• Non ci sono risultati.

Il pensiero giuridico di Piero Calamandrei

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il pensiero giuridico di Piero Calamandrei"

Copied!
226
0
0

Testo completo

(1)

« In questo consiste la vita, se vuol essere degna: nell'aiutare gli altri a vivere; nel rinunciare a vivere, se questo può servire a dare agli altri coscienza e dignità di uomini» PIERO CALAMANDREI

(2)

INDICE

1. BIOGRAFIA 5

2. DALLA LUOGOTENENZA ALLA COSTITUZIONE.

IL CONTRIBUTO DI PIERO CALAMANDREI ALL'ASSEMBLEA

COSTITUENTE 20

2.1 Luogotenenza regia. Costituzione provvisoria: il decreto legge

luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151 20

2.2 La Consulta Nazionale 23

2.3 La tregua istituzionale 24

2.4 Referendum sulla forma istituzionale dello Stato: Repubblica o

Monarchia? 25

2.5 Sui limiti dei poteri dell'Assemblea costituente 30 2.6 Organizzazione dei lavori ed approvazione della Costituzione 34 3. LA FORMA DI GOVERNO NEL DIBATTITO DELLA SECONDA

SOTTOCOMMISSIONE.

LA PROPOSTA DI “REPUBBLICA PRESIDENZIALE” DI PIERO

CALAMANDREI 37

4. IL RAPPORTO TRA GOVERNO E MAGISTRATURA.

IL PENSIERO DI CALAMANDREI SULLA INDIPENDENZA DEI

MAGISTRATI 58

4.1 Ingerenze della politica nella giustizia: problemi e soluzioni. 58 4.2 Il Procuratore generale Commissario della giustizia 75

4.3 L'autogoverno della magistratura 76

4.4 Giurisdizione unica 78

4.5 I magistrati ed i partiti politici 82

4.6 Indipendenza del giudice da stimoli egoistici ed indipendenza del giudice e segretezza della decisione in camera di consiglio 85

(3)

5. IL CONTRIBUTO DI CALAMANDREI PER LA LAICITA' DELLO

STATO E PER LA LIBERTA' DELLA SCUOLA 89

5.1 Il dibattito per la libertà religiosa in Italia: i rapporti tra Chiesa cattolica

e Stato nella Costituzione 89

5.2 Indipendenza e sovranità dello Stato e partito confessionale 104

5.3 L'intolleranza religiosa in Italia 113

5.4 Calamandrei e la difesa della scuola democratica 116 6. DIRITTI DI LIBERTA', DIRITTI SOCIALI, NATURA E FUNZIONE

DELLA COSTITUZIONE 135

6.1 Introduzione 135

6.2 I diritti di libertà 137

6.3 Caratteri dei diritti di libertà 139

6.4 Evoluzione storica dei diritti di libertà 140

6.5 La crisi delle libertà politiche 141

6.6 I diritti sociali 143

6.7 Struttura giuridica dei diritti sociali 145

6.8 Calamandrei all'Assemblea costituente: i diritti sociali e la loro difficile

enunciazione normativa. Il ruolo del preambolo 149

6.9 Gli scritti successivi 163

7. IL CONCETTO DI LEGALITÀ 168

7.1 Legge e libertà 168

7.1.1 Libertà morale e libertà politica 168

7.1.2 La certezza del diritto 170

7.2 La legalità in senso formale 172

7.2.1 Formulazione del diritto: giustizia del caso singolo e legalità 172

7.2.2 Divisione dei poteri e legalità 176

7.2.3 La formulazione del diritto negli ordinamenti positivi 178 7.2.4 Sistema della legalità e diritto soggettivo 179 7.2.5 Certezza ed irretroattività delle leggi nel campo penale 180 7.2.6 Critiche al sistema della legalità: a) sulla “irrealtà” delle leggi 181

(4)

7.2.7 b) Sulla “iniquità” delle leggi 182

7.3 La legalità in senso sostanziale 183

7.3.1 La legalità nella formulazione della legge 183 7.3.2 Partecipazione di tutti i cittadini alla formazione della legge 185 7.3.3 L'ideale liberale come limite e complemento dell'idea democratica:

i “diritti di libertà” 187

7.3.4 Critica dei diritti di libertà 189

7.3.5 Il fascismo come regime dell'illegalità 193 7.4 Osservazioni finali sul concetto di legalità: legalità ed uguaglianza 197 7.5 Legalità e giustizia: il richiamo alle leggi di Antigone 199 8. CALAMANDREI ED I PROBLEMI DELLA LEGISLAZIONE

PENALE 206

8.1 Lo stato degli istituti penitenziari ieri ed oggi 206

8.2 Appello contro la pena di morte 215

BIBLIOGRAFIA 221

SITOGRAFIA 225

(5)

1. BIOGRAFIA

Piero Calamandrei nacque a Firenze il 21 aprile del 1889 da Rodolfo Calamandrei e Laudomia Pimpinelli. Dal padre Rodolfo, avvocato e professore universitario di diritto commerciale, ereditò la passione per il diritto, che studiò e praticò con ammirevole chiarezza di pensiero e stile, ma anche un saldo patrimonio d'idealità civili e convinzioni politiche, ed infine il fine gusto letterario e l'amore delle città di campagna e delle città toscane, di Firenze in particolare1.

Scriveva il 14 dicembre 1917 alla moglie Ada Cocci, descrivendo l'addormentarsi di un passerotto: «prima si gonfiò tutto a poco a poco, accorciando il collo e ritraendo la testa a poco a poco tra le piume; poi chiuse un occhio, tenendo aperto l'altro, e dopo qualche istante chiuse anche questo ma riaprì il primo. Poi cominciò a volgere la testa verso destra, pian piano, avvicinando il becco all'ala: e a un tratto, come uno

1 Calamandrei P., Uomini e città della resistenza, introduzione di A. Galante Garrone, Tempi Nuovi Laterza, Roma-Bari, 1977, p. VII

(6)

che si mette il portafoglio nella tasca interna della giacca, nascose la testina sotto l'ala e diventò un batuffolo rotondo, come un piumino da cipria...E poi, mentre stavo a guardare il suo sonno, una delle zampette aggrappate alla spranga trasversale della gabbia si ritrasse in mezzo alle penne, e restò una zampina sola a sorreggere il dormiente, come voluminoso fiore sostenuto da un esile stelo...Unica cosa gentile della mia giornata»2. Ed ancora alla moglie il 1° maggio 1918: «mi sono incantato a sentire giù verso il fiume un immenso gracidare di rane, un concerto di migliaia di voci che riempivano la valle come in un fruscio di mare agitato: e poi, su in alto, ho sentito un usignolo che cantava a gola piena, nonostante le tenebre, anzi più lieto e più agile per le tenebre. Non ho mai sentito usignoli numerosi e armoniosi come quelli che sono ospiti del parco: si son radunati tutti qui, forse per suggerimento avuto dai loro fratelli dei boschetti della Certosa, coll'incarico di consolarmi e di rasserenarmi colla loro musica che mi trasporta lontano...Certo è che mai avevo udito cantare usignoli di notte: e questa voce così limpida, così solare, che si spandeva nel buio mi ha riempito di meraviglia e mi ha fatto fermare in ascolto...»3 Questi sono solo alcuni dei molteplici scritti in cui emerge quel suo poetico gusto del paesaggio, della natura, dei fiori e degli animali, che egli descriveva con precisione e tenerezza. Si laureò in legge a Pisa nel 1912 sotto la guida di Carlo Lessona con il quale discusse una tesi di laurea sulla “chiamata in garanzia” (istituto processuale civile); questo fu il tema dei suoi primi lavori giuridici: una nota, pubblicata nel 1912 su Il Foro italiano, dal titolo Chiamata in garanzia e giurisdizione arbitrale; e il volume La chiamata in garanzia del 1913, un’opera di grande impegno e serietà. In quegli anni maturò la svolta determinante per tutta la successiva attività dello studioso. Recatosi a Roma per perfezionarsi negli studi di diritto processuale civile sotto la guida di Giuseppe Chiovenda, fu ben presto conquistato dall’insegnamento del maestro, di cui, da allora in poi volle professarsi e fu discepolo. I segni del nuovo orientamento sono ben presto evidenti nell’importante saggio su La genesi logica della sentenza civile del 1914.

Nel 1915 fu nominato per concorso professore di procedura civile all'Università di

2 Calamandrei P., Lettere 1915-1956, a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, «La Nuova Italia» Editrice, Firenze, 1968, V. I, p. 109

(7)

Messina; nel 1918 fu chiamato all'Università di Modena, nel 1920 a quella di Siena e nel 1924 alla nuova Facoltà giuridica di Firenze, dove ha tenuto la cattedra di diritto processuale civile fino alla morte4.

Subito dopo avere vinto, giovanissimo, il concorso per una cattedra di diritto civile, partecipò alla Grande Guerra come ufficiale volontario combattente nel 218° reggimento di fanteria. «Calamandrei vi portò, come molti della sua generazione, un ingenuo entusiasmo, un lievito risorgimentale, quell'émpito mazziniano-garibaldino che fu alla base dell'interventismo democratico (…) Era l'istintiva avversione verso la prepotenza tedesca, l'illusione di salvare il bene supremo di una civiltà messa a repentaglio da un imperialismo brutalmente aggressivo, l'idea mazziniana della comune umanità al di sopra delle patrie»5. Ma quell'entusiasmo della guerra del 1915 era destinato a svanire di fronte al terribile orrore delle ecatombi, dell'enorme tragedia abbattutasi sull'Europa. Non mancheranno parole di condanna della guerra e della strage.

Calamandrei era un uomo fatto per la pace. «Passano le giornate una uguale all'altra, meravigliosamente stupide. Mi domandavi», scriveva il 15 novembre 1916 alla

4 http://www.storiaxxisecolo.it/antifascismo/biografie%20antifascisti47.html 5 Calamandrei P., Lettere 1915-1956, cit., V. I, p. VIII

(8)

moglie, «nella tua di ieri l'altro, perché c'è la guerra...Son tanti mesi che me lo domando, e nessuno ha saputo ancora darmi una risposta. Forse la legge che presiede al mondo ha voluto che, come accanto alla luce del sole esiste la tenebra notturna, così vi fosse una cosa orribile come la guerra per far meglio apprezzare agli uomini una cosa meravigliosa com'è l'amore».6

La guerra fu l'occasione per rivelargli alcune delle doti che più tardi brillarono in lui: per esempio quella dell'oratore semplice, schietto, appassionato, appassionante. Nel novembre del 1915, a Maresca, gli toccò di commemorare i soldati caduti in guerra7. E un'altra dote, legata alla prima doveva manifestarsi, quella dell'avvocato: dapprima per caso, poi sempre più spesso, gli capitò di difendere soldati o ufficiali davanti ai tribunali di guerra. «Lo studio minuziosissimo delle carte processuali, pur nella forzata improvvisazione dell'ultima ora, l'intuizione geniale degli argomenti defensionali, il calore dell'umana pietà contro i rigori di una legge spesso dura e ottusa, l'avvincente parola gli permisero di strappare alcune trionfali assoluzioni o, quanto meno, decisivi mitigamenti di pena»8. Fu lì che si convinse di avere nel sangue la vocazione per la professione dell'avvocato.

6 Ivi p. 73 7 Ivi p. XV 8 Ivi p. XVI

(9)

Di fronte all'affermarsi del fascismo non ebbe le esitazione di altri, che poi ne divennero severi oppositori: fu antifascista sin da subito e fu uno dei pochi professori che, durante il ventennio, non ebbe né chiese la tessera continuando a fare parte sempre di movimenti clandestini.

In una lettera inviata nell'agosto 1922 all'amico Dino Provenzal, professore e preside di varie scuole secondarie, carica dalla quale fu sospeso nel periodo delle discriminazioni razziali, Calamandrei si associava ad una manifestazione di solidarietà, di cui si era fatto ispiratore Salvemini, verso l'amico preso di mira dai fascisti, scrivendo parole di sdegno e disgusto «contro questa genia di farabutti politicanti che son la peste del nostro Paese»9.

La violenta fascista, la retorica dello squadrismo non offese il suo senso morale ed estetico, la finezza della cultura, l'umorismo pensoso.

L'assalto fascista allo stato liberale da un lato ed il suo coraggio civile dall'altro gli imposero di alzare la testa dai libri: nel 1920 fu tra i fondatori del “Circolo di cultura

(10)

di Firenze”, una libera palestra di idee, di discussione critica e spregiudicata, deliberatamente aperta alle più varie correnti di pensiero: nella fase di violenza fascista che seguì il delitto Matteotti, il Circolo di Cultura, che aveva preso un orientamento decisamente antifascista, il 31 dicembre del 1924 fu devastato e il suo materiale distrutto. Pochi giorni dopo, con decreto prefettizio del 5 gennaio 1925, il Circolo fu chiuso10. Firmò il “Manifesto degli intellettuali antifascisti” di Benedetto Croce. Collaborò al “Non mollare”, giornale clandestino antifascista.

Le minacce non lo spaventavano: «meglio bastonati che vigliacchi», scriveva in una lettera indirizzata ad un amico. Ma ben presto, gli arresti o l'esilio degli amici, e gli anni della dittatura gli fecero il vuoto ed il silenzio intorno. Anche la corrispondenza epistolare si fece più cauta ma non così tanto da non lasciare trasparire il suo disprezzo verso il regime. Come egli stesso ebbe a dire al processo per l'uccisione dei fratelli Rosselli nel 1945, cominciò per lui, la resistenza «allusiva», accanto a quella eroica degli esuli, degli incarcerati e dei perseguitati: era questo «il compito più oscuro ma altrettanto virile di combattere il fascismo vivendoci in mezzo, di esperimentare il clima della servitù, di sopportare senza scoraggiarsi i contatti disgustosi, di frenare gli scatti e le invettive, pur di non abbandonare la patria dolorante e di rimanere giorno per giorno a contatto col suo popolo oppresso»11. Altro aspetto non irrilevante del suo antifascismo, era la demolizione intelligente ed arguta del regime fascista, l'ironia ed il gusto della battuta corrosiva. Dino Provenzal, che fu in quegli anni uno dei più felici artefici e diffusori delle «storielline» antifasciste che correvano per l'Italia, fu per Calamandrei proprio l'amico giusto per questi sfoghi e battute e frecciatine, mai fini a se stessi, ma che invece sottintendevano un disgusto morale. L'indignazione e la collera si trasformavano in sorriso. Ragioni di cautela consigliavano di riserbare queste «storielle» alla conversazione privata piuttosto che alla corrispondenza, anche se allusioni non mancavano in varie lettere a Provenzal12.

Sentiva crescente, di anno in anno, la malinconia dell'esilio in patria e così scriveva nel maggio 1926 all'amico Dino Provenzal: «Carissimo, la tua lettera, giuntami dopo

10 http://fratellirosselli.fol.it/circolo.asp

11 Calamandrei P., Lettere 1915-1956, cit., V. I, p. XXI 12 Ivi p. XXIII

(11)

tanto silenzio, m'è stata cara come una tua visita; e mi ha trovato in condizioni di salute non perfette. (…) Tornato qui, con Ada e Franco, e ogni giorno facendo un progresso in benessere e in serenità, mi sono accorto che si può sentirsi felici perfino sotto questo «clima» e dimenticare entro questa cerchia «il danno e la vergogna»... Ma – a parte questo mio egoismo di convalescenza – è certo, mio caro, che più malinconia di così non si potrebbe respirare nell'aria. I più cari amici sono lontani o tacciono avviliti: e le persone che conservano ancora il culto della dignità e della fierezza hanno l'impressione di mangiare ogni giorno, in patria, il pane dell'esilio. (…) Un memore abbraccio dal tuo Piero C.»13.

Cercava scampo nel lavoro e nell'amicizia di altri pochi spiriti liberi. In una lettera del 16 novembre 1926 indirizzata all'amico magistrato Guido Raffaelli, vittima di un'aggressione fascista nell'ondata delle spedizioni punitive che seguirono all'attentato Zamboni contro Mussolini, scriveva: «Carissimo, le lettere tua e della tua Signora ci hanno profondamente rattristato, ma non sorpresi, Da tutte le parti udiamo uguali racconti, e viviamo anche noi vicende press'a poco uguali. Ma c'è, in tutto questo buio, una fiamma che ci illumina la strada: la serenità della coscienza, che noi soli abbiamo. Il resto non conta, o conta assai meno: e quello che non ti dico tu intendi»14.

13 Ivi p. 223 14 Ivi p. 225

(12)

Un duro colpo fu per lui la morte del padre, il quale colpito da una grave forma di arteriosclerosi, si suicidò il 6 febbraio 1931. Come già segnalato il padre ebbe su di lui una grande importanza nella formazione culturale, sociale, politica e spirituale di Piero. Gli trasmise il culto del diritto, la chiarezza del pensare e dello scrivere giuridico, la dedizione alla professione. Tante erano le ragioni che legavano il padre al figlio ed è facile comprendere il dolore di quest'ultimo per quella morte repentina e drammatica. Scoprì una profonda somiglianza e quasi un immedesimarsi col genitore, non solo con la sua persona fisica ma col suo stesso modo di essere, pensare, sentire. Nel libro dei ricordi giovanili, Inventario della casa di campagna, del 1941, a proposito del rapporto col padre, scrisse una pagina toccante: «padre e figlio, finché vivono, marciano uno dietro l'altro sullo stesso sentiero, a distanza di una generazione: finché son vivi e camminano, non possono né avvicinarsi né guardarsi in faccia: solo quando il padre si ferma nella morte, la distanza comincia a diminuire. Allora egli si riposa, e si volge indietro ad aspettare il suo figliuolo che sale: e il figlio può finalmente vedere il volto del suo babbo e riconoscersi in lui

(13)

sempre meglio via via che la distanza decresce. Egli si è riposato, e si è voltato indietro ad aspettare. Ora tocca a noi salire e riconoscersi in lui. Se saremo riusciti ad avvicinarsi a lui, non saremo più soli»15. Gli anni che passano trasferiscono nel figlio il timbro di voce del padre, il lungo passo, le sue stesse rughe. In un frammento del 1944 scriveva: «La sensazione che provo è mia o di mio padre? Lo stesso paesaggio, quel nuvolino di lana sul monte turchino, quel falco che al tramonto si getta dalle balze che il sole fa rosee. Il paesaggio è lo stesso: questa emozione è la tua eredità. Mi commuovo, ma sei tu che ti commuovi: io rivivo gli stessi tuoi gesti, le stesse tue predilezioni. Ecco, tu ci sei sempre: questo che io vedo è il paesaggio che ti è caro. -Ci fu un tempo che pensai di sfuggirti: la mia strada, farmi da me. Stolto, non m'ero accorto che tu eri in me, nascosto nel mio sangue, chiuso nei miei nervi, presente nei miei sogni. Paesaggi che tu vedesti e io non vidi son questi che mi vengon nei sogni: i tuoi ricordi, i ricordi dei tuoi antenati. Tutto qui, niente di mio. - Talvolta, quando mi guardo nello specchio, sei tu che mi guardi. Gli occhi mesti... Questa ruga è tua, questa voce è tua. Salgo le scale, tossisco: è la tua voce. Quest'uomo che è in me è mio padre. Tutto si capovolge, tutto si confonde»16.

La persecuzione degli ebrei e le leggi razziali del 1938 gli danno la sensazione di toccare il fondo dell'abisso. Durante le lezioni tenute all'università di Firenze dall'ottobre al dicembre 1944, egli ricordava quale tragico dramma fossero le leggi razziali per ogni giurista cresciuto nel culto del principio di legalità. «Quando si vive, come noi abbiamo vissuto per vent'anni, nell'atmosfera avvelenata di un regime di dittatura, in cui cadono ogni giorno addosso ai sudditi attoniti leggi in contrasto con ogni tradizione di civiltà, di fronte alle quali si ribella il senso di dignità e di umanità di ogni galantuomo (consideriamo, per esempio, le leggi “razziali”), anche il giurista, il cui compito è quello di servire le leggi, interpretandole come sono e non come si vorrebbero, sente a maneggiar queste leggi oppressive lo schifo del contatto immondo e prende in odio per colpa di esse la stessa scienza giuridica»17.

A tal riguardo bisogna dire qualcosa in più: Calamandrei, durante il fascismo, ed in reazione ad esso, sempre difese con coraggio e determinazione il principio di

15 http://www.tommasofiore.it/tommaso-fiore/273-maestri-dimenticati.html 16 Calamandrei P., Lettere 1915-1956, cit., V. I, p. XXVIII

(14)

legalità. Contro l'arbitrio dei governanti, il rispetto della legge, la rigida difesa della certezza di diritto, costituivano una garanzia di libertà ed uguaglianza dei cittadini. Nel 1935 pubblicò L'elogio dei giudici, un libro brillante, nel quale esprimeva la convinzione che per l'uomo di legge, il dovere primario stesse tutto nell'applicazione inflessibile ed ostinata della legge. Ma ad un certo punto erano apparse queste spregevoli e scandalose leggi razziali, che poi delle leggi avevano soltanto l'ipocrisia del nome, mentre in realtà distruggevano i presupposti stessi del nostro ordinamento. «E allora, agli occhi di Calamandrei, anche il principio di legalità cominciò a farsi problematico, nel senso che non sembrava più esaurire senza residui il dovere dell'uomo di leggi»18.

Contro il totalitarismo fascista e poi nazista, la difesa della sola legalità gli appariva sì un dovere, ma che da solo non poteva più appagare il giurista, come si sarebbe potuto credere sin là. «Di fronte a leggi inique come quelle razziali, che, nonostante la loro esteriore parvenza, in realtà erano soltanto il camuffamento di un arbitrio che calpestava i diritti degli uomo e del cittadino, sussisteva ancora il dovere dell'applicazione? A quali condizioni poteva valere quel principio? Non sorgeva forse, al di là del dettato della legge, il problema, fino a quel momento inesplorato, della sua giustizia intrinseca, sostanziale?»19.

Fu da queste tormentanti domande che nacque l'articolo Il nuovo processo civile e la scienza giuridica, apparso all'inizio del 1941 sulla “Rivista di diritto processuale e civile”. Nell'articolo vi era innanzitutto una forte difesa del principio di legalità, significante riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini, garanzia di pace e libertà di ognuno. I singoli, diceva, più che alla giustizia delle leggi sono sensibili alla giustizia e all'uguaglianza della loro applicazione: sono più disposti ad osservare una legge dura, purché persuasi che questa, nelle stesse circostanze, sarà dura per tutti in modo eguale. Affermava che la vera gioia per un giurista era proprio quella di portare in mezzo alla gente, ed in particolare alla povera gente, la convinzione che l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge era una realtà più forte di ogni sopraffazione e prepotenza. Ma questo non era più sufficiente. Il giurista

18 Calamandrei P., Uomini e città della resistenza, cit., p. XII 19 Ibidem

(15)

non poteva più accontentarsi di questa sola fede nella legalità. Gli uomini avevano sete di giustizia e l'applicazione severa della legge non era più sufficiente ad accontentarli se si trattava di leggi ingiuste. Il problema della giustizia divenne centrale nelle sue riflessioni: sottolineava che bisognava distinguere i due concetti di giustizia in senso giuridico, che vuol dire conformità alle leggi, e di giustizia in senso morale, che dovrebbe appartenere a tutti gli uomini civili, quale che sia la loro professione.

Qualche anno dopo, nel 1944, in un corso di lezioni all'università di Firenze appena liberata, sviluppò tali concetti. Le leggi della tirannia non sono che leggi senza anima; nel suo corso distingueva la legalità formale da quella sostanziale, che si ha quando la legge è veramente la libera espressione della volontà dei cittadini; soltanto questa è vera legalità. Il diritto, affermava, deve servire «a spezzare il pane della giustizia fra gli uomini»20. Il giurista non doveva più accontentarsi di un puro rispetto formalistico della legge, ma doveva combattere per la giustizia. Il principio di legalità non era certo da lui rinnegato; ma la sua importanza non gli appariva più decisiva ed imperiosa come un tempo. Il problema fondamentale era quello della giustizia.

Nel 1947, in un discorso pronunciato al primo congresso degli avvocati dell'Italia libera e repubblicana, Calamandrei affermava che non si poteva più credere alla «onnipotenza intrinseca e congenita della legalità» e continuava «Sì, noi siamo i custodi della legalità, la nostra professione mira a difendere le leggi e la loro osservanza, e sta a noi ricordare, in tempi di trasformazione sociale, che una legge cattiva ma fatta onestamente osservare, val meglio di una legge buona che nessuno piglia sul serio. Sì, la legalità è molto, ma non è tutto; l'abbiamo difesa in tempo di disfacimento giuridico, ma non ci basta più. Al di sopra e al di dentro delle leggi scritte, di cui noi siamo i custodi e gli interpreti, ci occorrono quelle leggi non scritte di cui parlava Antigone»21.

Verso la fine degli anni '30, quando Hitler sembrava puntare al dominio dell'Europa e l'Italia fascista si aggiogava al suo carro e le potenze occidentali sembravano

20 Calamandrei P., Lettere 1915-1956, cit., V.I, p. XXXIV

(16)

tergiversare, Calamandrei fu oppresso dal più profondo pessimismo. Lo scoppio della guerra, pur con le disgrazie che questa porta con sé, gli dette però uno spiraglio di speranza. Nel mondo si combatteva per risollevare le sorti della civiltà22.

Nel 1941 aderì a «Giustizia e libertà». Nel 1942 fu tra i fondatori del Partito d'Azione. Nel 1943 venne denunciato da un collega avvocato per uno sfogo antifascista: si rifiutò di scrivere una lettera di smentita, si dimise da professore e si allontanò da Firenze. Caduto Mussolini, il 25 luglio 1943 fu nominato rettore dell'università fiorentina. Ma dopo l'8 settembre fu colpito da un ordine di arresto, cosicché esercitò effettivamente il suo mandato dal settembre 1944, cioè dalla liberazione di Firenze, all'ottobre 194723. Si rifugiò a Montepulciano, e poi, per maggiore sicurezza, a Colcello in Umbria: lì rimase, con la moglie Ada fino all'arrivo degli alleati, nella casa del cognato e della sorella.

In questo forzato esilio, dove a fatica lo raggiunsero le notizie della guerra, della resistenza, delle stragi e della tragica scomparsa di amici e compagni di fede, egli passò otto mesi di solitudine ma allo stesso tempo di maturazione interiore. Unico sfogo, in tali mesi, furono le appassionate letture. Rileggeva Dante, Manzoni, Mazzini, Carducci, Settembrini, De Sanctis e molti altri autori, contemporanei o del passato24. Il suo lavoro di maggiore importanza fu, in questo periodo, l'introduzione a Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. La protesta del Beccaria contro le inutili crudeltà, di cui anche l'Italia, in quel tempo, si era fatta complice, incoraggiava a non demordere, a non perdere la speranza e ritrovare la fede nell'uomo. «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l'uomo cessi di esser persona e diventi cosa». Alla difesa di questo principio Calamandrei dedicò il resto della sua vita25.

22 Ivi p. XV

23 http://www.storiaxxisecolo.it/antifascismo/biografie%20antifascisti47.html 24 Calamandrei P., Uomini e città della resistenza, cit., p. XVI

(17)

Ed ecco, una mattina di giugno, la liberazione, col sopraggiungere degli anglo-americani. «Mi par di udire giù nella valle un rumore cupo di motori: come un fruscio di marea che avanzi. Mi affaccio, e là, allo sbocco della valle verso Sambucetole, vedo una fiamma di polverone, che procede lentamente sulla strada. Un fragore come di piena sale su da quella fiumana: ma anche da più lontano, da altre colonne di polvere che contemporaneamente avanzano su tutte le strade visibili in lontananza... Guardo col binocolo: sì, sì, son loro, son loro finalmente (…). Ecco, dopo otto mesi, son venuti: portano via i tedeschi e il fascismo, come una fiumana purificatrice. Il campanile comincia a suonare a doppio festivo (…). Anche da Avigliano e da Castello le campane ci rispondono»26.

Da Colcello Umbro, Calamandrei raggiunse Roma: e qui la Resistenza, che ancora si combatteva in Italia e in Europa, gli appariva in piena luce. Seguì con attenzione le fasi della battaglia per la liberazione di Firenze dove rientrò in piena notte il 28 agosto 1944: da quel momento per lui cominciò una nuova vita. Dopo lo sconforto

(18)

degli anni passati, era il momento della fiducia: la conferma di ciò fu la fondazione nella primavera del 1945, quando la guerra non era ancora finita, de «Il Ponte», rivista di politica economia e cultura. Nella prima pagina della rivista si trovava scritto che il fascismo ed il nazismo erano stati l'espressione mostruosa dello «spegnersi nelle coscienze della fede dell'uomo»27. Forte era l'impegno che poneva nella preparazione dei numeri della rivista: non si accontentava infatti di dettare le linee direttive ma sceglieva con pignola cura e discuteva gli argomenti da svolgere, predisponeva piani minuziosi, tempestava di richieste e consigli i redattori e collaboratori ed addirittura si preoccupava delle illustrazioni e delle sottocopertine dei fascicoli28.

Come detto fu chiamato all'ufficio di rettore all'università di Firenze: tenne, fin dagli ultimi mesi del 1944, anche un corso di diritto costituzionale. Successivamente ci fu il gran lavoro svolto alla Costituente, la lotta per la Costituzione ed il referendum, l'impegno nel Partito d'Azione; oltre all'insegnamento ed agli studi di diritto processuale ed alla ripresa della professione che pure era una necessità di vita. Fu presidente del Consiglio nazionale forense dal 1946 fino alla morte. Nel 1948 fu deputato per «Unità socialista». Nel 1953 prese parte alla fondazione del movimento di «Unità popolare» assieme a Ferruccio Parri, Tristano Codignola ed altri.

Negli ultimi anni di vita fu oggetto di sciocche, false ed indignanti accuse che lo incolpavano di essere stato «fascista» o di avere «collaborato ai codici fascisti». Lottò contro tali ignobili accuse, in Parlamento, nei tribunali, nelle piazze di tutta Italia, al suo scrittoio. Spesso non riusciva a nascondere ai suoi amici la stanchezza, lo sfinimento, lo sconforto crescente. In una lettera del 9 gennaio 1955 indirizzata a Manara Valgimigli, insegnante di letteratura greca all'università di Messina, Pisa e Padova, poeta e scrittore, scriveva: «Carissimo Manara, prima di tornare a Firenze dopo due settimane di tranquillo lavoro in questo rifugio, ti mando anche a nome di Ada un saluto affettuoso. I tempi non sono belli: e nei momenti di scoraggiamento vien fatto di dire che tutti i nostri ragazzi della Resistenza son morti invano. Ma poi bisogna scacciare queste brutte idee, e tirare avanti, finché c'è un po' di fiato, ognuno

27 Ivi p. XVIII

(19)

come può»29.

Morì a Firenze il 27 settembre 1956.

Fu avvocato, processualista, artefice della Costituzione, parlamentare, erede della migliore tradizione radicale e repubblicana, militante in piccoli partiti sempre in posizione di battaglia, oratore, letterato, poeta, cantore della Resistenza, toscano arguto ed insieme di una serietà religiosa, generosamente buono eppure severo: questo fu Piero Calamandrei, secondo la descrizione di Alessandro Galante Garrone, storico, scrittore e magistrato italiano, militante antifascista durante il ventennio e combattente della Resistenza italiana, considerato uno dei padri fondatori della Repubblica Italiana.

(20)

2. DALLA LUOGOTENENENZA ALLA COSTITUZIONE.

IL CONTRIBUTO DI PIERO CALAMANDREI

ALL'ASSEMBLEA COSTITUENTE.

2.1 Luogotenenza regia. Costituzione provvisoria: il decreto legge luogotenenziale 25 giugno 1944, n.151.

Il 5 giugno 1944, mentre le truppe anglo-americane facevano ingresso in Roma, il re Vittorio Emanuele III, osservando gli accordi presi1, firmò a Ravello il decreto con il quale affidava al figlio Umberto, principe di Piemonte, la luogotenenza generale del Regno2.

Il maresciallo Badoglio (nominato dal re capo del governo il 25 luglio 1943 dopo che il Gran Consiglio del Fascismo votò la sfiducia a Mussolini) si recò a Roma a conferire con il C.N.L.3 il quale espresse la necessità di procedere alla costituzione di un nuovo governo che fosse guidato da un uomo non legato in alcun modo con il fascismo e che il C.N.L. indicò nella persona dello stesso suo presidente. Così accadde: il maresciallo Badoglio si dimise ed il luogotenente l'8 giugno dette l'incarico allo stesso Bonomi di formare il nuovo governo, accettando così, le condizioni poste dal C.N.L.

Ivanoe Bonomi era persona intelligente e colta, ottimo oratore, ricco di buon senso, di vita modesta e tratto affabile; egli riuniva in sé le doti più opportune a tenere uniti i partiti antifascisti nel C.N.L. ed alla vista del paese e del mondo impersonava bene

1 Con un proclama letto alla radio di Bari il 12 aprile 1944 il re Vittorio Emanuele s'impegnò solennemente a ritirarsi “dalla vita pubblica in maniera definitiva e irrevocabile”, ed a nominare il principe ereditario “luogotenente generale” con effetto dal giorno in cui le truppe alleate sarebbero entrate in Roma. La “luogotenenza generale” avrebbe dovuto durare fino a che non potesse essere convocata una Costituente di popolo, sola competente a deliberare la nuova forma dello Stato. Calamandrei P., Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori in Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, Morano Editore, Napoli, 1968, V. 3, p.298

2 Desideri A., Themelly M., Storia e storiografia 3. Il Novecento: dall'età Giolitti ai nostri giorni, Casa Editrice G. D'Anna, Milano, 1997, T. 3, p.1039

3 Comitato di Liberazione Nazionale: nato in Roma il 9 settembre 1943, sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi univa i rappresentanti dei sei partiti antifascisti (liberali, democristiani, democratici del lavoro, partito d'azione, socialisti, comunisti).

(21)

l'onesto patriota italiano, fedele agli ideali di libertà e democrazia tramandati dal Risorgimento4.

Il governo da lui presieduto si costituì, previa approvazione degli alleati, il 18 giugno ed era formato da ministri scelti in pari numero dai sei partiti antifascisti. Parteciparono al governo come ministri senza portafoglio alcune grandi personalità antifasciste: Benedetto Croce (liberale), Alcide De Gasperi (democratico cristiano), Giuseppe Saragat (socialista), Palmiro Togliatti (comunista), Carlo Sforza (indipendente).

Importante, primo atto del nuovo governo, fu il decreto legge lt. 25 giugno 1944 n.151, il quale fu il primo e fondamentale atto di quella ricostruzione costituzionale dalla quale doveva scaturire la Repubblica italiana.

Tale decreto legge fu infatti la “costituzione provvisoria” che doveva reggere e resse l'Italia fino alla convocazione dell'Assemblea costituente5. Ed è per tale motivo che il governo Bonomi venne detto “precostituente”. Quello che si era creato non era un governo che si poneva come continuazione della monarchia statutaria, riuscita a mantenere il suo posto con l'espediente della luogotenenza; si era costituito un nuovo ordinamento che ruppe ogni continuità costituzionale con il vecchio regime.

Questa volontà di radicale rinnovamento costituzionale emerge anche nelle formule del decreto che sia nell'intitolazione che nell'art. 1, assegna alla convocanda assemblea costituente il compito di “deliberare la nuova costituzione dello stato”6-7.

4 Mira G., Salvatorelli L. Storia d'Italia nel periodo fascista, Arnaldo Mondadori Editore, Milano, 1972, Vol. 2

5 Calamandrei P., Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori in Opere giuridiche, V. 3, cit., p. 301

6 Calamandrei P., Costruire la democrazia. Premesse alla costituente. Vallecchi Editore, Firenze, 1995, p. 30

7 Calamandrei per definire la situazione costituzionale in cui si era venuta a trovare l'Italia dopo il decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944 utilizza l'espressione “limbo istituzionale”. Egli afferma che la proclamazione della costituente rispecchia la volontà del popolo di distaccarsi dalle istituzione finora in vigore, una implicita dichiarazione di sfiducia nel vecchio ordinamento. Tuttavia la situazione di fatto in cui l'Italia si trovava al tempo della proclamazione della costituente resero le cose complicate: l'occupazione nemica dell'Italia settentrionale, rendeva di fatto impossibile la convocazione di una costituente in cui tutto il popolo italiano potesse

esprimersi liberamente. Tale decreto dunque, da un lato al popolo italiano il potere di deliberare in un'assemblea costituente la nuova costituzione dello stato, ma dall'altro ha dovuto rimandare al momento successivo alla liberazione del territorio nazionale la effettiva convocazione

dell'assemblea costituente. Ne è sorta, come afferma lo stesso Calamandrei, una specie di costituente a “scoppio ritardato”. Così il popolo italiano è costretto a vivere in un limbo

(22)

Punti essenziali del decreto furono i seguenti:

a) Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato. I modi e le procedure saranno stabiliti con successivo provvedimento. (art 1)8

Dunque, al popolo italiano, senza l'ingerenza della monarchia, veniva rimessa la scelta delle forme costituzionali. La convocazione dell'assemblea costituente era però rimandata “dopo la liberazione del territorio nazionale” e doveva avvenire secondo modi e procedure da stabilirsi con successivo provvedimento.

b) I Ministri e Sottosegretari giurano sul loro onore di esercitare la loro funzione nell'interesse supremo della Nazione e di non compiere, fino alla convocazione dell'Assemblea Costituente, atti che comunque pregiudichino la soluzione della questione istituzionale. (Art 3)9

I ministri, e quindi i sei partiti antifascisti da essi rappresentati, ed anche il luogotenente prendevano l'impegno giuridico di non porre in essere, sino alla convocazione della costituente, atti in pregiudizio della soluzione della questione istituzionale (cosiddetta “tregua istituzionale”)

c) Finché non sarà entrato in funzione il nuovo Parlamento, i provvedimenti aventi forza di legge sono deliberati dal Consiglio dei Ministri. Tali decreti legislativi preveduti nel comma precedente sono sanzionati e promulgati dal Luogotenente Generale del regno con la formula:

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri; Sulla proposta di ...

Abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:...(art4)10

Il potere legislativo era pertanto affidato al Consiglio dei Ministri che lo esercitava mediante “decreti legislativi...sanzionati e promulgati dal luogotenente generale”. Era questo un procedimento di formazione delle leggi del tutto nuovo che non si

legalità desiderata, ma non ancora vivente”.

Ivi p. 29 e sgg.

8 http://www.parlalex.it/pagina.asp?id=2822 9 Ibidem

(23)

ricollegava con il precedente ordine costituzionale posto che tali “decreti legislativi luogotenenziali” non avevano il carattere né di leggi delegate, perché mancava una autorità delegante, né di decreti-legge, perché non era richiesta la sussistenza di speciali ragioni di necessità ed urgenza per la loro emanazione, né tali provvedimenti dovevano essere presentati ad altri organi per la loro conversione in legge.

In questo periodo i partiti svolsero funzioni quasi costituzionali: il governo, sostenuto da essi, svolse al posto del parlamento, la funzione di organo legislativo primario, le cui deliberazioni, con la sanzione e promulgazione del luogotenente, diventavano leggi. Non vi era poi un Parlamento che potesse votare la sfiducia e dunque far cadere il governo. Tuttavia, trattandosi di governo di coalizione, le crisi potevano derivare dai dissensi che potevano insorgere ed insorsero11 tra i vari partiti coalizzati. Si sperava che questo ordinamento “precostituente”, il quale esauriva i suoi compiti nei pochi impegni costituzionali necessari per governare l'Italia, fosse molto breve. Ma purtroppo la guerra durò ancora quasi un anno, ed ancora un anno trascorse prima che la costituente fosse convocata (giugno 1946). E nel tempo di due logoranti anni, questo ordinamento provvisorio rivelò tutte le sue manchevolezze.

2.2 La Consulta Nazionale

L'impossibilità di costituire una rappresentanza popolare con libere elezioni e il protrarsi oltre il previsto di questo ordinamento provvisorio “precostituente”, fece sentire l'opportunità di costituire, in attesa della convocazione dell'Assemblea Costituente, un'assemblea di tipo parlamentare, che benché non elettiva, fosse comunque espressione democratica delle forze politiche e culturali presenti nel paese.

Venne così istituita , con decreto luogotenenziale 5 aprile 1945 n.146 la Consulta Nazionale, che risultò alla fine composta di 430 consultori, nominati dal governo, a) su designazione dei maggiori partiti politici (non solo dei partiti antifascisti componenti il C.N.L., ma anche di altri rimasti fuori del governo)

11 Prima della convocazione della Costituente si ebbero quattro ministeri: il primo min. Bonomi (18 giugno-11 dicembre 1944); il secondo min. Bonomi (12 dicembre-20 giugno 1945); il min. Parri (21 giugno-9 dicembre 1945); in min. De Gasperi (dal 10 dicembre 1945).

(24)

b) fra gli ex parlamentari antifascisti

c) fra gli appartenenti a varie categorie di organizzazioni sindacali, culturali, e di reduci e partigiani.12

La Consulta nazionale era organo con funzioni consultive: dava pareri sui problemi generali e sui provvedimenti legislativi che ad essa sottoponeva il governo. Quest'ultimo aveva l'obbligo di sentirla in varie occasioni: sui progetti di bilancio e sui rendiconti consuntivi, in materie d'imposta e sulle leggi elettorali. Per le altre materie la richiesta era facoltativa. In nessun caso però il parere dato vincolava il governo.

La Consulta iniziò i lavori in seduta plenaria il 25 settembre 1945 e li continuò, in sedute di assemblea o di commissione13, fino alla viglia delle elezioni per la Costituente, chiudendoli con la discussione che si protrasse dal 7 al 9 marzo 1946 sul referendum istituzionale. Pur non potendo essere considerata un parlamento, pur non essendo titolare di poteri vincolanti verso il governo, la Consulta ebbe, per la sua sede di Montecitorio, per l'importanza delle sue discussioni, per il contributo che dette, e nella elaborazione tecnica delle leggi ordinarie di questo periodo, e nella discussione politica dei problemi costituzionali relativi alla preparazione della Costituente, dignità parlamentare.

2.3 La tregua istituzionale

Le manchevolezze dell'ordinamento provvisorio si fecero sentire con più forza specialmente quando, conclusasi la guerra di liberazione, il governo dovette affrontare il problema, sino a quel momento rimandato, di stabilire “i modi e le procedure” dell'Assemblea Costituente (così come chiedeva l'art. 1 del decreto legge lt. 25 giugno 1944 n.151). Fu pertanto costituito un apposito Ministero, detto “Ministero della Costituente”, la cui istituzione fu ritenuta necessaria per predisporre i lavori parlamentari e dare impulso ai necessari provvedimenti legislativi.

12 Calamandrei P., Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori in Opere giuridiche, V. 3, cit., p 304-305

13 La Consulta Nazionale era suddivisa in dieci commissioni, tra le quali venivano ripartite l'esame di ogni materia in relazione all'attività del governo.

(25)

Non appena si dovette tradurre in concreti provvedimenti l'impegno, contenuto nel decreto l. lt. 25 giugno 1944, di convocare un'Assemblea Costituente, si scontrarono due diverse tesi: secondo un primo orientamento, anche dopo la convocazione della Costituente e durante il periodo dei suoi lavori, avrebbe dovuto rimanere al potere il governo provvisorio luogotenenziale; quest'ultimo sarebbe cessato solamente al momento della entrata in vigore della nuova Costituzione deliberata dall'Assemblea Costituente.

L'altra tesi era sostenuta dai rappresentati del partito d'Azione e del partito Repubblicano. Si affermava che, essendo nato il regime luogotenenziale come espressione della “tregua istituzionale”, la quale doveva durare sino alla convocazione dell'Assemblea Costituente, una volta avvenuta tale convocazione, doveva necessariamente avvenire l'allontanamento del luogotenente e la successiva instaurazione di un regime provvisorio assolutamente neutrale ed imparziale. Ciò allo scopo di evitare che durante i lavori dell'Assemblea Costituente il potere politico rimanesse in mano alla monarchia.

2.4 Referendum sulla forma istituzionale dello Stato: Repubblica o Monarchia?

Alla soluzione di questi contrasti provvide il decreto legge luogotenenziale 16 marzo 1946 n. 98 grazie al quale il sistema creato dal decreto l. lt. 25 giugno 1944 n. 151 fu integrato ed anche modificato.

Il decreto l. lt. n. 151/1944 era stato preceduto da lunghe discussioni relative ai provvedimenti da adottare per risolvere il problema istituzionale, una volta che la guerra di liberazione fosse conclusasi. Pur non essendoci incertezze circa il fatto che la decisione dovesse essere rimessa al popolo, vi erano due contrastanti opinioni: l'opinione di chi sosteneva che il popolo dovesse pronunciare direttamente sulla questione istituzionale mediante referendum, e l'opinione di chi invece, sosteneva che come tutti gli altri problemi della nuova Costituzione, anche quello istituzionale fosse demandato alle decisioni dell'Assemblea Costituente eletta dal popolo.

(26)

marzo del 1946 n. 98, si ritornò all'idea del referendum, preferendo quindi che fosse direttamente il popolo italiano a pronunciarsi sul problema della questione istituzionale.

In tal modo si venne a modificare quanto era previsto dal decreto del giugno 1944: la Costituente prevista da tale decreto infatti, doveva essere un'assemblea eletta dal popolo e assolutamente libera di scegliere anche la forma istituzionale; non pertanto una assemblea con poteri limitati chiamata a deliberare le strutture concrete di una forma istituzionale già scelta in anticipo.

Taluni criticarono tale modifica apportata al decreto del 25 giugno 1944 che doveva valere come costituzione provvisoria fino alla convocazione della Costituente. Alle critiche si rispose affermando che così come il decreto del 1944 era fondato sulla necessità, così, sulla necessità, si fondava anche questo nuovo decreto del 1946 che apportava modifiche al precedente.

La soluzione che fu adottata dal decreto l. lt. n. 98 del 1946 fu una soluzione di compromesso: la decisione circa la forma istituzionale da dare allo stato sarebbe stata assunta, mediante referendum, dal popolo direttamente; ma questo doveva svolgersi contemporaneamente alla elezione dell'Assemblea Costituente, la quale sin dal momento del suo nascere avrebbe già trovata risolta dal popolo, la questione istituzionale, monarchia o repubblica. L'Assemblea Costituente avrebbe dovuto limitarsi dunque, nel rispetto della decisione presa dal popolo italiano, a deliberare la nuova Costituzione.

Veniva così risolta quella che era la questione più urgente e cioè quella della forma da dare al governo provvisorio durante i lavori della Costituente. Peraltro l'art. 2 del decreto l. lt. n. 98 del 1996 prevedeva soluzioni differenti a seconda di quello che poteva essere il risultato della votazione referendaria: qualora gli elettori si fossero pronunciati in maggioranza per la monarchia, il regime luogotenenziale avrebbe continuato per tutto il periodo della Costituente sino alla entrata in vigore delle deliberazioni dell'assemblea sulla Costituzione e sul Capo dello Stato;

per il caso in cui la maggioranza degli elettori si fosse pronunciata a favore della Repubblica, a partire dal giorno della proclamazione dei risultati referendari la funzione di Capo provvisorio dello Stato sarebbe stata assunta dal Presidente del

(27)

Consiglio in carica al momento delle elezioni, fino a che l'Assemblea Costituente non avesse nominato, come suo primo atto, il Capo provvisorio dello Stato, destinato a rimanere in carica fino alla definitiva nomina del Capo dello Stato, a norma della Costituzione repubblicana deliberata dall'Assemblea14.

Le disposizione del decreto 16 marzo 1946 n. 98 furono integrate da successivi provvedimenti legislativi. Già il d. l. lt. 10 marzo 1946 n, 74 aveva stabilito le norme per la elezione dei deputati alla Assemblea Costituente, che, in conformità del decreto 25 giugno 1944, doveva avvenire a “suffragio universale, con voto diretto, libero e segreto, attribuito a liste di candidati concorrenti” e con rappresentanza proporzionale. Successivamente, in seguito alla introduzione del referendum, furono apportati alla legge elettorale opportuni ritocchi dal d. l. lt. 23 marzo 1946, n. 219, il quale stabilì che la proclamazione dell'esito del referendum fosse demandata alla Corte di Cassazione. I comizi per il referendum e per la contemporanea elezione dei deputati alla costituente furono convocati per il 2 giugno 1946 (d. l. lt. 16 marzo 1946, n.99)15

I ministri, come rappresentanti dei loro partiti, avevano assunto l'impegno di rispettare tutte queste disposizioni e in particolar modo quelle volte a garantire che la competizione elettorale si svolgesse in condizioni di assoluta libertà; così anche i dipendenti civili e militari dello stato si impegnarono sul loro onore a rispettare e a fare rispettare quello che sarebbe stato l'esito del referendum e le relative decisioni

14 Decreto legge luogotenenziale 16 marzo 1946 n. 98, art. 2: “Qualora la maggioranza degli

elettori votanti si pronunci in favore della Repubblica, l'Assemblea, dopo la sua costituzione, come suo primo atto, eleggerà il Capo provvisorio dello Stato, che eserciterà le sue funzioni, fino a quando sarà nominato il Capo dallo Stato a norma della Costituzione deliberata dall'Assemblea.

(1° comma) Per

l'elezione del Capo provvisorio dello Stato è richiesta la maggioranza dei tre quinti dei membri dell'Assemblea. Se al terzo scrutinio non sarà raggiunta tale maggioranza, basterà la maggioranza assoluta. (2° comma) Avvenuta l'elezione del Capo provvisorio dello Stato, il Governo in carica gli presenterà le sue dimissioni e il Capo provvisorio dello Stato darà l'incarico per la formazione del nuovo Governo. (3° comma) Nella ipotesi prevista dal primo comma, dal giorno della proclamazione dei risultati del referendum e fino alla elezione del Capo provvisorio dello Stato, le relative funzioni saranno esercitate dal Presidente del Consiglio dei Ministri in carica nel giorno delle elezioni. (4° comma) Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della Monarchia, continuerà l'attuale regime Luogotenenziale fino alla entrata in vigore delle deliberazioni dell'Assemblea sulla nuova Costituzione e sul Capo dello Stato” (5° comma)

http://www.prefettura.it/oristano/contenuti/54039.htm

15 Calamandrei P., Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori in Opere giuridiche, V. 3, cit., 310-311

(28)

dell'Assemblea.

Unica violazione a questo generale impegno di lealtà politica fu, il 9 maggio 1946 e quindi a distanza di meno di un mese dal referendum del 2 giugno, la mossa a dir poco singolare, realizzata dal vecchio re Vittorio Emanuele, il quale, nonostante l'impegno assunto con il famoso proclama del 12 aprile 194416, a ritirarsi definitivamente ed irrevocabilmente dalla vita politica, tornò alla ribalta della vita nazionale per compiere il gesto formale di una seconda abdicazione. Questo dette il pretesto al figlio di proclamarsi re con il nome di Umberto II.

Sotto l'aspetto costituzionale, tale manovra si presentava con la parvenza di un colpo di stato: con questa simbolica abdicazione il vecchio re veniva meno all'impegno contratto col proclama dell'aprile 1944, ed allo stesso tempo poneva in essere un atto privo di ogni effetto giuridico, perché la fonte statutaria (art. 2) in virtù della quale la rinuncia del re avrebbe aperto di diritto la successione al trono a favore del principe ereditario17, non aveva più valore nell'ordinamento luogotenenziale che appunto non era fondato sullo Statuto. Il luogotenente poi, proclamandosi, con decisione unilaterale, re in un ordinamento a cui egli aveva accettato di partecipare soltanto come “luogotenente del Regno”, infrangeva il patto che stava alla base di quell'ordinamento provvisorio e che era riconfermato con il decreto l. lt. del 1946 n. 98, da lui firmato, nel quale veniva stabilito che, per il caso in cui nella votazione referendaria la maggioranza degli elettori si fosse espressa a favore della monarchia, doveva continuare anche nel periodo della Costituente, e fino alle deliberazioni di essa sulla Costituzione, il regime luogotenenziale.

Tuttavia l'episodio non valse a salvare la monarchia. Il governo non attribuì alla situazione carattere drammatico e non si oppose a che il luogotenente assumesse nelle ultime settimane di permanenza in carica il titolo di re, e che i decreti uscissero in questo periodo intestati al nome di “Umberto II re d'Italia”, purché senza l'aggiunta della formula tradizionale “per grazia di Dio e per volontà della Nazione”18.

16 Vedi nota 1.

17 Lo Statuto Albertino art. 2: “Lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo. Il trono è

ereditario secondo la legge salica.”

http://www.quirinale.it/qrnw/statico/costituzione/statutoalbertino.htm

(29)

Il 2 giugno 1946 si tennero il referendum istituzionale e le elezioni della assemblea costituente. La maggioranza degli italiani votò in favore della Repubblica. Lo “scarto” non fu travolgente: su 25 milioni di votanti, il 54% scelse la Repubblica, il 46% confermò la sua fiducia nella Monarchia19.

Il referendum confermò quella che era una frattura nel paese: al centro e al nord, più orientati verso la soluzione repubblicana, si contrappose un sud monarchico.

Umberto di Savoia, dopo alcuni tentennamenti, dovette accettare i risultati della consultazione referendaria ed il 13 giugno lasciò l'Italia e volò in esilio.

L'esercizio delle funzioni di Capo dello Stato fu assunto dal Presidente del Consiglio dei Ministri on. Alcide De Gasperi, così come era stato previsto dal decreto 16 marzo 194620.

L'Assemblea Costituente, uscita dal suffragio popolare21, si riunì per la prima volta nel Palazzo di Montecitorio il 25 giugno. Il 28 giugno 1946 l'Assemblea procedette all'elezione del "Capo provvisorio dello Stato" Enrico De Nicola, il quale si insediò pochi giorni dopo, il 1° luglio: in quella data, il Presidente del Consiglio gli trasmise i poteri di Presidente della Repubblica da lui esercitati nel periodo del trapasso. A seguito del risultato del referendum, con la vittoria della Repubblica e la sconfitta della Monarchia, ogni pretesto di continuità tra il nuovo stato e il precedente ordinamento statutario veniva definitivamente troncato.

La dinastia e la Monarchia venivano pertanto espulsi, per sempre, dall'ordinamento

cit., p. 312

19 Desideri A., Themelly M., Storia e storiografia 3. Il Novecento: dall'età Giolitti ai nostri giorni, cit., p. 1041

20 L'art 2 comma 3 del decreto l. lt. 16 marzo 1946 n.98, stabilisce che nel caso in cui, nella votazione referendaria, la maggioranza degli elettori votanti si fosse pronunciata a favore della soluzione repubblicana “dal giorno della proclamazione dei risultati del referendum e fino alla

elezione del Capo provvisorio dello Stato, le relative funzioni saranno esercitate dal Presidente del Consiglio dei Ministri in carica nel giorno delle elezioni”.

21 Come ampiamente detto, il 2 giugno 1946, si votò oltre che per il referendum anche per l'elezione dell'Assemblea Costituente. La maggioranza dei suffragi toccò ai grandi partiti di massa: la Democrazia Cristiana ebbe il 35% dei voti seguito dal Partito socialista che ottenne il 20% dei voti e dal Partito comunista che sfiorò il 19%.

Il Partito liberale, che nei decenni postunitari aveva dominato la scena politica italiana e che, ancora nel 1921 aveva ottenuto il 47% dei voti, si ridusse ad un partito minoritario che raccoglieva poco più del 6% dei suffragi. Il Partito d'azione non toccava l' 1,5% ed il Partito repubblicano otteneva soltanto il 4,4% dei consensi. Il 5,3% dei voti andava a L'Uomo Qualunque, una formazione politica di recentissima costituzione. Desideri A., Themelly M., Storia e storiografia 3. Il Novecento: dall'età Giolitti ai nostri giorni, cit., p.1041

(30)

costituzionale che la costituente si apprestava a costruire.

2.5 Sui limiti dei poteri dell'Assemblea Costituente

L'Assemblea Costituente, appena formatasi, dovette affrontare il problema della delimitazione e disciplina delle sue funzioni. Non si trattava solamente della scelta istituzionale, quest'ultima appunto precedentemente sottratta alla Costituente e rimessa alla decisione popolare mediante referendum, ma si trattava della fondamentale distinzione tra funzione costituente e funzione legislativa ordinaria; ed ancora dei rapporti tra Assemblea e governo; e della durata dei lavori della stessa Assemblea Costituente.

Per quanto riguarda la distinzione tra funzione costituente e funzione legislativa ordinaria, l'opinione di taluni voleva che compito esclusivo della Costituente fosse quello di redigere il testo della nuova Costituzione (ossia un progetto di Costituzione da sottoporre a nuovo referendum popolare), escludendo l'Assemblea da ogni ingerenza nella legislazione ordinaria e da ogni possibilità di sindacato politico sul governo. Si affermava che così l'Assemblea avrebbe potuto lavorare con maggiore tranquillità senza essere turbata dalle difficoltà della funzione governativa, che doveva essere affidata ad altri organi. In tal modo si assicurava, da un lato, che tutti i componenti della Costituente avrebbero concentrato tutte le loro energie intellettuali sulla nuova Costituzione e dall'altro, si evitava che la Costituente, cumulando in sé tutti i poteri dello stato, si servisse della sua onnipotenza per andare oltre il compito istituzionale che le era stato assegnato e si trasformasse in un governo d'assemblea che si spingesse a tentare nel campo della legislazione trasformazioni radicali di carattere economico e sociale22.

A prevalere fu tuttavia la tesi opposta: come espressione della volontà del popolo, la Costituente doveva cumulare in sé tutti i poteri pertinenti alla sovranità popolare: doveva pertanto essere, al tempo stesso, Costituente e Parlamento. Doveva cioè, sia preparare la nuova Costituzione, sia esercitare il suo sindacato politico sull'attività

22 Calamandrei P., Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori in Opere giuridiche, Vol. 3, cit., p. 314

(31)

del governo.

Tuttavia è da dire che, pur essendo, come detto, prevalsa questa seconda tesi, per cui l'Assemblea doveva essere al contempo Costituente e Parlamento, nel periodo di preparazione del decreto l. lt. del marzo 1946 n. 98, si andò alla ricerca di artifici giuridici al fine di regolare in anticipo l'attività della Costituente e di prestabilire un programma dei suoi lavori, in modo da limitarne sia la durata che le attribuzioni. Critiche furono mosse a tale ordine di limitazione: non era ammissibile che venissero imposti dall'esterno limiti ai poteri dell'Assemblea che doveva essere sovrana.

Chiaramente l'Assemblea una volta adunatasi, qualora ciò fosse stato necessario per dedicarsi con maggiore tranquillità alla nuova Costituzione, avrebbe potuto delegare ad altri organi parte dei suoi poteri (quelli attinenti al governo e alle leggi ordinarie). Ma ciò doveva considerarsi lecito, posto che questo sarebbe avvenuto solamente in via di autolimitazione.

Una preventiva delimitazione dei poteri della Costituente non poteva certamente essere stabilita dal governo luogotenenziale per la ragione che, tale governo era privo di diretto potere rappresentativo e le norme da esso predisposte non potevano avere efficacia vincolante dinanzi all'Assemblea che deriva il proprio potere in modo immediato e diretto dal popolo e che dunque riunisce in sé la sovranità statale. La soluzione da ultimo adottata fu quella di prestabilire limiti alla Costituente sovrana mediante un semplice decreto di un governo provvisorio e non rappresentativo, il governo luogotenenziale, che tuttavia solo dalla ratifica della Costituente, eletta dal popolo, avrebbe potuto acquistare retroattivamente valore definitivo di governo legittimo. Per rimediare a questo assurdo giuridico si ritenne che potesse bastare, in luogo della preventiva consultazione popolare, l'approvazione preventiva dei partiti23.

Così, l'Assemblea costituente trovò il suo campo di attività già delimitato: dal risultato referendario (con il quale il popolo risolse il problema della questione istituzionale) e dalle disposizioni del decreto l. lt. 16 marzo 1946, n.98.

I punti principali delle disposizioni del decreto l. lt. 16 marzo del 1946 furono i seguenti:

(32)

a) all'Assemblea Costituente era riservato l'esercizio del potere legislativo in materia costituzionale: tale potere comprendeva ovviamente il potere di redigere la nuova Costituzione della Repubblica italiana ma anche il potere di approvare delle leggi che, pur avendo contenuto oggettivamente costituzionale, dovessero entrare in vigore ancor prima della Carta costituzionale.

b) Si stabiliva che “durante il periodo della Costituente e fino alla convocazione del Parlamento a norma della nuova Costituzione il potere legislativo resta delegato, salva la materia costituzionale, al Governo, ad eccezione delle leggi elettorali e delle leggi di approvazione dei trattati internazionali, le quali saranno deliberate dall'Assemblea. Il governo potrà sottoporre all'esame dell'Assemblea qualunque altro argomento per il quale ritenga opportuna la deliberazione di essa”24.

Quindi, salvo che per quanto attiene alle leggi elettorali e quelle di approvazione dei trattati internazionali, per tutte le altre leggi ordinarie il potere legislativo restava delegato al Governo, quantomeno fino alla convocazione del Parlamento. Ciò non impediva tuttavia al Governo di sottoporre all'Assemblea qualunque argomento, per il quale, il primo, avesse ritenuto opportuna una deliberazione dell'Assemblea. Dunque, quest'ultima, nell'esercizio del potere legislativo aveva competenza originaria solo per talune materie che erano tassativamente indicate (art 3), mentre su tutte le altre materie aveva una competenza non originaria ma, per così dire, derivata, potenziale, la quale poteva divenire attuale ogni qual volta il governo, come stabilito appunto dal decreto, avesse ritenuto di sottoporre all'esame dell'Assemblea taluni importanti argomenti.

c) L'Assemblea esercita il sindacato politico sul governo, il quale è responsabile nei confronti della stessa (art 3 decreto l. lt. 98/1946). Nel caso in cui l'Assemblea voti una apposita mozione di sfiducia, il governo deve dare le sue dimissioni. Tuttavia il rigetto di una proposta governativa da parte dell'Assemblea non porta come conseguenza le dimissioni del Governo.

d)”I provvedimenti legislativi che non siano di competenza dell'Assemblea Costituente ai sensi del primo comma dell'art. 3, deliberati nel periodo ivi indicato,

24 Art 3 del decreto legge luogotenenziale 16 marzo 1946, n.98 http://www.parlalex.it/pagina.asp?id=2823

(33)

devono essere sottoposti a ratifica del nuovo Parlamento entro un anno dalla sua entrata in funzione”25.

Per quanto riguarda la durata dei lavori dell'Assemblea Costituente, l'art. 4 del decreto l. lt. 16 marzo 1946, n.98 affermava: “L´Assemblea Costituente terrà la sua prima riunione in Roma, nel Palazzo di Montecitorio, il ventiduesimo giorno successivo a quello in cui si saranno svolte le elezioni. L´Assemblea è sciolta di diritto il giorno dell'entrata in vigore della nuova Costituzione e comunque non oltre l´ottavo mese dalla sua prima riunione. Essa può prorogare questo termine per non più di quattro mesi”26.

Come detto quindi, l'Assemblea Costituente, si riunì per la prima volta il 25 giugno 1946. Il decreto luogotenenziale aveva ritenuto di limitare la durata dei suoi lavori entro un termine massimo di un anno (e cioè otto mesi, decorrenti dal giorno della prima riunione che potevano essere prorogati di ulteriori quattro in caso di necessità). In realtà tale termine fu superato ben più di una volta: alla scadenza dei primi otto mesi si rese necessaria la proroga di quattro mesi come era previsto dall'art.4 del decreto del marzo 1946, n.98. Ma anche tale ulteriore termine non fu sufficiente all'Assemblea per portare a conclusione il suo compito, tanto che vi fu una nuova proroga, non prevista dal decreto luogotenenziale, fino al 31 dicembre 1947 ed addirittura una terza proroga che fu implicita nell'art. XVII27 delle disposizioni transitorie della Costituzione, in virtù del quale l'Assemblea Costituente rimase in vigore sino alla data del 31 gennaio 1948.

Come afferma Piero Calamandrei, i lavori compiuti dall'Assemblea nei mesi della sua esistenza furono ingenti e dunque sarebbe errato ricercare la motivazione di tale ritardo in una scarsa laboriosità della stessa28. Al contrario le cause di tale ritardo

25 Art 6 del decreto legge luogotenenziale 16 marzo 1946, n.98 http://www.parlalex.it/pagina.asp?id=2823

26 Art 4 del decreto legge luogotenenziale 16 marzo 1946, n.98 http://www.parlalex.it/pagina.asp?id=2823

27 Art. XVII delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione 1° comma: “L'Assemblea

Costituente sarà convocata dal suo Presidente per deliberare, entro il 31 gennaio 1948, sulla legge per la elezione del Senato della Repubblica, sugli statuti regionali speciali e sulla legge della stampa”.

28 Così scriveva P. Calamandrei in un articolo intitolato “Come nasce la Costituzione”: «Così il pubblico è convinto che la preparazione della nuova Costituzione vada a rilento, perché chi dovrebbe occuparsene non ha voglia di lavorare. Non sa, il pubblico, che dei sei mesi (ed anche nei periodi in cui non è riunita l'assemblea plenaria) le commissioni siedono in permanenza senza

(34)

devono essere ricercate sia nel fatto che l'Assemblea cumulava in sé una duplice funzione, essendo titolare della funzione costituente e di quella legislativa ordinaria, sia nel fatto che nell'esercitare la funzione costituente, l'Assemblea non fu chiamata a pronunciarsi su un progetto di costituzione preparato in precedenza dagli uffici del governo, ma dovette pensarlo, studiarlo e prepararlo da sé29.

2.6 Organizzazione dei lavori ed approvazione della Costituzione

Dunque l'Assemblea non ebbe già dinanzi a sé un progetto di Costituzione, su cui discutere, precedentemente preparato da un altro organo ad essa esterno. Infatti l'Assemblea dovette creare all'interno di essa un apposito organo, tecnicamente idoneo a elaborare il disegno di una Costituzione da sottoporre poi, come base per la discussione dinanzi alla Assemblea. Fu così che nella seduta del 15 luglio 1946 l'Assemblea deliberò di affidare la elaborazione della nuova Costituzione ad una Commissione composta di 75 deputati, conosciuta con il nome di Commissione dei 7530. I membri della Commissione furono scelti dal Presidente dell'assemblea sulla base delle designazioni dei vari gruppi parlamentari in modo da garantire la partecipazione al processo costituente della totalità delle forze politiche31.

La Commissione, presieduta dall'on. Ruini iniziò i suoi lavori articolandosi in tre Sottocommissioni.

Ciascuna delle sottocommissioni aveva il compito di elaborare una parte del progetto

rispettare né le otto ore né il riposo festivo; e che, se un rimprovero si può fare a quei valentuomini che le compongono, non è quello della pigrizia e della negligenza, ma caso mai quello del troppo impegno e dell'eccessivo scrupolo di precisione che li ha indotti talvolta a discutere intere giornate, e magari parte della notte, della proprietà di una parola o della collocazione di una virgola».

Come nasce la nuova Costituzione, in Calamandrei P., Scritti e discorsi politici, a cura di Norberto

Bobbio, “La nuova Italia” Editrice, Firenze, 1966, V. 1, T. 1, p.288

29 Calamandrei P., La Costituzione della Repubblica italiana in Opere giuridiche, Vol. 3, cit., p. 236 30 «Fino da principio, si è capito che l'assemblea plenaria, coi suoi componenti e colla solennità

parlamentare delle sue sedute pubbliche, non era un organismo idoneo a studiare il piano della nuova costituzione; ed occorreva affidarne la preparazione, affinché poi l'assemblea potesse discuterlo già redatto, ad una delegazione più ristretta dei suoi componenti, capaci di sedersi intorno ad un tavolino e di intendersi de plano et sine strepitu. É nata così, a tale scopo, la commissione dei settantacinque».

Come nasce la nuova Costituzione, in Calamandrei P., Scritti e discorsi politici, cit., V. 1, T. 1, p. 288-289

31 http://archivio.camera.it/patrimonio/archivi_della_transizione_costituzionale_1944_1948/atc04/do cumento/CD1700000360

Riferimenti

Documenti correlati

Questa consapevolezza era già viva nei giuristi del passato che, con amorevole cura e lungimirante dedizione, ebbero l’idea di raccogliere – sotto la guida di Mauro Cappelletti

La vastità del pensiero dell’insigne giurista fiorentino – che è stato ad un tempo Professore di diritto processuale civile, Rettore dell’Università degli Studi di

l’azione in senso concreto, p. Teorie sull’azione: l’azione in senso astratto, p. Relatività delle teorie sulla azione, p. Distinzioni della giurisdizione per materia, p. Nozione

- si ritiene necessario offrire alle scuole, soprattutto quelle delle aree svantaggiate del Paese, e ai servizi minorili della Giustizia, un idoneo quadro di

Laforgia, Giorgio Bacci, Ada Gigli Marchetti, Elisa Marazzi, Sabrina Fava, Giorgio Montecchi, Elena Surdi, Martino Negri, Massimo Castoldi rileggono e in- terpretano scrittori,

Notoriamente il ruolo della vittima tende ad essere marginalizzato (ad esclusione di alcune tipologie di vittime, scelta legislativa spesso intrisa di istanze

La partita per il momento è stata vinta dalla fazione dei prudenti. Le riflessioni di Francesco Viganò miravano dichiaratamente ad orientare le SS.UU. nella decisione della

In questo studio sul pensiero mafioso, che si pone in continuità con altri lavori (Lo Verso, 1998; Lo Verso et al. 1999; Lo Verso, Lo Coco, 2003; Giorgi et al., 2009), si è scelto di