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3.Giudicato penale e “abolitio criminis”

Dopo aver affrontato la prima problematica risolta con la sentenza trattata nel paragrafo precedente, dobbiamo ora occuparci di una seconda tematica: con la sentenza 29 ottobre 2015 le Sezioni Unite hanno risolto la questione relativa alla revocabilità della sentenza di condanna definitiva per un reato abrogato con legge anteriore al fatto e non considerato dal giudice della cognizione.

Partiamo, innanzitutto, con un breve accenno al fatto che ha condotto alla pronuncia delle Sezioni Unite. Procedendo all’esecuzione della pena nei confronti di una cittadina extracomunitaria (Mraidi Adel), e limitatamente alla parte di essa, applicata ex art.444 c.p.p con sentenza del 9 giugno 2010, per il reato di cui all’art.6 comma 3 del dlgs. n.286 del 1998 (inottemperanza all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione, nella specie commesso il 28 maggio 2010), il pubblico ministero aveva chiesto, a norma dell’art.673 c.p.p, la revoca parziale della sentenza al giudice dell’esecuzione sul rilievo che la sentenza in esecuzione era stata emessa successivamente alla modifica della norma incriminatrice, intervenuta con legge n.94 del 2009, e che la pretesa abolitio criminis era stata esclusa, per oltre un anno e mezzo, dalla giurisprudenza di legittimità e riconosciuta solo con una decisione delle Sezioni Unite, intervenuta il 24 febbraio 2011, successivamente, quindi, alla decisione da eseguire.

L’art.6 comma 3 del dlgs. n.286 del 1998 recitava, nella sua formulazione originaria, che ‹‹ Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero, il permesso o la carta di soggiorno, è punito con l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda fino ad euro euro 413››.

Successivamente tale norma è stata modificata dalla legge n.94 del 2009 nel seguente modo:‹‹ Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato, è punito con l’arresto fino ad un anno e con la’mmenda fino ad euro 2000››.

Sorse questione, successivamente all’entrata in vigore della legge del 2009, circa la riconducibilità a tale figura criminis della condotta inottemperante di cittadini di Paesi extracomunitari “irregolari”, essendosi fatto osservare, in dottrina, che il reato era

134 configurabile solo nei confronti di cittadini di Paesi terzi regolarmente dimoranti sul territorio nazionale: interpretandone i contenuti, la Corte di Cassazione inizialmente aveva optato per l’idea della “continuità normativa” tra le due disposizioni sopra menzionate, esludendo, quindi, che nel caso in esame si fosse verificata un’ipotesi di abolitio criminis, ma successivamente, le Sezioni Unite avevano adottato l’opposta scelta ermeneutica.

Dato atto dell’avvenuto riconoscimento della abolitio criminis nei confronti degli stranieri “irregolari” del reato di inottemperanza all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o dell’attestazione della regolare presenza nel territorio dello Stato, si è prodotto, in relazione agli effetti della abolitio sulle sentenze divenute irrevocabili successivamente alla legge n.94 del 2009, un ulteriore contrasto interpretativo relativo alla possibilità di revocare in executivis la condanna allorchè l’abolitio criminis intervenga prima della decisione del giudice. Secondo un primo filone interpretativo, la revoca in executivis della sentenza per abolizione del reato presuppone che l’evento determinativo della cessazione della illiceità penale della condotta non sia già intervenuto nel procedimento di cognizione, essendo previsto, in questo caso, l’esperimento degli ordinari mezzi di impugnazione per porre rimedio ad eventuali errori od omissioni del giudice; un secondo orientamento, invece, consente la revoca del provvedimento di condanna per abolizione del reato, prevista dall’art.673 c.p.p, anche a fronte di condanna erroneamente pronunciata dopo l’intervenuta abrogazione, sul rilievo che né la disposizione appena citata né l’art. 2 comma 2 c.p. distinguono tra giudicato formatosi prima e giudicato formato dopo l’abolitio criminis.

Sul percorso argomentativo della Cassazione pesava, tuttavia, una precedente pronuncia della Corte di Cassazione, la pronuncia n.230 del 12 ottobre 2012, con la quale la Consulta aveva ritenuto non fondata una questione di costituzionalità dell’art.673 c.p.p, in un caso esattamente sovrapponibile a quello che stiamo esaminando, non riconoscendo la possibilità di revoca della sentenza, essendo stata la pena applicata in un momento successivo alla novella del 2009. Nello specifico, la Consulta, motivando sulla ammissibilità della questione, contestata dall’Avvocatura dello Stato per difetto di rilevanza, aveva osservato che ‹‹ il problema dirimente, nella prospettiva del giudice a quo, è unicamente quello del modo in cui la norma incriminatrice già vigente al momento della realizzazione della fattispecie criminosa, e tuttora in vigore, debba essere interpretata, se, cioè, essa si rivolga o meno anche agli

135 stranieri illegalmente soggiornanti, a prescindere da quale fosse il regime operante prima

dell’intervento del 2009››218

.

Secondo la Cassazione, le osservazioni della Consulta potrebbero essere, tuttavia, superate muovendo dal presupposto che si verte, in questo caso, in ipotesi di effettiva successione di leggi nel tempo e di reale fenomeno di abrogazione parziale prodotta dall’intervento della legge n.94 del 2009 sulla previgente fattispecie incriminatrice, sulla base della quale era intervenuta, appunto, la sentenza di condanna.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno risolto la questione con la sentenza 29 ottobre 2015 riconoscendo la possibilità al giudice dell’esecuzione di revocare, ai sensi dell’art.673 c.p.p, una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la fattispecie incriminatrice, allorchè l’intervenuta abolitio non sia stata presa in esame dal giudice della cognizione.

Possiamo considerare anche altri esempi che mettono in risalto i rapporti sussistenti tra intangibilità del giudicato e revoca della sentenza in caso di abolitio criminis.

Il Tribunale di Udine, in una recente pronuncia del 1 febbraio 2016, ha, infatti, revocato la sentenza n.1642 del 15 dicembre 2010 (divenuta irrevocabile il 14 febbraio 2012) secondo quanto previsto dall’art.673 c.p.p: la sentenza di condanna era stata pronunciata per un reato

di omesso versamento di ritenute certificate ex art.10 bis del dlgs.74/2000219, modificato dal

dlgs.158/2015 che ha determinato una riforma della disciplina in materia di reati tributari. Tra le varie modifiche apportate dalla riforma è stata, infatti, elevata la soglia di punibilità del reato di omesso versamento di ritenute certificate che è passata, così, da 50000 euro a 150000

euro, per ciascun periodo di imposta. Secondo l’orientamento maggioritario220

, la soglia di

218

Corte Cost., 12-10-2012, n.230.

219

La disposizione è oggi, proprio in seguito alla riforma, rubricata “omesso versamento di ritenute certificate o dovute” e punisce l’omissione non solo delle ritenute certificate, ma anche di quelle “dovute sulla base della stessa dichiarazione”. Ciò, oltre ad aver creato perplessità interpretativa sulla sua portata innovativa, ha suscitato diversi dubbi di costituzionalità.

220 In giurisprudenza, da ultimo, Cass., 5 novembre 2015 (dep.25 gennaio 2016), n.3098, in cui si conclude che

“la soglia di punibilità rientra perciò tra gli elementi costitutivi del reato in quanto completa la realizzazione della condotta punibile e dunque partecipa pienamente all’integrazione giuridica della fattispecie penale, non potendo collocarsi tra le condizioni obiettive di punibilità che invece presuppongono un reato già strutturalmente perfetto nei profili oggettivi e soggettivi cosicchè il verificarsi di un evento futuro ed incerto ne condiziona esclusivamente la punibilità, la quale è un elemento esterno alla struttura del reato”; cfr. Cass.pen., sez.III, 26 giugno 2014, n.36859. In dottrina, A. Manduchi, Il ruolo delle soglie di punibilità nella struttura dell’illecito

136 punibilità rappresenta un elemento costitutivo di tali delitti, in quanto elemento fattuale di cui si compone la situazione tipica, della quale contribuisce a definire il disvalore e che deve, pertanto, essere coperto da dolo. Un riposizionamento dell’asticella della punibilità nei termini precedentemente detti non poteva, dunque, che determinare il venir meno della rilevanza penale di una parte delle sotto-fattispecie precedentemente sussumibili all’interno di tali figure di reato.

Di fronte ad un simile mutamento della fisionomia della fattispecie penale astratta, sembra, dunque, corretto parlare di una abolitio criminis parziale, fenomeno che soggiace, tanto quanto l’abolitio totale, alle regole generali di applicazione della legge nel tempo previste dall’art.2 comma 2 c.p, secondo cui ‹‹ nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato››.

Le conseguenze di tale abolizione si apprezzeranno certamente nell’immediato futuro, ma si sono altresì avvertite nei procedimenti in corso al tempo della riforma: tutti gli imputati per i reati “sotto-soglia”, i cui processi erano stati, nella maggior parte dei casi in attesa dell’intervento legislativo, sono stati raggiunti da pronunce assolutorie ex art.530 c.p.p ovvero da declaratorie predibattimentali ex art.129 c.p.p. Ma, come noto, il precetto contenuto nell’art.2 comma 2 c.p prevede altresì che ‹‹ se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali” e trova applicazione l’art.673 c.p.p, in tema, appunto, di revoca della sentenza per abolizione del reato, disposizione la quale, statuendo che ‹‹ nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti››, attribuisce all’abolitio una retroattività illimitata e, dunque, una portata risolutiva del giudicato penale. Di tale strumento si è correttamente servito, previa apposita istanza del difensore del condannato, il giudice dell’esecuzione presso il Tribunale di Udine il quale, con il provvedimento in oggetto, ha revocato una sentenza definitiva di condanna pronunciata in epoca anteriore alla recente riforma dei reati tributari, con cui il condannato era stato condannato a sei mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena, in relazione ad un reato di omesso versamento di ritenute ex art.10 bis dlgs.74/2000 per un ammontare di 61922 euro, importo superiore alla soglia vigente al momento del fatto (50000 euro), ma inferiore all’attuale soglia modificata dal dlgs.158/2015 (150000 euro). La formula utilizzata nel provvedimento è quella indicata dallo stesso art.673 c.p.p, ossia ‹‹ perché il fatto non è previsto dalla legge come reato››. Si tratta, insomma, di una limpida

137 applicazione della disciplina di cui agli art.2 c.p e 673 c.p.p, disciplina posta a garanzia della credibilità complessiva dell’ordinamento e dell’uguaglianza fra i consociati, valori senz’altro preminenti rispetto al dogma dell’intangibilità del giudicato; con la possibilità di revoca della sentenza definitiva il caso in cui si configuri un’ipotesi di abolitio criminis si mira ad evitare che, creatosi un vuoto punitivo nell’ordinamento e venuto meno il disvalore penale della condotta, possa permanere una sentenza fondata su di una norma ormai abrogata e, dunque, priva di quell’efficacia giuridica che ne legittimerebbe l’esecuzione e la produzione di ulteriori effetti penali. Alla revoca consegue, infatti, la cessazione dell’esecuzione della pena principale, delle pene accessorie e degli altri effetti penali della condanna, incidendo, quanto appena detto, non solo, ad esempio, sulla cancellazione dal casellario giudiziario della relativa sentenza, ma anche sulla possibilità del condannato di usufruire di nuovo della sospensione condizionale della pena.

Un’ultima pronuncia che prendiamo in considerazione nell’ambito dei “limiti” del giudicato in caso di abolitio criminis o di successiva modificazione in senso favorevole al reo della fattispecie incriminatrice sulla base della quale era stata in precedenza pronunciata sentenza irrevocabile, attiene una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di

Strasburgo221 la quale ha rilevato, appunto, la violazione della CEDU in relazione alla

mancata applicazione retroattiva di una legge più favorevole entrata in vigore successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna pronunciata nei confronti del ricorrente. Tuttavia, dobbiamo anticipare come in questo caso, la Corte abbia evitato di prendere una posizione netta sui rapporti tra principio della lex mitior e limite del giudicato, sebbene questo rappresentasse proprio il thema decidendum sollevato dal ricorso. La pronuncia in esame trae origine dalla condanna di un ginecologo, colpevole di diversi episodi di abusi sessuali, alla pena di cinque anni di reclusione ed alla sanzione accessoria dell’interdizione perpetua dall’esercizio della professione medica (la prima poi non eseguita in virtù del concorso di taluni benefici penitenziari e di un successivo provvedimento di “grazia generale” il quale, però, non concerneva le sanzioni accessorie). Tuttavia, secondo il nuove codice penale andorrano, entrato in vigore dopo il passaggio in giudicato della sentenza, la durata delle sanzioni interdittive non può eccedere quella della più severa tra le pene principali inflitte con la condanna (art.38 comma 2); l’art.7 del medesimo codice, inoltre, sancendo il principio della retroattività della legge favorevole, ammette espressamente un

221

138 procedimento di revisione laddove la legge più favorevole sia posteriore rispetto al passaggio in giudicato della condanna.

Rivolgendosi alla Corte europea, il ricorrente sosteneva che la mancata applicazione retroattiva della legge penale più favorevole costituisse una violazione dell’art.7 comma 1 CEDU in ragione del quale ‹‹ nessuno può essere condannato per un’azione od un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costitutiva reato secondo il diritto interno o internazionale››. Dal canto suo, il governo resistente segnalava come il passaggio in giudicato della condanna ostasse all’operatività della lex mitior nell’ordinamento nazionale, nel quale le ipotesi di revisione hanno carattere eccezionale e sono, quindi, insuscettibili di applicazione analogica.

Secondo la Corte, tuttavia, sarebbe lo stesso art.7 del nuovo codice andorrano, entrato in vigore successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, a riconoscere la possibilità per qualsiasi condannato di ottenere una revisione della sentenza passata in giudicato nell’ipotesi in cui sopraggiunga una legge favorevole. Sulla base di tali premesse, la Corte europea ha, quindi, dichiarato una violazione dell’art.7 CEDU poiché, laddove lo stesso ordinamento nazionale sancisca espressamente la rilevanza del principio della lex mitior, l’istanza che è sottesa a tale garanzia impone l’applicazione della pena che il legislatore ha successivamente ritenuto proporzionata rispetto ad un determinato reato.

In conclusione, le cadenze argomentative della sentenza appena esaminata finiscono per eludere un confronto diretto con il problema dei rapporti tra principio della lex mitior e limite del giudicato, quasi riportando la questione sollevata nel ricorso sul piano della corretta interpretazione della legislazione nazionale. La Corte dovrebbe verificare che il trattamento cui è stato sottoposto un individuo, indipendentemente dalla conformità dei singoli provvedimenti alla legislazione dello Stato membro, costituisca una violazione dei suoi diritti fondamentali; il diverso approccio adottato nel caso in esame suscitano, invece, l’impressione di una Corte divisa su di una questione disciplinata in modo tutt’altro che omogeneo nei diversi ordinamenti europei ed intenzionata, per il momento, a non sbilanciarsi sullo “statuto convenzionale” del principio della lex mitior.

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Capitolo V

IL NE BIS IN IDEM NEL PANORAMA INTERNAZIONALE