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L'associazionismo pro-life in Toscana. Analisi in prospettiva comparata del Movimento per la Vita nelle città di Pisa, Lucca, Firenze e Prato

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Academic year: 2021

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Introduzione  

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1  

1. Teoria dei movimenti

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1.1. Teorie utilizzate per l’analisi del Movimento Per la Vita

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14

1.3. Conclusioni

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2. Le caratteristiche dei movimenti sociali

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2.1. La solidarietà

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19

2.2. Iniziative,organizzazione e contatti

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22

2.3. L’azione collettiva

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25

2.4. Relazioni con élites

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27

2.5. Il ruolo dei media

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31

2.6. Contromovimento

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2.7. Metodo e selezione dei casi

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2.8. Conclusioni

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39

3. Associazionismo e terzo settore

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3.1. Lo statuto del Movimento Per la Vita

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41

3.2. Conclusioni

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4. I movimenti pro life  

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46  

4.1. Organizzazione

 

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47

 

4.2. Attivismo sul territorio

 

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4.4. Legge 194

 

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54

 

4.5. I consultori

 

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4.6. Gli obiettori

 

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61

 

4.7. RU 486 e la Toscana

 

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67

 

4.8. Possibili rivalità

 

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71

 

4.9. Conclusioni

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72

5. I CAV in città di tradizione progressista: Pisa e Firenze

pag. 73

5.1. Il Centro Aiuto alla Vita di Pisa

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74

5.2. Il Centro Aiuto alla Vita di Firenze

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85

5.3. Uguaglianze e differenze

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95

5.4. Conclusioni

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97

6. I CAV in città di tradizione cattolica: Lucca e Prato

pag. 98

6.1. Il Centro Aiuto alla Vita di Lucca

pag.

99

6.2. Il Centro Aiuto alla Vita di Prato

pag. 107

6.3. Uguaglianze e differenze

pag. 117

6.4. Conclusioni

pag. 120

7. Analisi tra i CAV in città di centrosinistra e CAV in città

di tradizione cattolica

pag. 121

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Introduzione

Il presente lavoro analizzerà il fenomeno antiabortista in Italia, rappresentato soprattutto dal tanto discusso Movimento per la Vita. Questo Movimento, forte dell’appoggio politico e della Chiesa Cattolica, si è radicato e organizzato capillarmente a livello territoriale sia a livello nazionale che internazionale, ha fissato i suoi obiettivi, le attività ed ha avuto addirittura influenza negli enti statali. In modo particolare sarà svolta un’analisi del ruolo del movimento in Toscana e il suo rapporto con la legislazione nazionale tanto contrastata da questi movimenti grazie all’ausilio di fonti delle maggiori testate nazionali, regionali e documenti autoprodotti dal Movimento, in modo da capire nello specifico la loro concezione riguardo alla tematica studiata. Sarà analizzato il periodo dell’approvazione della Legge 194 e l’attualità, per quanto riguarda la reale attuazione della legge nelle regioni e l’intensificarsi delle proteste antiabortiste.

Per l’analisi del Movimento saranno seguiti due importanti approcci: il resource mobilization approach e il political process model, perché sono in grado di spiegare le dinamiche dell’azione collettiva che si svolge al di fuori dei partiti, ridurre i costi dell’azione, utilizzare e creare reti di solidarietà, distribuire incentivi ai membri, acquisire consenso all’esterno e il saper cogliere le opportunità politiche. Con il concetto di struttura delle opportunità politiche si intendono tutti quegli elementi caratteristici di un sistema politico che influenzano l’azione dei movimenti sociali come: il grado di apertura o chiusura dei sistemi politici, il decentramento territoriale, il grado di tolleranza dimostrato dalle élites nei confronti della protesta e il rapporto che si instaura con gli alleati o gli oppositori. L’analisi dei movimenti effettuata con questi criteri ha messo in evidenza anche come a mobilitarsi non sono gli individui più isolati e sradicati della società, ma coloro che sono o erano attivi e ben integrati nella collettività. La mobilitazione deriva inoltre dal modo in cui i movimenti sociali sono in grado di organizzare lo scontento: questo lo vedremo per l’MPV nella reazione all’attuazione della Legge 194, come riducono i costi dell’azione, utilizzano e creano reti di solidarietà su tutto il territorio, distribuiscono incentivi ai membri e acquistano consenso esterno sia tra civili sia tra le élites politiche.

L’analisi del movimento antiabortista si differenzia dall’usuale analisi del tipico movimento sociale, poiché è considerato più come un “contromovimento”, perché si oppone alla mobilitazione per il diritto di scelta riguardante l’interruzione di gravidanza.

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Si ha quindi contro mobilitazioni, orientate ad opporsi a cambiamenti e all’allargamento dei diritti della donna.

Il “contromovimento” rappresenta una reazione ad entrambi i processi: l’attacco alla estensione di quei diritti civili, presentati come riduzione delle libertà dei credenti, e l’appello alla sussidiarietà della società civile, come disconoscimento delle responsabilità delle istituzioni pubbliche nella difesa e implementazione di quei diritti.

La seconda parte sarà invece dedicata ad un’indagine più diretta dei movimenti: saranno presentati i risultati di interviste poste ai volontari del Centro Aiuto alla Vita in Toscana, in particolare ad attivisti sia del centro di Firenze, luogo di “nascita” del Movimento Per la Vita a livello nazionale, sia del centro pisano, verificando come queste realtà convivono in città progressiste. Dall’altro lato saranno intervistati volontari delle roccaforti del cattolicesimo toscano: il centro MPV di Prato, molto organizzato e radicato sul territorio, e il centro lucchese gestito dalla Diocesi. Sarà svolta un’indagine sulla Toscana in quanto questa Regione è all’avanguardia nelle politiche sanitarie: è la prima regione italiana ad adottare la RU486 e dal 2014 è disponibile senza ricovero. Il Movimento si batte invece sulla modifica della Legge 194, non è d’accordo né di affidare alle Regioni il miglioramento della gestione della legge, né di chiedere soltanto “linee guida” al Governo, né di affidarsi esclusivamente a leggi sociali che prospettino vantaggi a chi genera figli.

L’attenzione sarà rivolta all’interpretazione che l’intervistato dà del processo sociologico, seguendo motivazioni personali, credenze e interessi che spingono all’attivismo: sarà utile analizzare il significato che gli intervistati attribuiscono al mondo esterno e alla propria partecipazione al Movimento, con parallela analisi di materiale autoprodotto da essi e fonti derivate dalle testate regionali e nazionali. Lo scopo è arrivare a una descrizione completa e dettagliata dell’azione dei CAV, le loro differenti organizzazioni, quali sono stati i periodi più importanti della mobilitazione, le difficoltà se presenti, con la Regione Toscana in quanto regione “rossa” e le amministrazioni comunali, arrivando a un’analisi più personale, per capire i motivi reali che spingono i volontari dei Centri ad agire a livello locale per conto del Movimento Per la Vita.

Importante sarà capire se effettivamente il Movimento Per la Vita ha autorità sui Centri e che quindi svolga effettivamente un’influenza rilevante a livello territoriale. Sarà approfondita l’organizzazione dei Centri, se la realtà è ben diversa da quanto descritto dallo stesso Movimento, se i Centri Aiuto alla Vita operano in autonomia appoggiandosi

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ad autorità ecclesiastiche o altre associazioni di volontariato, se tenegono contatti con il Movimento solo per eventi politici-culturali e occasioni di sensibilizzazione come per esempio la Giornata Per la Vita o la Marcia per la Vita.

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1. Teoria dei movimenti

Nella grande mobilitazione di massa che dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta ha attraversato l’Italia e altre democrazie occidentali, sono emersi nuovi movimenti sociali, caratterizzati sia dalla novità dei temi affrontati che dagli attori impegnati in questi “conflitti” (giovani, donne, nuovi gruppi professionali, ecc.). Proprio lo sviluppo di questi movimenti ha reso evidente, come i due principali modelli teorici di interpretazione del conflitto sociale, quello struttural-funzionalista e quello marxista, non erano più in grado di interpretare i nuovi conflitti1. Sia negli Stati Uniti sia in Europa, c’è stata una critica delle rispettive tradizioni di studio sui movimenti sociali, con un conseguente aumento di attenzione da parte di studiosi di scienza politica e di sociologia a questo tema fino a quel momento considerato marginale. La tradizione marxista, anche se non si è mai occupata esplicitamente dei movimenti sociali, sostiene che le azioni di protesta presenti nelle società sono azioni razionali motivate da interessi di classe, e dirette a provocare mutamenti radicali. Secondo Karl Marx, la classe esprime una comune condizione di esistenza, presupposto del sorgere di quella coscienza di classe che permette agli individui di mobilitarsi. Le azioni di protesta scaturiscono dalle contraddizioni del sistema capitalistico, il quale contiene già i germi della propria dissoluzione, il proletariato. Questo, nella dialettica marxista, soppianterà la classe borghese, rea delle ingiustizie presenti. Si può intuire facilmente come questo tipo di approccio non risultasse più idoneo a dare una spiegazione dei nuovi fenomeni dove, come già accennato, a mobilitarsi sono stati soprattutto nuovi attori. Anche le tematiche su cui s’incentrava il conflitto non erano più inquadrabili nelle principali divisioni intorno alle quali si erano composti i sistemi politici delle società industriali: soprattutto, non erano più conflitti di classe (anche se non bisogna sottovalutare le lotte operaie in Italia di quegli anni). Il modello marxista non era più in grado di spiegare le dinamiche di quest’azione collettiva, che si svolgeva al di fuori di strutture rigidamente organizzate quali i partiti. Per quanto riguarda la sociologia americana, la scuola che si occupava dello studio dei movimenti sociali era il collective behaviour approach2. I movimenti sociali erano descritti come fenomeni prevalentemente irrazionali che si sviluppano quando si diffonde un sentimento d’insoddisfazione verso il sistema, e a cui le istituzioni non riescono a dare risposta. I limiti di questo tipo di approccio sono diversi: si usa un unico concetto per designare fenomeni diversi quali le folle, i moti, il panico, le mode e i                                                                                                                          

1 TARROW S., 1990, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e protesta in Italia. 1965- 1975, Laterza, Bari,

p.97.

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movimenti sociali, facendo più attenzione alle dinamiche impreviste come ad esempio le reazioni che si scatenano all’interno di una folla, che alle strategie consapevoli che gli attori sociali mettono in pratica per raggiungere l’obiettivo. E' data inoltre una descrizione della realtà, senza dedicare attenzione alle fonti strutturali del conflitto che provocano la mobilitazione. La reazione a queste carenze assunse però forme diverse sulle due sponde dell’Atlantico. Comunemente, infatti, si usa fare riferimento ad un approccio “americano” e uno “europeo” nello studio dei movimenti sociali3. Questo fatto è dovuto principalmente a due motivi: il primo è rintracciabile nelle differenze esistenti tra le tradizioni culturali nelle scienze sociali nei due continenti; il secondo, nell’aver utilizzato dei diversi oggetti di studio per l’analisi delle proteste. Infatti, pur essendosi sviluppati contemporaneamente, e pur essendo in contatto l’uno con l’altro, i movimenti collettivi della fine degli anni Sessanta e quelli che li seguirono, ebbero caratteristiche parzialmente diverse nei due continenti. Negli Stati Uniti i movimenti protagonisti dell’ondata di protesta si trasformarono il più delle volte in gruppi di pressione oppure, quando avevano un forte sentimento antisistema, vennero assumendo un carattere contro-culturale. In Europa i movimenti sociali sono stati influenzati dai forti movimenti operai nazionali, e da questi hanno ereditato la forte ideologizzazione e i tratti marcatamente antisistema4.

Le scuole di pensiero che si sono formate negli Stati Uniti in concomitanza dei movimenti degli anni Sessanta, e che contestano l’approccio struttural-funzionalista, dove questi vengono considerati come un sintomo di malessere a livello sociale, sono il resource mobilization approach e il political process model5. Entrambi sottolineano la razionalità dei comportamenti collettivi, e il fatto che i movimenti, come del resto gli altri attori politici, sono consapevoli del proprio ruolo nel mutamento sociale. In Europa invece l’insoddisfazione nei confronti del marxismo sviluppò la prospettiva di analisi dei nuovi movimenti sociali, che intendeva sottolineare la novità di questi movimenti rispetto a quello operaio, sia per quanto riguarda i temi su cui si svolgeva la mobilitazione, che per la novità degli attori impegnati nei conflitti.

L’analisi dei processi di mobilitazione delle risorse necessarie all’azione collettiva, sviluppatasi negli Stati Uniti nel corso degli anni Settanta, considera i movimenti sociali                                                                                                                          

3 SMELSER, N. J., 1995, Manuale di sociologia, Il Mulino, Bologna, p.60.  

4 TARROW S., 1990, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e protesta in Italia. 1965-1975, Laterza, Bari,

p.117.

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un’estensione delle forme tradizionali di azione politica, che agiscono in modo razionale per il perseguimento dei propri interessi. Sono soggetti coscienti che applicano delle scelte razionali e sono anche, come già negli anni Venti li aveva considerati la Scuola di Chicago, attori del mutamento del sistema: non un fenomeno patologico, una devianza o una disfunzione del sistema stesso, come erano stati descritti dalla sociologia americana del collective behaviour6. Secondo il resource model approach, l’azione collettiva nasce dal calcolo razionale degli interessi da perseguire in una società, che è composta da gruppi sociali in conflitto tra loro; quindi per poter dare una spiegazione esaustiva ai movimenti sociali non basta scoprire l’esistenza di tensioni e conflitti strutturali, occorre anche studiare le condizioni che permettono di trasformare lo scontento in mobilitazione. Studiosi come Zald, Oberschall, Tilly7, sostengono che la capacità di mobilitazione

dipende dalle risorse materiali (lavoro, denaro, beni concreti e servizi) e non dall’autorità, impegno morale, fede, relazioni d’amicizia a disposizione di un gruppo. Tali risorse vengono distribuite dal gruppo a seconda degli obiettivi che si sono prefissati, facendo un calcolo razionale dei costi e dei benefici. Di conseguenza tipo ed entità delle risorse disponibili spiegherebbero le scelte tattiche dei movimenti, e le conseguenze sul sistema sociale e politico. La mobilitazione deriva dal modo in cui i movimenti sociali sono in grado di organizzare lo scontento, ridurre i costi dell’azione, utilizzare e creare reti di solidarietà, distribuire incentivi ai membri, acquisire consenso all’esterno e non solo quando si diffonde un sentimento d'insoddisfazione, come avevano affermato i sociologi del collective behaviour8. Le tensioni, i possibili conflitti all’interno di una società sono tanti, e per capire però quando esplodono e come si formano i movimenti sociali bisogna guardare alle risorse che hanno a disposizione in un particolare periodo questi attori. Si può dunque affermare che le basi strutturali del conflitto non solo non costituiscono una spiegazione sufficiente, ma non danno una spiegazione come da una stessa contraddizione possa emergere un movimento pragmatico o uno violento, un movimento, come lo sono molti in Europa, che riprenda la frattura tra destra e sinistra presente appunto all’interno delle società europee.

L’analisi dei movimenti effettuata con questi criteri ha messo in evidenza anche come a mobilitarsi non sono gli individui più isolati e sradicati della società, ma coloro che sono o erano attivi e ben integrati nella collettività. Infatti chi si mobilita lo fa sia per una                                                                                                                          

6 SMELSER, N. J., 1995, Manuale di sociologia, Il Mulino, Bologna, p.98. 7 Ibidem.

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gratificazione morale, intrinseca nel perseguimento di un bene collettivo, ma anche per l’esistenza di legami di solidarietà sia orizzontali, cioè interni alla collettività, che verticali, tra collettività differenti. Varie ricerche hanno dimostrato come i partecipanti alle sommosse popolari e gli attivisti nelle organizzazioni d’opposizione, vengono reclutati in primo luogo tra gli individui precedentemente attivi e ben integrati nella collettività, mettendo in evidenza come gli individui socialmente più isolati e sradicati sarebbero meno rappresentati. Varie critiche sono state mosse a questo tipo di approccio, come la scarsa attenzione alle origini strutturali del conflitto e l’aver trascurato la capacità di organizzarsi dei gruppi sociali meno dotati di risorse.

In questo approccio di studio si è prestata attenzione soprattutto alle risorse organizzative e ideologiche di un movimento, cioè quelle che possiamo definire come risorse interne, considerate come il fattore più influente per la loro mobilitazione, ma, come affermano i teorici del political process model, per capire come i movimenti collettivi si sviluppano in maniera differente nei diversi contesti nazionali, bisogna guardare anche alle risorse esterne che questi trovano nel loro ambiente9. La mobilitazione dipende in grande misura

dalla struttura delle opportunità politiche, che in un dato contesto sono offerte ai movimenti sociali. I movimenti sociali nascono e si sviluppano non in risposta a delle condizioni di disagio psicologico dovute al ritmo rapido del cambiamento sociale, ma a delle “opportunità politiche” che si aprono a seguito di tale cambiamento strutturale. Gli studiosi che si rifanno a questo tipo di approccio analizzano le relazioni tra attori politici istituzionali e di protesta, rifiutando di considerare i movimenti esclusivamente come anti-istituzionali, e mettono in risalto il ruolo dei movimenti nella rappresentanza degli interessi degli individui. Con questo tipo di approccio, lo studio sui movimenti sociali viene effettuato prestando attenzione all’ambiente politico e istituzionale in cui questi operano. Con il concetto di struttura delle opportunità politiche si intendono tutti quegli elementi caratteristici di un sistema politico che influenzano l’azione dei movimenti sociali come: il grado di apertura o chiusura dei sistemi politici, il decentramento territoriale, il grado di tolleranza dimostrato dalle élites nei confronti della protesta e il rapporto che si instaura con gli alleati o gli oppositori. Tarrow ad esempio, nella sua analisi dei cicli di protesta in Italia dal 1965 al 197510, ha messo in evidenza come lo sviluppo dei movimenti sociali sia influenzato dal grado di apertura del sistema politico.                                                                                                                          

9 SMELSER, N. J., 1995, Manuale di sociologia, Il Mulino, Bologna, p.330.

10 TARROW S., 1990, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e protesta in Italia. 1965- 1975, Laterza, Bari,

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La partecipazione ad un movimento sociale si intensifica quando si aprono canali di accesso nel sistema politico, portando gli attivisti a credere nella possibilità di successo della protesta.

Opportunità politiche:

- allargamento dei diritti- grado di decentramento territoriale - separazione funzionale del potere

- strategie prevalenti dello Stato, più o meno inclusive - presenza di alleati dei movimenti e di avversari

Da questo punto di vista, l’emergere di nuovi movimenti nel corso degli anni Sessanta in Italia è stato favorito dall’esperienza del governo di centro-sinistra, che aveva creato sia delle speranze di riforma profonde nella società, che la convinzione di trovare degli alleati all’interno delle istituzioni. La presenza di questi alleati all’interno del sistema politico, rende i movimenti più moderati nelle forme di azione e nelle ideologie11. Invece la perdita di alleati istituzionali, può scoraggiare una mobilitazione di massa, e radicalizzare le forme di azione di coloro che restano attivi nei movimenti.

Nuove categorie sociali caratterizzano percezioni, personali e sociali, e rituali sottesi alle identità, al senso di appartenenza, ai processi di riconoscimento, modificando di conseguenza il modo di intendere tali concetti in senso sociologico. Tali percezioni e rituali si complicano nel caso delle cosiddette “identità collettive”. La nozione riguarda proprio il risultato di processi complessi che derivano dall’esperienza del soggetto all’interno del gruppo, associazione o movimento, con il quale egli si identifica e al quale sente di appartenere. Dunque, l’identità collettiva non verrà mai acquisita stabilmente, ma continuamente sperimentata e rinegoziata attraverso il dialogo, conflittuale o non, con chi appartiene al “noi”, ma pure con chi fa parte del “loro”12. Se assumiamo infatti che gli attori partecipanti siano i testimoni principali di un’ipotetica “identità collettiva” e che gli aspetti di tale identità siano rilevabili dall’osservatore solo in parte, attraverso i simboli e il linguaggio utilizzati dal gruppo, la ricostruzione dell’oggetto d’indagine (identità collettiva) deriverà in buona parte dal racconto delle persone che la costituiscono. Ognuno racconterà però la propria esperienza di costruzione della propria identità personale e sociale nel gruppo, pure attraverso altre esperienze pregresse e parallele; ogni                                                                                                                          

11 TARROW S., 1990, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e protesta in Italia. 1965- 1975, Laterza, Bari,

p.246.  

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soggetto sarà pertanto l’interprete principale della propria identità. Di conseguenza, il ricercatore si confronterà con ogni partecipante al fine di acquisire informazioni circa l’identità del gruppo ottenendo praticamente il resoconto dei singoli percorsi di identità all’interno del movimento. Essere parte di un’identità collettiva significa anche possedere una rappresentazione di sé “nel gruppo” e del gruppo dall’esterno. Questa tesi, già sostenuta appunto da Melucci, potrebbe rappresentare una delle principali indicazioni per una migliore comprensione analitica dei movimenti sociali. Assumendo infatti che il principale testimone della propria identità personale e sociale sia l’attore/partecipante e che gli aspetti di quella che comunemente viene denominata “identità collettiva” siano rilevabili dall’osservatore solo parzialmente attraverso i simboli e il linguaggio utilizzati dal gruppo-movimento, conseguirebbe che la cosiddetta identità del movimento non potrà che essere un costrutto sociale. Essa deriverà infatti dai racconti dei partecipanti dell’esperienza di costruzione della propria identità personale e sociale nel movimento. Agli albori della modernità, l’identità era una costruzione certa dove continuità e coerenza non venivano continuamente messe in discussione: oggi l’individuo sta al centro di processi di negoziazione e rinegoziazione all’interno dei quali si trova spesso a scegliere da solo. Come già detto, i bisogni di appartenenza e di riconoscimento sono centrali nella vita di ogni individuo, egli ridefinisce continuamente la sua posizione personale e sociale all’interno dei numerosi processi di interazione/integrazione intrecciando e sviluppando nuove e vecchie relazioni. Di conseguenza, il gruppo sarà interpretato dai suoi membri come un nuovo soggetto a cui sentono di appartenere più o meno totalmente, diventando il tramite della soddisfazione dei loro bisogni e desideri paralleli e interconnessi. Identificarsi col gruppo può divenire per questo fondamentale elemento di stabilità e dare luogo a dimensioni di appartenenza basate su ragioni molto distanti da quelle del passato, legate a nuovi ideali e valori che, sebbene non sempre riferiti al bene collettivo o alla difesa di modelli democratici di vita quotidiana, davano impulso alla partecipazione ai movimenti sociali. La frammentazione tipica della società multiculturale e globalizzata inserisce però la variabile “incertezza”, nonché la difficoltà a trovare punti fermi e istituzioni di riferimento certe, tali da rispondere in modo stabile e duraturo ai bisogni identitari degli individui13.

Anche il concetto di identità collettiva è andato mutando coi tempi. Inizialmente infatti l’identità collettiva veniva identificata nell’appartenenza e riconoscimento da parte dei

                                                                                                                         

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membri di un movimento a un’ideologia comune che orientava l’azione collettiva14, successivamente riconosciuta nell’appartenenza culturale, e oggi orientata alla difesa dei diritti soggettivi. Sono numerosi i motivi di tale partecipazione e non sempre il legame con il concetto di identità emerge con chiarezza. Le persone aderiscono a un movimento per svariati motivi e tali motivi concernono questioni sia individuali, relative alle esperienze pregresse o situazioni, che socio-strutturali, anche in questo caso connesse all’esperienza o alle circostanze. Come si evidenziava precedentemente non tutti partecipano per seguire le loro convinzioni morali e/o ideali, ma lo fanno, ad esempio, perché hanno amici o conoscenti che sono già membri del movimento o per motivi legati alla loro professione. Tra le ragioni individuali c’è poi chi partecipa perché sente o ha bisogno di aderire a comuni valori identitari o semplicemente perché lo trova divertente, o ancora chi lo fa pur non desiderandolo né avendo la convinzione di farlo. Tra le condizioni socio-strutturali potremmo invece trovare chi partecipa perché privo di pressanti oneri di vita quotidiana (famiglia, lavoro a tempo pieno ecc.) e dunque provvisto di parecchio tempo libero. In questo senso, l’identità collettiva si formerebbe attraverso la partecipazione a tre livelli di azione collettiva: l’organizzazione, il movimento e il gruppo di solidarietà. Ogni partecipante porterà all’interno del movimento le sue opinioni che, funzionando da frame, influenzeranno l’agire collettivo e contribuiranno a fondarne l’identità collettiva15. Di conseguenza, considerando pure l’indeterminatezza della composizione del gruppo, questa non verrà acquisita una volta per tutte, ma continuamente rinegoziata attraverso il dialogo. I soggetti, la loro mobilità rispetto al movimento, le loro percezioni rispetto al gruppo e all’antagonismo di gruppo e, infine ma non ultime, le ‘ragioni’ della loro partecipazione emergono come centrali in una definizione contemporanea di identità collettiva che tenga conto degli apporti individuali scaturenti dalle identità personali e sociali coinvolte.

Infine altro elemento del sistema politico che influenza la formazione dei movimenti sociali è il grado di tolleranza dimostrato dalle élites verso la protesta, in particolare le strategie prevalenti utilizzate per reprimere la protesta. Queste strategie sono state distinte in esclusive, caratterizzate dalla repressione dei conflitti, e inclusive, orientate alla cooperazione con le nuove domande. Gli studiosi del political process model hanno messo in evidenza come in alcuni paesi dell’Europa, Italia, Francia e Germania16,                                                                                                                          

14 SMELSER, N.J., 2011, The theory of collective behavior, Taylor & Francis, Oxford, UK, pag.273. 15 Ibidem.

16 TARROW S., 1990, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e protesta in Italia. 1965- 1975, Laterza, Bari,

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l’esperienze di regimi totalitari e anche la ritardata introduzione del suffragio universale avrebbero portato ad adottare strategie di tipo esclusivo nei confronti degli “sfidanti” del sistema politico. Questo atteggiamento nei confronti degli “sfidanti”, avrebbe influenzato il movimento operaio che in questi paesi si è contraddistinto per essere diviso e radicalizzato. Al contrario, in paesi come Gran Bretagna e i Paesi scandinavi, dove non vi sono state esperienze assolutistiche e con una precoce introduzione del suffragio universale, le strategie sarebbero di tipo inclusive, infatti i movimenti operai sono stati caratterizzati dall’unità interna e dalla moderazione delle forme di protesta17. Da queste analisi è emerso come i regimi politici qualificati da strategie inclusive sarebbero aperti ai nuovi sfidanti, e i movimenti che emergono più moderati; al contrario i regimi caratterizzati da strategie esclusive sarebbero chiusi rispetto alle domande emergenti, e qui vi sarebbe una radicalizzazione della protesta. Di recente è stato osservato da questi studiosi che in tutte le democrazie si sta adattando una tendenza più inclusiva, con una prevalenza di strategie di mediazione, nella gestione dell’ordine pubblico. Questo elemento favorisce il proliferare di movimenti sociali diffusi e pacifici.

Inoltre, altra variabile che può influenzare lo sviluppo dei movimenti è il rapporto che si instaura tra i movimenti sociali e i loro possibili alleati od oppositori. I movimenti sociali trovano in genere alleati od oppositori nell’amministrazione pubblica, nel sistema dei partiti e nella società civile, e quindi secondo gli studiosi del political process model18, bisogna anche prestare attenzione a che genere di rapporti si instaurano tra questi attori, per capire che influenze hanno sui movimenti sociali. Il sistema di alleanze infatti fornisce risorse e crea opportunità politiche per gli sfidanti, che invece gli oppositori cercano di eliminare. Attraverso le differenze che si riscontrano tra il movimento studentesco italiano e quelli che si sono sviluppati negli altri paesi negli anni Sessanta, si può capire l’influenza ha avuto nei movimenti il rapporto con i partiti della sinistra. Questi gli fornivano sia delle consistenti risorse per le mobilitazioni, ma hanno anche la forte ostilità degli oppositori della sinistra. Ciò ha fatto sì che però per differenziarsi dalla sinistra tradizionale, in Italia i movimenti hanno assunto caratteri utopici o radicali mentre, negli altri paesi, dove il rapporto con i partiti di sinistra era meno forte, si sono caratterizzati per aver introdotto dei nuovi temi.

                                                                                                                         

17 TARROW S., 1990, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e protesta in Italia. 1965- 1975, Laterza, Bari,

p.350.

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L’ampliamento dell’accesso all’istruzione superiore, l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, lo sviluppo economico, hanno fatto emergere dei nuovi conflitti e aumentato la rilevanza dei criteri di stratificazione sociale, spostando l’attenzione ad esempio dalle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche, alle rivendicazioni degli studenti per un’istruzione che non sia più d’élite, o ancora alle lotte delle donne o degli omosessuali per una maggiore tutela delle proprie condizioni. E’ a queste novità presenti nelle società che prestano attenzione i sociologi europei nello studiare le origini strutturali dei conflitti emersi negli anni Sessanta. Secondo studiosi come Touraine, Melucci, i movimenti nati negli anni Sessanta sono “nuovi” rispetto al movimento operaio19. Le origini del conflitto non sarebbero più rintracciabili nella contrapposizione capitale-lavoro, ma centrale per questi movimenti diviene la critica verso il modernismo e il progresso, tentano di opporsi alla penetrazione dello Stato nella vita sociale, e difendono la sfera dell’autonomia personale. Questo cambiamento è dovuto, sostengono i teorici dei nuovi movimenti sociali, alla crescita dello Stato del benessere e alla centralizzazione dell’economia capitalistica, che ha spostato l’attenzione dai temi del benessere materiale a quelli relativi allo stile di vita.

Dagli anni Ottanta in poi, i sociologi hanno parlato della fine dei movimenti: ma, come sostiene Della Porta20, questo non è vero, ed è più giusto parlare della creazione in quegli anni di associazioni vicino ai movimenti, e di partiti vicini ai movimenti.

Secondo la teoria pluralista di Bentley, i gruppi sono gli attori più rilevanti in politica21. La competizione tra diversi gruppi, rappresentanti di altrettanti interessi, porta ad una mediazione tra di essi permettendo di avvicinarsi così ad una sorta di bene comune. In questo senso, la presenza di tanti gruppi in conflitto o in competizione viene vista come benefica per la democrazia. Secondo Truman22, la sfida proveniente dai gruppi attivi porta alla mobilitazione di gruppi latenti, cioè gruppi che pur condividendo un interesse non si sono ancora organizzati. In secondo luogo, gli effetti della partecipazione sono visti come particolarmente socializzanti: la vita nelle associazioni educherebbe all’interazione con gli altri, allontanando dal proprio interesse egoistico e insegnerebbe a comunicare e collaborare, portando coesione sociale. In terzo luogo, gli individui che si organizzano sono meno dipendenti dalle istituzioni pubbliche. Infatti i gruppi sono gli                                                                                                                          

19 SMELSER, N. J., 1995, Manuale di sociologia, Il Mulino, Bologna, p.130.

20 DELLA PORTA D., DIANI M.,1997, I movimenti sociali, La Nuova Italia Scientifica, Roma, p.65.   21 MATTINA L., 2010, I gruppi di interesse, Il Mulino, Bologna, p.35.

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attori centrali della democrazia ed esprimono la capacità della società di organizzarsi dal basso e il governo ha il ruolo di mediare fra i diversi interessi.

Lo studio dei gruppi ha spostato l’attenzione sulle diverse aree di policy. Il mutato atteggiamento ha generato diverse critiche all’approccio pluralista da parte degli studiosi, convergendo da differenti percorsi di ricerca, si riconoscono nell’approccio reti di policy o policy networks. Con questo concetto si è spostata l’attenzione sulle relazioni di scambio, più o meno istituzionalizzate, che avvengono tra i diversi apparati dello stato e i gruppi privati tenendo di conto le differenze settoriali e sub settoriali che si possono riscontrare in tali relazioni. La settorializzazione viene alimentata dalla necessità delle istituzioni pluraliste di legittimarsi favorendo il negoziato “sempre e dovunque” per mostrare di essere aperte a tutte le domande che il ceto politico e burocratico è in grado di intercettare.

I movimenti sociali, come i partiti e gruppi, sono le organizzazioni specializzate a canalizzare la domanda politica. A tale attività dedicano ingenti sforzi organizzativi che consentono loro di interpretare, più di quanto non sia in grado di fare qualsiasi altro tipo di organizzazione, aspettative diffuse o intense sia di ampi settori della cittadinanza sia di interessi settoriali. Come in questo caso, studiando il movimento antiabortista, si ha un gruppo già accettato nella società politica e riconosciuto come portavoce di richieste legittime. Altro elemento importante è lo stabilire relazioni di routine con le istituzioni per ottenere lo status di interlocutore riconosciuto dei governanti.

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1.1. Teorie utilizzate per l’analisi del Movimento Per la Vita

In questo studio, per avere un’analisi completa del Movimento Per la Vita, avranno grande utilità due importanti teorie: il resource model approach e il political process model. Con il resource model approach sarà analizzata l’azione collettiva, cercando di spiegare le condizioni che permettono di trasformare lo scontento, dato dalla Legge 194, in mobilitazione (e quindi non solo tensioni e conflitti strutturali); e la stessa mobilitazione dipesa non solo dall’autorità, impegno morale, fede, relazioni d’amicizia a disposizione del gruppo ma anche dalle risorse materiali ottenute con le iniziative sul territorio, progetti con le autorità amministrative comunali e provinciali e piani sociali appoggiati dalle autorità ecclesiastiche. Tali risorse vengono distribuite dal gruppo a seconda degli obiettivi che si sono prefissati, facendo un calcolo razionale dei costi e dei benefici, e di conseguenza il tipo ed entità delle risorse disponibili spiegherebbero le scelte tattiche fatte dal Movimento. Con il political process model, si sottolinea la razionalità dei movimenti consapevoli del proprio ruolo nel mutamento sociale, l’importanza delle risorse nella mobilitazione e il saper cogliere le “opportunità politiche”. La mobilitazione deriva dal modo in cui i movimenti sociali sono in grado di organizzare lo scontento: questo lo vedremo per l’MPV nella reazione all’attuazione della Legge 194, come riducono i costi dell’azione, utilizzano e creano reti di solidarietà su tutto il territorio, distribuiscono incentivi ai membri e acquistano consenso esterno sia tra civili sia tra le élites politiche. L’analisi del Movimento Per la Vita effettuata con questi criteri ha messo in evidenza anche come a mobilitarsi non sono gli individui più isolati e sradicati della società che cercherebbero nell’immersione nella massa un surrogato per la loro emarginazione sociale, come fino allora si era portati a credere, ma coloro che sono o erano attivi e ben integrati nella collettività. Infatti chi si mobilita lo fa sia per una gratificazione morale, intrinseca nel perseguimento di un bene collettivo come in questo caso nell’aiutare madri e gestanti in difficoltà, ma anche per l’esistenza di legami di solidarietà sia orizzontali, cioè interni alla collettività, che verticali, tra collettività differenti. Come teorizza questa teoria, e come vedremo con il Movimento Per la Vita, gli attivisti vengono reclutati in primo luogo tra gli individui precedentemente attivi e ben integrati nella collettività e fondamentale è il grado di tolleranza dimostrato dalle élites verso la protesta, come le relazioni con amministrazione pubblica, nel sistema dei partiti e nella società civile, come già enunciato dallo stesso resource model approach.

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Il sistema di alleanze, e quindi il grado di apertura o chiusura dei sistemi politici, il decentramento territoriale, il grado di tolleranza dimostrato dalle élites nei confronti della protesta e il rapporto che si instaura con gli alleati o gli oppositori, fornisce risorse e crea opportunità politiche, in modo di ottenere lo status di interlocutore riconosciuto dei governanti. A tale attività dedicano ingenti sforzi organizzativi che consentono loro di interpretare, più di quanto non sia in grado di fare qualsiasi altro tipo di organizzazione, aspettative diffuse o intense sia di ampi settori della cittadinanza sia di interessi settoriali. Come in questo caso, studiando il movimento antiabortista, si ha un gruppo già accettato nella società politica, appoggiato dal Vaticano e riconosciuto come portavoce di richieste legittime.

1.3. Conclusioni

In questo capitolo è stato illustrato la metodologia da seguire per lo studio dei gruppi e un breve excursus sulle principali teorie dei movimenti sociali, specificando che, political process approach e il collective identity approach e soprattutto resource model approach saranno le teorie chiave che saranno seguite nell’analisi del movimento antiabortista. Nel capitolo successivo saranno presentati i vari aspetti del movimento sociale, importanti nella comprensione del fenomeno. Verrà analizzato il concetto di solidarietà, punto focale di tali movimenti, le relazioni con élites, burocrazia pubblica e il ruolo fondamentale dei mass media.

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2. Le caratteristiche dei movimenti

I movimenti sociali possono essere considerati come reti di relazioni informali tra una pluralità di individui e gruppi, più o meno strutturate dal punto di vista organizzativo. Se i partiti o i gruppi di pressione hanno confini organizzativi abbastanza precisi, essendo l’appartenenza normalmente sancita dalla tessera di una specifica organizzazione, i movimenti sociali sono invece composti da reticoli dispersi e debolmente connessi di individui che si sentono parte di uno sforzo collettivo. Sebbene esistano organizzazioni che fanno riferimento ai movimenti, i movimenti non sono organizzazioni ma piuttosto reti di relazioni tra attori diversi, che possono includere o meno, a seconda delle condizioni, anche organizzazioni dotate di una struttura formale. Un tratto peculiare dei movimenti è infatti il poterne far parte senza dover automaticamente aderire a qualche specifica organizzazione.

Queste reti di relazione assolvono alla fondamentale funzione di permettere la circolazione delle risorse necessarie per l’azione, favorendo l’elaborazione di nuove interpretazioni della realtà. Infatti, esse vengono considerate come costituenti un movimento sociale nella misura in cui i loro membri condividono un proprio sistema di credenze, dando vita a nuove identità collettive. Caratteristica dei movimenti è, infatti, la elaborazione di visioni del mondo e sistemi di valori alternativi rispetto a quelli dominanti. Per questo, i movimenti sono stati considerati come protagonisti del mutamento sociale, sfida alla routine e suo superamento.

Infine, i movimenti sociali si caratterizzano per l’adozione di forme “inusuali” di comportamento politico. Molti studiosi individuano la distinzione fondamentale tra i movimenti e altri attori politici nell’utilizzo da parte dei primi della protesta come modo di fare pressione politica. Per protesta si intende una forma non convenzionale di azione che interrompe la routine quotidiana. Chi protesta si rivolge in genere alla opinione pubblica, prima ancora che ai rappresentanti eletti o alla burocrazia pubblica. Quindi, i movimenti, sarebbero caratterizzati dal muovere una critica fondamentale alla democrazia rappresentativa, sfidando i presupposti istituzionali dei modi convenzionali di fare politica in nome di una democrazia partecipativa. Chi protesta può tentare di esercitare pressione attraverso una minaccia di un potenziale danno, la mobilitazione di un numero consistente di cittadini, o l’adozione di forme d’azione ad alto impatto simbolico.

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Alcune forme di protesta si avvicinano al modus operandi di una battaglia: la logica è quella del potenziale danno materiale. Una seconda logica d’azione cui si rifanno numerose forme di protesta è la logica dei numeri. Il destino dei movimenti dipende in buona misura dal numero dei loro sostenitori. Infatti quanto maggiore sarà il numero dei dimostranti tanto maggiore sarà non solo il disturbo prodotto nell’immediato, ma anche il potenziale di perdita di consenso del governo che non accettasse di negoziare con essi. Come i partiti cercano di aumentare il numero dei loro elettori e i gruppi di pressione il numero dei loro aderenti, chi protesta dovrebbe aspirare a mobilitare il maggior numero possibile di dimostranti. La logica sarebbe infatti la stessa della democrazia rappresentativa, che dovrebbe applicare le decisioni della maggioranza. La protesta servirebbe a richiamare l’attenzione dei rappresentanti eletti mostrando che, almeno su alcuni temi, esiste nel paese una maggioranza diversa rispetto a quella rappresentata nei parlamenti.

Soprattutto a partire dagli anni Settanta si è sviluppata una corrente di studi che ha considerato i movimenti sociali come parte del normale processo politico, centrando l’analisi sui processi di mobilitazione delle risorse necessarie all’azione collettiva.

In questa prospettiva, i movimenti sociali agiscono in modo razionale, propositivo e organizzato. Importante è anche il ruolo degli imprenditori politici, individui o spesso, organizzazioni, nel mobilitare lo scontento, ridurre i costi dell’azione, utilizzare e creare reti di solidarietà, distribuire incentivi ai membri, acquisire consensi all’esterno.

Nell’analisi delle risorse interne al gruppo, l’attenzione si è soffermata soprattutto sulle forme di organizzazione. Questi gruppi sono dotati di un alto livello di identificazione accompagnato da risorse organizzative.

L’identità collettiva è un concetto che fa riferimento a come l’attore sociale comprende la propria appartenenza e in base a tale comprensione parla di sé come di un noi: è una forma di autoidentificazione attraverso un’autoattribuzione di appartenenza.

In un contesto radicalmente mutato, tipico della società postmoderna e globalizzata, appartenere può diventare lo snodo centrale nella vita di un individuo, così come i gruppi sociali di cui egli si sente parte possono divenire riferimento essenziale della sua quotidianità e influenzare le sue scelte di azione, ma il significato di tale appartenenza potrebbe pure assumere caratteri legati a opportunità e vantaggi in termini personali e sociali. Sentirsi parte di un gruppo è infatti un’esperienza significativa in termini di identificazione e di riconoscimento. Identificarsi col gruppo può divenire per questo

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fondamentale elemento di stabilità e dare luogo a dimensioni di appartenenza basate su ragioni molto distanti da quelle del passato, legate a nuovi ideali e valori che, sebbene non sempre riferiti al bene collettivo o alla difesa di modelli democratici di vita quotidiana, davano impulso alla partecipazione ai movimenti sociali.  

Allo stesso tempo, sono fondamentali le “risorse”, come i legami di solidarietà, il livello di catnet (caratteristiche legate alla categoria sociale e la densità dei reticoli sociali), network, l’organizzazione, le risorse economiche, i mezzi di comunicazione e la disponibilità di tempo da dedicare al movimento per campagne e mobilitazioni. Anche le opportunità politiche (allargamento dei diritti, grado di decentramento territoriale, presenza di alleati, ecc.), diventano indispensabili, in quanto la mobilitazione dipende in grande misura da queste. La partecipazione ad un movimento sociale si intensifica quando si aprono canali di accesso nel sistema politico, portando gli attivisti a credere nella possibilità di successo della protesta.

In questo studio, l’analisi del movimento antiabortista si differenzia dall’usuale analisi del tipico movimento sociale, in quanto è considerato più come un “contromovimento”, dato che si oppone alla mobilitazione per il diritto di scelta riguardante l’interruzione di gravidanza. I movimenti sociali sono delle forme di aggregazione di individui che esprimono un obiettivo di cambiamento, difesa o la promozione di un fatto che ha connotazione sociale, o più in generale che esprimono la protesta. Sono azioni collettive tese a perseguire più obiettivi di trasformazione attraverso delle iniziative esterne all’istituzione. Ciò avviene quando il sistema politico non è in grado di rappresentare la società civile e si viene a creare una frattura tra società politica e quella civile. Il movimento quindi ha come scopo il progresso della società: in questo caso il Movimento Per la Vita è più orientato al contromovimento, con mobilitazioni orientate ad opporsi a cambiamenti e all’allargamento dei diritti della donna. L’MPV protesta e attacca il diritto di scelta della donna e l’intervento dello Stato sulla vita o la morte del feto, decisione che è solo nelle mani di Dio.

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2.1. La solidarietà

Considereremo il movimento e in particolare la sua componente politica come reti di interazioni prevalentemente informali, basate su credenze condivise e solidarietà, che si mobilitano su tematiche conflittuali attraverso un uso frequente di varie forme di protesta23.

I movimenti non sono organizzazioni, sono piuttosto reti di relazioni tra attori diversi, che possono includere o meno, anche organizzazioni dotate di una struttura formale24. Un

tratto peculiare dei movimenti è infatti il poterne far parte, sentendosi quindi coinvolti in uno sforzo collettivo, senza dover automaticamente aderire a qualche specifica organizzazione. I movimenti non hanno membri, solo partecipanti25. La partecipazione

del singolo, slegato da specifiche appartenenze organizzative, non è necessariamente limitata a singoli eventi di protesta. Può svilupparsi invece anche all’interno di comitati o gruppi di lavoro, ovvero in occasione di assemblee pubbliche26. La presenza di identità fa sì che il senso di appartenenza collettiva si mantenga anche dopo la fine di una specifica iniziativa o di una particolare compagna. Questo renderà più facile la ripresa di mobilitazioni intorno agli stessi obiettivi27.

Per essere considerata un movimento sociale, una collettività i cui membri sono coinvolti in scambi di vario tipo deve elaborare un sistema di credenze condivise e una specifica solidarietà. I movimenti influenzano, e in parte determinano, sia lo sviluppo di nuovi modi di interpretare problemi già presenti in una data società, sia l’insorgere di nuove tematiche28.

Assistiamo allo spostamento progressivo della produzione di identità e valori dai luoghi tradizionalmente ed essa deputati (la famiglia, le relazioni dirette di tipo comunitario, le stesse istituzioni educative) verso altri ambiti sociali29. Terreno privilegiato di mobilitazione politica è la sfera privata e i criteri rispetto ai quali definire un modo di vita eticamente desiderabile.

                                                                                                                         

23 DELLA PORTA D., DIANI M., 1997, I movimenti sociali, La Nuova Italia Scientifica, Roma, p.30. 24 Ivi, p.31. 25 Ivi, p.32. 26 Ibidem. 27 Ivi, p.34. 28 Ivi, p.29. 29 Ivi, p.57.  

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Identificarsi con un movimento significa provare quindi sentimenti di solidarietà verso soggetti cui non si è nella maggior parte dei casi legati da contatti personali diretti, ma di cui si condividono comunque aspirazioni e valori30. La presenza di relazioni di fiducia diffuse garantisce ai movimenti numerose opportunità. Esse rappresentano la base per lo sviluppo di reti informali di comunicazione, di scambio e di mutuo soccorso31. Incentivi di tipo simbolico e valoriale giocano spesso un ruolo centrale nel promuovere e poi sostenere, la mobilitazione dei simpatizzanti32.

In primo luogo, la ragione per cui un individuo aderisce a un movimento non è necessariamente l'utilità. La ricerca ha dimostrato che gli individui partecipano ai movimenti per un'ampia gamma di motivi: dal desiderio di trarre un vantaggio personale alla solidarietà di gruppo, all'impegno di principio nei confronti di una causa, al desiderio di far parte di un gruppo. Questa eterogeneità delle motivazioni individuali rende il problema della coordinazione assai più difficile per i movimenti sociali che non per i gruppi di interesse, ma nello stesso tempo consente loro di fruire di risorse diverse da quelle materiali per coinvolgere potenziali sostenitori nell'azione collettiva. In secondo luogo, mentre in un'associazione economica la quota degli iscritti che partecipano all'azione collettiva costituisce una misura decisiva della sua forza, i movimenti non hanno dimensioni definite né un numero stabile di iscritti, e spesso sono in via di formazione nel momento in cui fanno la loro comparsa. Ciò rende il criterio della partecipazione proporzionale pressoché privo di significato. Laddove la capacità di attivare un numero consistente di persone può costituire in determinati casi una misura importante del potere di un movimento, quante persone debbano partecipare dipende dalla struttura del conflitto in cui esso è coinvolto33, e tale quota può essere inversamente proporzionale al potere del movimento: è questo il caso, ad esempio, dei gruppi terroristici italiani, la cui coesione e sicurezza dipendevano dalle loro dimensioni ridotte34. I movimenti infatti non esercitano alcun controllo sui propri sostenitori, né hanno espliciti rapporti contrattuali con gli antagonisti e con le autorità. I movimenti devono basarsi su risorse esterne per coordinare e sostenere l'azione collettiva. Per concludere, il principale problema dei movimenti sociali non è quello della mobilitazione,

                                                                                                                         

30 DELLA PORTA D., DIANI M., 1997, I movimenti sociali, La Nuova Italia Scientifica, Roma, p.106. 31 Ibidem.

32 Ivi p.152.

33 SMELSER, N. J., 1995, Manuale di sociologia, Il Mulino, Bologna, p.130.

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come riteneva Olson35, bensì quello del coordinamento, e per risolverlo si può ricorrere a varie risorse di tipo sia istituzionale che congiunturale, come ci accingiamo a dimostrare. Quanto più il gruppo è ampio, tanto più gli individui preferiranno beneficiare, senza impegnarsi di persona, degli sforzi di individui il cui interesse per il bene collettivo è abbastanza forte da indurli a perseguirlo. Per superare questo problema, gli aspiranti leaders di un gruppo devono imporre costi ai suoi membri o fornire loro incentivi selettivi per convincerli che vale la pena di partecipare.

Il denominatore comune della maggior parte dei movimenti è dunque l'interesse. L'interesse però non è altro che una categoria oggettiva imposta dall'osservatore esterno: è il riconoscimento dei propri interessi comuni da parte degli individui coinvolti che traduce il potenziale per la nascita di un movimento in azione collettiva. Mobilitando il consenso, i promotori di un movimento svolgono un ruolo importante nello stimolare tale consenso. Essi però possono creare un movimento sociale solo qualora esistano sentimenti di solidarietà o di identità profondamente radicati. È questo quasi certamente il motivo per cui il nazionalismo, l'appartenenza etnica oppure la religione hanno costituito basi più solide per l'organizzazione di movimenti che non per classe sociale. Un tumulto o un assembramento di folla di solito non costituiscono un movimento sociale, in quanto i partecipanti sono uniti tipicamente da una solidarietà solo temporanea.

Quali categorie di persone vengono reclutate nei movimenti? In passato gli attivisti dei movimenti erano considerati spesso ideologi fanatici o elementi di una folla anonima in cerca di nuove identità. Gli ultimi due decenni tuttavia hanno dimostrato che gli attivisti possono provenire pressoché da ogni settore della società e che le loro rivendicazioni, anche se formulate in termini espressivi, sono sempre strumentali. La ricerca ha dimostrato inoltre che, lungi dall'essere membri isolati di una folla, gli attivisti nella maggior parte dei casi sono reclutati attraverso reti di relazioni sociali e tendono a restare attivi all'interno di tali reti una volta che abbiano fatto il loro ingresso nella vita pubblica.

                                                                                                                         

35 OLSON M., 1965, The logic of collective action: public goods and the theory of groups, Harvard University Press,

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2.2. Iniziative, organizzazione e contatti

Con la produzione di identità collettiva si garantisce continuità nel tempo alle esperienze di azione collettiva. I movimenti si caratterizzano per l’alternanza tra fasi di visibilità e fasi di latenza. Nella prima prevale la dimensione pubblica dell’azione, nella forma di dimostrazioni, iniziative pubbliche, interventi nei confronti dei media, ecc., con elevati livelli di cooperazione e di scambio tra i vari attori mobilitati. Nella seconda, predomina invece l’azione di organizzazione interna e di elaborazione culturale. I contatti tra le diverse strutture organizzate e i gruppi di militanti sono perlopiù limitati ai rapporti interpersonali e informali, o comunque a rapporti interorganizzativi che non comportano in generale una capacità di mobilitazione di massa. In questi casi la solidarietà collettiva e il senso di appartenenza ad una causa non sono evidenti come nei periodi di grande intensità delle mobilitazioni. Essi sono invece alimentati dall’azione sommersa di un numero ristretto di attori. Ed è proprio la capacità di questi ultimi di riprodurre determinate rappresentazioni e modelli di solidarietà nel tempo a creare le condizioni per la ripresa dell’azione collettiva36. Importante è anche l’avere una leadership carismatica, legata soprattutto alla capacità dei capi di impersonare il movimento, contribuendo alla creazione di identità collettive37.

Partecipando alla vita di un movimento ed in particolare a quella delle sue varie organizzazioni, gli attivisti creano nuovi canali di comunicazione tra organizzazioni differenti e allargano le opportunità per la promozione di campagne comuni38.

Le relazioni interorganizzative possono variare notevolmente per contenuti e intensità. Possono infatti riguardare sia lo scambio di informazioni, sia la messa in comune di risorse intorno a specifici progetti; possono poi presentare una continuità più o meno elevata nel tempo, fino ad assumere la forma di relazioni e scambi di informazioni stabili e promuovere nuove organizzazioni. La simultanea presenza di cooperazione e competizione produce situazioni di cooperazione competitiva. In questo caso, due o più organizzazioni di movimento che operano sui medesimi temi hanno interesse a promuovere iniziative comuni, ma al tempo stesso si trovano in forte competizione tra loro, facendo gli interessi e orientamenti di settori simili di opinione pubblica. Ne risulta un modello di interazione caratterizzato da livelli più o meno elevati di polemica                                                                                                                          

36 DELLA PORTA D., DIANI M., 1997, I movimenti sociali, La Nuova Italia Scientifica, Roma, p.107. 37 Ivi, p.165.

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interorganizzativa, che non risultano però in rotture drastiche dei canali di comunicazione39. Nonostante questo, spesso organizzazioni di vaste dimensioni tendono ad assumersi la rappresentanza dei movimenti nel loro complesso di fronte all’opinione pubblica e ad attivare contatti con i media e le istituzioni in misura assai più frequente di quanto non valga per i gruppi di base: gruppi base offrono la militanza, i gruppi più grandi offrono risorse cognitive, di orientamento e di consulenza40.

I movimenti possono avere una struttura strumentale: in questo modello il centro sarà tendenzialmente occupato dalle organizzazioni più ricche di risorse, mentre le posizioni periferiche consisteranno in organizzazioni più piccole e meno dotate di risorse. La maggior parte dei legami si svilupperà all’interno delle varie posizioni piuttosto che tra loro41. La protesta per avere successo, deve produrre stimoli positivi, conquistando le simpatie di gruppi che hanno più risorse da investire nelle aree decisionali42.

Si hanno 4 stadi dello sviluppo: il primo, il fermento sociale, caratterizzato da un’agitazione disorganizzata e non orientata, con una grande sensibilità agli appelli degli “agitatori”. Nel secondo, definito come lo stadio della “eccitazione popolare”, verrebbero identificati con più chiarezza le cause dello scontento e gli obiettivi dell’azione. Nel terzo stadio, quello della “formalizzazione”, il movimento si darebbe un’organizzazione formale, disciplinando la partecipazione e coordinando le strategie per raggiungere i suoi obiettivi. Infine, nello stadio della “istituzionalizzazione”, il movimento diverrebbe parte organica della società e la sua organizzazione si cristallizzerebbe in una struttura professionale. L’istituzionalizzazione si realizza di rado: prima di tutto, solo poche delle organizzazioni sopravvivono nel tempo, molte di loro si sciolgono perché hanno raggiunto i loro fini, altre scompaiono a seguito di frequenti processi di scissione e fusione43.

Secondo la logica dei numeri, il destino dei movimenti dipende in buona misura dal numero dei loro sostenitori44. Questa logica non sempre funziona: tutto sta nel convincere il corpo elettorale e i rappresentanti dei partiti, non importa quanti siano i dimostranti.

                                                                                                                         

39 DELLA PORTA D., DIANI M., 1997, I movimenti sociali, La Nuova Italia Scientifica, Roma, p.143. 40 Ivi, p.148.  

41 Ivi, p.150. 42 Ivi, p.196. 43 Ivi, p.171. 44 Ivi, p.202.

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Secondo invece la logica della testimonianza, le azioni non mirano a convincere il pubblico o i decision makers che coloro che protestano rappresentano la maggioranza né che essi costituiscono una potenziale minaccia, ma piuttosto a dimostrare un forte impegno per un obiettivo considerato di vitale importanza per le sorti dell’umanità. L’obiettivo principale degli attivisti appare quello di dimostrare, con il loro esempio, la possibilità di agire collettivamente in vista di alcuni fini45.

I gruppi con risorse economiche possono usare sanzioni materiali, ad esempio togliere i finanziamenti (leciti o illeciti) ad un uomo politico o ad un partito. Le strategie dei gruppi sono influenzate dalle caratteristiche dei sistemi politici nazionali: importante è mantenere contatti con ministeri e burocrazia pubblica. Gruppi e partiti scambiano influenze e risorse: i partiti possono avere infatti bisogno sia delle conoscenze tecniche, specialistiche dei gruppi, sia della loro cooperazione per realizzare certe politiche. In cambio di appoggio elettorale i partiti possono dare luogo ad azioni politiche favorevoli agli interessi del gruppo.

Altra caratteristica del sistema politico che può influenzare le forme di protesta dei movimenti è il grado di decentramento territoriale. Gli studiosi che si rifanno al political process model46, sostengono che tanto maggiori sono i poteri distribuiti alla periferia (enti locali, regioni, Stati in sistemi federali), tanto maggiori saranno le possibilità per i singoli movimenti di trovare un punto di accesso nel sistema decisionale. Infatti si considera in genere più facile l’accesso al sistema, quanto più vicina è al cittadino l’unità amministrativa. Ad esempio in un sistema federale i movimenti sociali avranno una pluralità di punti di accesso al sistema, sia a livello nazionale che a quello regionale. Questi movimenti adotteranno di conseguenza un tipo di organizzazione decentralizzata, per essere rappresentati ed agire più vicino ai centri di potere regionali. Sul piano dell’azione, tenderanno ad agire attraverso forme di protesta più moderate, dal momento che gli attori sono consapevoli del fatto che il sistema offre loro diverse vie per canalizzare la loro protesta.

                                                                                                                         

45 DELLA PORTA D., DIANI M., 1997, I movimenti sociali, La Nuova Italia Scientifica, Roma, p.207.   46 SMELSER, N.J., 1995, Manuale di sociologia, Il Mulino, Bologna, P.276.

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2.3. L’azione collettiva

La tradizione marxista, anche se non si è mai occupata esplicitamente dei movimenti sociali, sostiene che le azioni di protesta presenti nelle società sono:

- azioni razionali

- motivate da interessi di classe

- dirette a provocare mutamenti radicali.

L'azione collettiva non istituzionale era concepita come una risposta a qualche fattore di disturbo in una delle componenti dell'azione sociale (valori, norme, mobilitazione delle motivazioni, risorse). Il comportamento collettivo tendeva a ristrutturare la componente disturbata, attraverso una credenza generalizzata che mobilitava gli attori in forme di azione non istituzionalizzate. Chi ha già esperienza di partecipazione, leaders e risorse organizzative, reti di comunicazione esistenti, più facilmente riconoscono interessi comuni.

Ciò che distingue un movimento sociale da un semplice episodio o manifestazione di protesta è la capacità di sostenere l'azione collettiva contro gli antagonisti. Gli scopi comuni, le identità collettive e la capacità di avanzare una sfida sono elementi importanti per la formazione dei movimenti, ma a meno che questi non siano in grado di sostenere tale rivendicazione, sono destinati a dissolversi in quella sorta di risentimento individualistico I leaders si sforzano di sostenere l'azione collettiva, ma se la ricerca degli ultimi due decenni ha dimostrato qualcosa, è che i movimenti raramente sono dominati da un singolo leader o da una singola organizzazione47.

I movimenti avanzano rivendicazioni mediante un'azione di sfida diretta, rivolta contro élites, autorità, altri gruppi o determinati codici culturali. Questa azione di sfida, il più delle volte di carattere pubblico, può anche assumere la forma di una resistenza individuale coordinata, di una mobilitazione cognitiva o di un'affermazione collettiva di nuovi valori.

A differenza delle organizzazioni economiche, risolvono il problema dell'azione collettiva appropriandosi temporaneamente di determinati elementi dell'ambiente esterno. I più importanti di questi elementi sono: le opportunità politiche che aiutano i movimenti a risolvere il problema sociale dell'azione collettiva; il “repertorio” di forme di azione collettiva da essi utilizzato; le reti di relazioni sociali contro cui si svolge l'azione                                                                                                                          

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