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Il dibattito per la libertà religiosa in Italia: i rapporti tra Chiesa cattolica e Stato nella Costituzione

Nel documento Il pensiero giuridico di Piero Calamandrei (pagine 89-104)

LA PROPOSTA DI “REPUBBLICA PRESIDENZIALE” DI PIERO CALAMANDREI.

5. IL CONTRIBUTO DI CALAMANDREI PER LA LAICITA' DELLO STATO E PER LA LIBERTA' DELLA SCUOLA.

5.1 Il dibattito per la libertà religiosa in Italia: i rapporti tra Chiesa cattolica e Stato nella Costituzione

Non sono molti, nella vastissima bibliografia di Piero Calamandrei, gli scritti espressamente dedicati al problema religioso in Italia e ai temi della laicità dello stato e delle libertà in tema di religione.

Prima di passare ad analizzare le posizioni a tal riguardo sostenute dal giurista fiorentino, è bene soffermarsi brevemente sul concetto di laicità.

E' da dire che l'origine remota della laicità appartiene all'ambito ecclesiastico. Nel greco classico laòs significava popolo, distinto dai klerikòs ossia dai chierici, ecclesiastici. Nelle Chiese dei primi secoli solo ai chierici era consentito l'accesso alla sfera sacra. I laici restavano come sulla porta del tempio dovendo occuparsi delle cose temporali.

Su tale distinzione è stato costruito un modello di laicità inteso come distacco dalla sfera religiosa. Infatti dal punto di vista delle dottrine politiche la laicità separa la sfera politica da quella religiosa. Le istituzioni politiche devono agire come se Dio non ci fosse. Dunque, anche nel campo delle regole, quelle del diritto cominciano a distinguersi da quelle della morale: si inizia a pensare che la legge non proviene da Dio ma dalla volontà del sovrano o del popolo, quando questo è sovrano.

Assistiamo pertanto a quel processo di secolarizzazione che ha riguardato l'occidente e che ha portato al centro della ragione di Stato l'uomo, non Dio.

Il termine laico viene utilizzato con differenti significati: nel tempo ha avuto anche connotazioni negative ed è stato utilizzato per dire “anticlericale”, “antireligioso”. Talvolta invece è stato utilizzato con accenti meno forti che indicavano una sorta di indifferenza verso la religione. Laico e religioso hanno così finito per rappresentare due universi contrapposti. Tale opposizione emerge in particolar modo quando si

tende a definire la sfera religiosa come quella relativa all'appartenenza ad un sistema di idee stabilite a priori ed obbliganti, mentre la sfera laica corrisponderebbe ad un approccio più neutro alle cose, più razionale, più libero.

Tuttavia le cose non stanno in questo modo approssimativo: infatti anche un religioso può essere laico purché accetti di interrogare la propria coscienza di fronte alle scelte che la vita di volta in volta chiama a compiere, senza quindi affidarsi a verità già predefinite. E soprattutto purché non voglia imporre presuntuosamente le proprie idee agli altri, credendo che tutti debbano pensarla come lui. Ogni atto di fede, ogni credenza personale nasce da una inclinazione laica ad interrogarsi liberamente dinanzi alla propria coscienza.

Sulla base di ciò è possibile affermare che anche un religioso può essere laico e laicità e religiosità possono non essere necessariamente in contrapposizione ma possono andare anche d'accordo.

Ma cosa vuol dire laicità in senso giuridico? La Corte costituzionale, dopo avere definito il principio di laicità nella sentenza n. 203 del 1989 come un principio supremo dell'ordinamento costituzionale, è tornata più volte sull'argomento non riuscendo però ad attribuire a questo principio uno spessore giuridico sufficientemente definito. In un primo momento l'ha indicato come espressione del pluralismo culturale e religioso (sent. 203/1989 e 13/1991) innestandolo sull'idea di neutralità dello Stato. Successivamente ha affermato che la laicità non significa indifferenza religiosa ma sostanziale parità di trattamento delle confessioni religiose (sent. 195/1993). In seguito la Corte è tornata a definirla in termini di aconfessionalità dello Stato (sent. 334/1996). L'ha poi ancora interpretata come espressione della neutralità religiosa (sent. 235/1997) che obbliga lo Stato a tenere una posizione di equidistanza da tutte le confessioni religiose (sent. 508/2000). Insomma, lungo un percorso accidentato, è stata raggiunta una definizione minimale di laicità, somigliante ad una semplice conseguenza dell'uguaglianza. Dunque, l'applicazione del principio di laicità impone allo Stato di assumersi il compito di tutelare e promuovere la libera espressione della coscienza di ogni singolo. L'identità laica dello Stato si deve misurare verificando il raggiungimento di tale obbiettivo. Quindi lo Stato può dirsi laico quando dimostra di saper disciplinare i rapporti

giuridici rispettando le diverse etiche individuali e senza favorire alcun principio guida predefinito, ben consapevole del fatto che la libertà religiosa è un diritto incompatibile con provvedimenti discriminatori. La legge dello Stato dovrà quindi imporsi a tutti, siano essi credenti o non credenti, senza offendere la morale ed i sentimenti degli uni o degli altri. Il punto fondamentale della laicità dello Stato riguarda la sua capacità di produrre un diritto laico, ossia libero dal rispetto di ideologie precostituite, dall'asservimento a regole di fede, dalla soggezione ad una o all'altra confessione. La laicità in senso giuridico esige quindi che lo Stato sia da un lato incompetente in materie di verità religiose, ma al tempo stesso garante della libertà religiosa (come di quella areligiosa o irreligiosa); impone allo Stato di essere lontano dalle questioni interne delle confessioni religiose, ma attento a che queste non finiscano col limitare la libertà dei singoli. Uno Stato che si prenda cura dei bisogni delle coscienze, senza pensare in termini di privilegio o discriminatori1. Tornando a Calamandrei, la prima occasione in cui si impegnò per una battaglia a favore di nuovi principi in tema di rapporti tra lo stato italiano e le confessioni religiose, con riferimento particolare alla chiesa cattolica, fu rappresentata dal celebre discorso pronunciato in assemblea costituente, nella seduta del 20 marzo 1947, a proposito della disposizione dell'art. 5 del progetto di Costituzione: la disposizione cioè, che in seguito diverrà il vigente art. 7 della Costituzione e che prevede, con riferimento ai rapporti tra stato e chiesa cattolica, che essi siano

“regolati dai Patti Lateranensi”2.

Il discorso ebbe inizio con una dichiarazione di critica verso l'atteggiamento poco comprensibile tenuto in assemblea costituente dai colleghi comunisti. Dichiarava infatti di essere, insieme al suo partito, contrario all'art. 5 e che per questo motivo avrebbe espresso un voto contrario ad esso ma, proseguiva sarcasticamente, «parrebbe superfluo mettere in evidenza quella che sembra una conseguenza di logica elementare; ma noi lo dichiariamo per distinguerci da quei colleghi

1 Questa breve introduzione sul principio di laicità è tratta dalle pagine del capitolo La Costituzione

repubblicana e la religione del libro Diritto e religione scritto da Pierluigi Consorti che insegna

Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Pisa. Consorti P., Diritto e religione, Editori Laterza, Roma- Bari, 2010, p. 15 e ss.

2 Calamandrei P., Ventidue saggi su un grande maestro, a cura di Paolo Basile, Giuffré editore, Milano, 1990, p. 456

autorevolissimi, i quali sono contrari all'articolo 5 e per questo voteranno a favore»3. Le motivazioni del voto contrario all'art. 5 da parte del gruppo azionista , di cui Calamandrei faceva parte, erano fondate sull'esigenza di sottolineare quello che veniva considerato un errore; «un errore per chi lo ha proposto, un errore per chi lo approverà: errore di carattere giuridico ed errore di carattere storico-politico»4. In particolare la disposizione contenuta nell'attuale comma 1° dell'art. 7, “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, era considerata un errore di carattere giuridico. Calamandrei proponeva di dimostrare che, poiché lo stato è sovrano e non c'era bisogno che la chiesa ne riconoscesse la sovranità, la disposizione era assurda. Affermava che l'art. 5 non era, né per la forma né per la sostanza, un articolo che si poteva trovare in una Carta costituzionale. Tutt'al più poteva essere considerato un articolo di un trattato internazionale; un articolo in cui due enti, che si affermano entrambi sovrani, riconoscono reciprocamente l'altrui sovranità. Ma la Costituzione di cui si discuteva «è l'atto di una sola sovranità: del popolo italiano, della Repubblica italiana»5. In Parlamento non c'era nessuno a rappresentare la Chiesa, affermava Calamandrei; neppure i democristiani che, ricordava, sono stati eletti per rappresentare il popolo italiano e non per rappresentare la Chiesa.

Lo Stato soltanto è sovrano e non vi era necessità che la chiesa ne riconoscesse la sovranità, questo in sintesi era il suo pensiero. Dunque la disposizione era una disposizione singolare, come potrebbe esserlo, diceva, quella che si proponesse di dichiarare che «l'Italia e la Francia sono ciascuna, nel proprio ordine, indipendenti e sovrane»6.

Togliatti cercò di contestare quest'ultima argomentazione di Calamandrei: nella discussione svoltasi sul punto, nella commissione dei 75, aveva osservato che un simile articolo sarebbe inutile, perché l'Italia e la Francia sono entrambi ordinamenti dello stesso ordine. Sarebbe, come Togliatti ebbe a dire, «un vano scambio di

3 Calamandrei P., Scritti e discorsi politici, a cura di Norberto Bobbio, “La nuova Italia” editrice, Firenze, 1966, V. II, p. 49

4 Ibidem 5 Ivi p. 50 6 Ivi p. 51

cortesie» che appunto consisterebbe nel riconoscersi reciprocamente una sovranità relativa a ben distinti territori nazionali. Tuttavia, continuava Togliatti, quando si tratta di stato e chiesa, si tratta di due ordinamenti che vivono in due ordini differenti: appunto perché sono ordinamenti su piani diversi, questo riconoscimento reciproco di sovranità diventava necessario.

Questa attenta argomentazione di Togliatti non convinse però Calamandrei che si chiedeva infatti «in che potrebbe consistere la diversità di piano di questi due ordinamenti»7. Lo Stato si poteva pensare che regolasse il potere temporale, la

Chiesa quello spirituale, osservava. Ma allora, ne concludeva, se questi ordinamenti fossero davvero su piani distinti, in diverse dimensioni, questi non si incontrerebbero mai e non ci sarebbe motivo di conflitto e di collisione: pertanto non ci sarebbe bisogno neanche di reciproco riconoscimento. «In realtà, la ragione per la quale sorge l'opportunità di regolare le relazioni tra questi due ordinamenti è che vi è un terreno sul quale questi due ordinamenti sono tutt'e due della stessa natura, tutti e due dello stesso ordine: di natura temporale, cioè, di natura politica»8, sottolineava.

Era quindi assurdo formulare norme come quelle in discussione, in cui questi due ordinamenti, stato e chiesa, riconoscevano reciprocamente la propria sovranità, perché quando poi ci si troverà su un terreno pratico in cui nascerà il conflitto ed in cui si troveranno nei due ordinamenti norme divergenti e contrastanti, allora si tratterà di capire quali norme debbano prevalere: le norme appartenenti all'ordinamento dello Stato, la cui sovranità è stata riconosciuta dalla chiesa, o le norme dell'ordinamento della chiesa, la cui sovranità è stata riconosciuta dallo stato? L'impegno di Calamandrei in assemblea costituente però si concentrava principalmente sulla opposizione al progetto di richiamare nella Carta costituzionale i patti lateranensi stipulati nel 1929 dal governo fascista. Affermava infatti il secondo comma dell'art. 5 del Progetto che i rapporti tra stato e chiesa cattolica “sono regolati dai Patti lateranensi”.

Si diceva non contrario a che dei Patti lateranensi si facesse un cenno nella Costituzione, al solo scopo, però, di ricordare un evento del passato. A tal fine egli

7 Ivi p. 52 8 Ibidem

aveva proposto che nella Costituzione vi fosse un preambolo, nel quale sommariamente tener conto di quelli che furono gli eventi fondamentali da cui nacque la Repubblica italiana; e tra questi eventi, poteva essere ricordata la soluzione territoriale della questione romana, ottenuta attraverso i Patti lateranensi. Ma si affermava contrario ad un inserimento dei Patti in un articolo della Costituzione: così facendo un accenno storico sarebbe divenuto una norma giuridica e quindi un principio di diritto costituzionale. Egli si proponeva di chiarire le gravi conseguenze di «questa trasformazione di una verità storica in una norma di diritto costituzionale»9.

La prima conseguenza di tale proposta consisteva, secondo Calamandrei, nell'introdurre nella Costituzione una serie di norme non modificabili se non con il consenso di un'altra potenza. Considerava ciò una grave menomazione alla sovranità italiana e chiedeva agli onorevoli colleghi se nel mandato che essi avevano ricevuto dal popolo ci fosse quello di consentire menomazioni e rinunce alla sovranità, che invece si doveva difendere e tenere alta ed intatta nella Costituzione.

«Ma vi è una seconda conseguenza, anche più grave: che, in questo modo, attraverso il richiamo dei Patti lateranensi, si introducono di soppiatto nella Costituzione, mediante rinvio, quelle tali norme occulte, leggibili solo per trasparenza, che saranno in urto con altrettanti articoli palesi della nostra Costituzione, i quali in realtà ne rimarranno screditati e menomati»10. Richiamava dunque l'attenzione dei colleghi

sulla menomazione che i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, della libertà di coscienza, della libertà di insegnamento, della attribuzione esclusiva allo stato della funzione giurisdizionale avrebbero subito per effetto dell'applicazione di molte disposizioni pattizie, coerenti con la logica del regime fascista ma inaccettabili nella prospettiva dei diritti di libertà e di uguaglianza la cui attuazione rappresenta un impegno di ogni ordinamento democratico11. E molti altri, aggiungeva, erano i conflitti che si potevano trovare tra Costituzione e Patti lateranensi: ad esempio la Costituzione aveva abolito i titoli nobiliari mentre il Concordato affermava che «L'Italia ammetterà il riconoscimento, mediante decreto

9 Ivi p. 54 10 Ivi p. 55

reale, dei titoli nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici anche dopo il 1870 e di quelli che saranno conferiti in avvenire»12.

Calamandrei riteneva che i Patti lateranensi realizzassero uno Stato confessionale. Stato confessionale, scriveva in un articolo del giugno 1947, eloquentemente intitolato “Innesto confessionale”, nel quale venivano esaminati gli aspetti teorici e pratici del rapporto tra stato confessionale e stato laico, è da considerarsi quello che ha una propria religione ufficiale; quello in cui la religione, anziché essere un affare privato rimesso alla libera coscienza individuale di ciascun cittadino, diventa un affare di ordine pubblico; quello in cui tra le diverse religioni professate dai cittadini si distingue una “religione di Stato”. Una religione che lo Stato proclama come sua ed alla quale attribuisce prevalenza “giuridica” rispetto alle altre. Quando lo Stato, proseguiva, proclama “religione di Stato” una delle diverse confessioni religiose professate dai cittadini, trasferisce tale religione dalla sfera spirituale alla sfera temporale. Viene attribuita a tale religione una rilevanza di diritto che prima non aveva. Quella che precedentemente era prevalenza spirituale ed interna, diventa prevalenza giuridica ed esterna, coattivamente imposta a tutti i cittadini. «La distinzione tra fedeli ed eretici, dal campo spirituale discende nel campo temporale e diventa distinzione tra privilegiati e tollerati; la diversità di religione diventa diversità di diritti»13 scriveva Calamadrei.

Era così distrutta l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, perché certi diritti venivano riconosciuti soltanto ai cittadini che professavano la religione dello Stato e non ai cittadini che ne professavano altre o non ne professavano alcuna. Uno degli aspetti più inquietanti dello Stato confessionale era dunque, secondo il giurista fiorentino, che certi precetti della religione ufficiale, trasformandosi da precetti religiosi in leggi dello Stato, divenivano obbligatori anche per coloro che professavano una religione diversa o non ne professavano alcuna.

In questo modo lo Stato confessionale giungeva a pregiudicare la libertà religiosa di coloro che non professavano la religione ufficiale. Evidenziava che costoro,«come cittadini, si trovano costretti ad osservare nella legislazione dello Stato norme

12 Calamandrei P., Scritti e discorsi politici, cit., V. II, p. 55 13 Calamandrei P., Scritti e discorsi politici, cit., V. I, T. I, p. 316

giuridiche che, essendo fondate su una religione che non è la loro, turbano e feriscono la loro coscienza di credenti in un'altra fede»14.

Dunque, tornando al discorso pronunciato in assemblea costituente, nella seduta del 20 marzo 1947, Calamandrei intendeva dimostrare ai colleghi onorevoli che lo Stato confessionale era inconciliabile con la tutela della libertà di coscienza; col dare riconoscimento giuridico ad una religione di Stato, e facendo così passare tale religione dal campo spirituale a quello temporale, inevitabilmente si ponevano coloro che professavano la religione dello Stato in una condizione di privilegio e favore giuridico, ed in condizioni di inferiorità e di menomazione giuridica gli appartenenti alle altre religioni retrocesse al grado di religioni tollerate.

E per dimostrare la inconciliabilità tra Stato confessionale e libertà di coscienza, citava le parole pronunciate dallo stesso pontefice: papa Pio XI infatti, per rispondere a certi discorsi fatti a commento dei Patti lateranensi, scrisse una lettera al Cardinale Segretario di Stato in cui affermava fra l'altro: «Anche meno ammissibile sembra che si sia voluto assicurare incolume ed intatta l'assoluta libertà di coscienza. Tanto varrebbe dire allora che la creatura non è soggetta al Creatore, tanto varrebbe legittimare ogni formazione, o piuttosto deformazione, delle coscienze anche più criminose e socialmente disastrose. Se si vuol dire che la coscienza sfugge ai poteri dello Stato, se si intende riconoscere, come si riconosce, che, in fatto di coscienza, competente è la Chiesa ed essa sola, in forza del mandato divino, viene con ciò stesso riconosciuto che, in uno Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione debbono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica»15. Proprio il Pontefice con le sue parole consacrava la inconciliabilità tra Stato confessionale e libertà di coscienza.

Una cosa è lo stato confessionale, altro è lo stato religioso, diceva Calamandrei richiamando le parole del suo amico democristiano Giorgio La Pira. Stato religioso però non è un concetto giuridico; è quello Stato in cui la religione rimane fuori dal campo giuridico, in cui vi è una religione prevalente di fatto, professata cioè dalla maggior parte dei cittadini; ma in cui la prevalenza di fatto non è imposta o garantita

14 Ibidem

colla legge.

Il pregiudizio alla libertà di coscienza si ha quando la prevalenza di fatto di una religione si trasforma in prevalenza di diritto, giuridica. Allora, ribadiva il giurista fiorentino, lo stato religioso si trasforma in stato confessionale.

Rivolgendosi ai colleghi democristiani, provocatoriamente chiedeva se essi preferivano scegliere lo Stato democratico coi diritti di libertà, tra cui la libertà di coscienza, o scegliere lo Stato confessionale senza, però, il rispetto di tali diritti. Nel primo caso occorreva cancellare l'art. 5 dal progetto di Costituzione. Nel secondo caso si sarebbe rinunciato alla libertà di coscienza compiendo così un'azione contraria alla Costituzione, al suo stesso fondamento ed allo stato democratico che ha come compito essenziale la difesa dei diritti di libertà dei cittadini.

Nella conclusione del suo discorso esaminava la tesi sostenuta dai rappresentanti del partito democristiano secondo cui il richiamo dei Patti lateranensi nella Costituzione era giustificato dall'esigenza di garantire la pace religiosa. Egli credeva invece che in Italia la pace religiosa ci fosse al di là dei Patti lateranensi e della loro menzione nella Costituzione. La pace religiosa, affermava, «c'è, perché è nello spirito, nei cuori; perché è diffusa nella coscienza del popolo»16.

Il 25 marzo 1947 l'assemblea costituente approvò la norma in discussione17, quello cioè che divenne l'attuale art. 7 della Costituzione il quale dichiara che “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.

Sul problema della discussione e del voto riguardanti l'art. 7 della Costituzione, Calamandrei ritornò con un articolo pubblicato nel maggio 1947 sulla rivista “Il Ponte”.

Nell'articolo intitolato “Storia segreta di una discussione e di un voto”, era messa innanzitutto in evidenza la composizione della prima sottocommissione chiamata a discutere la formula dell'art. 5.

16 Ivi p. 62

17 L'art. 7 della Costituzione fu approvato il 25 marzo 1947 con 350 voti favorevoli e 149 voti contrari (i voti contrari furono dati dai socialisti del PSI e del PSLI, dagli azionisti, dai repubblicani, dai demolaburisti e quattro liberali.

La prima sottocommissione era composta in tutto da 18 deputati. Proprio in vista della discussione sulla questione scottante, la democrazia cristiana aveva abilmente concentrato in essa i suoi rappresentanti più abili e qualificati per destrezza parlamentare, come il presidente della stessa sotto-commissione avvocato Tupini, i professori Dossetti, La Pira, Moro e Caristia, noti per dottrina giuridica e fervore religioso e gli avvocati Corsanego e Merlin.

Di fronte a questo compatto gruppo di democristiani (sette su diciotto con il vantaggio del presidente) i comunisti erano soltanto tre: Marchesi, Togliatti e la deputatessa Iotti. Pochi ma buoni li definiva Calamandrei.

Gli altri otto appartenevano a tutti gli altri partiti: i socialisti Amadei, Basso e

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