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Paesi di provenienza

2.2 Le lingue e le varietà linguistiche dei bambini stranier

La popolazione di origine straniera nel nostro Paese continua a vivere uno status di prevalente plurilinguismo, sebbene con gradi diversi di adesione e di competenza sia riguardo la lingua materna che l’italiano e le sue varietà a cui viene esposta. Le conseguenze sull’intero panorama linguistico italiano, già di per sé ampiamente variegato, sono evidenti e massicce: non è raro, infatti, imbattersi nella realtà quotidiana nel cosiddetto “italiano di contatto” o nelle varietà di “interlingua”.

2.2.1. Le lingue di origine

Tullio De Mauro affermava: “Una lingua, voglio dire la lingua materna in cui siamo nati e

abbiamo imparato a orientarci nel mondo, non è un guanto, uno strumento usa e getta. Essa innerva la nostra vita psicologica, i nostri ricordi, associazioni, schemi mentali. Essa apre le vie al con-sentire con gli altri e le altre che la parlano ed è dunque la trama della nostra vita sociale e di relazione, la trama invisibile e forte, dell’identità di gruppo”17.

Per i bambini nel periodo prescolare la lingua materna rappresenta la lingua della casa, quella dell’affettività e dei primi legami e, nei casi in cui non vi sia la presenza di fratelli maggiori già inseriti nel mondo della scuola, il loro sviluppo linguistico consta di scarse occasioni di interazione nella lingua ufficiale del paese di accoglienza.

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Questa situazione di monolinguismo nella fase prescolare non è negativa e non minaccia l’acquisizione di una seconda lingua dopo l’inserimento nei servizi educativi, anzi, nei casi in cui i genitori non posseggano un buon livello di L2, è preferibile evitare di utilizzare l’italiano poiché la comunicazione con i figli potrebbe rivelarsi “ rigida, povera di sfumature e di sapore,

perché condotta in un codice che non è quello affettivo, della casa, dei ricordi e dell’immaginario” (Demetrio e Favaro,1997:149) e ciò andrebbe a inficiare il loro sviluppo

psico-cognitivo oltre che linguistico.

Tra i motivi per cui i genitori rinunciano alla propria lingua di origine in favore della lingua della nazione ospitante nella comunicazione domestica vi è innanzitutto l’esigenza di iscrivere i bambini all’asilo nido e la conseguente paura di creare confusione introducendo da subito due sistemi linguistici; in secondo luogo, possono prevalere delle forme di autosvalutazione della lingua familiare o la volontà di rompere tutti i legami con le proprie radici.

In realtà, riferendoci principalmente all’apprendimento guidato in contesto scolastico, i bambini stranieri che hanno un buon livello di competenza nella propria lingua di origine, per gli usi decontestualizzati, mostrano dei vantaggi di carattere metalinguistico nel processo di apprendimento della seconda lingua.

Nel momento dell’inserimento scolastico, con l’iscrizione alla scuola dell’infanzia, le sorti linguistiche di questi giovani alunni monolingue possono essere plurime: alcuni diventano bilingui imparando gradualmente il nuovo codice, altri all’acquisire il nuovo idioma dimenticano temporaneamente quello di origine e altri ancora lo abbandonano definitivamente. In questo caso la rinuncia alla lingua materna non sembra essere frutto di una decisione genitoriale, bensì rappresenta la volontà del bambino che tende a sentirsi minacciato dalla sua diversità linguistica. Spesso ha paura di non riuscire a integrarsi, di essere sovraesposto agli occhi degli altri o al contrario di essere ignorato ed emarginato sia dai compagni che dagli insegnanti. In tal senso, nonostante i richiami e le raccomandazioni più o meno esplicite da parte degli organi preposti, siano essi nazionali o internazionali, lo spazio scolastico destinato al mantenimento e al recupero delle lingue di origine è ancora del tutto insufficiente. Le iniziative di insegnamento della lingua e della cultura di origine vengono organizzate, infatti, prevalentemente dai Paesi di emigrazione al di fuori del sistema scolastico ufficiale e tramite l’impegno di associazioni culturali, gruppi e comunità immigrate.

La forte coesione da parte dei membri di alcune comunità è alla base del fenomeno delle lingue

immigrate, definizione coniata da Vedovelli et al., (2003: 203), per descrivere quelle lingue di

origine che non solo continuano a essere utilizzate nei contesti familiari, ma che si radicano sul nuovo territorio al punto tale da “condizionare l’assetto idiomatico local , i comportamenti

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sono un esempio i quartieri, spesso periferici, con un’alta percentuale di residenti con cittadinanza non italiana, in queste zone gli abitanti tendono a utilizzare le lingue di origine anche fuori dal contesto domestico ed è infrequente ascoltare conversazioni in italiano. La stabilizzazione del fenomeno è riscontabile, inoltre, in alcuni dettagli urbanistici di recente acquisizione, in primis le insegne dei negozi che riportano denominazioni scritte negli alfabeti originali e immagini richiamanti la cultura del Paese di provenienza. In altri casi, invece, le lingue materne dei migranti non riescono a radicarsi nel luogo di accoglienza, ma rimangono marginali all’interno dell’ambiente linguistico locale, queste lingue vengono riconosciute con l’appellativo di lingue dei migranti.

Una ricerca Istat del 201418, rileva il numero di cittadini stranieri che considerano l’italiano la propria lingua materna e i contesti19 d’uso in cui viene maggiormente impiegato. Se da un punto di vista dell’età di arrivo e da quello generazionale gli utenti arrivati in giovane età e quelli nati nel nostro Paese sono coloro i quali tendono a parlare italiano anche in famiglia (53,4% per le seconde generazioni), allo stesso tempo, dal punto di vista linguistico, la differenza tipologica della lingua sembra avere un peso considerevole nell’utilizzo della L2 nei contesti significativi. Il caso più evidente è quello della comunità sinofona che presenta un numero pari al 9,5% di parlanti italiano nel contesto familiare a fronte di una media del 38,5% del totale stranieri nel medesimo contesto di utilizzo: nonostante le cause possano essere in parte addebitate a una constatata impenetrabilità agli scambi con la società ospitante da parte del popolo cinese residente in Italia, si può altrettanto presumere che le difficoltà incontrate nel percorso di apprendimento della nostra lingua possano essere tali da giustificarne un rallentamento o in taluni casi anche la resa.

2.2.2 Italiano per bambini immigrati: L2, lingua di contatto o interlingua?

Come evidenziato precedentemente, la condizione dei bambini stranieri in Italia è particolarmente eterogenea sia dal punto di vista sociale che dalla prospettiva linguistica. A livello linguistico la complessità non deriva soltanto dalla babele di lingue di origine più o meno preservate e utilizzate nei contesti significativi, ma anche dalle varietà di italiano che questi bambini apprendono.

1818 La ricerca è stata pubblicata nel 2014 ma i dati corrispondono alla situazione linguistica nazionale del

biennio 2011-2012( vd. https://www.istat.it/it/files//2014/07/diversit%C3%A0-linguistiche-imp.pdf )

19 I contesti significativi presi in considerazione sono quelli indicati dal Quadro Comune Europeo di Riferimento

per la Conoscenza delle Lingue (Consiglio d’Europa 2002), rispettivamente quello “personale”, cioè riferito alle relazioni familiari e interpersonali, e quello “professionale”, ossia riguardante il contesto lavorativo.

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La prima distinzione va fatta tra i luoghi di acquisizione della lingua: l’italiano appreso a casa da un bambino figlio di almeno un genitore di madre lingua italiana è sicuramente diverso dall’italiano dei bambini figli di famiglie immigrate appreso per strada, giocando con i compagni, italofoni e non, o vedendo la televisione e che si accosta a sua volta alla lingua appresa a scuola.

Ma la realtà è ancora più articolata se pensiamo che alcuni dei bambini con famiglia immigrata sono nati qui, altri sono arrivati nei primi anni di vita, altri avevano qui già cugini o amici di famiglia più grandi già inseriti nell’ambiente scolastico italiano, altri ancora sono arrivati in età adolescenziale entrando subito a scuola, ma, a volte, al di fuori del contesto scolastico hanno avuto difficoltà a instaurare relazioni sociali, potenziali fonti di input linguistico.

Da non sottovalutare all’interno di questo spazio linguistico anche la presenza di numerose varianti regionali e dialettali che, spesso, costituiscono il primo approccio con la lingua italiana, in maniera particolare nel periodo prescolastico.

Non è, dunque, semplice far rientrare negli schemi e nelle classificazioni tradizionali l’italiano dei bambini stranieri e le terminologie canoniche come lingua materna e lingua seconda, L1 e L2, risultano incapaci di descrivere appieno la natura di questa varietà linguistica frutto delle interferenze e del contatto tra lingue e culture diverse.

Tale lacuna connotativa viene colmata di fatto nel 2000 da Tullio De Mauro, allora ministro della Pubblica Istruzione, che, durante l’elaborazione dei curricoli per la scuola di base nell’ambito delle misure per il riordino dei cicli scolastici, inserisce, per la prima volta, l’espressione lingua di contatto in un documento ufficiale. In linguistica il termine era già noto dal 1953 quando Weinreich (1953) utilizzò la nozione per riferirsi alle lingue parlate alternativamente da uno stesso individuo, che ne costituisce così il luogo di contatto; in ambito glottodidattico l’innovazione è stata introdotta da Freddi (1987;22) ma è con De Mauro (2000) e Vedovelli (2002a; 2005b) che l’espressione si afferma negli studi glottodidattici e di linguistica educativa.

Secondo Vedovelli (2005b:27-8): “Per i giovanissimi cittadini italiani di famiglia straniera o

mista […], l’italiano non è spesso nettamente né lingua madre, cioè lingua dell’identità primaria, né lingua straniera o seconda, cioè oggetto di una sovrapposizione acquisizionale successiva al processo di primario sviluppo della competenza linguistica. Per le giovani generazioni di origine straniera l’italiano entra nella coscienza e nell’identità linguistica a costruire un continuum con altri idiomi: la lingua dell’ambiente familiare, i dialetti. L’italiano, allora, contribuisce a creare un ambiente di contatto, dove l’individuo costruisce e ricostruisce la propria identità innanzitutto linguistica […] crea un territorio di confine e di contatto che

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rende possibili intricate sovrapposizioni, scambi, interferenze che costituiscono le risorse espressive e, soprattutto, di identità dei soggetti.”

Secondo questa descrizione l’italiano di contratto è più di una lingua, è un luogo di incontro dai confini labili tra tutte le varianti linguistiche possedute dal soggetto; proprio attraverso il farsi e disfarsi di questi confini e di sovrapposizioni, a volte conflittuali, a volte più benevole, egli riesce a muoversi all’interno di uno spazio ampio e articolato che gli permette di crearsi, man mano, un’identità linguistica e culturale.

Accanto alla questione dell’italiano come lingua di contatto troviamo il concetto che Selinker (1972) ha definito interlingua. Un’interlingua è un sistema linguistico o meglio un insieme di sistemi linguistici intermedi che si susseguono durante il periodo di apprendimento di una seconda lingua. Si tratta di un sistema linguistico a tutti gli effetti, con le sue regole e la sua logica, che rivela le ipotesi transitorie che l’apprendente sta facendo rispetto alla struttura della lingua che sta imparando e che non risparmia nemmeno i madrelingua nel momento dell’approccio con l’italiano standard a scuola.

Le interlingue seguono un percorso abbastanza omogeno dal punto di vista delle tappe di acquisizione linguistica, a variare spesso sono le tempistiche diverse, dipendenti da caratteristiche proprie di ciascun individuo e dalla qualità dello stimolo a cui vengono esposti. L’interlingua di base è caratterizzata da una estrema semplificazione sul piano morfologico- grammaticale e a livello lessicale-semantico dall’utilizzo di forme polivalenti o dal significato poco astratto, risultando più funzionali al fine di soddisfare i bisogni comunicativi del parlante. Lo stesso principio di funzionalità guida anche le fasi successive dell’interlingua: gli apprendenti rendono gradualmente più complesse le loro interlingue, inserendo elementi che risultano funzionali per risolvere i loro problemi comunicativi.

Se classificare il tipo di lingua che stanno apprendendo i bambini stranieri appare un compito arduo e dagli esiti incerti, la categorizzazione sotto i diversi tipi di bilinguismo sembra, invece, concepibile.

Secondo Bonifacci (2018), i bambini che acquisiscono due o più idiomi contemporaneamente vengono definiti come bilingui simultanei, le fasi di sviluppo di tutte le lingue avvengono in contemporanea e secondo alcuni studi, Junker e Stockman (2002) tra gli altri, già all’età di 24 mesi, questi bambini dispongono di sinonimi crosslinguistici per quasi la metà del loro vocabolario concettuale. Sono, invece, bilingui sequenziali o consecutivi, quei soggetti che apprendono una seconda lingua dopo essere già stati esposti a una L1; nel caso dei bambini che si accostano alla L2 tra i 3 e i 4 anni, solitamente con l’inizio della frequenza nella scuola dell’infanzia, si parla di bambini bilingui precoci consecutivi. Solitamente, sono soggetti che prima del contatto con il mondo della scuola vivono in famiglie e in comunità poco propense

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alla socializzazione con gli autoctoni. Tabors e Snow (1994), hanno ipotizzato quattro fasi di sviluppo per l’acquisizione della seconda lingua da parte dei bilingui precoci consecutivi: nel momento dell’introduzione in un contesto linguistico diverso da quello familiare essi continuerebbero a utilizzare la loro L1, nonostante la mancanza di comprensione da parte degli interlocutori; durante la seconda fase detta periodo silente, i soggetti si accorgerebbero di non essere compresi e per un periodo, molto variabile da caso a caso, si esprimerebbero limitatamente e solo attraverso il linguaggio non verbale; lo stadio successivo, detto del

linguaggio telegrafico, tipico anche nei monolingui, consisterebbe nell’utilizzo di frasi

semplici e spesso formulaiche, che permettono al bambino di soddisfare i propri bisogni comunicativi; l’ultima tappa è quella del linguaggio produttivo in cui si iniziano a sperimentare le frasi, aumentando man mano, il livello di complessità sia della dimensione morfologico- grammaticale che di quelle lessicale e semantica.