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Cosa giudicata e preclusione

10.L’autorità della cosa giudicata penale

10.3 Cosa giudicata e preclusione

Dobbiamo ora considerare se il divieto dell’articolo 649 c.p.p non debba farsi rientrare nell’ambito della nozione di preclusione anziché in quella del giudicato.

Per la prima soluzione è Carnelutti61, per il quale il vero valore della sentenza penale sta nella

sua destinazione che è quella di vietare o di comandare che il processo continui, passando dalla fase di cognizione a quella di esecuzione: da questa premessa egli trae la conclusione della portata puramente processuale della decisione penale la quale è concepita come sub

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48 specie della autorizzazione, nozione che sintetizza e racchiude il risultato del processo volontario. L’efficacia puramente processuale della sentenza penale induce Carnelutti a ritenere che, più che di cosa giudicata, si debba parlare di “preclusione”, in quanto nel settore del processo penale non si controverte intorno a un bene della vita, bensì intorno al modo di condurre il processo.

Secondo Chiovenda62 la preclusione opera di norma all’interno del processo e la sua nozione

si ricava in antitesi rispetto alla nozione di giudicato: la preclusione, a differenza del giudicato, non è idonea a garantire l’attribuzione di un bene della vita, ma solo ad attribuire carattere definitivo ed irrevocabile alla risoluzione di una questione.

Il problema, proseguendo nell’analisi del pensiero di Chiovenda, non è soltanto terminologico: se si conferisce al ne bis in idem la qualifica di preclusione anziché di cosa giudicata, resta pur sempre da spiegare la diversa resistenza che, di fronte al sopravvenire di una nuova legge, spiega la preclusione nascente dall’articolo 649 c.p.p e la preclusione che nasce, ad esempio, dalla sentenza della Corte di Cassazione che, annullando una sentenza, fissa il principio di diritto vincolante nei confronti del giudice del rinvio. Se sopravviene una legge diversa e più favorevole al reo, ovvero una dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma da cui il principio di diritto fu desunto, tale legge o tale dichiarazione non potrà avere applicazione nei confronti del reo contro il quale sia stata pronunciata sentenza passata in giudicato; viceversa, nei confronti dell’imputato, in sede di rinvio dalla Cassazione, la nuova legge, in forza del principio del favor rei, sarà a lui applicabile ovvero inapplicabile se dichiarata medio tempore illegittima. Lo stesso può dirsi per le parti della sentenza non cassate in cui è da ravvisare un’ipotesi di formazione frazionata del giudicato, con la conseguenza che la nuova legge più favorevole non può essere applicata alle parti sulle quali, non essendo intervenuto l’annullamento, si è formato il giudicato (in relazione ai punti appena richiamati, interessanti profili sono recentemente sorti a seguito di due pronunce delle Sezioni Unite, che tratteremo più nello specifico nel quarto capitolo, le quali hanno chiarito le conseguenze che subisce il giudicato quando, successivamente al formarsi dello stesso, intervenga una pronuncia della Corte Costituzionale che dichiari l’incostituzionalità di una norma, diversa da quella incriminatrice, che abbia inciso sul trattamento sanzionatorio, oppure intervenga una nuova legge che comporti l’abrogazione del reato per il quale l’imputato è stato condannato con sentenza irrevocabile).

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49 Ciò implica che la preclusione che si forma intorno al principio di diritto non ha idoneità a reagire alla legge sopravvenuta pari a quella propria della cosa giudicata: di qui l’impossibilità di riferire, ad un’unica nozione, due fenomeni sostanzialmente diversi.

Il criterio sul quale si basa la distinzione di Chiovenda tra giudicato e preclusione , se è valso a circoscrivere la nozione di giudicato, restringendola al comando, cioè alla formulazione autoritativa della volontà concreta della legge, in relazione ad un bene della vita che deve valere come tale fuori dal processo, non è più valido in relazione a taluni casi in cui il

giudicato esplica un’efficacia pan-processuale, secondo la terminologia di Redenti63

, nel senso che tale efficacia processuale si produce anche fuori del processo. Un esempio tipico di tale efficacia è offerto dall’articolo 393 c.p.c, il quale prescrive che, se il processo non viene riassunto nei termini davanti al giudice di rinvio ai sensi degli articoli 383 e 384 del medesimo codice, o se comunque si estingua, ‹‹ la sentenza della Corte di Cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda››.

Un caso analogo è previsto in materia di processo penale: sulla base della lettura delle disposizioni degli articoli 627 e 25 c.p.p si desume che la decisione della Corte di Cassazione sulla competenza ha autorità di cosa giudicata anche per quanto riguarda la definizione del reato rispetto al fatto stabilito con sentenza impugnata, purchè nel seguito del giudizio non risultino nuovi fatti e circostanze che modifichino la competenza. Secondo Redenti la statuizione della Corte di Cassazione non è meno concreta di quella contenuta in una sentenza di merito, nel senso che essa costituisce una lex specialis concretamente dettata e dalla quale né le parti né i futuri giudici potranno più discostarsi, essendo loro preclusa la possibilità di risalire direttamente alle fonti o sostenere che la norma desumibile da queste ultime è diversa dal dictum del giudice.

Il comando che nasce dalla enunciazione del principio di diritto si distingue dagli altri comandi per il solo fatto che esso ha un carattere ipotetico, ma non per questo è meno concreto degli altri, dal momento che fissa ed impone l’osservanza di una regola di diritto che si sostituisce alla legge; il carattere ipotetico deriva dal fatto che l’accertamento non investe la fattispecie sostanziale nella sua interezza, ma è circoscritto ad un singolo elemento per modo che tale accertamento è condizionato al verificarsi di altri elementi costitutivi.

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50 Nell’ipotesi precedentemente citata della regola desunta dagli articoli 627 e 25 c.p.p, la modifica della definizione del reato ad opera del giudice di merito è condizionata al sopravvenire di nuovi fatti o circostanze che modifichino la competenza: in questo caso, più che un comando ipotetico, si ha un accertamento, avente per oggetto la qualificazione giuridica del fatto allo stato degli atti, un accertamento che non lascia al giudice di merito la possibilità di valutare diversamente i fatti, a meno che non sopravvengano nuovi elementi che consentano un diverso apprezzamento del materiale probatorio.

Un caso analogo si verifica in tema di risoluzione di conflitti e in tema di dichiarazione di incompetenza dell’autorità giudiziaria ordinaria.

In tutti questi casi il dictum giudiziale si sostituisce alla norma astratta, come unica fonte di regolamento del rapporto, ma è altresì vero che le sentenze suddette, a differenza di quanto accade nel caso previsto dall’articolo 393 c.p.c, non proiettano la loro efficacia vincolante fuori dal processo, ma hanno una limitata efficacia endo-processuale, in quanto investono una situazione giuridica che si consuma nel processo stesso; in altri termini, non vincolano i giudici dei futuri processi e limitano i loro effetti al rapporto processuale per cui sono emanate. Tali sentenze, a cui il legislatore attribuisce impropriamente autorità di cosa giudicata, sono invece assistite da una mera preclusione.

In definitiva, la distinzione tra giudicato sostanziale e preclusione si fonda sulla dimensione o, più esattamente, sull’area in cui si esplica la rispettiva efficacia: quella della preclusione limitata al processo, quella della cosa giudicata sostanziale,invece, idonea a svilupparsi fuori del processo.

11. Il valore del giudicato penale nella Costituzione e nelle Carte