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Critica dei diritti di libertà

Nel documento Il pensiero giuridico di Piero Calamandrei (pagine 189-193)

LA PROPOSTA DI “REPUBBLICA PRESIDENZIALE” DI PIERO CALAMANDREI.

7. IL CONCETTO DI LEGALITA'

7.3 La legalità in senso sostanziale

7.3.4 Critica dei diritti di libertà

Nello Stato costituzionale si realizza dunque la combinazione di due idee: l'idea liberale (diritti di libertà) e l'idea democratica (sovranità popolare).

«Non vi può essere infatti libertà individuale laddove non vi è democrazia»43 e viceversa, secondo Calamandrei.

Sotto il primo aspetto, la libertà individuale non può avere un pieno riconoscimento giuridico se non dove la legge sia intesa come espressione dell'effettiva partecipazione dei cittadini all'esercizio del potere legislativo. Viceversa non può esservi democrazia laddove non sia garantita la libertà individuale: poiché lo Stato democratico si ha laddove tutti i cittadini possono partecipare alla creazione delle leggi, tale partecipazione potrà dirsi effettiva solo laddove sia riconosciuta ai singoli quel minimo di libertà civili e politiche che gli permettano di dare il proprio contributo per prendere parte alla vita politica dello Stato.

I diritti di libertà sono da considerarsi quindi strumenti di vita politica fatti per stimolare nell'individuo il senso della responsabilità sociale e dell'interesse pubblico. Calamandrei sottolineava come «durante il secolo XIX e fino alla nostra esperienza attuale, l'importanza dei “diritti di libertà” è stata svalutata da opposte polemiche politiche: da correnti autoritarie e reazionarie da un lato e da correnti ultrademocratiche e sociali dall'altro»44.

«La svalutazione dei “diritti di libertà” è stata condotta (…) dalle dottrine e dalle correnti politiche marxiste e materialistiche»45. I diritti di libertà, come ampiamente descritto nel capitolo “Diritti di libertà, diritti sociali, natura e funzione della Costituzione”, furono proclamati dalla rivoluzione francese come strumenti di ribellione del “terzo stato” contro i privilegi dei ceti dominanti dell'ancien régime, non come strumenti volti ad aiutare le classi lavoratrici a risolvere la loro questione: problema quest'ultimo essenzialmente economico, non di libertà dunque ma di sperequazioni economiche.

43 Ibidem 44 Ivi p. 103 45 Ivi p. 110

Dunque per le classi più povere i diritti sociali, che troviamo formulati nelle costituzioni del secolo XIX, possono apparire poco utili: per chi versa in quelle condizioni il problema principale è quello del pane: «l'uguaglianza giuridica dinanzi alle leggi può apparire come un'ironia»46.

Il principio dell'inviolabilità della proprietà privata divenne uno strumento di perpetuazione delle disuguaglianze sociali a favore dei grandi proprietari e contro la moltitudine dei non abbienti.

Il diritto di accedere agli uffici dello Stato, all'alta cultura ed alle professioni libere di fatto non veniva riconosciuto alle classi più disagiate, i cui figli non avevano i mezzi per dedicarsi agli studi.

La libertà di stampa significa assoggettamento della stampa agli interessi dei più ricchi, i soli cioè che si potevano permettere la spesa dei grandi giornali e dunque di dominare con essi la lotta politica.

In poche parole, queste libertà individuali permettevano, non ai poveri, ma ai più abbienti di partecipare attivamente alla vita politica e fare prevalere i loro interessi. Ma Calamandrei evidenziava che questa tendenza socialista a sminuire i diritti di libertà ed a contrapporre all'ideale “borghese” della libertà l'ideale “proletario” della giustizia, può ritenersi superata dalla drammatica esperienza del ventennio fascista. Le classi lavoratrici riacquistarono, sotto la violenta oppressione fascista, il senso del valore della libertà: la questione sociale non era più soltanto una questione di giustizia ma anche e soprattutto di libertà.

Si comprese che per assicurare la dignità morale dell'uomo, non era sufficiente garantirgli un minimo di libertà giuridiche: vivendo in condizione di povertà di esse non avrebbe potuto servirsi. Era pertanto fondamentale assicurargli un minimo di benessere economico, «concepito anch'esso come una garanzia della vita morale del cittadino cioè, in sostanza, come un “diritto di libertà”»47.

L'importanza dei “diritti di libertà” è stata svalutata, come accennato, anche da correnti autoritarie e reazionarie e cioè «da quelle dottrine che portano alle estreme

46 Ibidem 47 Ivi p. 111

conseguenze il principio per cui tutto il diritto deriva dallo Stato: e arrivano, nei più estremisti sostenitori del nazionalsocialismo tedesco, a negare non solo i diritti di libertà verso lo Stato, ma addirittura la nozione stessa di diritto soggettivo individuale»48. Questa dottrina ha avuto attuazione pratica nel totalitarismo fascista. La teoria del totalitarismo è riassunta in una nota formula: «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»49.

Tale formula, nella sua faccia negativa, significa che al di fuori dello Stato niente di umano o spirituale esiste o ha valore. Si nega l'esistenza al di fuori dello Stato di una vita morale individuale: per il fascismo la dignità morale, la libertà spirituale è da considerarsi un dono dello Stato. Non era pensabile quindi una volontà individuale libera, una coscienza morale posta al di fuori dello Stato. Anche la morale è una creazione dello Stato: pertanto morale e diritto diventano un tutt'uno. Non può neanche sorgere il problema del contrasto tra legge giuridica e la giustizia morale, posto che «quello che lo Stato pone come diritto è, per il solo fatto che chi lo pone è lo Stato, volontà morale»50. Quella fascista è una concezione non solamente antiindividualista e antiliberale ma anche anticristiana.

Una volta cancellati quei “diritti di libertà” che sono stati posti a salvaguardia della persona umana dallo Stato legalitario, come confini non oltrepassabili dalla stessa legalità, la legge torna ad essere in ogni campo onnipotente.

Nella sua faccia positiva tale formula significa che lo Stato fascista interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo. Il totalitarismo, dunque, nella sua faccia positiva, si presenta come esaltazione dei valori individuali: ogni individuo trova nello Stato il suo potenziamento. Al di fuori di esso è niente, ma dentro lo Stato l'individuo diventa tutto.

Il totalitarismo è sintesi ed unità di ogni valore, è la messa in valore di tutta la vita del popolo.

Ma attraverso quali sistemi il popolo, nello Stato fascista, concorre a creare il diritto? Il fascismo «nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere la società umana, nega che questo numero possa governare attraverso una

48 Ivi p. 103

49 Calamandrei P., Il fascismo come regime della menzogna, Editori Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 10 50 Ivi p. 11

consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini, che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco, com'è il suffragio universale...».51

Il fascismo contrasta quindi la democrazia che compara il popolo alla maggioranza, abbassandolo al livello dei più. Anche se, marcava con attenzione Calamandrei, lo Stato legalitario non è in alcuno modo basato sull'assurda idea, contro natura, dell'uguaglianza qualitativa di tutti gli uomini, né pretende di fare concorrere tutti i cittadini al governo in eguale misura. Ma crede fermamente, quale miglior metodo per fare emergere le istanze politiche corrispondenti alle diverse forze sociali, che tutti i cittadini debbano avere il diritto di esprimere pubblicamente le proprie idee, di raggrupparsi in partiti e concorrere col voto alla elezione di coloro che dovranno tradurle in leggi.

È quest'ultimo un metodo basato sulla libertà: ma non si può far figurare come un sistema che cerca di opprimere la qualità sotto la quantità livellatrice quello che, al contrario, è fondamentalmente un metodo avente lo scopo di estendere alla «totalità del popolo la ricerca e la educazione della qualità, per dare a tutte le idee e a tutti gli uomini che valgono, in qualunque ceto sociale, la possibilità di rivelarsi e di farsi valere»52.

Quale è il metodo di selezione delle idee e degli uomini proposto dal totalitarismo fascista?

Innanzitutto si ebbe l'abolizione dei partiti a favore di un partito unico, che pretendeva di coincidere con lo Stato. La prima conseguenza di ciò fu l'esclusione dalla vita pubblica di tutti quanti non fossero iscritti al partito fascista. Fu poi abolita la libertà di esprimere opinioni che contrastassero con quelle del regime, la libertà di stampa e di associazione.

Si potrebbe pensare allora che quel confronto di idee che non era più permesso al di fuori del partito fascista fosse ammesso all'interno di esso, che fosse incoraggiato il formarsi di diverse tendenze e la critica politica reciproca, in modo che i vantaggi del sistema liberale fossero messi a profitto entro questa cerchia più limitata: ma niente

51 Ivi p. 13 52 Ivi p. 14

di tutto ciò era permesso. Le divergenze di opinioni e la manifestazione polemica erano tollerate tra fascisti finché riguardavano argomenti di carattere neutro, su cui non si era posato lo «sguardo» del regime.

Abolito il sistema elettorale, nell'interno del partito il conferimento degli uffici veniva sempre fatto «dall'alto»: le assemblee di partito, quando si riunivano, lo facevano non per deliberare o per eleggere un candidato, ma per acclamare una deliberazione o una scelta già fatta dalle gerarchie superiori.

Risalendo di gradino in gradino «la scelta dei migliori era fatta, in ultima istanza, da colui che stava al supremo vertice della gerarchia: da colui che nessuno aveva scelto, e che si era scelto da sé. Ma allora, se le cose stavano così, questo totalitarismo non era altro che despotismo: despotismo di quell'Uno, al quale solo spettava il potere di scelta, sulla schiavitù di tutto un popolo, diviso tra non fascisti condannati a non essere scelti e fascisti condannati ad attendere che l'Uno si degnasse di sceglierli»53.

Nel documento Il pensiero giuridico di Piero Calamandrei (pagine 189-193)