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Il giudicato penale : orientamento dogmatico e nuove criticità.

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INTRODUZIONE

La struttura del processo penale indirizza gli atti, che costituiscono e cadenzano il suo iter ordinario, verso un dictum definitivo ed irrevocabile che acquisisce il carattere dell’incontrovertibilità.

“E’ nella natura delle cose e nei limiti delle umane possibilità che ad un certo punto il processo sbocchi nella decisione irrevocabile, come le onde agitate di un fiume anelano a

sfociare nella quiete dell’estuario”.1

Quindi la tensione del processo penale è volta a conseguire un dato cognitivo definitivo attraverso la certezza e la stabilità del dictum, pur perseguendo la perdurante corrispondenza

tra l’accertamento giudiziale e la verità.2

Nell’intangibilità del giudicato penale risiede l’esigenza politica di un limite pragmatico all’indefinita riapertura del processo penale: se non si ponesse un limite al potere di impugnazione oppure qualora si consentisse al giudice la possibilità di revocare in qualsiasi momento la sentenza emanata, l’imputato si troverebbe sottoposto ad una irragionevole ed illimitata possibilità di reiterazione di sentenze vertenti sullo stesso oggetto, con consequenziale lesione della sicurezza dei propri diritti.

Da qui emerge la particolare importanza che l’istituto del giudicato, che ci accingiamo ad esaminare, riveste all’interno degli ordinamenti giuridici moderni, quale strumento di certezza giuridica e di tutela dei diritti dei singoli consociati. In questo aspetto il diritto mostra la sua natura “antropocentrica”: sono gli uomini infatti che hanno bisogno di assicurare, ad un certo punto, certezza e stabilità alle situazioni giuridiche dedotte nel processo e questo risponde sia all’interesse dell’individuo, il quale rinviene nell’intangibilità dell’accertamento giudiziale la tutela della sicurezza dei propri diritti, sia all’interesse della società, che in questo modo ottiene il rispetto dell’ordinamento dopo la commissione del reato.

L’ordinamento processuale penale persegue quindi queste finalità di tutela mediante l’istituto del giudicato penale, assicurandone l’incontrovertibilità attraverso la predisposizione di un

1

G. Leone, Il mito del giudicato, in Riv. Dir. proc .pen., 1956, cit., p.179.

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2 sistema normativo che, da una parte, determina i mezzi di impugnazione consentiti e, dall’altra, garantisce stabilità e certezza al dictum prodottosi.

Questo lavoro si propone dunque di esaminare più dettagliatamente l’istituto del giudicato penale, partendo dalla sua nozione e dal meccanismo di formazione della cosa giudicata penale; sempre nel primo capitolo saranno approfonditi altri aspetti del giudicato, analizzando in primis la distinzione tra giudicato sostanziale e giudicato formale e arrivando, nell’ultima parte del capitolo, a trattare dell’aspetto relativo all’efficacia extrapenale del giudicato.

I capitoli successivi invece avranno ad oggetto l’effetto principale del giudicato penale ovvero il principio del ne bis in idem, cioè il principio in virtù del quale nessuno può essere sottoposto a processo più di una volta per lo stesso fatto. Questo principio è disciplinato dall’articolo 649 del nostro codice di procedura penale secondo cui: ‹‹ L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli artt.69 comma 2 e 345.››.

Una volta quindi analizzata la disposizione, saranno affrontate le questioni relative all’applicabilità del divieto di bis in idem, ovvero i presupposti soggettivi ( eadem personam ) ed oggettivi ( idem factum ).

Gli ultimi capitoli saranno dedicati ai profili applicativi del ne bis in idem: in particolare nel capitolo terzo saranno affrontate le questioni relative all’applicazione dell’effetto preclusivo alle singole fattispecie criminose. Il capitolo quarto è, invece, dedicato ai rapporti intercorrenti tra l’istituto che stiamo analizzando ed il sopravvenire di una eventuale declaratoria di incostituzionalità della norma che ha determinato il trattamento sanzionatorio oppure di una pronuncia che determini l’abrogazione della norma incriminatrice in forza della quale l’imputato è stato, in precedenza, condannato con sentenza divenuta irrevocabile. L’ultimo capitolo, infine, prenderà in considerazione l’aspetto internazionale del divieto, il fondamento dell’istituto nel panorama internazionale, prestando, nella parte conclusiva, particolare attenzione alla recente sentenza della CEDU contro l’Italia del 4 marzo 2014 in materia, appunto, di ne bis in idem.

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Capitolo I

IL GIUDICATO PENALE

1.La nozione di giudicato

La cosa giudicata ( o giudicato ) ‹‹ è l’essenza della decisione terminativa del giudizio, contenuta in un provvedimento giurisdizionale avente carattere di sentenza di proscioglimento

o di condanna ovvero di decreto di condanna, divenuti irrevocabili ››3. Con l’istituto del

giudicato l’ordinamento giuridico tutela un principio di carattere generale ovvero la certezza del diritto, che nel campo processuale è assicurata dall’insieme delle regole che consente di qualificare come intangibili le statuizioni degli organi giurisdizionali.

La ragione giustificativa del giudicato è riconducibile all’esigenza, connaturata all’accertamento penale e finalizzata ad impedire la riapertura di vicende processuali ormai definite, che si riassume in un antico assunto dogmatico: se il presupposto del giudizio è un dubbio, la funzione del giudizio stesso consiste nel superare l’incertezza circa la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, arrivando ad un risultato che, con la decisione terminativa, converta la res iudicanda in res iudicata.

La cosa giudicata ha quindi l’autorità di regolare onnicomprensivamente e con valore assoluto le situazioni giuridiche dedotte nel processo penale.

Ad un primo approccio potrebbe emergere un’apparente contrapposizione tra “ cosa giudicata” e “ giudicato” ma in realtà le differenti locuzioni rappresentano aspetti diversi ma complementari di un medesimo fenomeno processuale.

L’espressione “ cosa giudicata” deriva dal latino “ res iudicata”, dove la parola “ res” sta ad indicare il rapporto dedotto in giudizio; la cosa giudicata quindi indica la controversia o la lite decisa, formula in cui si enuclea la regola in virtù della quale lo svolgimento del processo e la sentenza che lo definiva, impediva che un altro processo, avente lo stesso oggetto e riguardante quindi la medesima lite, potesse essere instaurato. Dal momento che il concetto di “ giudicato” produce l’effetto dell’inammissibilità di una nuova eventuale azione “ de eadem re ”rispetto alla stessa res dedotta in giudizio , ne deriva l’instaurazione di un collegamento funzionale tra questo effetto e l’ auctoritas che assiste la pronuncia del giudice: l’ autorità non è la cosa giudicata, ma bensì rappresenta un attributo della stessa che si sostanzia nella formula “ auctoritas rei iudicatae ”, dove l’attributo sta ad indicare un

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4 accrescimento del valore giuridico della decisione. Stando a quanto appena detto, l’espressione “ auctoritas “ vuol dire quindi accrescere, dare valore al quid decisum, che costituisce l’oggetto della decisione e si traduce nell’impedimento processuale all’instaurarsi di un nuovo processo attorno alla stessa lite.

Pertanto mentre la cosa giudicata indica il fatto oggetto dell’imputazione, il giudicato va individuato più propriamente nel contenuto del dictum, cioè del comando giudiziale emesso all’esito del processo su quello specifico oggetto.

Il giudice, in altri termini, dopo aver accertato quanto sottoposto alla sua cognizione, formula, sulla base dell’accertamento compiuto, un comando capace di vincolare, in virtù della sua peculiare autorità, le parti del processo e non solo.

Dall’oggetto dell’accertamento del giudice, costituito dunque dalla res in iudicio deducta poi divenuta cosa giudicata, si distingue il dictum, il comando giudiziale, la manifestazione della volontà espressa dal giudice in relazione alla controversia.

Di cosa giudicata ( o di giudicato ) il codice di procedura penale non parla mai esplicitamente, a differenza del codice civile ( art. 2909 c.c) e del codice di procedura civile ( art. 324 c.p.c); tuttavia non è in dubbio che il processo penale, così come il processo civile, tenda alla cosa giudicata. Il concetto di giudicato penale è tuttavia enucleato in una serie di disposizioni, tra cui soprattutto l’articolo 648 c.p.p che disciplina la sentenza irrevocabile e l’articolo 649 c.p.p relativo al divieto di bis in idem.

Il legislatore ci ha fornito una nozione onnicomprensiva di giudicato, in cui si esplicano i suoi stessi effetti. Il “ giudicato” viene quindi ad indicare un vincolo dei privati e delle autorità pubbliche ad un precetto di matrice giudiziaria, costruito per un caso concreto, che impone l’obbligo per le parti di eseguirlo senza poterlo ulteriormente contestare e allo stesso tempo esso comporta la preclusione, per lo stesso o qualsiasi altro giudice futuro di fronte al quale

sia riproposto l’ idem factum nei confronti dell’ eadem personam, a pronunciarsi sul merito.4

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2.L’essenza del giudicato penale

Il giudicato presuppone innanzitutto l’esistenza di un processo e di una decisione che

provenga da un giudice penale e che sia resa nell’esercizio della giurisdizione penale5

. Il giudicato in linea generale produce un duplice effetto: in primo luogo esso comporta che la sentenza diviene incontestabile ad opera delle parti, dal momento che rispetto ad essa le parti risultano spogliate di qualsiasi ulteriore potere processuale per proseguire il processo o per instaurarne uno nuovo avente lo stesso oggetto. In secondo luogo la sentenza passata in giudicato diviene intoccabile sia da parte del giudice che l’ha emessa sia da parte di qualsiasi altro giudice.

Per consentire la produzione di questo duplice effetto, il legislatore ha creato due mezzi tecnici, ovvero la “cosa giudicata formale” e la “cosa giudicata sostanziale”: la prima rappresenta l’efficacia del giudicato all’interno del processo, rispetto ad ogni altro giudice il quale, nel caso in cui un primo giudice abbia già giudicato, non può giudicare nuovamente, mentre la seconda esplica i suoi effetti all’esterno del processo.

Pertanto il giudicato sostanziale è il comando giuridico stabilito dal giudice, è l’accertamento del fatto assistito dai caratteri di ufficialità, incontestabilità e autorità propri della funzione giurisdizionale; il provvedimento che contiene tale accertamento prende invece il nome di “giudicato formale” nel momento in cui acquista il carattere dell’irrevocabilità, una volta esperiti tutti i mezzi di impugnazione ordinari oppure una volta decorsi inutilmente i termini per proporli ( art. 648 c.p.p: irrevocabilità delle sentenze e dei decreti penali). In ogni caso al di là di questa distinzione nominalistica, il giudicato formale e quello sostanziale mirano a salvaguardare l’intangibilità del risultato del processo impedendo, il primo, una pluralità indefinita di sentenze nell’ambito di uno stesso processo e, il secondo, una illimitata pluralità di processi de eadem re.

Come precedentemente osservato, se non si ponesse un limite al potere di impugnazione o se si permettesse al giudice di revocare in qualsiasi momento la sentenza emanata, l’imputato sarebbe esposto ad una irragionevole possibilità di reiterazione di sentenze sullo stesso oggetto, con conseguente lesione della sicurezza dei propri diritti. Sotto questo punto di vista la figura della cosa giudicata formale, che quindi si sostanzia nell’irrevocabilità della sentenza, rappresenta il presupposto della cosa giudicata sostanziale: l’articolo 649 c.p.p

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6 attribuisce efficacia di cosa giudicata sostanziale alla sentenza di condanna o di assoluzione che sia divenuta irrevocabile, che sia cioè assistita dal giudicato in senso formale( articolo 648 c.p.p).

Tuttavia il giudicato in senso formale rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente per garantire l’incontestabilità del risultato del processo dal momento che tale garanzia sarebbe vanificata se la stessa lite o lo stesso fatto, per il quale l’imputato è stato condannato o prosciolto, potesse essere oggetto di un diverso processo e sottoposto all’accertamento di un diverso giudice. Secondo queste osservazioni non è quindi sufficiente l’irrevocabilità della sentenza, ma occorre garantire l’intangibilità del contenuto della stessa, impedendo un nuovo giudizio sullo stesso oggetto e a tutto questo provvede la cosa giudicata sostanziale.

Carnelutti distingueva due profili dell’ auctoritas iudicati: l’imperatività e l’immutabilità. Egli riteneva che fosse più una ragione pratica ad esigere che ad un certo punto il giudizio del giudice acquisti forza di comando: ‹‹ Il comando nasce dal giudizio, anzi il giudizio non è giuridico se non matura nel comando(…). Ciò deve accadere e se non accadesse il processo non servirebbe a nulla; se il giudizio del giudice potesse essere mutato , mancherebbe del suo

scopo, che è quello di stabilire certezza ››6 . Dall’altra parte Carnelutti riteneva che

l’imperatività del giudizio non implicasse affatto la sua immutabilità, né da solo era sufficiente per garantire le esigenze di certezza: in ragione di queste considerazioni si è giunti a distinguere i due profili della imperatività e dell’immutabilità nel senso che normalmente si ritiene che il giudicato non è imperativo se non è immutabile e al tempo stesso non è

immutabile se non è imperativo.7

Sotto un diverso profilo, Chiovenda8 ha invece distinto tra “giudicato” e “preclusione”:

secondo questo autorevole parere, il giudicato si produrrebbe quando la sentenza garantisce un bene della vita, mentre nel caso in cui il giudice non decidesse intorno a questo ma riguardo il modo di condurre il processo, si dovrebbe parlare di preclusione anziché di giudicato. Questa dottrina, nella sua riflessione circa l’identità del processo penale, giunse alla conclusione che il vero valore del processo penale sta nel vietare o nel comandare che il

6

F. Carnelutti, Lezioni sul processo penale, Padova, 1949.

7

F. Carnelutti, Contro il giudicato penale, Padova, 1954.

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7 processo continui, passando dalla fase di cognizione alla fase di esecuzione: il processo penale di cognizione serve come introduzione al processo di esecuzione dal momento che se il giudice assolve riconosce non tanto che il processo deve proseguire quanto che esso non doveva neppure cominciare. Quanto appena detto significa che la sentenza penale, sia essa di assoluzione o di condanna, ha portata puramente processuale e quindi, secondo questo parere, in materia penale si dovrebbe parlare di preclusione anziché di cosa giudicata, preclusione che, da una parte, attribuisce stabilità al processo e, dall’altra, serve a stimolare le parti ad

esercitare i propri diritti processuali.9

Il concetto di preclusione che abbiamo appena preso in considerazione può tuttavia essere inteso in un altro senso. Il processo penale è caratterizzato dallo svolgimento di una serie di atti cronologicamente ordinati a finalizzati all’emanazione del provvedimento giurisdizionale; questi atti sono posti in una relazione tra loro per la quale il compimento di un atto fa sorgere il dovere di compiere l’atto successivo, il quale rappresenta l’adempimento di un dovere posto da un atto antecedente, cosicchè ogni atto processuale presuppone quello antecedente e al tempo stesso costituisce il presupposto di quello successivo. Premesso quanto appena detto, le parti hanno la libertà, in virtù del principio dispositivo, di scegliere il loro comportamento processuale con la conseguenza che il mancato esercizio di quella determinata attività

impedisce il successivo compimento di un atto processuale o di una serie di atti processuali10,

per cui, per effetto di un precedente comportamento, si crea un ostacolo, una preclusione appunto, all’esercizio di una ulteriore attività processuale.

In conclusione possiamo affermare che il giudicato produce due effetti: un effetto preclusivo, in forza del quale l’imputato prosciolto o condannato non può essere sottoposto una seconda volta a procedimento penale per il medesimi fatto ( art.649 c.p.p ) e un effetto vincolante il quale impone agli altri giudici di ritenere come “ vero” il fatto accertato da parte del giudice del processo terminato con sentenza passata in giudicato.

9

F. Carnelutti, Contro il giudicato penale, Padova, 1954.

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3.Profili storici dell’istituto

Risulta opportuno, dopo una prima e preliminare analisi dell’istituto del giudicato penale, operare un excursus delle vicende storiche che hanno caratterizzato la cosa giudicata penale, tramandandola fino ai giorni nostri.

‹‹ Togliere al giudicato il suo carattere irrevocabile, attentare ad esso, sia pure per mezzo di una legge o di un decreto del popolo è delitto spaventevole, è un atto empio, è un attentato ai

principi fondamentali del governo democratico››11. Nel IV secolo a.C Demostene, raffinato

oratore ed acuto politico ateniese, con queste parole celebrava la grandezza ed il valore di un principio giuridico molto antico, presidio di ordine politico e sociale: l’intangibilità del giudicato penale.

Se osserviamo le esperienze normative emerse nel mondo e nella storia, emerge con chiarezza come la definitiva incontrovertibilità dell’accertamento giudiziario penale sia stata considerata, fin da subito, un obiettivo fondamentale per un’organizzazione armonica della

società; in proposito Nicolini12 giungeva addirittura ad affermare ‹‹ la differenza tra le varie

epoche che l’uomo trascorre non può essere giammai nella maggiore o minore stabilità della cosa giudicata. Finchè vi è l’uomo, la forza immutabile della cosa giudicata è uno dei canoni necessari ed eterni dell’umanità.››

Tuttavia, il giudicato penale, storicamente, non rappresenta un monolite insensibile al trascorrere del tempo, ma, al contrario, risulta un istituto che ha subito un andamento evolutivo, tenendo conto delle diverse esperienze ordinamentali e delle diverse riflessioni dogmatiche. Infatti ‹‹ la scelta del mezzo tecnico, che il legislatore compie per garantire la irretrattabilità del risultato del processo, varia secondo le epoche ed è modellata secondo la

particolare struttura della istituzione giudiziaria in cui opera.13››.

Per poter comprendere pienamente il valore ed il significato dell’intangibilità del giudicato penale è, pertanto, necessario ripercorrere le più rilevanti esperienze storiche del passato ed osservare quando tale istituto si sia delineato, quale sia stata la sua evoluzione e quando abbia acquisito la maturità necessaria per affermarsi come principio fondamentale del sistema processuale penale.

11

Demostene, Contro Timocrate, 152.

12

N. Nicolini, Della procedura penale nel regno delle Due Sicilie, Napoli, 1828, cit., p.33.

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9 Il giudicato, oggetto di approfondita analisi storica da parte della dottrina processual-civilistica, non è stato mai al centro delle speculazioni dei cultori della storia del processo penale. Il fenomeno ha comunque trovato la sua genesi in epoca romana preclassica, quando la nozione di giudicato civile raggiunse una rilevante maturazione ed elaborazione scientifica e giurisprudenziale. Con riferimento al giudicato penale, invece, le tracce si rinvengono in era successiva e conducono al processo con giuria, in relazione al quale si avvertì la necessità di porre definitivamente termine al processo, precludendo una nuova ed eventuale cognizione sul fatto.

In realtà, già gli antichi Greci conoscevano il valore e l’importanza dell’intangibilità del giudicato penale. Basti solamente pensare a ciò che Platone, nel Critone, fa dire dalle Leggi ( personificandole ): ‹‹ ti pare possibile o Socrate che possa sussistere e non essere sovvertito uno Stato nel quale le decisioni emanate dai giudici sono prive di ogni forza e sono eluse ed

annullate per opera dei privati cittadini?››14. Tuttavia, come appena osservato, furono i

Romani che, attraverso un processo evolutivo lento e graduale, elaborarono in modo organico il principio dell’intangibilità del giudicato penale; in ogni caso, se non è da dubitare che, nell’esperienza giuridica romana, il principio di intangibilità del giudicato penale sia stato riconosciuto e rispettato, è tutt’altro che facile individuare la genesi di tale istituto, ossia riuscire a determinare in quale momento storico sorse e, soprattutto, da quale fonte del diritto sia scaturito. La regola giuridica che vietava di rimettere in discussione ciò che fosse già stato precedentemente giudicato, già sul finire dell’età repubblicana, era considerata antichissima e

avvolta nel mito della tradizione, tanto che Quintiliano15 ne parla come di un principio

fondamentale di cui ormai non si conosceva più l’originaria portata.

In passato, alcuni celebri giuristi16 hanno sostenuto che il principio dell’intangibilità del

giudicato penale ha trovato il suo primo riconoscimento nella lex XII tabularum del V secolo a. C; altri storiografi, invece, hanno individuato la prima formulazione normativa del principio in una Lex Petronia, de adulterii iudicio, proposta dal console P. Petronius Turpilianus. Queste ricostruzioni storiografiche, che tentano di individuare la genesi del giudicato penale in un testo legislativo dell’antica Roma, mostrano, in realtà, il grave difetto di sottovalutare la

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Platone, Critone, XI.

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Quintiliano, Inst. Orat., VII, 6.

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10 straordinaria originalità dell’esperienza giuridica romana, che è invece l’unica prospettiva in grado di illuminare il momento storico e la fonte giuridica che hanno determinato la progressiva formulazione di tale istituto; occorre, difatti, evidenziare come ‹‹ la attualità abbia una rilevanza costante nella storia giuridica romana e l’azione stia al posto della norma, la quale, solo attraverso un processo lento ed incerto, riuscirà ad affermarsi, in età postclassica,

come effettivo modello a priori dell’azione››17. L’ordinamento giuridico, per un notevole

periodo di tempo dell’esperienza romana, è costituito non da una sovrastruttura ideologico-formale di principi e norme generali ed astratte, ma da un ordine empirico-reale di azioni che, grazie alla loro immediata e costante efficacia intersoggettiva, creano diritto: esse sono fatti che valgono ad instaurare o modificare un ordinamento giuridico, nel suo insieme o in singole strutture, ponendosi essi medesimi come determinanti della propria legittimità ed efficacia. Dal carattere “ fattuale” dell’ordinamento giuridico romano, quale sistema di azioni concrete, deriva logicamente come non abbia significato ricercare la fonte di legittimazione giuridica dell’intangibilità del giudicato penale direttamente in una norma generale ed astratta di matrice legislativa, poiché, per quanto una lex abbia recepito e formalizzato questo principio, comunque, in tale esperienza giuridica, ‹‹ l’osservanza di una legge non discende affatto dalla sua intrinseca forza imperativa, ma dalla convergenza delle azioni politiche e delle forze

sociali che le esprimono verso di essa››18

; quindi, in un ordinamento non legalistico, come quello dell’antica Roma, la fonte normativa del giudicato penale risiede nell’ordine fattuale delle azioni umane.

Alla luce di questa impostazione, parte della storiografia fa risalire la formulazione del principio dell’immutabilità del giudicato penale direttamente agli albori della civiltà giuridica, ossia all’età arcaica, epoca in cui il rex curava la repressione dei crimina, ossia quegli atti che, per la loro gravità, esigevano una diretta reazione pubblica. Invero, in origine, solo di rado la comunità interveniva nella punizione dei reati, che restava in ampia misura devoluta alla reazione degli offesi, talora temperata dalla legge del taglione e dalla consuetudine del riscatto; soltanto in casi particolari, nei quali il fatto criminoso appariva come una violazione della pax deorum, il potere pubblico riteneva necessario interporre la propria opera per il ristabilimento dell’ordine turbato. Il rex, infatti, in veste di sommo sacerdote, interprete della

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P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, Torino, 1996.

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11 volontà divina e custode della vita religiosa della comunità, giudicava e puniva quei comportamenti che compromettevano la relazione di pace e amicizia tra la civitas e gli Dei. La ricostruzione storiografica che rinviene la creazione del giudicato penale nella Roma arcaica individua la fonte di legittimazione giuridica di tale istituto nella ritualità sacrale dell’ordinamento penale primitivo: si afferma che, nella credenza degli antichi, ogni rito religioso presupponesse in chi lo celebrava una forza mistica originaria che, una volta impiegata, si consumava irrimediabilmente e si sostiene che l’intangibilità del giudicato penale discendesse proprio dalla consumazione di questa speciale forza mistica che si era utilizzata nell’esercizio dell’azione persecutoria dei crimina.

Sebbene tale ipotesi ricostruttiva sia estremamente suggestiva, non è in alcun modo condivisibile l’idea di ricondurre direttamente alla ritualità sacrale la matrice giuridica dell’intangibilità del giudicato penale: il carattere dell’irripetibilità dell’azione non è intrinsecamente connaturato alla ritualità magico-religiosa, in quanto diversi cerimoniali sacri, prevedendo una plurima e mutevole manifestazione del Divino, potevano essere più volte celebrati. Dunque non può essere accolta la tesi per cui la firmitas iudicati sarebbe originata semplicemente quale riflesso del formalismo mistico arcaico.

Il requisito dell’irrevocabilità della sentenza e , quindi, il concetto di firmitas iudicati, fecero la loro comparsa nel mondo del diritto soltanto con la progressiva nascita dell’istituto dell’appello nell’ambito delle cognitiones extra ordinem di età imperiale, prima quale ricorso diretto all’autorità del princeps ( appellatio ad Caesarem ) e poi quale sistematico mezzo ordinario di impugnazione delle sentenze.

Crollato inesorabilmente l’impero romano d’occidente, con l’avvento e la dominazione dei popoli barbarici cadde parimenti nell’oblio la variegata eredità dell’esperienza giuridica latina e, di conseguenza, anche l’istituto della res iudicata.

La procedura criminale “ barbarica ” differiva profondamente da quella di matrice romana: il processo penale si incentrava sostanzialmente nell’ordalia, che costituiva una sorta di prova giudiziaria letale tramite la quale si chiedeva l’intervento divino, affinchè si pronunciasse a favore di chi aveva ragione. Se l’accusato ne usciva incolume, si diceva che la divinità era intervenuta direttamente per proteggere un innocente; se, invece, soccombeva, lo si considerava colpevole. In questa epoca, il valore del giudicato era totalmente assoluto e troncava ogni ulteriore questione di colpevolezza: dal momento che la divinità si era espressa, a nessuno, giudice o parte, era consentito di mettere in discussione il giudizio da essa emanato. Dunque l’intangibilità del giudicato si fondava non su una base giuridica, bensì sulla

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12 cieca ignoranza e sulla rozza superstizione, dimenticando secoli di raffinate ed articolate elaborazioni della giurisprudenza romana sull’istituto della res iudicata.

Messe da parte le pratiche ordaliche, nel periodo carolingio, l’intangibilità del giudicato penale era riconosciuta e generalmente osservata, ma il concetto giuridico che racchiudeva era molto diverso da quello accolto dall’esperienza giuridica romana. Affinchè, infatti, il giudicato potesse costituirsi era necessario che le parti lo accettassero: esse potevano anche non approvarlo, ma allora dovevano accusarlo di falsità, ossia di iudicium blasphemare, altrimenti sarebbero stati imprigionati in attesa che si pronunciassero in un senso o nell’altro. Pertanto, in mancanza di una denuncia di falsità del giudizio, si adoperavano mezzi di coazione al fine di strappar loro quella manifestazione di volontà consenziente al giudicato; questa formulazione del principio di intangibilità del giudicato rispecchiava pienamente una visione primitiva del diritto, in cui le situazioni di potere devono essere corroborate dalla manifestazione del consenso.

Nel cuore del XI secolo sorse, però, nella vita del diritto un’epoca radicalmente nuova: il rinascimento giuridico. In questo periodo storico sorse un movimento culturale di rivalutazione del diritto romano ad opera della dottrina giuridica, attraverso la riscoperta della compilazione giustinianea e, in particolare modo, dei libri del Digesto: gli istituti, le norme ed i principi del diritto romano ridivennero la struttura portante dei rapporti sociali fra i consociati, e fra essi e l’autorità pubblica. Da questo momento si riafferma, quindi, con vigore il principio giuridico di matrice romana dell’immutabilità del giudicato penale.

Tuttavia, già nel XV secolo iniziò a manifestarsi nella pratica del diritto una creazione dogmatica che mise in crisi la portata del principio di intangibilità del giudicato: in tale periodo storico alle due classiche forme di sentenza, ossia quella di assoluzione e di condanna, progressivamente si aggiunse un terzo modello che si risolveva nel rilascio momentaneo dell’imputato per difetto di prove, l’ absolutio pro nunc. Questo tipo di sentenza prevedeva che, in caso di impossibile dimostrazione positiva dell’innocenza dell’accusato, il processo non si chiudesse, ma venisse sospeso fino a quando non si fossero scoperte delle

nuove prove di colpevolezza: per spiegare tale meccanismo processuale, Pertile19 soleva dire

‹‹ sentenziatosi in questa maniera, si obbligava l’inquisito a ripresentarsi nuovamente in giudizio ogni qual volta si scoprissero contro di lui nuove prove del reato per cui era stato processato››.

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13 Le sentenze di absolutio pro nunc nel corso dei secoli finirono, in modo progressivo ma inesorabile, con il sostituire quasi completamente l’archetipo delle sentenze di assoluzione, provocando la dissoluzione dell’intangibilità del giudicato penale per le decisioni assolutorie e, di conseguenza, il sostanziale indebolimento della certezza del diritto. Per lungo tempo l’istituto della absolutio pro nunc si conservò nella elaborazione dogmatica e nella pratica giudiziaria del diritto moderno continentale.

Successivamente, il grande movimento filosofico del XVIII secolo, che mise in discussione tutto il vecchio sistema processuale penale, non poteva non portare la sua attenzione su un principio giuridico fondamentale come quello dell’intangibilità del giudicato penale e così autorevoli giuristi cominciarono a denunciare ‹‹ quella grande infamia legalizzata ›› che era l’absolutio pro nunc: si sosteneva come queste sentenze costituissero dei veri e propri dinieghi di giustizia, perché si risolvevano nel non giudicare e lasciare sotto la perenne minaccia di un accusa pubblica l’imputato e, di conseguenza, se ne acclamava con forza l’abolizione.

Da questo momento l’intangibilità del giudicato penale non venne considerata tanto un valore unitario che garantisce globalmente la certezza del diritto, quanto un grande e vitale presidio della libertà individuale e dell’innocenza, un limite invalicabile all’attività repressiva dello Stato; questa idea non rimase a lungo un’elaborazione teorica astratta ma passò rapidamente all’ambito applicativo.

Durante la Rivoluzione francese, che travolse tutto il diritto criminale dell’Ancien regime, l’Assemblea costituente non potè non soffermarsi sulla delicata questione del valore dell’immutabilità del giudicato penale. Le riforme legislative operate in Francia in questo periodo condussero ad un corpus legislativo con il quale si affermò nettamente la distinzione fondamentale tra le decisioni rese dalle giurisdizioni istruttorie e le sentenze emesse all’esito del dibattimento: le prime, limitandosi a dichiarare il non luogo a procedere allo stato degli atti e non risolvendo la questione penale in modo compiuto, non costituivano ostacolo ad una nuova accusa per il medesimo fatto qualora nuove prove di responsabilità venissero ad essere in seguito scoperte, mentre le seconde, statuendo definitivamente in ordine ai fatti oggetto dell’imputazione sul merito della colpevolezza dell’imputato, estinguevano l’azione penale di modo che sul tema deciso non fosse più possibile ritornare.

Il code d’instruction criminelle francese costituì il modello per il codice di procedura criminale del Regno di Sardegna del 1847, che si occupò dell’intangibilità del giudicato penale, limitandosi a riprodurre sostanzialmente la disciplina delle corrispondenti disposizioni

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14 criminali del rito francese; l’articolo 438 di questo codice disponeva che ‹‹ l’accusato assolto, o riguardo al quale siasi dichiarato non essersi fatto luogo a procedimento, non potrà più essere sottoposto a processo né accusato pel medesimo fatto››. Lo stesso principio veniva ribadito per le sentenze contumaciali ed era espresso nell’articolo 470, secondo il quale ‹‹ l’accusato che sarà stato assolto colla sentenza in contumacia, od a riguardo del quale si sarà dichiarato non essere stato luogo a procedere, non potrà più essere sottoposto a processo né accusato pel medesimo fatto››.

Analoghe disposizioni furono inserite, infine, nel codice subalpino di rito del 1859, e da qui nel codice di procedura penale del Regno d’Italia del 1865, subentrando così alla legislazione processuale criminale degli Stati preunitari. L’articolo 518 di questo codice stabiliva espressamente che ‹‹ l’accusato assolto, o riguardo al quale siasi dichiarato non essersi fatto luogo a procedimento, non potrà essere sottoposto a processo, né accusato pel medesimo fatto››. Dall’esame, quindi, delle diverse codificazioni del XIX secolo è possibile osservare come di regola l’intangibilità del giudicato penale non fosse positivamente espressa in modo compiuto e generale come valore unitario e divieto generico di risollevare ulteriormente una disputa criminale già decisa con una pronuncia irrevocabile: le diverse disposizioni riguardavano le sentenze assolutorie ed erano sostanzialmente realizzazioni o conseguenze dell’intangibilità del giudicato come derivazione del principio di libertà individuale, del favor libertatis. Tutto questo risultava fortemente limitativo, perché l’essenza dell’immutabilità del giudicato penale non riguarda solamente le sentenza assolutorie, ma deve riguardare anche quelle di condanna e deve tutelare non solo i beni della libertà e dell’innocenza, ma anche quello della certezza del diritto.

Solo con le più mature codificazioni del XX secolo, l’istituto del giudicato fu espresso in modo diretto ed organico, configurandosi come lo strumento giuridico che garantisce la certezza del diritto attraverso la tendenziale immutabilità dell’accertamento giudiziario. Mentre il codice del 1913 traeva la concezione dell’intangibilità assoluta del giudicato da esigenze di tutela dell’individuo, il codice del 1930 poneva a fondamento dell’intangibilità l’imperatività della legge e il dovere di obbedienza del singolo, con conseguente

compressione delle garanzie individuali ed esaltazione della difesa sociale20. La rigidità

20 Per E. Salis, I presupposti fondamentali dei rapporti tra individuo e Stato fascista, in Studi economico-giuridici della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Cagliari, Milano, 1938, 417, ‹‹ il valore dello Stato è superiore al valore individuale, al punto da ritenere non solo possibile, ma giusto, il sacrificio di quest’ultimo, il

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15 dell’impostazione normativa, con il conseguente dogma del principio di intangibilità del giudicato, scaturiva da una visione imperativistica della legge che necessariamente limitava la possibilità di rimuovere il dictum cognitivo all’eccezionale rimedio della revisione. Alla sentenza definitiva si attribuiva l’attitudine a regolare con valore assoluto le situazioni giuridiche coinvolte nel processo penale e, a sua volta, l’impugnazione straordinaria svolgeva unicamente funzione di salvaguardia dell’esigenza di coerenza logico-formale dell’ordinamento nei casi più evidenti di errore.

L’avvento della Costituzione e la mancata redazione di un nuovo codice di procedura penale spingevano a continue riforme per adattare il vecchio corpo normativo al rilievo attribuito da parte della Carta Costituzionale ai diritti della persona; anche se radicati pregiudizi culturali

ed ideologici continuavano a propugnare il mito dell’intangibilità del giudicato21 iniziava ad

emergere l’importanza di un valore preminente, ossia la necessaria conformità della sentenza a esigenze di giustizia anche successivamente all’irrevocabilità.

Comincia così l’evoluzione politica e culturale che conduce all’accoglimento, nel codice del 1988, del nuovo principio della flessibilità del giudicato: viene meno la prevalenza assoluta della sentenza definitiva, il legislatore non muove più dalla centralità del potere statuale, ma bensì dall’esigenza di tutela dei diritti individuali che deve essere garantita anche nella fase esecutiva qualora l’accertamento, prodottosi a seguito del processo, sia contrario alla primaria esigenza di tutela della giustizia. Si ammette quindi, con il nuovo codice, una verifica posteriore del giudicato, non solo tramite la riapertura della fase di cognizione ottenibile mediante il mezzo della revisione, ma anche direttamente nella fase esecutiva qualora esigenze di giustizia legislativamente predeterminate rendano necessaria la rimozione della sentenza irrevocabile.

Nell’attuale disegno codicistico quindi il giudicato rappresenta il dato terminale del meccanismo giurisdizionale, tangibile dalla revoca della sentenza per revisione e dalla revoca per abolizione del reato, nonché suscettibile di modifica parziale per rideterminazione della pena; tuttavia sia la revisione sia gli altri rimedi revocatori appena elencati si configurano come istituti volti al completamento funzionale del sistema processuale.

che val quanto dire l’assorbimento, sia pure transitorio, dei diritti individuali nella piena disponibilità dello Stato››.

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4.Il fondamento politico della cosa giudicata penale

Il giudicato penale, come abbiamo già osservato, tende a garantire la certezza del diritto che può essere concepita in un duplice senso: nel primo la certezza del diritto è intesa come prevedibilità della qualifica dei comportamenti futuri di modo che ognuno possa conoscere in anticipo la valutazione delle possibili condotte, mentre nel secondo senso la certezza del diritto si traduce nell’intangibilità delle situazioni giuridiche acquisite dal singolo, quindi certezza intesa come sicurezza dei diritti. Le due concezioni appena esaminate si riferiscono, la prima, all’intero ordinamento in senso oggettivo, mentre la seconda al diritto in senso soggettivo.

Il giudicato penale tende a garantire e salvaguardare la sicurezza dei diritti e quindi ad impedire che l’imputato, prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile, sia esposto ad una illimitata pluralità di sentenze o di procedimenti penali per lo stesso fatto per il quale, appunto, è già stato giudicato. Il fondamento politico del giudicato risiede, pertanto, nella necessità di offrire al singolo consociato il beneficio della sicurezza dei propri diritti e di garantire la pace sociale e la stabilità del commercio giuridico. Questi due aspetti si intrecciano e si sovrappongono ed acquistano un rilievo diverso a seconda della natura civile o penale del giudicato: il giudicato civile è principalmente preordinato a garantire la stabilità del commercio e dei rapporti giuridici, mentre il giudicato penale tutela la sicurezza dei diritti che prevale sull’esigenza della pace sociale e costituisce un valore insopprimibile che è posto alla base della civiltà giuridica di ogni popolo.

La certezza del diritto, tuttavia, può essere valutata anche con un’altra sfaccettatura, ossia certezza del diritto intesa in termini di coerenza logico-formale tra le diverse decisioni. In altri termini, il giudicato penale, sotto questo punto di vista, costituisce un rimedio preventivo volto ad assicurare la coerenza e l’uniformità tra le valutazioni di fatto e di diritto contenute nelle diverse decisioni e ad impedire un conflitto tra giudicati, che si realizza quando più sentenze contengono apprezzamenti tra loro logicamente inconciliabili. Qualora fosse ammessa una pluralità di processi in relazione allo stesso fatto, si otterrebbero altrettante pronunce, alcune delle quali conformi ma altre difformi dalle precedenti, generando in questo modo giudizi contraddittori: ad impedire il verificarsi di questo inconveniente provvede il giudicato, precludendo un nuovo procedimento de eadem re.

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17 Più precisamente, il giudicato è diretto a prevenire il formarsi di un contrasto pratico tra giudicati che si produce quando coesistono decisioni, non solo logicamente inconciliabili tra loro, ma anche praticamente incompatibili: se l’imputato fosse condannato e prosciolto con due sentenze irrevocabili per lo stesso fatto, l’organo dell’esecuzione non saprebbe a quale dei due comandi dare prevalenza e, quindi, attuazione. Se invece le due pronunce contengono valutazioni di fatto e di diritto tra loro logicamente inconciliabili ( contrasto teorico tra giudicati ) le due decisioni possono comunque coesistere. Quindi, mentre nel caso di contrasto pratico tra pronunce, l’inconveniente prodottosi rende impraticabile l’ordinamento e l’attuazione della funzione giurisdizionale, nel caso di contrasto teorico, pur trattandosi di un evento che lede e che pregiudica la serietà e la credibilità delle istituzioni processuali, le due pronunce logicamente inconciliabili possono praticamente coesistere

Pertanto il fondamento politico del giudicato penale può essere colto nella necessita di garantire la certezza e la stabilità giuridica, nelle diverse sfumature che abbiamo appena valutato.

5.Il giudicato in senso formale

La cosa giudicata formale, la firmitas iudicati, costituisce il solido fondamento dell’intero edificio processuale penale italiano, una costruzione giuridica nella quale sono precisamente fissati i termini per l’esercizio di determinati mezzi di impugnazione e gli esiti del loro esito infruttuoso, garantendo poi la stabilità del giudicato prodottosi.

Perché la decisione possa dar vita a “diritto”, l’ordinamento presuppone che la res in iudicium deducta assuma il carattere dell’irrevocabilità, divenga, in altri termini, res iudicata22.Il giudicato formale tende ad impedire, nell’ambito di uno stesso procedimento penale, una pluralità indefinita di sentenze sullo stesso oggetto: se, infatti, l’ordinamento giuridico non ponesse un limite certo al potere di impugnazione delle parti o desse al giudice la facoltà di revocare liberamente in qualunque momento la decisione emanata, assisteremmo ad una irragionevole ed illimitata possibilità di reiterazione di sentenze de eadem re, con grave pregiudizio per la sicurezza dei diritti e per la stabilità delle situazioni giuridiche.

La cosa giudicata formale è disciplinata dall’articolo 648 c.p.p che sancisce l’equivalenza tra giudicato in senso formale e irrevocabilità: ‹‹ Sono irrevocabili le sentenze pronunciate in

22 Lo afferma F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2006, p.1217, mutuando i termini di una risalente disputa

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18 giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione. Se l’impugnazione è ammessa, la sentenza è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile. Se vi è stato ricorso per Cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso. Il decreto penale di condanna è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile ››.

L’irrevocabilità, alla luce dell’appena citato disposto dell’articolo 648 c.p.p comma 1, è qualità che appartiene alle sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione nonché ai decreti penali di condanna: se nessun problema si manifesta in relazione a quest’ultima categoria, più complessa appare l’individuazione delle pronunce incluse nella prima categoria. Le sentenze pronunciate in giudizio sono quelle rese all’esito del rito dibattimentale ordinario, emesse in primo grado o nei gradi successivi, certamente idonee ad assumere il carattere dell’irrevocabilità; presentano tuttavia la medesima caratteristica anche le sentenze rese all’esito del giudizio abbreviato nonché le sentenze che applicano la pena su richiesta delle parti.

Non possono, viceversa, divenire irrevocabili i provvedimenti interlocutori, tra i quali assume particolare rilievo la sentenza di non luogo a procedere, in ragione dell’articolo 650 comma 2 c.p.p che, pur subordinando la sua forza esecutiva all’esaurimento dei mezzi di impugnazione per essa stabiliti, non lascia spazio che a una definizione in termini di mera definitività.

Il secondo comma dell’articolo 648 c.p.p esplicita il contenuto precettivo del citato primo comma e puntualizza il momento logico-temporale del passaggio in iudicatum: in base al dato testuale, le sentenze penali appellabili o ricorribili per Cassazione diventano irrevocabili quando scadono inutilmente i rispettivi termini di impugnazione, ovvero, trattandosi di sentenza soggetta ad appello, quando non è impugnata l’ordinanza che dichiara inammissibile l’impugnazione.

In sostanza, le condizioni che la legge stabilisce, affinchè un provvedimento giurisdizionale acquisti il sigillo dell’irrevocabilità, si traducono tutte nell’impossibilità giuridica di ricorrere contro quello stesso atto con gli ordinari mezzi di impugnazione.

5.1 Il meccanismo di formazione della cosa giudicata

L’articolo 648 del nostro codice di procedura penale, precedentemente citato, subordina la formazione della cosa giudicata formale ad una serie di presupposti strettamente connessi al

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19 sistema dei mezzi ordinari di impugnazione cosicchè il concetto di giudicato formale finisce per dipendere dai controlli che il legislatore ha inteso porre sulla pronuncia giurisdizionale. Secondo la lettura della disposizione dell’articolo 648 c.p.p sembrerebbe, peraltro, che l’unico mezzo di impugnazione in grado di contrastare l’autorità del giudicato e di ottenere la riapertura della fase di cognizione del processo sia la revisione; in realtà, con l’introduzione degli articolo 625 bis e ter del c.p.p, la produzione del medesimo effetto è garantito dal ricorso straordinario per la correzione dell’errore di fatto, esperibile avverso le sentenze della Corte di Cassazione ( art.625 bis c.p.p) e dalla rescissione del giudicato ( art.625 ter c.p.p). Per individuare il momento della formazione della cosa giudicata formale, è doveroso operare una serie di distinzioni, valutando, di volta in volta, la disciplina dei mezzi di impugnazione ordinari e l’impugnabilità soggettiva ed oggettiva dei vari provvedimenti giurisdizionali. Particolare rilievo assume, in particolare, il caso delle sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione, secondo quanto richiamato dal primo comma dell’articolo 648 c.p.p: queste pronunce, che possono definirsi inoppugnabili, assumono eo ipso il carattere dell’irrevocabilità, divenendo automaticamente ed immediatamente cosa giudicata, per il solo fatto di essere state emanate ed essere, dunque, venute ad esistenza. Rientrano in questa categoria le sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione, impugnabili esclusivamente mediante l’esperimento della revisione o del ricorso straordinario per la correzione dell’errore di fatto o mediante la rescissione del giudicato, entrambi esclusi dal novero dei mezzi ordinari e quindi irrilevanti ai fini della formazione della cosa giudicata. Analoga natura assumono, in base al disposto dell’articolo 568 comma secondo c.p.p, le sentenze sulla competenza che, ai sensi dell’articolo 28 c.p.p, possono dar luogo ad un conflitto di giurisdizione o di competenza.

La formazione della cosa giudicata formale comporta la tendenziale intangibilità di quanto ha rappresentato oggetto della decisione divenuta irrevocabile e preclude un nuovo ed eventuale esercizio del potere giurisdizionale sulla materia definitivamente trattata e decisa.

Dopo il passaggio in giudicato della sentenza, in particolare, cessa la possibilità di far valere eventuali invalidità verificatesi nel corso del procedimento, in quanto il giudicato funge da ‟ suprema sanatoria ” di tali vizi: ‹‹ il giudicato rappresenta, infatti, la più vistosa e potente causa di sanatoria, nei confronti delle imperfezioni verificabili in campo processuale. Ci sono,

infatti, imperfezioni non altrimenti sanabili che con il giudicato››23.

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20 Al riguardo bisogna, tuttavia, osservare che esistono vizi che, non potendo essere elisi dalla sopravvenienza e dal consolidarsi del giudicato, ne pregiudicano irrimediabilmente la formazione. Si tratta della categoria della cd. inesistenza giuridica, categoria di creazione dottrinale, poi recepita anche dalla giurisprudenza, connotata dal difetto dei requisiti minimi indispensabili per ricondurre l’atto entro il suo paradigma normativo, sia pure al solo fine di formularne un giudizio di difformità, sicchè non può garantirsi neppure la produzione in forma precaria degli effetti dell’atto stesso ( art.670 c.p.p comma 1): ‹‹ Quando il giudice dell’esecuzione accerta che il provvedimento manca o non è divenuto esecutivo, valutata anche nel merito l’osservanza delle garanzie previste nel caso di irriperibilità del condannato, lo dichiara con ordinanza e sospende l’esecuzione, disponendo, se occorre, la liberazione dell’interessato e la rinnovazione della notificazione non validamente eseguita. In tal caso decorre nuovamente il termine per l’impugnazione.››.

5.2 L’irrevocabilità nel modello ordinario di procedimento penale

Ai fini dell’individuazione del momento della formazione del giudicato formale, bisogna innanzitutto prendere in considerazione le sentenze in ordine alle quali il legislatore prevede che le parti si attivino per ottenere, mediante i mezzi di impugnazione ordinari, il controllo sulla pronuncia da parte di un giudice diverso e di grado superiore. In questa ipotesi la sentenza assume il carattere dell’irrevocabilità una volta che sia inutilmente decorso il termine per proporre il mezzo di impugnazione previsto: il fenomeno, che assume la denominazione di acquiescenza, presuppone, quindi, che le parti siano soddisfatte del contenuto della decisione che è stata emanata. Nel caso contrario, invece, se l’impugnazione sia stata proposta entro i termini previsti, il giudicato si forma successivamente all’inutile decorso del termine per impugnare l’ordinanza che abbia dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione stessa. Qualora sia stato promosso un giudizio di legittimità per l’accertamento della conformità del provvedimento giurisdizionale alla Carta Costituzionale, l’irrevocabilità si determina successivamente alla pronuncia del provvedimento, sentenza o ordinanza che sia, dichiarativo dell’inammissibilità del ricorso o della sentenza con la quale il ricorso viene rigettato. L’irrevocabilità può prodursi, altresì, con la sentenza con cui la Corte di Cassazione accoglie il ricorso, adottando una pronuncia di annullamento senza rinvio, alla stregua dell’articolo 620 del codice di procedura penale.

Le sentenze pronunciate all’esito del dibattimento sono suscettibili di divenire irrevocabili una volta acquisita la stabilità susseguente all’esaurimento dei mezzi di impugnazione; la

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21 pronuncia conclusiva del dibattimento, sia essa di proscioglimento (art.529 c.p.p) o di condanna (art.533 c.p.p), assume, quindi, il carattere dell’irrevocabilità una volta che siano stati esperiti tutti gli strumenti di critica concessi, dal momento che è proprio la residua possibilità di proporre impugnazione che impedisce al provvedimento di approdare alla definitività.

Infine può verificarsi il caso che il procedimento penale sia definito in via anticipata, con una sentenza di proscioglimento predibattimentale disciplinata dall’articolo 469 c.p.p: in questa evenienza l’unico rimedio consentito è il ricorso per Cassazione.

Il giudicato formale, in conclusione, si forma con la decorrenza del termine per la proposizione dell’appello oppure, se quest’ultimo viene ritenuto inammissibile, con l’inutile decorso del termine per ricorrere in Cassazione avverso l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’appello. Il medesimo effetto si produce con l’accoglimento del ricorso con una pronuncia di annullamento senza rinvio, garantendo il consolidarsi della cosa giudicata formale.

5.3 L’irrevocabilità e i riti alternativi al giudizio dibattimentale

La previsione di modelli alternativi rispetto al rito dibattimentale ordinario incide, spesso, anche sui mezzi di impugnazione esperibili avverso la decisione emessa all’esito del procedimento speciale: risulta, pertanto, necessario operare un breve cenno al modo in cui i provvedimenti che definiscono e concludono il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti e il decreto penale di condanna acquistano il connotato dell’irrevocabilità, trasformandosi in regiudicata.

Iniziando ad esaminare la fattispecie del giudizio abbreviato, possiamo osservare come la sentenza terminativa di questo particolare rito, nella dinamica costitutiva della res iudicata, si atteggia in maniera del tutto simile alla pronuncia dibattimentale. Essa, infatti, può essere ricondotta alla nozione di sentenza pronunciata “in giudizio”, cui fa riferimento l’art.648 c.p.p comma 1, in quanto deliberata secondo le medesime regole processuali e usufruendo di poteri

decisori del tutto analoghi24, seppure sulla base di un compendio probatorio non formato,

ovvero non interamente formato, nel pieno contraddittorio tra le parti.

24

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22 Tutte le decisioni conclusive del giudizio abbreviato, pertanto, siano esse di assoluzione, di non doversi procedere, dichiarative di una causa estintiva del reato ovvero di condanna, sono idonee ad assumere la qualità che porta al giudicato, ossia l’irrevocabilità dipendente dall’inoppugnabilità. L’assimilazione appena effettuata consente di richiamare le considerazioni svolte in relazione alle pronunce dibattimentali: acquiescenza, inerzia della parte o inammissibilità del gravame costituiscono fattispecie che determinano l’esaurimento dei mezzi di critica della sentenza pronunciata dal giudice, così da gettare le basi per la successiva irrefragabilità del provvedimento.

I tratti distintivi riguardano, piuttosto, l’ambito di operatività degli strumenti di doglianza concessi dal legislatore, che restringono le facoltà delle parti rispetto alla normale evenienza dibattimentale. La sentenza emessa al termine del giudizio abbreviato può essere sottoposta agli ordinari mezzi di impugnazione dell’appello e del ricorso per Cassazione: mentre quest’ultimo non subisce alcun tipo di limitazione, essendo proponibile ampiamente, in ossequio al vincolo costituzionale imposto dall’art.111 comma 7 Cost., l’appello sottostà alle condizioni descritte dall’art.443 c.p.p, che sin dalla sua prima formulazione contempla limiti di natura oggettiva e soggettiva in ordine alla facoltà di appellare la pronuncia di primo grado. In caso di pronuncia di condanna, il potere dell’imputato è ampio, privo di vincoli o condizioni, con la sola eccezione del limite di carattere generale costituito dal divieto di appello avverso la pronuncia di condanna che applichi la sola pena dell’ammenda; di contro, la parte pubblica, secondo l’art.443 comma 3 c.p.p, non può proporre appello contro le sentenze di condanna, a meno che il giudice in sede deliberativa abbia erroneamente mutato il

titolo del reato25. La previsione normativa appena richiamata ha subito, negli ultimi anni,

alcune modifiche in relazione alla potestà d’appello avverso le pronunce liberatorie emesse all’esito del rito, già in passato preclusa quando l’impugnazione mirasse ad ottenere l’applicazione di una formula di proscioglimento diversa. Il riferimento appena fatto è

25 Per un’analisi della limitazione ai poteri d’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna, ex

art.443 comma 3 c.p.p, V. Maffeo, Il giudizio abbreviato, Napoli, 2004, p.383, che osserva come la previsione avesse un peso nel sistema precedente la riforma operata dalla l. 16 dicembre 1999 n.479, poiché ‹‹ presupponeva il raggiungimento di un accordo tra l’imputato ed il pubblico ministero››; F. Zacchè, Il giudizio

abbreviato, Milano, 2004, p.195 ss, il quale criticamente effettua un’analisi della giurisprudenza della Corte

Costituzionale in materia, che, pur negando costantemente la discrasia della previsione rispetto alla Carta fondamentale, ha costantemente affermato in passato come i limiti all’appellabilità della pronuncia di condanna da parte del pubblico ministero possano trovare una giustificazione razionale solo in virtù di un corrispondente consenso della parte pubblica al rito.

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23 all’art.2 della legge 20 febbraio 2006 n.46, successivamente rimosse dalla Corte Costituzionale che ha ripristinato il quadro normativo previgente.

La citata novella del 2006 aveva imposto una precisa limitazione al potere delle parti di proporre appello avverso la sentenza di proscioglimento: il testo dell’art.443 comma 1 c.p.p riformulato stabiliva, infatti, che imputato e pubblico ministero non potessero appellare le sentenze di proscioglimento. L’innovazione apportata dalla legge del 2006 fu fortemente criticata da parte della dottrina, la quale sottolineò come l’assenza di deroghe alla nuova regola dell’inappellabilità e la correlativa perentorietà del tenore letterale lasciassero intuire come non fosse ‹‹ sottesa la medesima o la sola giustificazione posta a fondamento della scelta compiuta circa l’appellabilità del proscioglimento dibattimentale, vale a dire quella di riconoscere l’importanza del contraddittorio nella formazione della prova ancorando l’appello

alla individuazione di un novum decisivo››26.

La cancellazione del potere di appello delle parti avverso la sentenza liberatoria pronunciata all’esito del giudizio abbreviato è stata rimediata, come abbiamo anticipato in precedenza, dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n.320 del 2007, ha reintegrato la posizione

soggettiva del pubblico ministero, ammettendo il potere di gravame di merito27.

Il quadro risulta ulteriormente arricchito dalla recente pronuncia di accoglimento parziale della Consulta, n.274 del 2009, con la quale la Corte ha affermato l’illegittimità costituzionale dell’art.443 comma 1 c.p.p nella parte in cui esclude che l’imputato possa proporre appello contro le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità, derivante dal vizio totale di

mente28.

Residua il divieto d’appello per l’imputato prosciolto in esito al rito abbreviato per una causa diversa dal difetto d’imputabilità: rispetto ad esso la scelta del legislatore potrebbe trovar conforto nella natura consensuale del rito, parametro di ragionevolezza idoneo a bilanciare

26

Testualmente, A. Presutti, L’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, cit., p.86; E. Marzaduri, Così

nell’assetto degli istituti il legislatore ricerca nuovi equilibri, in Guida dir., 2006, n.10, p.53. In senso

parzialmente difforme, L. Degl’Innocenti-M. De Giorgio, Il giudizio abbreviato, Milano, 2006, p.224, che reputavano di poter applicare il meccanismo delineato dall’art.593 comma 2 c.p.p e il correlativo richiamo all’art.603 c.p.p (per il caso di prova decisiva) anche al rito abbreviato.

27

Così, C. Cost., sent. 20 luglio 2007 n.320, in Giur.cost., 2009, p.3096 ss.

28 C. Cost., sent. 29 ottobre 2009, n.274, in Giur.cost., 2009, p.3841 ss., con osservazioni di G. Spangher, L’infermo di mente può appellare la sentenza di assoluzione pronunciata nel rito abbreviato e nota di M. Ceresa

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24 l’apparente disparità di trattamento riconducibile alla strutturazione di poteri processuali non del tutto equivalenti.

In conclusione, possiamo osservare come la dinamica formativa della cosa giudicata, per quanto concerne le sentenze pronunciate all’esito del giudizio abbreviato, palesi una sostanziale identità rispetto a quella riguardante le sentenze dibattimentali. La diversità di struttura e le marginali restrizioni tuttora esistenti in tema di impugnazione non condizionano in maniera decisiva il fenomeno di stabilizzazione del decisum, conseguenza propria dell’esperimento degli ordinari mezzi di impugnazione e della definitività del provvedimento giurisdizionale.

Nel caso dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, la peculiarità della pronuncia che accoglie in previo accordo sulla sanzione risiede nell’assenza di una compiuta efficacia di accertamento dell’elemento materiale del fatto in contestazione, in virtù della natura prettamente acognitiva e consensuale del rito. Quanto appena detto non esclude che si formi la cosa giudicata: essa è idonea a generare una limita efficacia di accertamento, ma un vincolo di preclusione ad un successivo giudizio de eadem re intatto e completo.

La sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, sia essa pronunciata in fase di indagini preliminari, nel corso dell’udienza preliminare, nel corso del giudizio immediato o direttissimo ovvero all’esito del dibattimento, è inappellabile per espressa previsione dell’art.448 comma 2 c.p.p, il quale contempla un’unica eccezione al divieto in ipotesi di dissenso della parte pubblica all’applicazione della pena richiesta dall’imputato. Le parti possono, dunque, impugnare esclusivamente mediante il ricorso per cassazione la sentenza che applica la pena: ‹‹ In caso di dissenso, il pubblico ministero può proporre appello; negli altri casi la sentenza è inappellabile ›› ( art. 448 comma secondo c.p.p ). La sentenza emessa a seguito del procedimento di applicazione della pena su richiesta di parti, quindi, passa in giudicato a seguito del mancato esperimento del ricorso per cassazione, con eccezione delle ipotesi in cui è permessa la proposizione dell’appello da parte del pubblico ministero.

In linea con la natura pattizia del rito, le parti necessarie che aderiscono all’accordo sottoposto al giudice non sono, pertanto, legittimate a chiedere una rivalutazione del contenuto logico della sentenza. Il sistema, infatti, ammette l’esclusivo ricorso per Cassazione per la censura delle violazioni di legge rilevanti ex art.606 c.p.p.

Anche la più recente riforma dovuta alla legge 12 giugno 2003 n.134, che ha sensibilmente ampliato l’area d’incidenza della giustizia penale consensuale mediante l’estensione dei limiti di operatività del patteggiamento sulla pena, sino a comprendere pene detentive nel limite dei

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25 cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria, non ha sortito l’effetto di scardinare la regola dell’inappellabilità della pronuncia. Nell’attuale assetto, l’irrevocabilità della pronuncia ex art.444 c.p.p è condizionata dalle scelte riguardanti lo scrutinio di legittimità, con la sola eccezione dell’ipotesi in cui sia ammesso l’appello del pubblico ministero. La rinuncia a tale controllo, l’infruttuoso decorso dei termini per avanzarlo, l’inammissibilità del rimedio di legittimità o il rigetto del medesimo rendono definitiva la statuizione sulla pena contenuta nel dispositivo ed impediscono la prosecuzione del giudizio sul medesimo thema decidendum. Per quanto concerne, infine, il decreto penale di condanna, esso, come la sentenza dibattimentale, è provvedimento idoneo a generare la regiudicata formale, una volta conseguita l’irrevocabilità. L’art.648 comma 3 introduce una disciplina speciale riguardo alla genesi del giudicato del provvedimento monitorio, in ragione della peculiare dinamica cognitiva e della struttura del decreto che condanna senza previo contraddittorio.

La definitività del provvedimento è fatta dipendere dalla mancata opposizione alle ragioni della pronuncia nei termini perentori indicati dall’art.461 c.p.p ovvero dall’acquiescenza al provvedimento che dichiara l’inammissibilità dell’opposizione proposta: l’unico mezzo di impugnazione ordinario esperibile avverso il decreto penale di condanna emesso da parte del giudice per le indagini preliminari è, secondo il disposto dell’articolo 461 c.p.p, l’opposizione dell’imputato o della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria: ‹‹ Nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, l’imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, personalmente o a mezzo del difensore eventualmente nominato, possono proporre opposizione mediante dichiarazione ricevuta nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari che ha emesso il decreto ovvero nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trova l’opponente ›› ( art. 461 comma primo c.p.p ). Il decreto penale di condanna diviene, così, irrevocabile una volta inutilmente decorso il termine per proporre opposizione oppure, se quest’ultima è stata presentata, una volta inutilmente decorso il termine per ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’opposizione stessa. Oltre all’ipotesi appena considerata se ne aggiunge un’altra, non espressamente prevista dal codice, ossia quella dell’eventuale declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso l’ordinanza dichiarativa, a sua volta, dell’inammissibilità dell’opposizione proposta oppure quella del rigetto del ricorso stesso: in entrambi i casi il decreto penale di condanna diviene definitivo.

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