisfacente anche quando non si sceglie personalmente di studiarla. A tale proposito il ruolo dell’insegnante è di straordinaria importanza poiché attraverso determinate strategie si può tentare di colmare le lacune motivazionali dettate da un approccio allo studio derivante dal mero dovere o bisogno. In un contesto in cui l’unica spinta motivazionale all’apprendimento linguistico è data dal dovere, Caon (2012) suggerisce di agire su tre piani:

1. implementare la relazione interpersonale tra insegnante e alunno, poiché provare stima e affetto per una persona può stimolare la curiosità e l’interesse per ciò che il soggetto rappresenta o in questo caso insegna;

2. a livello metodologico insistere sui fattori che scatenano l’appraisal positivo, ma anche mettere al centro della lezione e della progettazione le esigenze dell’allievo e in base a questo selezionare i testi da usare, i temi da proporre, i compiti etc.;

3. stimolare la curiosità per quello specifico idioma.

Secondo Balboni (2014), nel caso di discenti che presentano una motivazione connessa prevalentemente al bisogno di imparare una lingua, il compito del docente è principalmente quello di presentare input e richiedere compiti che siano utili pragmaticamente, ma tentando nel tempo di trasformare il bisogno in piacere attraverso l’adozione di una metodologia ludica o l’interazione viva (es. tandem).

Il piacere di apprendere è un piacere primario che va però supportato da alcuni accorgimenti che l’insegnante dovrebbe adottare, tra gli altri: variazione dell’input, scelta accurata dei materiali onde evitare il fattore noia, gestione della classe e della lezione con una modalità non ansiogena. Allo stesso modo, dovrebbe essere evitato il fallimento che annulla la sensazione di piacere. A tal proposito le attività e gli input devono rispondere alla nozione Krasheniana “i+1”,

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e cioè un livello in più rispetto a quello che già si padroneggia, così che i compiti possano essere percepiti dal discente come fattibili. Anche gli errori vanno considerati come naturali e non enfatizzati poiché, se evidenziati, possono suscitare emozioni negative, senso di frustrazione e fallimento e di conseguenza un calo nella motivazione.

1.5.4 I principi di Bimodalità e Direzionalità

Se il piacere e il coinvolgimento emotivo hanno così tanta rilevanza nell’apprendimento di una lingua seconda o straniera ciò rimarcache il processo di acquisizione linguistica interessa non solo l’emisfero sinistro e quindi la modalità analitica ma anche quello destro e la sua natura olistica. Secondo quello che viene dunque chiamato Principio di Bimodalità (Danesi, 1998), è necessario integrare le funzioni e le modalità cognitive di entrambi gli emisferi cerebrali per raggiungere ciò che Krashen definisce acquisizione linguistica differenziandola dall’apprendimento.

Affianco al concetto di bimodalità e strettamente relazionato ad esso troviamo il Principio di

Direzionalità (Balboni 1999), per cui l’uso bimodale dei circuiti neuronali afferenti alle

funzioni linguistiche avviene secondo una direzione ben precisa che va dall’emisfero destro a quello sinistro.

Balboni (2013:4), ci ricorda a riguardo che: “…durante le prime fasi dell'insegnamento si

motiva all'apprendimento coinvolgendo in maniera bimodale la dimensione affettiva (piacere di comunicare in un’altra lingua, curiosità di fronte ad una cultura diversa: modalità destra) e quella logica (i bisogni linguistici, professionali, esistenziali: modalità sinistra), poi si presenta il materiale in modo contestualizzato, sensoriale, ricco di connotazioni culturali (modalità destra), per passare finalmente a formalizzare l’analisi con tecniche associate alla modalità sinistra (gli esercizi strutturali, la riflessione sulla lingua, le spiegazioni di grammatica, ecc.).”

1.5.5 Intelligenza, stile cognitivo e stile di apprendimento

Sebbene, come illustrato nel precedente paragrafo, esistano caratteristiche generali riguardanti l’apprendimento linguistico e la motivazione, sussistono fattori personali, specifici per ogni soggetto, che determinano differenze rilevanti nella scelta del tipo di approccio e delle strategie da utilizzare per imparare una lingua.

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In primis l’intelligenza o meglio le intelligenze multiple come suggerisce Gardner10: in ambito

linguistico risultano rilevanti soprattutto tre tipi di intelligenza, ognuno dei quali legati ad altrettanti canali di percezione, esse sono l’intelligenza visiva, l’intelligenza uditiva e la cinestetica.

Il secondo fattore è lo stile cognitivo inteso come “modalità preferenziale di organizzazione,

elaborazione e gestione delle informazioni” (Daloiso, 2009:82), ciascun soggetto sviluppa

specifiche strategie cognitive per poter sfruttare al massimo le proprie capacità intellettive. In fine, lo stile di apprendimento con cui si indica la modalità di apprendere o studiare privilegiata da ciascun individuo. Si tratta dell’applicazione del proprio stile cognitivo in ambito formativo, con il coinvolgimento di altri fattori quali quelli affettivi, caratteriali, sociali e culturali.

La tipologia di intelligenza che caratterizza maggiormente il discente e il suo stile cognitivo personale sono la base per l’elaborazione di strategie di apprendimento efficaci per lo specifico discente. Balboni (2004) ne esplica alcune tra le più efficaci:

tolleranza per l’ambiguità: un maggiore utilizzo dell’emisfero destro e dunque il non

soffermarsi a decifrare ogni dubbio durante i compiti di comprensione o ad analizzare la produzione sembrano avvantaggiare, almeno inizialmente, il processo di acquisizione;

pragmatic expectancy grammar: capacità di prevedere ciò che si troverà in un testo;

tendenza ad apprendere dai propri errori: attitudine a valutare gli errori come punti di

partenza per migliorare e non come un fallimento; può dipendere sia da fattori personali di gestione degli ostacoli della vita e sia da come tali ostacoli sono stati affrontati in ambito scolastico dai vari insegnanti e in particolare da quelli di lingue durante le esperienze pregresse;

personalità empatica: tendenza ad instaurare un rapporto empatico con l’interlocutore

che permette di intuire le finalità comunicative di quest’ultimo.

10Psicologo e docente statunitense, esponente di spicco dei teorici dell’intelligenza fattorialista, formula la teoria

delle intelligenze multiple attraverso la quale distingue nove manifestazioni fondamentali dell’intelligenza, derivanti da strutture differenti del cervello e indipendenti l’una dall’altra: intelligenza linguistica, logico-matematica, spaziale, cinestetica, musicale, intrapersonale, interpersonale, naturalistica, esistenziale o teoretica.

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