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2.Giudicato penale e “illegalità della pena”

L’erosione del “mito del giudicato” rappresenta un processo sempre più consolidato nella nostra realtà processuale. Il postulato dell’intangibilità del giudicato ha, come abbiamo precedentemente osservato, un fondamento politico rappresentato dall’esigenza di certezza giuridica e dalla stabilità dei rapporti giuridici. Tuttavia, nonostante il riconoscimento del valore dell’incontestabilità del giudicato come istituto volto a garantire le esigenze di giustizia e di verità, negli ultimi anni numerose pronunce delle Corti nazionali e sovranazionali hanno posto in discussione l’impermeabilità della pronuncia giurisdizionale nel caso in cui si renda necessario una “rideterminazione” della pena post-giudicato.

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La sentenza delle Sezioni Unite del 26 febbraio del 2015212, infatti, concerne il problema della

“rideterminazione” in sede esecutiva delle pene riguardanti le “droghe leggere” e divenute definitive prima della pronuncia n.32 del 2014 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della cornice edittale sulla base della quale tali pene sono state stabilite. Dalla dichiarazione, con la suddetta pronuncia della Consulta, dell’incostituzionalità della legge cd. Fini-Giovanardi (legge n.49 del 2006), con cui era stato notevolmente inasprito il trattamento sanzionatorio previsto per le condotte illecite relative alle “droghe leggere”, è conseguita la reviviscenza della più mite disciplina previgente determinata dalla legge cd. Vassalli-Jervolino (legge n.309 del 1990).

In sostanza, nel testo della legge Fini-Giovanardi si prevedeva, appunto, un inasprimento delle pene nei confronti di coloro che facessero uso delle cd.“droghe leggere”, ovvero prevalentemente “cannabis” e “marijuana”; veniva, inoltre, annullata la distinzione tra quest’ultime e le droghe definite “pesanti”, quali eroina e cocaina e spariva, infine, la differenziazione tra possesso per uso personale e spaccio. Nel 2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge 49 del 2006, ripristinando, di fatto, la precedente normativa, ossia, appunto, la legge Vassalli-Jervolino sull’uso, la produzione e lo spaccio di sostanza stupefacenti, la quale stabilisce pene minori per l’uso di droghe leggere.

Questo lo sviluppo della vicenda giudiziaria che ha condotto alla pronuncia delle Sezioni Unite: la sentenza della prima sezione penale della Cassazione riguarda il caso di un condannato alla pena di due anni e 8 mesi di reclusione per la detenzione di sostanza stupefacente rientrante nella categoria “droga leggera” (nella fattispecie canapa indiana) che aveva presentato istanza al Tribunale di Milano in funzione di giudice dell’esecuzione per la rideterminazione della pena, tenendo conto, appunto, della riconosciuta incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi (sulla basa della quale era stata determinata la pena) e della successiva reviviscenza della legge Vassalli-Jervolino, sulla base della quale il trattamento sanzionatorio sarebbe risultato più favorevole al reo. Il giudice, tuttavia, rigettava l’istanza in ragione del sussistente vincolo del giudicato e, quindi, il condannato proponeva ricorso per Cassazione.

La questione presenta innegabili profili interpretativi di rilievo nel recente dibattito giurisprudenziale e dottrinale, in quanto incide su un trattamento sanzionatorio ormai coperto da giudicato e si inserisce in un solco nel quale l’equilibrio tra la firmitas del giudicato penale

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126 e l’emergere del novum è sottoposto a sollecitazioni che tendono a spostare i relativi confini, in un processo speculare di erosione-espansione, un fenomeno che esprime la costante esigenza di coniugare i preminenti fini di giustizia sottesi al processo penale con la pretesa di certezza dei rapporti giuridici.

In ordine ai rapporti tra giudicato e illegalità della pena, l’orientamento tradizionale, in passato prevalente, era attestato sulla soluzione negativa al riconoscimento di un potere di “ridimensionamento” in executivis: la pena inflitta a seguito di condanna irrevocabile resta insensibile alla sopravvenuta modificazione, in senso favorevole al reo, delle disposizioni penali. La cessazione degli effetti penali della condanna, pertanto, secondo questo orientamento, può verificarsi solo nelle ipotesi di abolitio criminis o di dichiarazione di

illegittimità costituzionale della norma incriminatrice213.

Un secondo e più recente orientamento ritiene, al contrario, prevalente il valore della legalità rispetto a quello dell’intangibilità del giudicato. Tale orientamento, sviluppatosi in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità dell’aggravante della clandestinità, pronunciata con la sentenza n.249 del 2010 della Corte Costituzionale, sostiene che gli art.136 Cost. e 30 commi 3 e 4 della l.87/1953 ostino all’esecuzione delle porzioni di pena inflitta dal giudice della cognizione per effetto dell’applicazione di una circostanza aggravante dichiarata illegittima; di conseguenza, spetta al giudice dell’esecuzione individuare tale porzione di pena e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione, ove la sentenza del giudice di cognizione abbia omesso di indicarne specificatamente la misura ovvero abbia proceduto al bilanciamento delle circostanze. Analoghe affermazioni del principio della potestà di rideterminazione della pena in executivis si rinvengono anche in altre pronunce della Corti sovranazionali e nazionali: un esempio è rappresentato dai casi di illegittima applicazione della pena dell’ergastolo in luogo della pena di 30 anni di reclusione, affermata dalla Corte di Strasburgo (Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia), nella vicenda Scoppola e con riferimento ai cd.“fratelli minori di Scoppola”.

213 In tal senso, Cass. Pen., sez.I, 19-01-2012, Haniroun, secondo cui “l’ultimo comma della legge 11 marzo

1953, n.87, art.30, che dispone la cessazione dell’esecuzione e di tutti gli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate in base a norme dichiarate incostituzionali, si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali, con la conseguenza che tale norma debba ritenersi implicitamente abrogata dalla successiva introduzione dell’art.673 c.p.p. Espressiva del medesimo orientamento, affermativo dell’efficacia preclusiva del giudicato, Cass. Pen., sez.VI, 25-01-1995, n.3577, Neglia, seppur con riferimento agli effetti della sentenza 341/1994 della Corte Costituzionale ( dichiarativa dell’illegittimità del minimo edittale previsto dal reato di oltraggio) sui processi in corso.

127 E’ proprio con riferimento alla cd.“saga Scoppola”, scandita da numerose e rilevanti pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite

della Cassazione214, che sono stati affermati principi importanti riguardo i rapporti tra legalità

della pena inflitta e intangibilità del giudicato.

Al riguardo, la Corte Costituzionale, con la sentenza n.210 del 2013, ha affermato che ‹‹ in base all’art.30 comma 4 della legge n.87 del 1953, il giudicato penale non impedisce al giudice di intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della

norma per violazione dell’art.117 comma 1 della Costituzione215››.

Proseguendo con l’esame di questa pronuncia, la Consulta aggiunge che ‹‹ a proposito del procedimento per la rideterminazione della pena, non è necessaria una riapertura del processo di cognizione, ma occorre più semplicemente incidere sul titolo esecutivo in modo da sostituire la pena irrogata con quella conforme alla CEDU e già precisamente determinata

dalla legge. Per una simile attività è sufficiente l’intervento del giudice dell’esecuzione…››216

. Nell’epilogo decisorio che ha chiuso la “saga Scoppola”, le Sezioni Unite “Ercolano” hanno sottolineato la dimensione inviolabile del bene alla libertà personale, bene che non può essere compromesso, in ragione del valore dell’intangibilità del giudicato, dall’esecuzione di una pena anche parzialmente illegittima: in tal senso hanno evidenziato che vi sono argomenti di innegabile solidità che si oppongono all’esecuzione di una sanzione penale rivelatasi, successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima.

Il profilo di legalità della pena è, quindi, un tema che deve ritenersi costantemente sub iudice e non ostacolata dal dato formale della cd.“situazione esaurita”, non potendosi, secondo le Sezioni Unite, tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all’esecuzione di pene non conformi alla CEDU e alla Carta fondamentale.

Secondo la Cassazione, quindi, il valore primario riconosciuto alla libertà personale dell’individuo impone un bilanciamento tra il concetto di incontestabilità del giudicato e altri

214

Cass., S.U., ordinanza 19-04-2012, Ercolano; Cass., S.U., 24-10-2013, n.1882, Ercolano, cit.

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Corte Cost., 18 luglio 2013, n.210, che, a proposito del procedimento per la rideterminazione della pena, ritiene che ‹‹ non è necessaria una riapertura del processo di cognizione ma occorre incidere sul titolo esecutivo in modo da sostituire la pena irrogata con quella conforme alla CEDU e già determinata dalla legge››.

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128 valori, costituzionalmente tutelati, quale, appunto, il diritto fondamentale ed inviolabile alla libertà personale, la cui tutela deve prevalere sul primo. Pertanto, il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti compromissioni di altri diritti fondamentali della persona, con la conseguenza che il divieto di dare esecuzione ad una pena prevista da una norma dichiarata illegittima dal Giudice delle Leggi è esso stesso principio di rango sovraordinato rispetto agli interessi sottesi all’intangibilità del giudicato.

Sempre in tema di rideterminazione della pena a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma che stabilisce il trattamento sanzionatorio, dobbiamo richiamare un’altra recentissima pronuncia delle Sezioni Unite, la sentenza “Gatto” del 29 settembre

2014217, la quale ha affermato, anch’essa, che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di

una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, ma che incide sulla pena stessa, comporta la necessità di una riconfigurazione della pena in sede di esecuzione, che vince la preclusione del giudicato.

Le Sezioni Unite fondano le basi della propria decisione sviluppando due argomentazioni: una, di carattere costituzionale, sulla diversità di presupposti e di effetti tra abrogazione e dichiarazione di illegittimità costituzionale e, l’altra, sull’erosione del dogma dell’intangibilità del giudicato. Il primo argomento fa leva sulle differenze, da un lato, tra abrogazione e successione di norme, entrambi istituti che non estinguono le norme ma ne delimitano la sfera materiale di efficacia, e quindi l’applicabilità, ai fatti verificatisi sino ad un certo momento del tempo e, dall’altro, prende in considerazione la declaratoria di illegittimità costituzionale che inficia, sin dall’origine, la disposizione caducata, impedendo ogni fenomeno di successione di norme nel tempo.

La Cassazione osserva, inoltre, che sia l’abrogazione che la successione sono fenomeni fisiologici dell’ordinamento giuridico, derivanti da una rinnovata e diversa valutazione del disvalore penale di un fatto, mentre la dichiarazione di illegittimità costituzionale palesa un evento di patologia normativa e, quindi, attesta che quella norma non avrebbe mai dovuto essere inserita all’interno dell’ordinamento giuridico.

Il secondo argomento su cui si fonda la pronuncia della Cassazione è, invece, fondato sull’erosione della concezione assolutistica del giudicato: si ribadisce, nel solco delle Sezioni Unite “Ercolano”, che nel bilanciamento tra il valore costituzionale dell’incontrovertibilità del giudicato e il diritto fondamentale ed inviolabile alla libertà personale, va data prevalenza a

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129 quest’ultima, dovendosi ritenere che la conformità della pena a legalità in fase esecutiva debba ritenersi costantemente sub iudice.

La conclusione a cui giungono le Sezioni Unite, dunque, conferma che il diritto alla libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato, cosicchè devono essere rimossi gli effetti ancora perduranti della violazione conseguente all’applicazione di tale norma incidente sulla determinazione della pena, dichiarata poi illegittima dalla Corte Costituzionale successivamente alla sentenza irrevocabile.

Dopo aver valutato questi precedenti, torniamo ad esaminare la vicenda oggetto della sentenza del 26 febbraio 2015. Come anticipato, il condannato, dopo il rigetto dell’istanza presentata al Tribunale di Milano, aveva proposto ricorso per Cassazione. Coerentemente con l’indirizzo fatto proprio dalle Sezioni Unite, la prima sezione penale ritiene che il giudice dell’esecuzione sia tenuto a compiere due successive valutazioni.

In primo luogo, il giudice deve verificare che la pena o la parte di pena di cui si richiede la rideterminazione non sia già stata completamente eseguita, il che renderebbe gli effetti della sentenza irreversibili e, dunque, non più rimuovibili nonostante la sopravvenuta incostituzionalità della norma penale sostanziale. In secondo luogo, qualora la prima valutazione abbia dato esito positivo, il giudice dell’esecuzione deve procedere alla ricostruzione del contenuto della decisione irrevocabile nel senso della “concreta incidenza” sul trattamento sanzionatorio determinato, in sede di cognizione, dalla specifica norma dichiarata incostituzionale, con conseguente ricalcolo della pena, tenendo conto della compiuta ricostruzione del fatto da parte del giudice della cognizione, nonché delle norme applicabili al momento della decisione in punto di commisurazione della pena stessa.

Questo passaggio riassume più aspetti di notevole importanza, che sono successivamente precisati dalla pronuncia in parola. Quanto alla concreta incidenza della norma costituzionale, la Prima sezione osserva che l’incostituzionalità dichiarata con la sentenza n.32 del 2014 ha colpito un intervento di complessiva riforma dell’art.73 del D.p.R n.309 del 1990, con conseguente e automatica riespansione della previgente disciplina, certamente più favorevole al reo per la drastica riduzione dei minimi e massimi edittali; la Prima sezione ritiene che ciò sia sufficiente per considerare che siano viziate tutte le condanne per i fatti commessi durante la vigenza della norma illegittima e divenute definitive prima della declaratoria di incostituzionalità. Quindi, risulta “illegale” il trattamento sanzionatorio delle condotte illecite concernenti le “droghe leggere”, atteso che in relazione a tali sostanze l’intervento normativo dichiarato illegittimo aveva determinato un massiccio incremento dei limiti edittali della

130 sanzione detentiva. E’ chiaro che, seguendo questa impostazione, il solo fatto che le cornici edittali introdotte con la cd. riforma “Fini-Giovanardi” fossero illegittime e non sovrapponibili a quelle che sono state ripristinate, rende automaticamente illegali tutte le condanne definitive, senza che sia necessario valutare caso per caso se le singole pene irrogate siano o meno compatibili con la normativa ritornata in vigore. La Prima sezione postula, dunque, un concetto di “pena illegale in astratto”per cui l’illegalità discenda non da un superamento dell’attuale e ripristinato limite massimo, bensì dal fatto che in ogni caso si tratta di pena determinata sulla base di una forbice edittale dichiarata illegittima.

Si esclude, quindi, che la rideterminazione possa essere limitata ad una mera sottrazione del quantum di pena eccedente i limiti massimi vigenti, né viene accolta l’ipotesi di effettuare una proporzione matematica fra i vecchi e i nuovi estremi della cornice edittale, in modo da riprodurre la medesima collocazione della pena concretamente inflitta nell’arco compreso tra il minimo e il massimo della pena alla luce della normativa ripristinata dalla Corte Costituzionale.

La soluzione adottata dalla Prima sezione parte, invece, dalla considerazione che la commisurazione della pena è frutto di una scelta che il giudice della cognizione compie con discrezionalità in un ambito legislativamente definito tra il minimo e il massimo edittale, per cui il profondo mutamento di cornice derivante dalla declaratoria di incostituzionalità rende necessaria una rivalutazione piena di tale aspetto in sede esecutiva che il giudice dell’esecuzione deve compiere tenendo conto del “fatto”, così come accertato da quello della fase di cognizione, ma non anche dei termini matematici espressi da tale giudice, trattandosi di scelte operate in un quadro normativo alterato dal criterio legislativo (legge Fini- Giovanardi del 2006). Dunque, il giudice dell’esecuzione è chiamato ad operare una rivalutazione che, pur dovendo basarsi su fatti accertati in via definitiva dal giudice della cognizione, implica una nuova determinazione della pena, tenendo conto dei principi generali del sistema sanzionatorio, tra cui quello per cui non può essere aumentata l’afflittività della pena stabilita nella sentenza di condanna; quanto appena detto non esclude che il giudice dell’esecuzione possa stabilire una pena in proporzione più distante dal minimo edittale rispetto a quello precedentemente stabilita in sede di cognizione, fermo restando che in termini assoluti essa non possa essere aumentata.

Quella appena vista rappresenta una soluzione spiccatamente a tutela della libertà personale del condannato a cui, con la nuova determinazione della pena, viene riconosciuto un

131 trattamento sanzionatorio pienamente conforme al quadro edittale ripristinato dalla Corte Costituzionale.

Un diverso orientamento limita l’intervento del giudice dell’esecuzione alla sola non eseguibilità della pena nella misura superiore al nuovo limite edittale massimo (Tribunale di Milano, Sez. XI pen., 3 aprile 2014); un altro ulteriore orientamento è quello secondo cui il giudice dell’esecuzione è chiamato ad una rideterminazione della pena in misura aritmeticamente corrispondente a quella effettuata in sede di cognizione (Tribunale di Bologna, ud. 27 maggio 2014).

Osserviamo, dunque, come sussistevano un pluralità inconciliabile di indirizzi, dovuta sostanzialmente alla mancanza di una disposizione processuale che preveda in modo espresso il potere di rideterminare la pena definitiva a seguito di incostituzionalità sopravvenuta di una norma penale sostanziale diversa da quella incriminatrice.

I contrasti interpretativi appena citati sono stati affrontati, appunto, dalla sentenza delle Sezioni Unite del 26 febbraio del 2015 con cui sono state affrontate le questioni relative alla necessità o meno di rideterminazione della pena in sede esecutiva e del criterio da seguire nell’operare la rideterminazione stessa. La pronuncia in esame risolve, quindi, diversi quesiti. In primo luogo, essa ha riconosciuto la possibilità di rivalutazione della pena da parte del giudice dell’esecuzione alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per effetto della reviviscenza della disciplina determinatasi per effetto della pronuncia della Consulta n.32 del 2014 che ha sancito l’incostituzionalità della norma che aveva determinato il trattamento sanzionatorio. In secondo luogo, la Corte ha stabilito che, in relazione ai reati concernenti le cd.“droghe leggere”, la pena applicata con sentenza di patteggiamento sulla base della normativa dichiarata incostituzionale dalla sentenza n.32 del 2014 della Corte Costituzionale debba essere rideterminata anche nel caso in cui la stessa rientri nella nuova cornice edittale applicabile. Inoltre, con la medesima pronuncia, la Corte ha riconosciuto che l’illegalità della pena, conseguente alla dichiarazione di incostituzionalità di norme attinenti al trattamento sanzionatorio, sia rilevabile d’ufficio, nel giudizio di cassazione.

Infine, le Sezioni Unite hanno precisato che la pena applicata su richiesta delle parti per i delitti in materia di “droghe leggere” disciplinati dalla reviviscente legge 309 del 1990, a seguito della riconosciuta incostituzionalità della legge n.49 del 2006, deve essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione attraverso la “rinegoziazione” dell’accordo tra le parti, ratificato dal giudice dell’esecuzione, che viene interessato attraverso l’incidente di esecuzione attivato dal condannato o dal pubblico ministero; in caso di mancato

132 accordo, il giudice dell’esecuzione provvede alla rideterminazione della pena in base ai criteri di cui agli articoli 132 e 133 del codice penale.

In conclusione, le Sezioni Unite hanno riconosciuto la possibilità di rideterminazione della pena nel caso in cui, successivamente alla formazione del giudicato, sia intervenuta una pronuncia che dichiarata l’incostituzionalità di una norma, diversa rispetto a quella incriminatrice, che incida sul trattamento sanzionatorio e a condizione che la pena non sia già stata scontata, poiché, in questa evenienza, gli effetti penali della condanna sono irreversibili.

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