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Il Network organizzativo nelle aziende del circuito culturale: il caso del Teatro Pubblico Calabrese.

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Academic year: 2021

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INDICE

• INTRODUZIONE

• CAPITOLO I

L’evoluzione dal distretto alle reti

1.1 Il distretto industriale

1.2 Nuove sfide competitive dei distretti

1.3 Le strategie di crescita dell’impresa leader

• CAPITOLO II

Caratteristiche strutturali delle reti d’impresa

2.1 Le reti d’impresa oltre i distretti

2.2 Perché nascono le reti d’impresa

2.3 Efficienza economica nelle reti d’impresa: costi di transizione e costi

di produzione

2.4 Complementarietà e sviluppo delle competenze

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• CAPITOLO III

Come far crescere le aziende italiane

 3.1 Una strategia forte per far crescere le aziende italiane

 3.2 Come sfruttare il capitale relazionale per essere competitivi  3.3 Il rapporto di subfornitura come scelta strategica

 3.4 Networking e output innovativi

 3.5 Networking tecnologico e performance delle relazioni

- 3.5.1 L’impatto del networking tecnologico su efficienza e apprendimento

 3.6 Sviluppare i mercati internazionali

• CAPITOLO IV

I network nel settore pubblico italiano

 4.1 Coordinamento e gestione strategica delle reti - 4.1.1 Profili e competenze dei network manager - 4.1.2 Le funzioni di network management

- 4.1.3 Gli strumenti di network management

 4.2 L’inserimento dell’Italia nelle reti di produzione globale - 4.2.1 Le imprese italiane e le filiere globali di produzione

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 4.3 I network pubblici di interesse culturale: aspetti di governance e di accountability

 4.4 Circuiti teatrali territoriali: finalità ed assetti prevalenti

- 4.4.1 La promozione dello spettacolo dal vivo in Calabria: il Consorzio Teatro Pubblico Calabrese

- 4.4.2 Qualificare e valorizzare il Sistema dei Teatri Regionale

- 4.4.3 La governance del Consorzio Teatro Pubblico Calabrese tra promozione dello spettacolo ed economicità

- 4.4.4 Analisi conclusiva del caso analizzato

• CONCLUSIONI

• BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

Dopo il primo capitalismo dei grandi gruppi privati creato dalle famiglie che hanno dominato il Novecento (Agnelli, Pirelli, Falck, Marzotto, ecc.), il secondo della mano pubblica che nasce con l’Iri, il terzo dell’economia diffusa basata sulle piccole imprese e il quarto fatto dalle medie imprese siamo adesso nell’era del quinto capitalismo, cioè quello delle reti d’impresa.

In risposta alla pressione competitiva, le imprese più attive e innovative hanno iniziato a discostarsi dal modello di business tradizionale per muoversi verso forme di organizzazione produttiva a rete, caratterizzate da nuovi modelli di coordinamento e assetti giuridici. Stiamo dunque assistendo a un passaggio dalle reti territoriali alle reti di imprese non localizzate. Aggregazioni che danno vita a rapporti stabili tra le imprese, consentendo loro di specializzarsi in campi di competenza specifici.

Se da un lato la specializzazione produttiva a livello locale – caratteristica importante del nostro sistema produttivo – ha consentito di sopperire a carenze infrastrutturali e organizzative tipiche del nostro paese (es. messa a fattor comune delle conoscenze, logistica, approvvigionamento delle materie prime ed energia) dall’altro va evitato che la specializzazione territoriale si trasformi in un elemento di rigidità in grado di limitare la capacità produttiva del nostro sistema a livello globale. Emerge quindi un forte interesse verso forme di aggregazione e collaborazione tra imprese, centrate non solo sull’identità territoriale (come nel caso dei tradizionali distretti), ma anche su modalità organizzative che vadano oltre la dimensione locale (filiere e reti) e che siano in grado di sostenere più efficacemente i processi di internazionalizzazione e innovazione delle imprese. In tutti questi fenomeni bisogna dare centralità all’impresa e al mercato, evitando di creare nuovi livelli e nuova burocrazia. L’idea di mettersi in rete,

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nasce dal fatto che molti imprenditori italiani, hanno intuito che per riuscire a competere alle mutate esigenze del mercato mondiale, all’interno del quale si è osservato lo sgretolamento dei paradigmi produttivi consolidati e considerati di successo, è necessario comportarsi da grandi, senza però perdere l’individualità e le caratteristiche che solo una più piccola realtà produttiva può offrire. Per riuscire a fare ciò, si devono mettere insieme per collaborare, così da potersi proporre al mercato forti di competenze, risorse e capacità che da soli non avrebbero potuto sfruttare, potendo quindi realizzare prodotti tecnicamente innovativi e complessi. Il sistema di aggregazione adottato è, quindi, quello della rete d’impresa.

Negli ultimi anni le reti di impresa hanno conosciuto un notevole sviluppo in seguito all’introduzione di specifici provvedimenti normativi contenuti nell’articolo 36 del decreto legge 221 del 2012, di conversione del D.L. 179 del 2012. In realtà le imprese per loro natura sono fatte per operare informalmente in rete, in particolare in Italia, dove la produzione spesso si realizza lungo filiere produttive a cui partecipano diversi attori, dalle imprese capofila a valle del processo produttivo ai subfornitori e terzisti, attivi in specifiche e delimitate fasi produttive e poco propensi a realizzare attività di ricerca e sviluppo.

La nuova normativa italiana parte proprio da questa constatazione e si pone l’obiettivo di rafforzare questi legami, riconoscendo vantaggi fiscali alle Reti che promuovono al loro interno progetti di innovazione diretti a innalzare la loro competitività sui mercati.

In tale contesto, il Contratto di Rete, assieme alle altre tipologie di sistemi reticolari, rappresenta uno strumento utile per efficientare le filiere produttive del nostro Paese, aumentando al contempo la competitività delle singole imprese e quella di sistema.

Tuttavia, in questa delicata fase di transizione, quello che conta è che le imprese non stiano da sole. Le banche, dal canto loro, devono saper leggere i mutamenti in atto e supportare adeguatamente, con finanza e servizi dedicati, i nuovi

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bisogni connessi alla riorganizzazione delle filiere produttive e ai processi di aggregazione in rete tra imprese.

Sullo sfondo, si è andato formando un insieme di reti globali che condizionano oggi lo sviluppo complessivo delle imprese e dei sistemi produttivi di tutti i paesi più avanzati, compreso il nostro, definendo, nel contempo, il contesto di competizione tra le maggiori aree e paesi.

I nuovi pattern di integrazione a livello globale stanno profondamente mutando anche la geografia dei consumi mondiali. Sono rischi e opportunità che impongono anche nel nostro paese e alle imprese un rafforzamento della loro presenza internazionale più e meglio di quanto abbiano fatto in questi anni. Per crescere le aziende italiane dovranno conquistare le reti globali e i nuovi mercati, interpretandone gusti e preferenze e attrezzandosi per soddisfare domande differenti rispetto a quella del mercato nazionale. Perciò, la sopravvivenza delle piccole e medie aziende sta nel mettersi in rete. E’ importante che le aziende conoscano e usino la nuova manovra introdotta dalla Legge Sviluppo sul contratto di rete. Una sfida complessiva, che è necessario raccogliere tenendo conto delle sue difficoltà, visto che la nostra economia e le nostre imprese hanno incontrato crescenti difficoltà a partecipare ai processi di ristrutturazione delle catene del valore a livello internazionale e i nostri territori sono riusciti ad attrarre assai poco le scelte di rilocalizzazione dell’attività produttiva derivanti dalla nuova divisione internazionale del lavoro. D’altro canto, è assolutamente vero che negli ultimi anni si è verificato un deciso rafforzamento della presenza di un certo numero di imprese italiane, soprattutto di quelle di media dimensione, sui mercati internazionali. Non soltanto attraverso le esportazioni, ma anche con attività distributive e produttive realizzate tramite investimenti diretti o accordi di collaborazione con imprese straniere.

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Obiettivo di questo lavoro è proprio quello di analizzare il cambiamento dei distretti industriali guardando alla dimensione relazionale basata sulle reti d’impresa.

In tale tesi sono analizzate l’evoluzione temporale, gli obiettivi, la dimensione, la

differenziazione settoriale delle Reti, e soprattutto le caratteristiche delle imprese coinvolte in reti, in termini di dimensioni aziendali e specializzazione produttiva. L’approfondimento muove verso un’analisi sull’importanza organizzativa delle reti che possono essere una via per superare i limiti dimensionali delle aziende italiane.

La tesi si articola lungo quattro capitoli di approfondimento:

il primo capitolo, a seguito di una breve analisi dei principali contributi dottrinali attinenti al distretto industriale, esordisce con l’evidenza storica che, nei primi anni del nuovo millennio il modello è apparso ai più incapace a far fronte alle mutate sfide lanciate dal mercato, sia in termini di condizioni produttive, sia sotto forma di bisogni esternati dai consumatori. In questo capitolo sono poi illustrati i principali fattori che hanno reso manifesta l’inadeguatezza del modello distrettuale ad occupare il ruolo di trampolino per il rilancio dell’economia industriale italiana, arrivando, così, alle reti d’impresa e, alle strategie di crescita dell’impresa leader;

nel secondo capitolo si arriva al cuore della tesi, nonché all’analisi delle caratteristiche strutturali delle reti d’impresa oltre i distretti, partendo dalla nascita delle reti d’impresa, analizzando l’efficienza economica di quest’ultima fino ad arrivare agli aspetti più intrinsechi proprie delle reti;

nel terzo capitolo vengono affrontate più dettagliatamente le reti d’impresa, in particolare vengono analizzate le strategie per far crescere le aziende italiane e per essere competitivi, come ad esempio il rapporto di subfornitura come scelta

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strategica, i network e gli output innovativi, e lo sviluppo dei mercati internazionali;

infine, nel quarto capitolo, si passa ad affrontare nello specifico il contesto delle aziende italiane poste di fronte alle nuove sfide che la globalizzazione pone al sistema produttivo: il coordinamento e la gestione strategica delle reti, l’inserimento dell’Italia nelle reti di produzione globale, per arrivare, infine, all’analisi del case studie svolto durante il periodo di tirocinio effettuato presso il Dipartimento Cultura e Turismo della Regione Calabria che, ha come oggetto i network pubblici d’interesse culturale e nello specifico i circuiti teatrali territoriali.

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CAPITOLO I

L'evoluzione dal distretto alle reti

1.1 Il distretto industriale

Rispetto alla più generica definizione di agglomerazione, quella del distretto concentra l'attenzione su situazioni locali assai peculiari, nelle quali, la divisione del lavoro tra agenti economici assume connotati di interdipendenza elevati.

Il modello produttivo dei distretti si è contrapposto al paradigma della produzione di massa e, il distretto industriale ha segnato il passaggio dall'impresa di grandi dimensioni di stampo fordista, basata sulla standardizzazione dei prodotti e dei processi, alla suddivisione del lavoro tra piccole imprese strettamente interdipendenti e concentrate in un'area definita, che rappresenta un modello di specializzazione di tipo flessibile, in grado di sostituire e superare il modello fordista, ritenuto ormai poco adatto a reagire alla

turbolenza ambientale1.

E' sul territorio che si sono addensati sistemi produttivi che hanno favorito la diffusione della conoscenza, incubato la crescita di molte neoimprese, organizzato filiere di produzione finemente specializzate, alimentato lo sviluppo della professionalità del lavoro, indotto la formazione di servizi e di politiche istituzionali coerenti con le esigenze delle attività produttive locali. La maggior parte delle microimprese presenti e attive nel circuito produttivo non potrebbe sopravvivere in assenza di legami forti con il territorio e le reti di relazione in esso presenti. Sono queste reti che rendono accessibili alle piccole imprese locali le economie di specializzazione e di scala che consentono loro di organizzare processi produttivi moderni, dotate di competenze di qualità e di un mercato di

1

Beccatini G. Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto socio-economico. Stato e mercato, 1989 (p. 111)

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sbocco sufficientemente ampio2.

La chiave che rende possibile l'esistenza di moltissime imprese, che sono piccole e moderne allo stesso tempo, è la loro appartenenza a filiere localizzate, che rendono possibile l'accesso delle imprese a risorse che eccedono il loro ambito strettamente individuale. E' la filiera, infatti, che dando stabilità ai rapporti verticali tra fornitori e i clienti, consente a decine o centinaia di imprese di sommare le idee, le capacità, i capitali, i volumi produttivi che fanno parte della stessa catena produttiva. D'altra parte queste filiere hanno finora trovato un punto di appoggio essenziale nel territorio in cui sono radicate. E' dal territorio di origine che molte di queste imprese hanno, infatti, tratto la loro cultura del fare, le conoscenze tacite, il lavoro qualificato, il tessuto relazionale, i servizi specializzati e l'attenzione istituzionale di cui hanno bisogno per gestire attività che dipendono moltissimo dalla qualità e dalle prestazioni dell'ambiente esterno. Spirito imprenditoriale e capitale sociale si sono, nel territorio, integrati per dar luogo a una forma di produzione decentrata e flessibile, adatta per tutta la serie dei settori produttivi in cui si è specializzato il nostro Paese (il cosiddetto made in Italy).

In tutti questi settori troviamo lo stesso modello produttivo: un gran numero di piccole unità specializzate in compiti e competenze particolari, con un elevato ricambio dal basso (grazie alla continua nascita di nuove imprese); una divisione del lavoro per filiere di fornitori-clienti che aggregano le molecole elementari, talvolta intorno a leader riconosciuti; un addensamento territoriale di imprese e filiere in territori delimitati (alcuni comuni, una provincia, delle aree

interprovinciali) che si specializzano in questa o quella produzione particolare3.

Questi addensamenti territoriali (cluster) prendono la forma di distretti industriali quando, in un certo luogo, prevale una specifica monocultura settoriale (il mobile, la scarpa, la ceramica ecc.). O prendono la forma di sistemi produttivi locali quando, sullo stesso territorio, si addensano filiere e attività di

2 Pilotti, L. I distretti innovativi del Nord Est. Sviluppo&Organizzazione, 1998. 3

Cfr. Lipparini A., Architetture relazionali inter-impresa: promuovere l'innovazione attraversole reti d'impresa.

Sviluppo&Organizzazione, 1996.

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tipo differente, fermo restando il legame di ciascuna di esse con la cultura e i servizi del luogo. Pur in modo spontaneo e poco organizzato, dunque, il territorio ha finora fornito alla nostra economia quelle esternalità materiali e immateriali di cui le imprese hanno bisogno per entrare nel circuito della produzione moderna.

Generalmente in un distretto operano imprese indipendenti, integrate in una rete

di relazione di cooperazione informale e di lungo periodo4. Da questo punto di

vista, il distretto rappresenta indubbiamente un terreno fertile per il sorgere di un sistema reticolare, tenuto conto che si innesta in un tessuto di relazioni preesistenti in aree geograficamente ben delimitate. Quello che non sempre accade è che i rapporti di comunanza geografica si evolvono in rapporti di comunanza gestionale.

Tuttavia, grazie alla maggior interazione sociale, alle comuni radici culturali, alla circolazione agevolata delle competenze e delle conoscenze, i distretti possono costituire degli acceleratori del processo di sviluppo di reti evolute. Le tipologie di relazioni che si instaurano all'interno del distretto dipendono dai comportamenti delle imprese, diversi e variabili in funzione del grado di autonomia con cui sono in grado di formulare la propria strategia competitiva e

del livello di competenze distintive disponibili5.

Dall'incrocio delle variabili individuate (libertà strategica e sviluppo di competenze distintive nelle diverse aree della gestione) emergono quattro diversi

profili di imprese distrettuali6:

4 Cfr. Onida F., Viesti G. e Falzoni A.M., I Distretti industriali: crisi o evoluzione?, Egea, Milano, 1992, pag.19. 5 Cfr. Visconti F., Le condizioni di sviluppo delle imprese operanti nei distretti industriali, Egea, Milano, 1996,

pag.97.

6

Cfr. AIP, Reti d'impresa oltre i distretti, Il sole 24 Ore, 2008.

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Elevata Impresa guida (o leader) Impresa trainata Impresa specializzata Impresa bloccata Limitata Diffuso nelle diverse aree Centrato in una specifica area

Sostanzialmente, le imprese distrettuali si assestano su comportamenti e percorsi di crescita omogenei, scarsamente dinamici e orientati prevalentemente allo sviluppo di competenze nell'area tecnico-produttiva, quando non alla pura imitazione di prodotti e processi produttivi introdotti da altri, fortemente centrati sulla figura dell'imprenditore. Quando quest'ultimo è restio alla crescita dimensionale, la formulazione della strategia si basa su logiche adattive e di contesto, che rendono le singole imprese di per sé deboli e incapaci di esprimere in piena autonomia strategie competitive di medio-lungo termine. E' il caso delle imprese bloccate e delle imprese trainate, specializzate nelle fasi intermedie della filiera produttiva e che agiscono prevalentemente nell'ambito del mercato locale.

Le prime risultano vincolate su una particolare dimensione competitiva:

tipicamente la clientela servita, che induce a focalizzarsi sul mercato locale7.

Le imprese definite trainate presidiano operativamente le funzioni critiche, anche ricorrendo alla rete di fornitori locali, ma come le imprese bloccate assumono un comportamento adattivo-imitativo, soprattutto nei confronti

7 Tipico di piccoli laboratori artigiani impegnati nella produzione di tacchi, suole, stringhe nei distretti

calzaturieri. Cfr. Corbetta G., I ruoli delle imprese di piccole e medie dimensioni, Sistema Impresa n.5, 1993, pp.10-11.

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dell'innovazione di prodotto e di processo8. Pur impegnate a migliorare la qualità dei prodotti e delle risorse impiegate, sostanzialmente la loro strategia competitiva si risolve nello sfruttare le condizioni facilitanti offerte da contesto distrettuale e ad occupare gli spazi di mercato lasciati liberi dai concorrenti.

Da queste imprese si differenziano le imprese specializzate (imprese terziste) focalizzate su specifiche competenze produttive (progettazione e ingegnerizzazione del prodotto), capaci di realizzare, anche avvalendosi di

subfornitori, prodotti finiti, talvolta con marchio proprio9. Si tratta di imprese

che generalmente svolgono internamente più fasi del processo produttivo, orientate allo sviluppo in proprio di innovazioni tecnologiche e di know-how esclusivo, finalizzati al miglioramento dell'efficienza produttiva ma che si

rivelano deboli sul piano commerciale10. Per questo motivo tendono a stringere

legami stretti con le imprese committenti (imprese leader), con la conseguenza che l'autonomia nella formulazione della propria strategia competitiva risulta essere condizionata dal peso che le produzioni in conto di terzi assumono rispetto a quelle realizzate in proprio e con propri marchi.

L'assenza di un'adeguata capacità strategica rappresenta uno dei principali punti di debolezza del sistema distrettuale e secondo alcuni autori rappresenta la

principale minaccia per le prospettive di sviluppo nel medio-lungo periodo11. In

tale prospettiva, è opportuno rilevare che in alcuni distretti emergono alcune imprese di livello superiore (imprese guida), non necessariamente di dimensioni superiori rispetto alle altre, ma maggiormente strutturate e che in genere sono presenti in maniera diretta sui mercati di sbocco, anche internazionali, con

conseguenze tecnologiche ed un maggior potere contrattuale12. Le imprese guida

8 Ad esempio le imprese produttrici dei macchinari per la produzione o per il confezionamento e l'imballaggio o

delle imprese cartotecniche che realizzano le scatole e gli involucri per il confezionamento dei prodotti.

9 Cfr. AIP, Reti d'impresa oltre i distretti, Il Sole 24 Ore, 2008.

10 Cfr. Visconti F., Le condizioni di sviluppo....op. Cit., 1996, pp.104-106.

11 In alcuni distretti la struttura produttiva è data da un elevato numero di piccole e piccolissime imprese

indipendenti, tali che nessuna di esse è in grado di esprimere una leadership e di assurgere a centro strategico di formulazione delle decisioni.

12 Si tratta di aziende, spesso con marchi propri affermati sia sul mercato nazionale che internazionale: dotate di

forte autonomia nell'elaborare le proprie scelte di posizionamento nei mercati di sbocco, in grado di svolgere al proprio interno tutte le fasi del processo produttivo e che hanno sviluppato competenze distintive

soprattutto nella funzione commerciale, che assumono un ruolo di interfaccia tra il mercato e le unità

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accentrano le fasi strategiche del processo produttivo mentre decentrano le fasi puramente tecnico-produttive ad altre imprese (terzisti, laboratori artigiani, lavoranti a domicilio) sia interne che esterne al distretto.

Rilevata la diffusione delle aggregazioni di imprese in ambito locale, il legislatore italiano è intervenuto con finalità di indirizzo in termini di politica pervenendo ad una definizione normativa di distretto industriale.

In particolare, la legge nazionale n.317del 199113 ha riconosciuto giuridicamente

i distretti industriali come sistemi territoriali caratterizzati da un'elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente, e da un'accentuata

specializzazione produttiva dell'insieme delle stesse imprese14. Inoltre affida alle

Regioni l'individuazione di tali aree e prevede che le stesse intervengano nel

finanziamento di progetti innovativi concernenti più imprese15.

I distretti rivestono un ruolo determinante nell'economia del paese, legittimato dalla numerosità delle imprese in esso operanti, dal contributo offerto sul piano dell'occupazione; dalla consistenza dei flussi dell'esportazione dei prodotti made in Italy. L'esperienza italiana è considerata all'estero un utile modello di riferimento per la promozione dello sviluppo locale, tenuto conto della sua efficacia in termini di creazione di posti di lavoro, di apertura di nuovi mercati e di possibilità di riconvertire bacini industriali obsoleti.

operative interne al distretto: traducono i segnali percepiti sul mercato dei prodotti del distretto in ordini-commesse da distribuire fra le imprese del distretto.

13

Cfr. art.36 Legge 317/1991 (Interventi per l'innovazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese), poi modificato dalla Legge 140/1999 (Norme in materia di attività produttive).

14 Il meccanismo di delimitazione dei distretti industriali è basato su un sistema di delimitazione a soglia,

previsto con Decreto del Ministero dell'Industria Commercio e Artigianato 21 Aprile 1993 (determinazione degli indirizzi e dei parametri di riferimento per l'individuazione, da parte delle Regioni, dei distretti industriali). Tale sistema a soglia (che di fatto delimita il fenomeno dei distretti industriali) prevede che, per le aree individuate, si proceda al calcolo dei seguenti indicatori (determinati a livello di sistema locale) e che gli stessi siano superiori a certe soglie rapportate alla media Italia: 1.indice di industrializzazione

manifatturiera: calcolato in termini di quota degli addetti all'industria manifatturiera sul totale delle attività economiche dell'area rapportata all'analoga media nazionale.

15 Perciò, un distretto industriale esiste in quanto sia stato identificato come tale in base alla legislazione

nazionale e vi sia stato un riconoscimento regionale dell'area di riferimento. Al riconoscimento istituzionale del un distretto industriale consegue la possibilità di usufruire degli interventi di sostegno e degli incentivi agli investimenti contemplati dal nostro ordinamento.

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1.2 Il Cambiamento

Realizzare un’organizzazione di successo, competitiva nel lungo termine; potenziare le capacità e le prestazioni; creare un clima organizzativo di alto profilo: questi sono gli obiettivi che ogni impresa si pone.

Occorre saper gestire il cambiamento, quel processo che ci porta a modificare la situazione esistente per diventare l’organizzazione di successo che vorremmo essere. Si tratta spesso di un processo complesso e articolato, che richiede una progettazione radicale del modello organizzativo dell’impresa (business process re-engineering), modificandone il patrimonio genetico in termini di ruoli, meccanismi, leadership, competenze, comportamenti, tecnologie, task, politiche decisionali.

Il cambiamento ha due caratteristiche di fondo:

 è sistematico, ossia non riguarda aspetti specifici (una soluzione circoscritta a una singola area funzionale o a una specifica tecnologia), ma l’impresa nel suo complesso. In particolare, il cambiamento ha come oggetto i processi chiave, interni ed esterni all’impresa, e coinvolge quindi contemporaneamente uomini, tecnologie, metodi e organizzazione;

 è radicale, perché adottare i principi dell’organizzazione di successo (orientamento ai processi, lavoro per progetti e sviluppo delle competenze), ottenere risultati di rilievo o, semplicemente, sopravvivere nell’attuale contesto competitivo, significa andare a toccare il patrimonio genetico dell’impresa, arricchirlo e modificarlo in profondità.

Il termine business process re-engineering (Bpr) viene spesso utilizzato per sottolineare e sintetizzare le caratteristiche di questo tipo di cambiamento, che richiede di agire sui processi aziendali, ripensandoli radicalmente.

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dall’impresa, non è tirato da una richiesta esplicita di un cliente. Il rischio di cadute di attenzione e mancanza di spinta è elevatissimo; soprattutto considerando che nel frattempo l’azienda deve gestire la routine, e quindi i disturbi provenienti dalle attività correnti è inevitabile. Il primo principio è quindi di non sottovalutare le difficoltà del cambiamento organizzativo e operare con metodo.

E’ possibile distinguere nettamente due momenti fondamentali nel processo di cambiamento:

 sviluppo della visione strategica: è il momento in cui viene sviluppata la visione complessiva del cambiamento e si definisce un programma per il raggiungimento della vision, articolato in uno o più progetti di intervento;  progettazione e realizzazione degli interventi: è il momento in cui i singoli

progetti vengono realizzati.

Il cambiamento organizzativo necessario per adottare i principi dell’organizzazione di successo è dunque sistematico e radicale e implica diversi interventi specifici, tra loro fortemente connessi, nonché una profonda assimilazione del nuovo modo di operare in tutta l’organizzazione. Per cui, oltre a cogliere eventuali necessità di innovazione organizzativa, si deve affiancare la sensibilità dell’impresa ai segnali deboli che provengono dal contesto competitivo e dall’organizzazione.

In un contesto in continua evoluzione, non si può pensare che i concorrenti (attuali e potenziali) rimangano fermi.

Una volta deciso di avviare un processo di cambiamento organizzativo, il passo successivo è quello di stabilire la vision, ossia la prefigurazione di quello che l’impresa sarà grazie al cambiamento organizzativo. La vision del cambiamento deve essere definita in termini di target, ossia gli obiettivi di lungo termine che si vogliono raggiungere; modello d’impresa, o i principi di fondo che caratterizzeranno la nuova organizzazione. Si tratta di assimilare e, soprattutto, di adattare all’azienda i principi dell’organizzazione di successo: organizzazione per processi, lavoro per progetti, coinvolgimento del personale. La vision,

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infatti, è specifica di ogni impresa e richiede coerenza rispetto alla missione dell’impresa stessa, alla sua cultura e storia, al settore in cui opera, alle capacità di fondo esistenti e che vanno premiate e, soprattutto, agli obiettivi strategici che si vogliono raggiungere.

E’ necessario pertanto formulare un programma di cambiamento complessivo, che deve definire:

 le aree di intervento, cioè i processi e le parti dell’organizzazione in cui è necessario intervenire e le loro interazioni. A ognuna di queste aree corrisponde un ben determinato progetto di cambiamento;

 le proprietà e i tempi con cui avviare i diversi progetti.

Un principio efficace per la formulazione del programma di cambiamento è seguire un processo di cambiamento articolato su progetti successivi.

I vantaggi di questo modo di operare sono notevoli, infatti:  si semplifica la gestione operativa dei singoli progetti;

 si concentra il focus e l’attenzione manageriale su una singola area, con un maggiore commitment da parte del vertice. Un intervento diffuso su tutta l’organizzazione rischierebbe di ridurre troppo la proporzione tra quanti spingono il cambiamento (generalmente pochi) e quanti vi resistono (generalmente molti), tanto che verrebbe a mancare la massa critica per realizzare il cambiamento stesso;

 con il successo dei primi progetti, si guadagnano il supporto e la fiducia progressiva per i successivi;

 è garantito il raggiungimento di risultati parziali anche nel caso in cui il programma complessivo non arrivi, per motivi vari, a completamento;  i disturbi che il cambiamento induce sulle attività correnti sono limitati

solo a una parte circoscritta dell’organizzazione per volta.

Questo modo di operare, semplificando e rendendo più probabile il successo della successiva realizzazione, richiede tuttavia una maggiore attenzione in fase di impostazione del programma strategico. Occorre definire correttamente le sequenze degli interventi e preparare il terreno per il cambiamento, poiché in

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caso contrario il cambiamento viene percepito dal management e dal personale come un fatto esogeno, come un disturbo, come un’imposizione dall’alto.

Occorre chiarire, a tutta l’organizzazione le motivazioni che inducono a intraprendere un processo di cambiamento, e la vision, cioè gli obiettivi e i principi di fondo della nuova organizzazione.

Occorre destabilizzare il modello organizzativo attuale. Le procedure e i comportamenti ormai consolidati nell’impresa vengono spesso considerati dal personale i più efficaci.

Una volta definito il programma complessivo è possibile avviare i singoli progetti di cambiamento, per ognuno dei quali è necessario: definire il team, progettare la nuova organizzazione, valutare l’intervento, realizzare il cambiamento, istituzionalizzare il cambiamento e, individuare i problemi e le cause di degrado delle prestazioni o le opportunità di miglioramento. Si tratta in pratica di ridisegnare il processo in un’ottica coerente con la vision del cambiamento, a partire dalla problematiche e dalle opportunità di miglioramento individuate. Per quanto riguarda i criteri di ridisegno e miglioramento del processo, questi andranno definiti caso per caso, a seconda del processo in esame, del contesto strategico dell’impresa, del suo settore e della sua cultura, dei suoi valori e dello stato attuale in cui si trova l’organizzazione.

Il nuovo modello organizzativo così sviluppato può facilitare la comunicazione nel team di lavoro, con il team di riferimento, con la committenza e con coloro che poi dovranno realizzare il cambiamento. Anche il nuovo modello organizzativo di riferimento dovrà descrivere la nuova configurazione dell’output, la nuova articolazione in fasi del processo con le relative interdipendenze, gli input richiesti, le risorse (cambiamenti negli skill e nei comportamenti richiesti e nuove tecnologie), le nuove politiche di gestione e le nuove prestazioni richieste.

Il nuovo modello organizzativo progettato sulla carta permette di individuare, prima di passare alla realizzazione operativa, i gap tra la situazione attuale e quella futura. In questo modo è possibile da un lato individuare in anticipo le

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eventuali resistenze e barriere al cambiamento, e dall’altro valutare l’investimento richiesto e la sua fattibilità.

Una volta progettati e condivisi i cambiamenti e analizzati i gap si può procedere con la realizzazione degli interventi: per esempio la messa a punto e l’attivazione di procedure operative, l’applicazione di nuovi metodi gestionali, l’acquisto e l’installazione di sistemi informativi e tecnologie, la formazione del personale.

Anche in questa fase è opportuno procedere con cautela, soprattutto quando il cambiamento da realizzare è profondo e ampio. E’ consigliabile realizzare inizialmente un intervento pilota.

L’intervento pilota è l’applicazione sperimentale del nuovo modello organizzativo a un problema specifico e ben delimitato, Per esempio, se il cambiamento riguarda le modalità di sviluppo dei nuovi prodotti, l’intervento pilota può consistere nell’applicazione delle nuove modalità a un progetto non particolarmente rischioso dal punto di vista tecnologico. Oppure, se il cambiamento riguarda la ristrutturazione del sistema produttivo, l’intervento pilota può essere limitato a una sola linea di produzione o a una sola famiglia di prodotti.

Dopo l’applicazione pilota è possibile procedere alla diffusione complessiva del nuovo modello organizzativo.

Il momento più delicato del processo di cambiamento è quello finale. Infatti è necessario istituzionalizzare il cambiamento, cioè congelare la nuova organizzazione, radicarla nel codice genetico dell’azienda prima che si verifichi una lenta, ma probabile, ricaduta verso i modi di procedere passati.

1.3 Nuove sfide competitive dei distretti

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produttiva: la scomposizione (spaziale e temporale) del ciclo produttivo in fasi di lavorazioni e la specializzazione nell'esecuzione di ciascuna fase produttiva assicurano competitività nei costi, elevati livelli di flessibilità e capacità di innovazione.

In primo luogo, poiché la specializzazione costituisce di fatto il core business di una pluralità di imprese distinte, si ottiene il conseguimento di economie di scala per singole fasi di produzione.

In secondo luogo, la distribuzione della capacità produttiva tra le diverse unità consente di realizzare elevati livelli di flessibilità. Tale flessibilità va intesa sia in termini di capacità di modificare rapidamente i volumi e la qualità delle produzioni sia in termini di possibilità di ricercare nel distretto la risposta più

opportuna tra le capacità produttive diffuse e disponibili16.

Importante è, anche, la prossimità, territoriale e produttiva, delle imprese che favorisce processi di creazione e trasmissione della conoscenza e dell'innovazione. Una delle determinanti del successo dei distretti è data dalla capacità innovativa delle imprese, intesa non tanto come capacità di introdurre innovazioni radicali, mediante investimenti in ricerca e sviluppo, quanto piuttosto come capacità di migliorare i propri prodotti e/o processi e sviluppare la propria tradizione manifatturiera, grazie alla conoscenza del mercato di riferimento, alla padronanza di un materiale o di una tecnica produttiva, alla velocità di circolazione delle informazioni, al contatto interpersonale e all'osservazione diretta, generando processi di apprendimento on the job da parte

della manodopera17.

La dinamica infra-distrettuale fa si che competizione (tra imprese specializzate nella medesima produzione) e cooperazione (tra imprese impegnate in produzioni differenti ma correlate) si trasformino in forze connettive tali da realizzare, a livello di contesto territoriale, quel coordinamento di attività che normalmente caratterizza le organizzazioni strutturate in maniera integrata. Ciò

16

Cfr. AIP, Modelli di crescita delle PMI, Il Sole 24 Ore, 2007.

17 Cfr. Beccatini G., Distretti industriali e made in Italy, Bollati Boringhieri, 1998.

(21)

che favorisce questo coordinamento è la specifica struttura sociale ed economico-produttiva del territorio, che influenza sia le relazioni tra gli attori (individui, famiglie, imprese, istituzioni) sia le direttrici dello sviluppo industriale. Così si creano economie esterne che rendono l'impresa distrettuale diversa nei suoi caratteri e nei suoi comportamenti dall'impresa figlia di altri modelli di sviluppo. Tra le economie esterne che maggiormente hanno contribuito allo sviluppo e al consolidamento dei distretti rientra la peculiare divisione sociale del lavoro, regolata da meccanismi di coesione e scambio sociale, nonché da codici comune di comportamento, che oltre a sviluppare meccanismo di apprendimento collettivo e di riproduzione della conoscenza,

riduce l'incertezza in cui si svolge l'attività economica18. In tal modo, si

ridimensionano i costi delle informazioni legati alle transazioni e si favoriscono

la nascita e la localizzazione di nuove imprese19.

Tali fattori hanno portato, sicuramente, al successo dei distretti industriali in condizioni di domanda crescente, ma si sono rilevati insufficienti nel momento in cui le imprese sono state chiamate a confrontarsi con uno scenario competitivo profondamente mutato dai processi di internazionalizzazione, dall'introduzione di nuove tecnologie, dall'affacciarsi di nuovi competitori e di nuovi fattori critici competitivi quali la qualità e l'innovazione a fronte di quelli

più tradizionali di costo20.

Questo modo di produrre deve oggi, infatti, fronteggiare sfide competitive di grande peso, che rimettono in discussione la sua efficacia e dunque il modello organizzativo che ha preso forma negli ultimi trent'anni. La prima sfida è la

18

Nella teoria economica dei distretti il ruolo delle economie esterne assume un ruolo cruciale. Le origini della nozione di economie esterne si ritrovano nell'opera dell'economista inglese Alfred Marshall, alle cui riflessioni sull'organizzazione produttiva di alcuni agglomerati urbani inglesi dell'Ottocento si deve lo stesso concetto di distretto industriale. L'autore stabilì un nesso tra struttura sociale e comportamento economico, ipotizzando un'interazione tra economie interne (operanti a livello di singola impresa) ed economie esterne, frutto dell'agglomerazione in un contesto territoriale circoscritto, di un sistema produttivo e di un sistema socio-culturale ed istituzionale. Cfr. M. Mistri, Il distretto industriale marshalliano tra cognizione e

istituzione, Carocci Editore, 2006.

19

La possibilità di ricorrere facilmente e con rapidità a forme di subfornitura specializzata contribuisce ad abbassare le barriere all'entrata. Inoltre, la struttura relazionale interna infonde la convinzione che, nel caso l'azienda non riesca a posizionarsi sul mercato, sarà possibile essere riassorbiti da qualche azienda operante nel distretto. Cfr. AIP, Reti d'impresa oltre i distretti, Il Sole 24 Ore, 2008.

20

Cfr. Beccatini G., Capacità innovativa diffusa e sistemi locali di imprese. Modelli locali di sviluppo, Bologna, Il Mulino, 1989.

(22)

globalizzazione che ha due effetti dirompenti sul posizionamento competitivo del capitalismo imprenditoriale diffuso: assegna importanti vantaggi di costo ai Paesi emergenti e, in questo modo, spinge i Paesi ad alto reddito a valorizzare i vantaggi di cui dispongono, o che riescono a realizzare con appropriati investimenti, in altri campi, sfuggendo, con l'innovazione tecnologica o l'investimento sulla qualità, alla morsa della concorrenza di costo; induce ad aprire le filiere locali sia a monte che a valle in modo da poter competere con le

economie di specializzazione e di scala di cui godono i concorrenti globali21.

La seconda grande sfida è la smaterializzazione del valore, nel senso che le fasi che sono in grado di catturare la maggior parte del valore non sono quasi mai quelle della trasformazione materiale (manifattura), ma sono piuttosto quelle dell'ideazione e commercializzazione. Il valore si concentra presso le imprese che controllano la produzione immateriale in termini di innovazione, finanza, design, progettazione, marchi, comunicazione, reti commerciali, servizi.

Questo doppio registro dell'evoluzione in corso deve spostare l'accento della propria organizzazione dal locale al globale e dal materiale all'immateriale.

Per alcuni Paesi questo passaggio avviene principalmente aumentando il peso delle industrie science-based e dei prodotti high-tech, su cui le imprese hanno un vantaggio competitivo consolidato grazie al forte impegno nella ricerca e nell'innovazione tecnologica, sia da parte delle imprese sia delle strutture pubbliche. Per l'Italia questa via è percorribile solo in tempi lunghi. Le imprese italiane possono invece più rapidamente muoversi verso prodotti e servizi che si appoggiano alla qualità, al fashion, alla creazione di significati, di esperienze e di servizi personalizzati che i clienti siano disposti a pagare, essendo competitivi con le proposte alternative presenti nel grande circuito del mercato globale. Prima di tutto, il capitalismo di territorio che conteneva una volta al suo interno le reti (locali) delle relazioni tra gli attori, si dimostra insufficiente da due punti di vista: lo scambio di competenze e di relazioni tra imprese e territorio trova

21Cfr. Beccatini G., Capacità innovativa diffusa e sistemi locali di imprese. Modelli locali di sviluppo, Bologna,

Il Mulino, 1989.

(23)

ormai nel locale un bacino troppo stretto, insufficiente per reperire le risorse localizzate di cui le imprese hanno bisogno per competere. Man mano che le reti locali si allungano fino a diventare reti metropolitane, il sistema locale viene affiancato e sostituito, in funzioni fondamentali dal punto di vista della competitività, da piattaforme territoriali di scala ampia, in cui le imprese trovano servizi di qualità (consulenza, finanza, marketing, design, commercializzazione ecc.) che le accompagnano nella globalizzazione e nella smaterializzazione; le piattaforme territoriali sono punti di arrivo e di partenza di reti che si protendono verso il globale, assumendo la funzione di legare l'economia dei luoghi, che ha i piedi nel territorio, all'economia dei flussi, che invece scambia e pensa in termini ampi, trans-territoriali.

Sempre di più l'impresa deve affiancare il riconoscimento di queste radici con l'esigenza di avere rapporti ed esperienze a scala più estesa, spostando una parte dei suoi interessi e delle sue attività nello spazio metropolitano delle piattaforme e nello spazio globale delle reti lunghe.

Grazie alla presenza attiva di persone e imprese che stanno imparando a muoversi sulla loro scala, le piattaforme territoriali emergenti vengono continuamente riconfigurate. Non solo si crea un tessuto di scambi e di relazioni che infittisce il sistema economico sociale delle aree vaste, corrispondenti alle piattaforme maggiormente frequentate, ma l'architettura di ciascuna piattaforma deve modificarsi giorno per giorno, in modo da rispondere alle esigenze delle reti lunghe che in esse hanno il loro punto di arrivo o di partenza.

Il territorio a scala locale avverte la progressiva perdita di ruolo che la prossimità subisce per il fatto che persone e imprese diventano maggiormente mobili, partecipando a sistemi di produzione e di vita serviti da reti metropolitane e globali. Il locale che consente rapporti stabili e quotidiani tra gruppi di persone fortemente integrate tra loro può avere una chance competitiva importante, se qualifica e specializza le sue attività, spostandole su problemi e su competenze ad alta complessità, tali da richiedere una forte e quotidiana azione di confronto dialogico, di sperimentazione congiunta, di condivisione di idee e

(24)

di rischi. Se queste condizioni sussistono, il locale può proficuamente integrarsi con le dimensioni di livello superiore, cui possono essere delegate funzioni di minore complessità.

D'altra parte, anche le piattaforme di vasta area costituiscono sistemi vulnerabili, nel momento in cui occorre progettare il loro cambiamento, per rispondere a

nuove esigenze competitive delle persone e delle imprese da servire22.

Le imprese si trovano a ridefinire le loro strategie competitive in funzione di questi cambiamenti del contesto esterno, con importanti conseguenze. Prima di tutto, la divisione del lavoro, che prima avveniva all'interno, di filiere localizzate in territori abbastanza ristretti e unici, tende ad aprirsi all'esterno, andando a ricercare fornitori e clienti proiettati nello spazio metropolitano e globale. Il locale comincia a ibridarsi con i livelli territoriali di ordine superiore, creando filiere multilocalizzate, che si appoggiano a unità di produzione, di commercializzazione, di servizio al cliente, distribuite in luoghi diversi, quasi sempre molto lontani tra loro.

Ciò non significa che il territorio diventi irrilevante. Le esternalità in termini di capitale sociale e di conoscenze tacite, assieme ai vantaggi di prossimità, continuano a contare, ma la loro presenza attrae solo alcune fasi e funzioni delle filiere, che cercano altrove luoghi convenienti di localizzazione.

In secondo luogo, la specializzazione dei distretti industriali sta lentamente abbandonando il carattere monosettoriale che caratterizzava in passato, esse si rendono conto del fatto che nel mercato globale, esistono molti altri potenziali usi e molti altri potenziali clienti per ciò che hanno imparato a fare. Le innovazioni diventano dunque trans-settoriali, alimentando produzioni, relazioni e vendite in settori collegati, talvolta merceologicamente o geograficamente lontani, sul territorio della tecnologia, delle macchine, degli

stili di vita, delle risorse commerciali e dei marchi e così via23.

22

Cfr. Albino V., Carbonara, N., Schiuma G. Le strategie di sviluppo dei network locali. Sviluppo&Organizzazione,1998.

23

Albino V., Carbonara N., Schiuma G., Le strategie di sviluppo dei network locali. Sviluppo&Organizzazione, 1998

(25)

Lo sviluppo di reti trans-territoriali e trans-settoriali che modificano la domanda di competenze, servizi e regole rivolta ai territori di insediamento è il motore di questo cambiamento.

Le nuove strategie che le aziende leader stanno seguendo si basa sulla ricerca di soluzioni tecnologiche e organizzative idonee ad assicurare loro il successo nei mercati allargati, attraverso lo sviluppo di reti trans-territoriali e trans-settoriali che, di fatto, stanno ibridando sul territorio di origine la dimensione locale con quella globale e la monocultura tradizionale con una pluralità di rapporti e di competenze che hanno a che fare con altri settori. Ma questa trasformazione modifica anche la domanda che i committenti rivolgono ai loro fornitori locali, ai lavoratori presenti nel mercato locale del lavoro, alle imprese di servizio con cui sono collegati, alle istituzioni che gestiscono le infrastrutture e la regolazione territoriale.

Il cambiamento di paradigma tecnologico e la progressiva riduzione delle barriere commerciali e dei costi di trasporto stanno determinando un mutamento strutturale nei sistemi produttivi mondiali, e la graduale trasformazione dei meccanismi del commercio internazionale. Trasformazione che si concretizza nel passaggio dall’interscambio di beni (trade-in-goods) all’interscambio dei compiti necessari alla produzione di quei beni (trade-in-tasks). La produzione viene cioè riorganizzata lungo catene produttive globali, dette anche catene globali del valore, in cui imprese di Paesi diversi partecipano in successione alla creazione di valore aggiunto. Ogni compito è delocalizzato in funzione dell’efficienza complessiva del processo, laddove risultano minori i costi di produzione e di transazione internazionale. In ogni Paese vi è un’impresa specializzata in un compito preciso, (tipo la ricerca e sviluppo, la produzione in senso stretto, l’assemblaggio o l’offerta di servizi post-vendita), ciascuno svolto meglio che se a occuparsene fosse un’unica impresa multi-funzioni. Il tutto porta, come risultato finale, alla frammentazione geografica della filiera e una maggiore complessità dell’architettura di prodotto.

(26)

valorizzano i collegamenti trasversali e le competenze in campo ideativo, commerciale, organizzativo, informatico, comunicativo, assicurativo, finanziario (e quindi i rapporti con le banche). Dall'altra parte, diventano sempre più rilevanti i rapporti che si riescono ad allacciare con i centri di ricerca e di sviluppo delle conoscenze (università e istituti di ricerca di vario genere), eccellenti nei vari campi, ma non necessariamente localizzati vicini ai centri produttivi che possono utilizzarne il sapere.

Insomma, nei sistemi produttivi locali e nei distretti industriali nel nostro Paese comincia ad essere presente una importante domanda di novità, che nasce dallo sviluppo di reti che, essendo proiettate verso altri luoghi e verso altri settori, funzionano da fattore di ibridazione del tessuto produttivo locale e delle sue matrici di competenza.

E' importante favorire la doppia evoluzione di territori e reti, perchè i due processi si sostengono a vicenda. Le reti transterritoriali hanno, infatti, bisogno che i territori in cui sono presenti diventino luoghi di innovazione, in funzione di progetti condivisi di costruzione del futuro, su cui la collettività locale si impegni a investire e ad assumere i rischi conseguenti. Se nel mercato globale si deve far valere la propria differenza, che rende unica la qualità del prodotto o del servizio fornito, è evidente l'importanza di mantenere vive le radici territoriali di quanto si sa o si sa fare. Il territorio infatti costituisce una fonte di idee, relazioni, professionalità, immagine che rimane comunque difficilmente imitabile da parte di concorrenti che partono da altre premesse o che fanno della mobilità sul grande mercato mondiale la propria arma competitiva.

D'altra parte, è anche vero il contrario: i territori hanno bisogno sempre più di reti trans-settoriali per vendere la propria differenza, usando la potenza di moltiplicatori tipici dell'economia globale di oggi. Se le lavorazioni maggiormente standardizzate e codificate slittano, come è inevitabile, verso i Paesi low cost, le innovazioni di eccellenza, le competenze di nicchia e i servizi personalizzati che rimangono nei Paesi ad alto reddito hanno bisogno, per far rendere gli investimenti fatti in questi campi, di un bacino di uso ampio delle

(27)

conoscenze possedute e impiegate: un bacino che solo reti globali e polisettoriali

possono offrire24.

I territori, innovandosi, possono così appoggiare le imprese nella concorrenza con competitor sempre più agguerriti e le imprese possono a loro volta, appoggiare i sistemi locali in cui operano nella concorrenza globale tra territori che costituisce una sfida di grande portata.

Ma, il rischio, è che il territorio potrebbe vivere come una minaccia la crescente capacità delle imprese di guardare altrove attraverso le reti trans-territoriali e trans-settoriali di cui le aziende più innovative cominciano a disporre; e le imprese possono, a loro volta, considerare un peso i conflitti, i ritardi, le complessità che incontrano quando si tratta di coordinare i loro programmi di innovazione con quelli effettivamente realizzati nel territorio a cui sono primariamente interessate.

Nel nuovo scenario competitivo, i distretti hanno manifestato chiari segnali di crisi in quanto non si tratta più di possedere una particolare capacità di organizzazione della produzione e di saper fare il prodotto, ma di saper controllare i mercati di sbocco, di saper indirizzare i consumatori, di creare lealtà al marchio e, di poter disporre di mezzi finanziari adeguati. Nel corso del tempo i distretti industriali non hanno né saputo nè potuto disporre di queste capacità in quanto sono stati sempre orientati in primis alla produzione, decentrando a terzi le funzioni a contenuto più immateriale, quale marketing, ricerca e sviluppo.

1.4 Le strategie di crescita dell'impresa leader

L'impresa leader nasce, si sviluppa, ridefinisce obiettivi e comportamenti nel

24

Cfr. Albino V., Carbonara N., Schiuma G., Le strategie di sviluppo dei network locali. Sviluppo&Organizzazione, 1998.

(28)

presupposto che progetti e risultati si realizzano in modo efficace per ilo tramite e con l'apporto essenziale di imprese terze. Le imprese terze forniscono apporti diversi di prodotti, di componenti, di conoscenza, di servizio, dotati di valori aggiunti e di progettualità significativi. L'impresa guida è quindi un'impresa che si caratterizza in primo luogo per l'elevato numero di relazioni interaziendali e si colloca al centro di tali relazioni. All'interno dell'impresa guida gli obiettivi, la posizione strategica e il vantaggio rispetto ai concorrenti si realizzano attraverso forme di relazioni forti, di accordi con imprese terze, di assetti organizzativi congruenti.

L'instabilità e l'imprevedibilità dei fenomeni influiscono sul successo dell'impresa. In tal caso, il ricorso a terze imprese dilata i potenziali di scelta di risorse e di competenze a cui fare ricorso e nello stesso tempo riduce gli investimenti necessari. In un terreno competitivo dove conoscenze di mercato e conoscenze tecnologiche sono così disparate non si può fare e sapere tutto, così l'impresa tenta di diventare un punto di riferimento, di convergenza, ha chiara la percezione del rilievo degli apporti di terzi e si pone il problema centrale di creazione di informazioni e di processi di selezione di terzi capaci di convogliare conoscenze utili, quindi di aggregazione per creare nuovi prodotti o per affermare nuovi mercati.

Gli obiettivi e i connotati dell'impresa guida suggeriscono l'esigenza di capacità strategiche distinte nello svolgimento dell'attività.

La prima condizione da soddisfare è quella della ricerca di una posizione baricentrica all'interno del proprio settore o all'interno di una filiera intersettoriale: il baricentro è dato dal territorio dove si realizzano più elevati valori aggiunti ovvero dal territorio dove è più agevole governare le informazioni e influenzare e coordinare la propria attività con quella di terze imprese.

La scelta accurata di tale territorio e la sua difesa sono compiti principali delle imprese che vogliono esercitare un ruolo di primo piano e che, soprattutto, vogliono realizzarlo attraverso gli apporti determinanti di accordi con imprese

(29)

terze25.

Nel tentativo di consolidare la propria posizione competitiva a livello internazionale, le imprese leader distrettuali modificano il loro radicamento con la realtà locale e disallineano i loro comportamenti rispetto a quelli tipici delle imprese distrettuali. Questa trasformazione è il risultato di un processo di apprendimento che comporta una modifica radicale delle mappe cognitive di tali soggetti imprenditoriali, in quanto non è più solo basato sul sito distrettuale, ma attinge anche da siti esterni ai distretti.

Il ruolo strategico svolto dall'impresa guida risiede nella capacità di creare le condizioni di esistenza, crescita e sviluppo delle imprese partner e di consentire loro di differenziarsi in termini di specializzazione, conoscenza, relazioni, professionalità e abilità di innovare. Proprio favorendo e integrando la produzione, la circolazione e l'utilizzazione delle conoscenze, essa assicura maggiore stabilità e controllo e, al tempo stesso, mantiene inalterata l'identità e la tipica coesione sistemica del distretto. Il ruolo trainante delle imprese guida dovrebbe da un lato rafforzare il sistema di relazioni tra imprese e dall'altro garantire il necessario assestamento dei distretti per fronteggiare il loro lento ma costante declino. Per raggiungere questo obiettivo, l'impresa guida non si limita a sviluppare relazioni di tipo informale o accordi contrattuali ma punta ad una gerarchizzazione dei rapporti mediante acquisizione di partecipazioni. Pertanto, si evince una diversa configurazione dei distretti: non più la costellazione di tante piccole imprese autonome legate da relazioni per lo più informali ma la diffusione di gruppi di imprese controllati da un unico soggetto economico che

stabilisce i lineamenti fondamentali delle condotte strategiche26.

Le imprese leader attivano strategie di crescita, seguendo in particolare due percorsi, quello della crescita per linee esterne e quello della crescita per linee

25 Cfr. Lorenzoni G., Accordi, reti e vantaggio competitivo. Le innovazioni nell'economia d'impresa e negli

assetti organizzativi, Estalibri, 1992.

26

La crisi dei distretti industriali ha favorito i processi di costituzione dei gruppi di imprese minori. D'altra parte, le tendenziali difficoltà della formula distrettuale hanno contribuito alla formazione di un mercato di imprese acquisibili, in quanto incapaci di fronteggiare il dinamismo dell'attuale contesto competitivo e, hanno indotto altre aziende a procedere ad acquisizioni con motivazioni di natura strategica allo scopo di attivare sinergie tecnologiche, produttive e commerciali. Cfr. Soda G., Reti tra imprese. Modelli e prospettive per una teoria

del coordinamento, Carocci, 1998.

(30)

interne, che determinano la formazione di nuovi modelli inter e intra organizzativi.

Nel primo caso l'impresa leader resta focalizzata sulle proprie core competencies. In particolare, da un lato, accentra quelle funzioni aziendali che appaiono necessarie a sviluppare il proprio core business e a controllare la filiera produttiva e, dall'altro lato, si rivolge ad imprese esterne per acquisire competenze e input complementari, svolgendo all'interno del network di imprese

ad essa collegate una funzione di coordinamento27. Le modalità con cui

l'impresa leader può intraprendere percorsi di crescita per linee esterne sono

differenti, essa può infatti adottare strategie consortili28 o strategie di filiera.

Nel processo di crescita per vie interne, l'impresa leader, per aumentare il proprio controllo sull'intero processo produttivo e sulle relative competenze o per accrescere la scala dei processi produttivi, attiva un processo di internazionalizzazione. Questo può essere realizzato sia tramite investimenti di ampliamento dell'unità esistente sia attraverso la formazione di veri e propri gruppi industriali. Nel primo caso le lavorazioni che prima erano esternalizzate vengono effettuate all'interno dell'impresa leader, che aumenta notevolmente le sue dimensioni, sia in termini di fatturato che di numero di addetti. Nel secondo caso, l'impresa leader attiva processi di creazione di nuove imprese o di acquisizione, sia orizzontali che verticali, di imprese già esistenti. I gruppi industriali che si vengono a formare si presentano come aggregazioni di imprese che, pur essendo controllate finanziariamente e strategicamente dall'impresa leader, conservano una propria autonomia operativa, un proprio management e, nel caso dei distretti industriali, soprattutto, la propria cultura

industriale e localizzazione spaziale29.

Dal punto di vista strategico, la crescita in forma di gruppo appare stimolata dalla ricerca di elevati livelli di efficienza nell'area produttiva, dalle condizioni

27

Grandori A, Reti inter-organizzative: progettazione e negoziazione, Economia & Management.

28 La formula consortile rappresenta la modalità privilegiata con cui le imprese leader distrettuali, poco propense

alla crescita per linee interne ma disponibili a collaborare con altre imprese tentano di rispondere alle

esigenze di sviluppo di specifiche aree gestionali. Cfr. Gandolfi V., Aree sistema: internazionalizzazione e reti

telematiche, Milano, Franco Angeli, 1988.

29 Cfr. Grandori A, Reti inter-organizzative: progettazione e negoziazione, Economia&Management.

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di autonomia e flessibilità e dall'esigenza di mantenere un legame privilegiato con i collaboratori che hanno competenze critiche per il funzionamento dell'impresa. Tale modalità di crescita rappresenta una delle principali linee evolutive dei comportamenti delle imprese leader operanti nei distretti industriali ed appare più coerente con le caratteristiche specifiche delle imprese distrettuali.

Il processo di crescita dell'impresa leader si traduce in una profonda modifica delle relazioni inter-organizzative caratterizzanti il distretto industriale. Ciò si realizza attraverso due fenomeni principali, uno di natura diretta, legato alle strategie competitive adottate dall'impresa leader e l’altro di natura indiretta, determinato dalla posizione di influenza dell’impresa leader nel distretto. Nel primo caso, l’impresa leader, nel tentativo di migliorare le proprie performance e rafforzare il proprio vantaggio competitivo, attua specifiche politiche di controllo ed orientamento del processo di sviluppo del network di imprese ad essa collegate, determinando così direttamente un processo di ristrutturazione delle relazioni inter-organizzative.

Nel secondo caso, grazie al successo economico, l’impresa leader acquisisce nel distretto una posizione di riferimento, che le conferisce una capacità di influenza sulle scelte strategiche di networking di tutte le altre imprese operanti in conto proprio nel distretto industriale che tendono ad imitare il processo di crescita

adottato dall’impresa leader30.

Quando l’impresa leader adotta strategie di crescita per linee esterne, essa demanda ad imprese esterne altamente specializzate la maggior parte delle produzioni e definisce con queste imprese strette relazioni. In particolare, le relazioni inter-organizzative tra l’impresa leader e le sue subfornitrici hanno come principali obiettivi il decentramento di specialità e lo sviluppo di

innovazioni congiunte.

La forma delle relazioni va dagli accordi contrattuali alla mutua cooperazione.

30

Cfr. Albino V., Carbonara N., Schiuma G., Le strategie di sviluppo dei network locali, Sviluppo&Organizzazione, 1998.

(32)

Nel caso specifico di relazioni finalizzate allo sviluppo congiunto di innovazioni, le imprese leader tendono a definire accordi di mutua cooperazione, formali o informali, stabili nel tempo. Si tratta di relazioni di lungo periodo che richiedono elevati investimenti relazionali specifici, per le quali il coordinamento tra le imprese è garantito da intense interazioni personali e dal mutuo adattamento tra i membri delle organizzazioni che si trasferiscono conoscenza tacita. In tali casi il modo di concepire i rapporti inter-organizzativi è profondamente modificato, infatti, tra l’impresa leader e le imprese terze si viene a realizzare un sistema di relazioni di partnership con lo scopo di operare obiettivi strategici, come se si trattasse di un'unica grande azienda. Si tratta di relazioni proiettate nel lungo termine che presuppongono oltre la gestione integrata anche la cooperazione nella progettazione di nuovi prodotti/tecnologie, investimenti congiunti in R&S e il continuo scambio di informazioni sui prodotti e sui processi.

All’interno del network l’impresa leader assume un ruolo di coordinamento e di interfaccia tra le imprese del network e l’ambiente esterno. Essa, in particolare, gestisce i flussi informativi e coordina le attività delle differenti imprese che intervengono nella realizzazione del prodotto. Ma l’intero network non può funzionare senza la presenza delle imprese periferiche, poiché nell’impresa leader non vengono realizzate quelle attività che sono invece demandate alle

imprese del network31.

Nel caso in cui l’impresa leader segue processi di crescita per linee interne, e cioè tende a realizzare, attraverso investimenti di ampliamento o acquisizioni di imprese, una piena integrazione a monte o a valle, essa, al fine di ottenere un desiderato livello di flessibilità e di differenziazione produttiva, continua a mantenere relazioni inter-organizzative con un piccolo numero di subfornitori selezionati, che risultano formalmente autonomi. Le relazioni con queste imprese sono proiettate nel medio-lungo periodo, prevedono elevati livelli di

31

Lipparini A., Architetture relazionali inter-impresa: promuovere l'innovazione attraverso le reti d'impresa, Sviluppo&Organizzazione, 1996.

(33)

dedica e contratti di esclusività, l’oscillazione dei prezzi sulla base di criteri concordati, garanzie sulla qualità delle subforniture, assenza di scorte, forniture frequenti in piccoli lotti nell’ambito di ordini aperti, consulenza e training dell’impresa committente alle subfornitrici, miglioramento continuo della qualità. Ne consegue che la selezione delle imprese esterne è fatta sulla base di

parametri di qualità, efficienza, capacità manageriali e organizzative32.

L’impresa leader non limita il rapporto al semplice scambio merceologico, ma fornisce alle imprese esterne suggerimenti, incentivi e assistenza al fine di metterle nelle condizioni di realizzare prodotti di qualità. Ad esempio, per quanto riguarda subfornitori e terzisti è frequente, da parte dell’impresa committente, la fornitura di materie prime, componenti, semilavorati e di attrezzature per lavorazioni specifiche, o, in alternativa, di indicazioni sui mercati di approvvigionamento; non mancano anche attività di formazione su particolari ambiti (qualità, tecniche produttive, ecc.), collaborazioni di inizio commessa, visite di controllo.

All’interno del network, costituito sia da imprese controllate attraverso una partecipazione nel capitale sociale che da imprese formalmente autonome, l’impresa leader assume un ruolo di governo gerarchico, di tipo formale o informale.

All’impresa leader è riconosciuta una certa discrezionalità nel riconfigurare gran parte del network di imprese con cui si relaziona e la possibilità di influenzare la sopravvivenza dei propri fornitori e subfornitori, ad esempio tramite la fissazione di regole di selezione delle imprese.

.

32

Cfr. Lipparini A., Architetture relazionali inter-impresa: promuovere l'innovazione attraverso le reti

d'impresa. Sviluppo&Organizzazione, 1996.

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CAPITOLO III

Come far crescere le aziende italiane

3.1 Una strategia forte per far crescere le aziende italiane

Le dimensioni ridotte rappresentano uno dei principali problemi delle imprese del nostro paese. Nonostante tutto si possono spingere le piccole e medie imprese a compiere un salto dimensionale significativo. All’Italia è, innanzi tutto, indispensabile una nuova politica industriale, cioè un insieme di azioni per tradurre in fatti una certa visione del futuro del paese, avendo il coraggio di sostenere alcuni comparti industriali e di lasciarne altri al loro destino. Oltre al sostegno dei settori chiave, è indispensabile incrementare la competitività di tutto il sistema economico-industriale, agendo sulle infrastrutture, la ricerca scientifica e tecnologica e su una serie di limiti. Tutte le strategie devono avere come referente il capitale globale inteso come istituzioni internazionali, banche italiane e straniere, fondazioni bancarie, assicurazioni, fondi azionari di ogni

tipologia33, per spingere il capitale globale a investire maggiormente in Italia.

Per invogliare il capitale globale a investire maggiormente in Italia è necessario un piano chiaro per lo sviluppo di determinati settori e la volontà di far crescere le dimensioni delle piccole e medie imprese dei distretti industriali per continuare a creare valore anche nell’economia globalizzata.

33 Tipo i fondi comuni quotati, hedge fund speculativi, private equity, venture capital. Cfr. Crapelli R., L’Impresa

italiana alla svolta. Strategie di crescita per sedurre il capitale globale e non esserne travolti. Il Sole24Ore,

Milano, Marzo 2004.

(35)

Le scelte di politica industriale servono ad aumentare le dimensioni delle aziende rafforzando alcuni settori, al fine di garantire lo sviluppo economico del paese in una prospettiva di lungo termine. Nell’economia globalizzata, tale rafforzamento può avvenire su scala europea e poi, almeno in prospettiva, su scala mondiale.

L’Italia dovrebbe segmentare i settori nei quali cimentarsi in due gruppi, in base alla rilevanza dei comparti industriali rispetto a variabili come le potenzialità di crescita, il livello di tecnologia, l’interesse nazionale, l’occupazione. Il primo gruppo è composto dai settori su cui scommettere e investire mantenendone la testa in Italia. Il secondo gruppo è formato da settori dei quali ancora non sono certi il ruolo e le potenzialità a livello internazionale. Il primo gruppo comprende settori caratterizzati da una posizione di leadership. Questi settori devono conservare il ponte di comando in Italia e vanno rafforzati promuovendo l’aumento della dimensione delle aziende che li compongono, prima a livello del paese e poi in ambito internazionale. Per quanto riguarda il secondo punto, tra i settori da valorizzare con una strategia di scambio vincente citiamo: telecomunicazioni, assicurazioni, utility, trasporti ferroviari, autostrade, media, servizi per la pubblica amministrazione, automotive. L’informazione deve essere recuperata perché rappresenta sempre di più l’infrastruttura chiave a elevata intensità di capitale umano per la modernizzazione del paese in tutte le sue dimensioni. Tutti i settori appartenenti a tale gruppo in futuro potranno creare valore solo operando con un raggio d’azione almeno europeo.

L’architettura dei distretti industriali italiani è stata una risposta vincente alle esigenze di consolidamento rese evidenti dalla curva dello scontro globale. Ecco perché le piccole e medie imprese vanno spinte ad aggregarsi fra loro. Il made in Italy è un marchio-ombrello di forza enorme, che deve essere messo a frutto da aziende con una dimensione abbastanza grande da ricavarne il massimo valore possibile attraverso investimenti di natura commerciale, pubblicitaria, organizzativa e tecnologica. L’innovazione è il fattore di competitività

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prioritario da perseguire per difendere e sostenere lo sviluppo delle poche grandi aziende che ci rimangono e per far crescere quelle medio-piccole. L’innovazione delle aziende che crescono si manifesta sia nelle scelte strategiche, soprattutto di prodotto, sia nelle soluzioni organizzative.

3.2 Come sfruttare il capitale relazionale per essere competitivi

Le reti d’impresa possano rappresentare, non solo una valida alternativa ai sistemi di aggregazione già presenti nell’ordinamento giuridico, ma soprattutto un sistema più adeguato alle attuali condizioni del mercato e ad una crisi che ha imposto alle imprese di rivoluzionare i propri paradigmi organizzativi.

L’impresa, infatti, è posta davanti alla necessità di ampliare il supporto di risorse immateriali su cui far leva per lo svolgimento efficace ed efficiente dei propri processi, a fronte dell’elevato grado di discontinuità ambientale, unito a un’accelerazione frenetica nei mutamenti socio economici generali. Le attività intangibili sono definiti in parte nelle competenze e nelle procedure/modelli organizzativi interni all’impresa e, in parte, proprio nella qualità e nell’intensità dei rapporti con soggetti esterni. Queste risorse giocano sempre più spesso un ruolo importante nel determinarne il successo competitivo. Per creare risorse intangibili inimitabili, è indispensabile instaurare relazioni con clienti, fornitori, finanziatori ed enti/istituzioni in genere, improntate su una logica di collaborazione. Le risorse relazionali aumentano il valore dell’azienda, andandone a costituire il cosiddetto capitale relazionale, inglobato nel più ampio

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