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Calamandrei e la difesa della scuola democratica

Nel documento Il pensiero giuridico di Piero Calamandrei (pagine 116-135)

LA PROPOSTA DI “REPUBBLICA PRESIDENZIALE” DI PIERO CALAMANDREI.

5. IL CONTRIBUTO DI CALAMANDREI PER LA LAICITA' DELLO STATO E PER LA LIBERTA' DELLA SCUOLA.

5.4 Calamandrei e la difesa della scuola democratica

Se dovessimo cercare il filo conduttore di tanti scritti ed interventi di Piero Calamandrei potremmo individuarlo nella difesa del principio d'uguaglianza di tutti i cittadini: così in materia religiosa, dove, come visto, si batteva per il rispetto della libertà religiosa e dunque per l'uguale trattamento di tutti gli appartenenti ai diversi culti religiosi; in tema d'istruzione poi, lottò contro quello che chiamava il privilegio dell'istruzione, conseguenza del privilegio della ricchezza, e cioè la possibilità concessa a pochi fortunati di frequentare le scuole e dunque di accedere alla cultura, affinché a tutti i cittadini fossero rese ugualmente accessibili le vie dell'istruzione. Tra gli interventi di Calamandrei sui temi della scuola, della cultura, dell'insegnamento e delle libertà dei cittadini, occorre innanzitutto soffermarsi sul celebre discorso, da lui pronunciato a Roma, al III congresso della associazione a difesa della scuola nazionale (A.D.S.N.), l'11 febbraio del 1950 e pubblicato in “Scuola democratica”, periodico di battaglia per la nuova scuola.

Difesa della scuola dunque. «Forse la scuola è in pericolo?» chiedeva agli insegnanti, di tutti gli ordini, dalle elementari alle università, riuniti nel convegno. Quale il pericolo che minaccia la scuola e «quale è la scuola che noi difendiamo»: queste le domande con cui Calamandrei apriva il suo intervento.

Difesa della scuola democratica.

Secondo l'illustre giurista, la scuola doveva considerarsi un organo “costituzionale”, un organo avente una posizione centrale nel complesso degli altri organi che formano la Costituzione. Tra gli organi costituzionali, attraverso cui si esprime la volontà del popolo, oltre alla Camera dei Deputati, al Senato della Repubblica, al Presidente della Repubblica, alla Magistratura, Calamandrei vi considerava anche la Scuola, “organo vitale della democrazia”53.

«Se si dovesse fare un paragone tra l'organismo costituzionale e l'organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell'organismo umano hanno la funzione di creare il sangue...sangue che rinnova giornalmente tutti gli altri organi, che porta a tutti gli altri organi, giornalmente, battito per battito, la

rinnovazione e la vita»54affermava con un'eloquente immagine che sintetizzava efficacemente il suo pensiero.

La scuola era da annoverare tra gli organi centrali della democrazia perché funzionale alla risoluzione di un problema centrale della democrazia e cioè la formazione della classe dirigente.

Classe dirigente in generale: non solo nel senso di classe politica, di quella classe che era al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico e di cui facevano parte scrittori, artisti, professionisti, insegnanti, capi di officine o aziende.

Questo era il problema ma al tempo stesso il compito della democrazia: la creazione di una classe dirigente aperta e sempre arricchita dall'afflusso degli elementi migliori provenienti da ogni classe, da ogni categoria Di modo che, gli elementi migliori di ogni classe potessero contribuire attraverso il loro lavoro e le loro migliori qualità personali al progresso della società.

Qui ci si può ricollegare a quanto Calamandrei, in un articolo intitolato “Contro il privilegio dell'istruzione” pubblicato sulla rivista “Il Ponte” nel gennaio 1946, ebbe a scrivere circa il rapporto tra accesso alla politica, democrazia ed istruzione.

Per Calamandrei il problema della democrazia si pone prima di tutto come un problema di istruzione55. Che significa ciò?

Democrazia significa governo di popolo. Tuttavia negli ordinamenti democratici, di

54 Ibidem

55 Qui si può fare un collegamento con quanto sosteneva John Dewey, filosofo e pedagogista statunitense. Dewey affermava che la sua filosofia collega lo sviluppo della democrazia con quello del metodo sperimentale delle scienze. Il principio educativo di Dewey era proprio costituito da questo nesso tra metodo scientifico e spirito democratico. Per il pensatore americano, il metodo scientifico è di per sé promotore di democrazia, perché associa la logica della ricerca sperimentale (basata sulla prova empirica delle ipotesi) alla libera discussione dei risultati in qualsivoglia campo, incluso quello dei problemi sociali della comunità. La democrazia rappresenta la condizione del pieno uso dell'intelligenza per la soluzione di tali problemi, poiché garantisce la possibilità di una discussione realmente libera, particolarmente nel caso degli esperimenti sociali. La democrazia da un lato è il contenuto in cui si può applicare il metodo dell'intelligenza per la soluzione dei problemi della società, dall'altro la democraticità della ricerca ne rappresenta una garanzia di validità epistemologica, perché un'interpretazione sottratta alla pubblica discussione rischia di essere soggettiva o ancor peggio autoritaria. Così l'educazione al metodo scientifico, al metodo dell'intelligenza, rappresenta un'autentica educazione democratica e alla democrazia; e una società democratica è sempre caratterizzata da un rilevato impegno per l'educazione scientifica.

fatto il governo non è esercitato direttamente dal popolo tutto ma da un'esigua minoranza che, occupando gli uffici dove si concentra il potere pubblico, costituisce il piccolo gruppo di governanti che lo esercitano come rappresentanti del corpo elettorale che li ha legittimamente scelti attraverso il meccanismo elettorale.

La democrazia è pertanto autogoverno di popolo, non perché quest'ultimo si governa da sé ma perché il popolo sceglie le persone che debbono governarlo.

Non si tratta però di una concezione elitista dal momento che, secondo Calamandrei, «perché si abbia vera democrazia occorre non solo che questa scelta sia fatta del popolo, ma che sia fatta in mezzo al popolo»56: in altre parole, deve essere possibile che tutti i cittadini possano col voto contribuire alla scelta dei propri governanti ma anche allo stesso tempo possano essere chiamati, essi stessi, ad assumere tale ufficio. Dunque affinché la democrazia sia pienamente attuata occorre che ad ogni cittadino sia riconosciuto sia l'elettorato attivo che quello passivo: ogni cittadino deve essere elettore ma anche potere essere eletto. «Il sistema elettorale non è che uno strumento giuridico, cioè formale, perché la democrazia si attui è necessario che tutti i componenti del popolo siano messi in condizione di sapersi servire di fatto dello strumento elettorale, per i fini sostanziali ai quali è preordinato»57. I fini di un governo democratico, i cui componenti siano scelti dai governati, saranno più facilmente raggiunti quanto meglio da questa scelta usciranno eletti e dunque saranno chiamati ad esercitare il potere i più capaci intellettualmente, moralmente e tecnicamente.

Affinché ciò possa avvenire occorre sia che gli elettori abbiano la capacità di scegliere, valutando i meriti, le competenze di coloro che vogliono essere eletti, in modo da saper individuare i più valenti.

Ma occorre che questi ultimi si trovino in condizione di sviluppare le loro qualità sociali di modo che la scelta del popolo «possa rappresentare veramente la scoperta e la messa in valore degli elementi più idonei della società»58.

Ecco spiegato il motivo per cui, per Calamandrei, il problema della democrazia si pone anzitutto come problema di istruzione.

56 Calamandrei P., Scritti e discorsi politici, cit., V. I, T. I, p. 191 57 Ivi p.191-192

Per far sì che gli elettori abbiano la capacità di scegliere i loro rappresentanti, tra coloro che sono i più meritevoli, ma anche che ciascuno possa avere la capacità di governare, è necessario che essi abbiano quel poco di istruzione elementare che permetta loro di orientarli nelle diverse correnti politiche e che li guidi nel riconoscimento dei meriti e dei valori di ciascun candidato.

Ma ancor prima di ciò è necessario che a tutti i cittadini siano rese ugualmente accessibili le vie dell'istruzione, scuole medie e superiori, al fine di assicurare «che i governanti siano veramente l'espressione più eletta di tutte le forze sociali, chiamate a raccolta da tutti i ceti e messe a concorso per arricchire e rinnovare senza posa il gruppo dirigente»59.

Vera democrazia si ha quando tutti i cittadini dispongono dell'istruzione sufficiente per essere consapevoli ed attivi nella lotta politica. La scuola è la soluzione ai problemi della democrazia: solo la scuola infatti può dare ad ogni uomo quel senso di responsabilità e di consapevolezza politica che si richiede in chi è chiamato a scegliere liberamente i governanti.

Gli assolutismi dittatoriali, evidenziava, rimangono in vita tanto più è profonda l'ignoranza dei sudditi; la democrazia, al contrario, ha bisogno, per vivere, non di cittadini ignoranti, non della soggezione e dell'inerzia di essi ma del loro concorso attivo e responsabile.

Per tale motivo la scuola ha, negli ordinamenti democratici, non solo valore politico ma anche “costituzionale”.

«E' perciò evidente che non si ha vera democrazia là dove l'accesso all'istruzione non è garantito in misura pari a tutti i cittadini: perché, importando necessariamente la diversa cultura una diversa possibilità di partecipazione alla vita politica, il privilegio dell'istruzione si risolve necessariamente in privilegio politico»60. Laddove l'accesso alle scuole richieda spese sostenibili solo da pochi privilegiati, ai quali soli, dunque, è data la possibilità di frequentarle, l'istruzione si risolve di fatto in un privilegio economico, che è insieme privilegio politico.

Se la scuola è accessibile solo a chi può pagarsela, solo a questi ultimi sarà data la

59 Ibidem 60 Ivi p. 193

possibilità di una partecipazione alla vita politica.

Così, sottolineava, il privilegio della ricchezza porta inevitabilmente al monopolio della cultura ed al suo ristagnare in una cerchia di pochi fortunati.

Le scuole medie ed universitarie si riempiono dei troppo spesso mediocri o addirittura pessimi figli dei ricchi, i quali hanno appunto come unico titolo d'ammissione, non il merito ma la fortuna del padre. «Da questo dipende il basso livello intellettuale di certe grige moltitudini studentesche, quel senso di passività e di pigrizia mentale che spesso si riscontra diffuso in molti strati di esse, quella mancanza di fervore e di senso della responsabilità che è propria di chi considera la cultura non come un impegnativa ascensione e come un premio che si conquista, ma come una specie di ricognizione accademica di un privilegio sociale già radicato nella famiglia, nella quale fin da quando il figlio nasce si vede in lui il futuro avvocato o il futuro diplomatico, senza che neppur venga in mente la irriverente ipotesi che la natura lo abbia creato interamente privo di quei requisiti intellettuali, che ragionevolmente dovrebbero essere l'unico titolo per essere ammesso sulla difficile via degli studi»61. Proprio il radicarsi della cultura in una minoranza di privilegiati, dove le professioni intellettuali sono legate alla ricchezza più che all'intelligenza e trasmesse dai padri ai figli senza tenere conto delle vocazioni o dei meriti di essi, è la ragione del declinare della classe dirigente, nella quale i figli sono peggiori dei padri, i nipoti peggiori degli avi.

L'obiezione che le persone ricche potrebbero sollevare, per mettere in pace la propria coscienza, è che il vero genio, il vero valoroso, anche in mezzo alle difficoltà economiche riesce ad emergere, ed anzi proprio la miseria rappresenta per i figli dei poveri il più potente stimolo per fare valere coraggiosamente i propri meriti. «Né l'essere nato pastore ha impedito a Giotto di incontrare Cimabue e di superarlo»62, così direbbero le persone nate ricche, scriveva nel suo articolo.

Ma questa obiezione, è facilmente superabile affermando che di fronte ai rari straordinari riscatti, con i quali, in tutti i tempi, il merito è riuscito per sola virtù propria a vincere la miseria, la regola purtroppo è che migliaia di coloro che, se

61 Ivi p. 197 62 Ivi p.198

potessero studiare, sarebbero sicuramente i migliori, rimangono schiacciati dal bisogno e dal problema del pane.

Tutto ciò, concludeva, basta a fare comprendere quale importanza debba avere in una democrazia l'istruzione. Non solo deve riconoscersi il diritto, per tutti, all'istruzione elementare gratuita ma anche il diritto, per tutti i meritevoli, all'istruzione gratuita, media e superiore. Ma ancora: i non meritevoli dovranno essere esclusi dall'istruzione media, ed in ogni caso da quella superiore, anche se provenienti da famiglie disposte a sostenere le spese per loro.

Il bisogno non deve impedire ai figli dei poveri, meritevoli e capaci negli studi di seguire la loro vocazione; né l'agiatezza deve tenere per i figli dei ricchi il posto di una vocazione che non c'è

Il diritto all'istruzione quindi per Calamandrei è da considerarsi il più importante dei diritti di libertà: la scuola, fondamentale garanzia di liberazione sociale.

Tornando al discorso pronunciato nel 1950 a Roma, al III congresso della associazione a difesa della scuola nazionale, Calamandrei affermava quindi che il ruolo della scuola era (ed è) quello di preparare cittadini capaci e meritevoli per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente e per il progresso continuo, quotidiano della società. Ma quale era la scuola che difendeva? Prima di tutto la scuola di stato, la scuola pubblica. La scuola pubblica era da lui considerata il prius, la scuola privata il posterius. Metteva l'accento sull'art. 33 della Costituzione nella parte in cui questo afferma che «La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi»: pertanto in materia scolastica lo stato ha innanzitutto una funzione normativa, deve cioè porre i principi generali della legislazione scolastica. Lo stato deve costruire, realizzare, istituire scuole di tutti gli ordini in conformità con tali principi. «La scuola è aperta a tutti» afferma l'art. 34 della Costituzione e se tutti vogliono frequentare la scuola di stato, ci devono essere tante scuole eccellenti in tutti gli ordini, tante scuole conformi ai principi posti dallo stato. Lo stato deve quindi costruire scuole ottime per ospitare tutti coloro che allo stato si rivolgono per l'istruzione. Questo è in sintesi ciò che dichiara l'art. 33 della Costituzione.

Quando la scuola pubblica è forte e sicura allora la scuola privata non è una minaccia ma può essere un bene. «Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura»63. L'art. 30 della Costituzione afferma che «E' dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio»: a tale dovere e diritto della famiglia corrisponde l'opportunità che ad ognuna di esse deve essere riconosciuta, di fare frequentare ai propri figli le scuole che sono per essi di maggiore gradimento. Si deve quindi permettere l'istituzione di scuole conformi alle preferenze politiche, religiose, culturali delle famiglie. Evidenziava tuttavia che bisognerà tenere in considerazione che la «scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata, è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici»64.

Affinché le scuole private non diventino un pericolo ma siano un bene è necessario che lo stato, rimanendo neutrale tra esse, senza favorire talune a scapito di altre, le controlli. Ancora occorre che le scuole corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione e che dunque tra scuole pubbliche e scuole private si crei una sorta di competizione, di modo che lo stato da queste scuole private, che sorgono e che portano nuove idee, si senta stimolato a migliorarsi e rendere le scuole pubbliche ancora più virtuose.

La scuola pubblica, di stato deve dunque rappresentare una garanzia che miri ad evitare di cadere in quella che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà: di cadere cioè nella scuola di partito.

Come si fa ad istituire una scuola di partito? Un modo è quello del totalitarismo aperto, confessato. Questo sistema fu sperimentato sotto il fascismo dove tutte le scuole divennero scuole di stato. Sotto tale regime la scuola privata non era più permessa; lo stato divenne un partito; tutte le scuole divennero scuole di stato e quindi scuole di partito.

63 Calamandrei P., Scritti e discorsi politici, cit., V. I, T. I, p. 393 64 Ibidem

Tuttavia accanto al totalitarismo aperto, Calamandrei rammentava anche il totalitarismo indiretto, subdolo. In questo caso come viene istituita una scuola di partito? Poniamo che al potere ci sia un partito, il quale formalmente e sostanzialmente voglia rispettare la Costituzione, ma che tuttavia voglia istituire una larvata dittatura. Come fare allora per impadronirsi delle scuole e trasformarle in scuole di partito? Si cominciano a trascurare ed impoverire le scuole pubbliche e simultaneamente si favoriscono le scuole private: in particolare le scuole private di quel partito. Ad esse saranno indirizzate cure di denaro e privilegi. Si cominciano a consigliare queste scuole perché migliori e si propone di dare dei premi a coloro che, invece che alle scuole pubbliche, manderanno i propri figli a “quelle” scuole private. In questo modo la scuola privata diviene una scuola privilegiata. Quindi, il partito al governo, non potendo trasformare direttamente le scuole di stato in scuole di partito, manda in crisi le scuole di stato per dare prevalenza alle sue scuole private.

L'operazione può così essere sintetizzata: impoverire le scuole di stato, ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza sulle scuole private; farvi insegnare insegnanti anche privi di requisiti minimi per insegnare. Dare alle scuole private denaro pubblico. Quest'ultima viene considerata la fase più pericolosa di tutte le altre. «Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito»65. E' un grave errore pensare che lo stato, invece di indirizzare tutte le risorse del modesto bilancio dell'istruzione nella scuola pubblica, distribuisca denaro alle scuole private.

Negli stati in cui la scuola privata è florida e vigorosa, non è lo stato a dare denaro ad essa: sono i privati che danno allo stato il loro contributo per potenziare la vitalità scolastica della nazione.

Calamandrei ricordava che il Ministro dell'Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari disse che «la scuola privata deve servire a stimolare al massimo le spese non statali per l'insegnamento, ma non bisogna escludere che lo

stato dia sussidi alle scuole private»66. Poi il Ministro aggiungeva: se un padre vuole mandare un figlio alla scuola privata dovrà pagare le tasse. Ma tale padre in quanto cittadino avrà già pagato le tasse per partecipare alla spesa che lo stato eroga a favore delle scuole pubbliche. Posto che tale onesto e meritevole cittadino, che vuole mandare il suo figlio a studiare alle scuole private, paga le tasse due volte, bisognerà sollevarlo da questo doppio onere, dando ad egli un assegno familiare.

Calamandrei criticava queste parole del Ministro affermando che mandare il proprio figlio alla scuola privata è, come dice la Costituzione, un diritto. Ma un diritto che se uno vuole lo esercita a proprie spese. Cioè: il padre che decide di mandare il proprio figlio alla scuola privata se lo paga; altrimenti lo manderà alla scuola pubblica. Ad ulteriore contestazione delle parole del ministro, riportava un paragone riferito al campo della giustizia. Per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici. Ma i cittadini hanno anche diritto di far decidere le loro controversie agli arbitri. L'arbitrato costa caro, spesso centinaia di migliaia di lire. Eppure, sottolineava provocatoriamente, a nessun cittadino, che preferisca l'arbitro ai giudici pubblici, verrebbe in mente di rivolgersi allo Stato per chiedere un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri.

Questi assegni familiari, se adottati, finirebbero per essere una sorta di incitamento pagato a disertare le scuole pubbliche e dunque un indiretto modo di favorire certe scuole private «dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito»67.

Dunque in conclusione, Calamandrei, denunciava il tentativo esecrabile di trasformare la scuola privata in scuola privilegiata. Da qui, affermava, comincia la scuola totalitaria, con la trasformazione della scuola democratica in scuola di partito.

Nel documento Il pensiero giuridico di Piero Calamandrei (pagine 116-135)