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Amministrazione di sostegno: dubbi interpretativi e soluzioni giurisprudenziali ad oltre dieci anni dalla legge n.6 del 2004

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INDICE

PREMESSA……… p. 3

1 LA TUTELA DEL MAGGIORENNE INCAPACE NELLA STORIA

1. La tutela e la curatela nell’esperienza giuridica romana…………. 1.1 Il diritto intermedio……….. 1.2 Il contributo innovativo offerto dalla Codificazione Francese del 1804…………... 2. La tutela dell’incapace maggiorenne secondo la Codificazione Italiana del 1865……….………

3. Il modello giuridico delineato dalla legge n. 36 del 1904……….. 3.1 La capacità giuridica………... 3.2 La capacità d’agire……….………….. 3.3 L’incapacità naturale……….…... 4. L’interdizione e l’inabilitazione nel Codice civile del 1942…….. 5. L’evoluzione della scienza psichiatrica e la risposta del sistema normativo………... p. 4 p. 17 p. 23 p. 31 p. 40 p. 42 p. 47 p. 50 p. 53 p. 60 2 L’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO

1. Le origini dell’amministrazione di sostegno: dalla bozza Cendon all’emanazione della legge n.6, 9 Gennaio 2004, ………. 2. Principi, obbiettivi e finalità della l. 6/04……….…………. 3. L’incidenza dell’amministrazione di sostegno sulla capacità

d’agire del beneficiario……..………... 4. I destinatari dell’amministrazione di sostegno………..

p. 67 p. 76

p. 86 p. 94

3 ALCUNI PROFILI DI CRITICITA’ DELLA NUOVA DISCIPLINA

1. La ricerca di un discrimen fra amministrazione di sostegno,

interdizione e inabilitazione………... 1.1 Gli interventi della Corte di Cassazione e della

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2

giurisprudenza……….. 1.2 E l’Inabilitazione?………... 2. Alcune problematiche connesse alla nuova disciplina: la natura giuridica del procedimento……….…... 2.1 L’audizione del beneficiando……….………….

2.2 La difesa tecnica e l’intervento del Pubblico Ministero…….. 2.3 La C.T.U………..

3. L’incidenza del decreto di nomina sulla capacità di agire del beneficiario alla luce di alcuni raffronti pratici……….

4. La cura personae del beneficiario e altri doveri

dell’amministratore di sostegno………..……... Conclusioni………. Bibliografia………. Giurisprudenza……… Sitografia………. p. 115 p. 127 p. 131 p. 137 p. 145 p. 154 p. 158 p. 197 p. 208 p. 219 p. 230 p. 237

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PREMESSA

La tutela della persona, concepita nella sua triplice dimensione corpo – spirito – psiche, è da sempre un tema che suscita l’interesse del giurista.

L’universo della fragilità umana ha vissuto a lungo in un sistema giuridico lontano dalle esigenze esistenziali di coloro che intendeva tutelare.

Fino a poco più di un decennio fa, infatti, gli istituti che la tradizione giuridica dedicava alla tutela dei soggetti deboli erano strumenti che, per quanto collaudati, presentavano delle rigidità cosi marcate da imporre veri e propri sacrifici da parte di coloro che ne erano destinatari.

Da qui la necessità di un intervento riformatore che, arrivato ad esito di una lunga e articolata evoluzione concettuale che ha impegnato tanto la scienza psichiatrica che il diritto, ha visto il suo coronamento con l’emanazione della l. 9 Gennaio 2004, n.6, con la quale si è introdotta una nuova figura giuridica: l’amministrazione di sostegno.

Questa la base di partenza del mio lavoro che affronterà l’analisi di alcuni aspetti del nuovo istituto evidenziandone i profili di criticità, la loro incidenza sulla sfera d’autonomia del beneficiario, nonché le soluzioni proposte in merito dalla giurisprudenza attraverso l’analisi di alcuni decreti di nomina.

Chiaramente, data la complessità e la interdisciplinarietà della materia, il presente elaborato non ha alcuna pretesa di completezza.

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CAPITOLO PRIMO

LA TUTELA DEL MAGGIORENNE INCAPACE

NELLA STORIA

SOMMARIO: 1. La tutela e la curatela nell’esperienza giuridica romana – 1.1 Il diritto intermedio – 1.2 Il contributo innovativo offerto dalla Codificazione Francese del 1804 – 2. La tutela dell’incapace maggiorenne secondo la Codificazione Italiana del 1865 – 3. Il modello giuridico delineato dalla legge n. 36 del 1904 – 3.1 La capacità giuridica – 3.2 La capacità d’agire – 3.3 L’incapacità naturale – 4. L’interdizione e l’inabilitazione nel Codice Civile del 1942 – L’evoluzione della scienza psichiatrica e la risposta del sistema normativo.

1. La tutela e la curatela nell’esperienza giuridica romana

Fin dai tempi più antichi, la tutela dei soggetti vulnerabili è una questione che si è imposta ciclicamente all’attenzione del giurista.

Sono due gli aspetti che interessano l’intera disciplina e che da secoli ne animano il dibattito: quello giuridico della persona e quello del significato da attribuire allo stato di minorità1

.

In merito al primo punto, secondo la concezione moderna del diritto, l’attitudine di un soggetto a essere ‹‹titolare di diritti e doveri giuridici e, più in generale, di posizioni giuridiche attive e passive››2 e/o a

‹‹compiere gli atti giuridici che concernono la propria sfera di interessi››3

prendono il nome, rispettivamente, di capacità giuridica e capacità d’agire.

Per soggetto di diritto si indica, invece, chiunque possa essere titolare di situazioni giuridiche soggettive attive e passive4.

1Cfr. P. Stanzione, Costituzione, diritto civile e soggetti deboli, in Fam. dir., 2009, n.3;

2C.M. Bianca, La norma giuridica – I soggetti, in Diritto Civile, Vol. I, Milano, 2005, p. 135;

3F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1964, p. 30;

4Cfr. A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2011; C. Turco, Diritto civile, Vol. I, Torino, 2014;

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La capacità giuridica e la capacità d’agire sono i concetti cardine su cui si fonda qualsiasi indagine che ha per oggetto il diritto delle persone5.

Il contenuto e i destinatari ad essi assegnato sono, però, dati strettamente connessi all’operare delle norme6.

In tal senso, un’articolata e complessa disciplina emerse già nell’esperienza giuridica romana.

I giuristi romani disciplinarono la posizione giuridica della persona fisica formulando un rigoroso schema concettuale, che muoveva direttamente ‹‹dalla concretezza dei fenomeni che possono condurre ad un mutamento nella condizione del soggetto››7

.

Seguendo questa impostazione, una funzione parzialmente analoga a quella svolta dagli odierni concetti di capacità giuridica e capacità d’agire8 era svolta dallo schema degli status9, per cui si distingueva fra status libertatis, status civitatis e status familiae10.

Nel diritto arcaico11 la piena capacità giuridica era riconosciuta solo a colui che, rispetto agli status testé riportati, si trovava in una posizione particolare.

5

Cfr. M. Marrone, Manuale di diritto privato, Torino, 2004;

6Cfr. C. Sanfilippo, Istituzioni di diritto romano, Soveria Mannelli, 2000; 7B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, p. 311;

8Nonostante l’assonanza terminologica riscontrabile in qualche espressione del linguaggio giuridico romano con le espressioni moderne è necessario precisare, però, che quest’ultime sono formule completamente estranee all’esperienza antica. Per una ricostruzione più esaustiva si veda A. Lovato – S. Puliatti – L. Solidoro Mariotti, Diritto

privato romano, Torino, 2014; A. Burdese, Manuale di diritto privato, Torino, 1998; M.

Brutti, Il diritto privato nell‟antica Roma, Torino, 2011; V. Arangio Ruiz, Istituzioni di

diritto romano, Napoli, 1960;

9In senso contrario M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, p. 77, secondo cui: ‹‹I romani non hanno, però, formulato in alcun modo la teoria degli status,

né usano le espressioni status libertatis, civitatis o familiae; il termine status è adoperato solo in modo assoluto per indicare una qualsiasi condizione della persona››;

10M. Marrone, op. cit., p. 124: ‹‹In queste espressioni la parola status fa riferimento

alla posizione giuridica della persona: con riguardo alla comunità degli uomini liberi per quanto attiene allo status libertatis; con riguardo alla comunità cittadina, sostanzialmente corrispondente allo Stato romano, per quanto attiene allo status civitatis; con riguardo alla familia per quanto attiene allo status familiae››; Per

un’analisi più approfondita del concetto di status si rimanda a B. Carboni, Status e

soggettività giuridica, Milano, 1998, p.9 ss.;

11A. Petrucci, Lezioni di diritto privato romano, Torino, 2015, p.2: ‹‹Successivamente,

nel corso del Principato (31 a. C – 235 d. C) prima si attenua in misura notevole e poi, dopo l‟emanazione della costituzione Antoniniana nel 212 d. C., viene meno la

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6

Era necessario, cioè, che il soggetto fosse libero, cittadino romano e sui iuris, ossia non sottoposto ad un potere personale altrui.

Ne erano quindi privi gli schiavi, trattati come res, gli stranieri e i soggetti alieni iuris12.

In merito alla capacità d’agire, ossia l’idoneità dell’individuo ad operare direttamente nel mondo del diritto, secondo lo schema tracciato dai giuristi romani potevano esserne titolari tanto i soggetti provvisti della piena capacità giuridica, tanto coloro che di tale qualità ne erano privi13

.

Diversa era, però, la risposta fornita dall’ordinamento qualora il soggetto si fosse trovato in una delle situazioni per le quali si delineava una limitazione della capacità d’agire.

Erano cause limitative della capacità d’agire l’età, il sesso, lo stato di infermità mentale e lo stato di prodigalità14.

Nel caso di soggetti privi tanto della capacità giuridica che d’agire (perché ad esempio impuberi alieni iuris o schiavi), alcuna forma di assistenza era prevista nei loro confronti.

necessità del requisito della cittadinanza e, allo stesso tempo, si riconosce in modo progressivo la capacità giuridica delle persone sottoposte ad un potere altrui, mentre nessun passo in avanti si fa per la mancanza di libertà››;

12

Cfr. M. Marrone, op. cit.; F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia

di Roma, Napoli, 2006; A. Petrucci, op. cit.; Anche la nascita inteso come momento

iniziale con cui si acquistava la qualità di soggetto di diritto, era disciplinata in modo dettagliato. Il nato acquistava soggettività giuridica solo al ricorrere di tre condizioni: era necessario il completo distacco dal corpo materno, doveva essere nato vivo e possedere sembianze umane. Sul punto Cfr. C. Sanfilippo, op.cit. Il nato monstrum non solo non si considerava nato vivo ma poteva essere impunemente ucciso dal padre; secondo la mentalità “superstiziosa” dei romani, infatti, costui non apparteneva al genere umano. Sul punto si veda A. Lovato – S. Puliatti – L. Solidoro Mariotti, op.cit., p. 153, secondo cui: ‹‹Il monstrum (chiamato pure portentum o prodigium) poteva

essere ucciso impunemente dal padre, in quanto ritenuto non appartenente al genere umano: una testimonianza di Cicerone faceva risalire l‟orrenda usanza alle XII Tavole, mentre Seneca ne spiegava il fondamento – dopo aver ricordato che di solito i nati deformi o con gravi disabilità venivano affogati nell‟acqua – con il pregiudizio, terribile e nefasto, che occorreva discernere tra il “sano” e “l‟inutile”››;

13Cfr. A. Burdese, op. cit.;

14A queste si aggiungevano altre circostanze, quali lo status di addicti e nexi, lo svolgimento di talune professioni, il colonato e il credo religioso che potevano precludere il compimento di atti giuridici a prescindere dalla maturità psico-fisica raggiunta dal soggetto sui iuris. In merito C. Sanfilippo, op. cit.; Cfr. A. Burdese, op.

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7

In queste ipotesi, infatti, gli effetti degli atti posti in essere da costoro si sarebbero prodotti, seppur a certe condizioni, nella sfera patrimoniale del loro avente potestà15

.

Se incapace d’agire era, invece, un soggetto provvisto della capacità giuridica, in questo caso a tutela dei traffici economici l’ordinamento prevedeva l’attivazione di due istituti: la tutela e la curatela.

Si delineò così la distinzione, illustrata da Gaio, fra coloro che erano sottoposti a tutela e curatela e coloro che invece non lo erano16.

Alla tutela erano sottoposti gli impuberi sui iuris e le donne, mentre la curatela fu predisposta a favore dei soggetti sui iuris affetti da disturbi psichici, a favore dei prodighi, nonché dei minori di anni venticinque, a favore dei quali si attivava la c.d. cura minorum17

La tutela dedicata agli impuberi, la tutela impuberum18, era un istituto ‹‹insieme potestativo e protettivo19››.

In merito alla cura personae, sul tutore gravava innanzitutto il compito di prendersi cura del minore, provvedere alla sua educazione, mantenerlo e sorvegliarlo20.

15Per un’articolata disamina in merito alla posizione dei filii familias circa gli aspetti patrimoniali e la progressiva differenziazione con gli schiavi si rimanda a M. Marrone,

op. cit.; M. Talamanca, op.cit.;

16Gai, 1,142, come riportato da L. Fascione, Storia del diritto romano, Torino, 2006, pp. 267-268: ‹‹Transeamus nunc ad aliam divisionem. Nam ex his personis, quae neque

in potestate neque in manu neque in mancipio sunt, quaedam vel in tutela sunt vel in curatione, quaedam neutro iure tenentur. Videamus igitur, quae in tutela, quae in curatione sint: Ita enim intellegemus ceteras personas, quae neutro iure tenentur. (Passiamo ora all‟altra suddivisione. Dunque tra quelle persone che non sono sotto potestà, né in mano e né in mancipio, alcune sono sotto tutela o sotto curatela ed altre in nessuna delle due suddette situazioni giuridiche. Esaminiamo pertanto le persone che sono in tutela e quelle che sono in curatela: in tal modo comprenderemo lerimanenti persone che non si trovano né nell‟una e né nell‟altra situazione giuridica)››;

17

Per una trattazione più articolata circa la cura minorum si rimanda a: M. Talamanca,

op. cit.;

18A seconda della fonte da cui scaturiva la tutela impuberum essa poteva essere testamentaria, legittima o dativa. Per un’analisi accurata delle tre tipologie di tutela e la relativa evoluzione storica si rimanda a: A. Burdese, op. cit.; M. Marrone, op.cit.; p. 165;

19M. Marrone, op.cit.; p. 165; 20Cfr. A. Petrucci, op. cit.;

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Quanto alla funzione potestativa, per la buona conservazione del patrimonio familiare al tutore era conferito il potere di integrare o sostituite la volontà dell’incapace nel compimento degli atti negoziali, nonché di curarne gli interessi21.

La cura patrimonii fu l’aspetto su cui si focalizzò maggiormente l’attenzione dei giuristi.

I compiti affidati al tutore erano variamente articolati a seconda dell’età del fanciullo.

Il tutore degli infantes (cioè i bambini fino al compimento del settimo anno di età22) per l’ovvia incapacità del pupillo di compiere alcun ragionamento disponeva della c.d. negotiorum gestio23.

Egli gestiva direttamente e senza limitazioni particolari gli affari del fanciullo, con imputazione dei relativi effetti sulla sua sfera giuridica, salvo doverli poi ritrasferire all’interessato24.

Se il protetto era un infantia maior (di età compresa fra il settimo anno fino alla pubertà25) l’intervento del tutore si risolveva nell’actoritatis interpositio26, con la quale procedeva a integrare la volontà del minore ma solo nelle ipotesi in cui si prospettava lo

21Cfr. M. Marrone, op. cit.; 22

M. Marrone, op. cit., p. 164: ‹‹Infantes, erano i fanciulli non ancora in grado di un

eloquio ragionevole (qui fari non possunt) […]››;

23P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, Torino, 1957, p. 222: ‹‹Quanto alla

negotiorum gestio, essa deve essere nettamente distinta dalla rappresentanza, vale a dire non è gestione rappresentativa, in guisa che gli effetti dell‟atto ricadono direttamente in testa al pupillo, ma pura e semplice amministrazione […]››;

24B. Albanese, op. cit., p. 480: ‹‹Per quanto riguarda gli atti di gestione dei beni

pupillari, va ripetuto anzitutto che il tutore fu considerato domini loco rispetto a questi beni, certo in considerazione dell‟ampio potere di disposizione che gli fu riconosciuto››;

25

Cfr. Sanfilippo, op. cit.; B. Albanese, op. cit.; A. Lovato – S. Puliatti – L. Solidoro Mariotti, op. cit.; M. Talamanca, op. cit.;

26B. Albanese, op. cit., p. 493: ‹‹[…]il termine deriva, certo, etimologicamente, dalla

stessa radice del verbo augere, cioè accrescere, dare forza, incrementare; ed indica, in generale, una potenza che si dispiega, con immediata efficacia, nei confronti di altri o d‟altre realtà. L‟auctoritas tutoris consiste nella facoltà di incrementare l‟efficacia di alcuni atti giuridici posti in essere dall‟incapace, in modo da evitare che essi risultino nullo o solo parzialmente efficaci››;

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9

svolgimento di atti potenzialmente pregiudizievoli per il patrimonio pupillare; in caso contrario non era necessaria27.

Onde evitare un eccessiva ingerenza sul patrimonio pupillare, fra il II e il III sec. d.C. si assistette all’introduzione di importanti limiti ai poteri conferiti al tutore28.

Innanzitutto, in forza di una disposizione di Settimio Severo introdotta nel 195 d.C. in una oratio principis, si introdusse il divieto di alienare o autorizzare a vendere sia i fondi rustici che suburbani di proprietà del fanciullo29

.

In età postclassica il divieto raggiunse una portata così ampia che al tutore, in pratica, fu permesso soltanto di alienare liberamente beni che avevano un valore scarsissimo30.

Per far sì che l’amministrazione patrimoniale fosse condotta diligentemente, al tutore fu fatto obbligo di concludere una stipulazione di garanzia, la cautio rem pupilli salvam fore31.

Contro le possibile malversazioni del tutore era possibile poi esperire l‟actio ex stipulatu, tendente sostanzialmente al risarcimento del danno32; l‟actio rationibus distrahendis, già presente nelle XII Tavole, con la quale si condannava il tutore a pagare al pupillo il doppio di quanto sottratto33; l’actio tutelae34, azione esperibile anche dal tutore contro il pupillo35, che mirava ad ottenere la restituzione delle cose

27

Cfr. B. Albanese, op. cit.; C. Sanfilippo, op. cit.; 28Cfr. A. Petrucci, op. cit.:

29Ivi, p.54;

30Cfr. B. Albanese, op. cit.; M. Marrone, op. cit.; P. Bonfante, Istituzioni di diritto

romano, Torino, 1957;

31Cfr. A. Petrucci, op. cit., p.55: ‹‹[…] letteralmente “stipulazione di garanzia che il

patrimonio del pupillo sarà salvaguardato, ossia amministrato diligentemente […]››;

32

Ibidem;

33

Ibidem;

34P. Bonfante, op. cit., p. 230: ‹‹Il tutore è tenuto nell‟actio tutelae fino alla colpa

lieve col limite della colpa in concreto, ossia deve adoperare negli affari del pupillo la stessa diligenza che adopera nelle cose proprie››;

35

A. Petrucci, op. cit., p.55: ‹‹[…]l‟actio tutelae [azione di tutela], la cui applicazione

era “bidirezionale”, nel senso che poteva essere impiegata sia dal pupillo contro il tutore (directa) che viceversa (contraria), ovviamente dopo che fosse terminata la condizione di impubere o comunque cessata la tutela (ad esempio, per morte dell‟uno o

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sottratte o il risarcimento delle perdite subite e, in caso di condanna, conduceva alla dichiarazione di infamia36.

Causa limitativa della capacità di agire poteva essere anche il sesso. Nell’antica Roma alle donne non era riconosciuta né la capacità giuridica né la capacità d’agire.

La disuguaglianza che le colpiva abbracciava, ad ampio raggio, ogni campo della vita giuridica.

Entro la civitas la donna era posta in una totale posizione di subalternità; ad essa non era riconosciuto alcun potere politico, non poteva accedere agli uffici pubblici, intervenire in giudizio in sostituzione di altri37 né assumere obbligazioni accessorie38.

Fino al raggiungimento della pubertà la donna era, al pari dei fanciulli, assoggettata alla potestas del pater familias; non poteva quindi compiere, autonomamente, alcuna attività39.

Dall’epoca arcaica fino ad Augusto la donna pubere e sui iuris, che non era sotto la potestà del padre o alla manus del marito, cadeva sotto una tutela perpetua.

Alla tutela degli impuberi subentrava, infatti, la tutela muliebre40. Era la leggerezza d’animo (o la debolezza del sesso femminile) la motivazione che tradizionalmente i giuristi romani adducevano alla tutela muliebre41; Gaio però, nelle sue Istituzioni, la confutò apertamente definendola più un motivo ‹‹specioso che reale42››.

dell‟altro).Tale azione serviva a regolare tutte le pendenze patrimoniali nei rapporti reciproci››;

36Cfr. M. Talamanca, op.cit.; 37

Cfr. M. Brutti, op. cit.;

38G. Piola, Delle persone incapaci, Vol. I, 1910, p. 34: ‹‹Sotto Claudio fu emanato il

senatoconsulto Velleiano, che dichiarava invalide tutte le intercessioni delle donne, incapacità che si mantenne anche nel diritto Giustinianeo››;

39

Cfr. B. Albanese, op. cit.; 40Cfr. P. Bonfante, op.cit.;

41Ibidem;

42Gai, Inst.I,190, come riportato da M. Brutti, op.cit., p. 156: ‹‹Feminas vero

perfectae aetatis in tutela esse fere nulla pretiosa ratio suasisse videtur; nam quae vulgo creditur, quia levitate animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis speciosa videtur quam vera; mulieres enim quae perfectae aetatis sunt, ipsae sibi negotia tractant et in quibusdam causis dicis gratia tutor

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Il vero motivo che spinse a ingabbiare la donna sotto una tutela costante fu, ancora una volta, di matrice puramente economica.

Ciò che stava a cuore all’antico gruppo familiare era, infatti, salvaguardare l’integrità della quota spettante ai membri maschi della famiglia da eventuali dispersioni compiute da una ipotetica donna libera di disporre43.

Come per la tutela degli impuberi, anche la tutela muliebre poteva articolarsi nelle forme della tutela testamentaria, legittima o dativa (istituita dalla lex Atilia) ricorrendo le medesime modalità44

.

Che la tutela muliebre non avesse alcuna finalità protettiva, lo dimostra il fatto che nella tutela legittima tutor mulieris poteva essere nominato anche un impubere45.

L’intervento del tutore consisteva nell’assistere e integrare la volontà di quest’ultima solo nel compimento degli atti inter vivos più rilevanti46.

La portata limitata dell’intervento del tutor portò all’esclusione di alcune azioni di responsabilità già viste per la tutela impuberum quali l’actio tutelae (che presupponeva la gestione patrimoniale del tutore),

interponit auctoritatem suam, saepe etiam invitus auctor fieri a praetore cogitur. (“Non sembra invero che esista alcuna ragione valida, perché le donne adulte siano sotto tutela; infatti, quella che di solito si crede, che fosse giusto che fossero gestite dall‟autorità dei tutori, poiché spesso ingannate per la loro leggerezza d‟animo, appare più speciosa che vera; le donne adulte, infatti, gestiscono loro stesse i loro affari, e in determinate situazioni il tutore solo formalmente interpone la sua autorità e spesso il pretori lo costringe anche contro la sua volontà ad intervenire”)››;

43Cfr. B. Albanese, op. cit.; 44

P. Bonfante, op. cit., p.219: ‹‹La tutela delle donne era in origine o testamentaria o

legittima. In altri termini, o il tutore veniva designato per testamento da colui che aveva sulla donna la patria potestà o la manus, ovvero sono tutori gli agnati, i gentili, o il manumissore. […] S‟aggiunse più tardi anche la cosiddetta tutela dativa, nella quale il magistrato nominava il tutore, in difetto di tutori testamentari o legittimi, purché la donna lo richiedesse e il tutore proposto fosse presente››;

45Ibidem;

46Ivi, p. 220: ‹‹La donna sui iuris amministrava da sé il proprio patrimonio, ma non

poteva, senza l‟auctoritas del tutore, intentare una legis actio o un legittimum iudicium; obbligarsi, alienare una res mancipi, e in genere compiere un negozio di diritto civile, per esempio, la in iure cessio di usufrutto, le manumissioni solenni, il testamento, quando le donne ne furono rese capaci, ecc..››;

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l‟accusatio suspecti tutoris, le excusationes, l‟actio rationibus distrahendis ecc...47.

Con il graduale venir meno della solidarietà della famiglia romana arcaica e il progressivo affermarsi dell’indipendenza femminile, scomparve la necessità stessa della tutela muliebre.

Il cammino che portò la donna alla totale affrancazione da ogni forma di controllo fu segnato da alcuni momenti fondamentali, il più importante dei quali lo si ebbe con l’imperatore Claudio che, con la lex Claudia, abolì definitivamente la tutela legittima e, conseguentemente, il controllo dei parenti in linea maschile48

.

In piena decadenza già in età classica, la tutela muliebre scomparve del tutto in età postclassica; ad ogni modo nel 410 d.C. Onorio e Teodosio concessero, a tutte le donna, il ius liberorum49.

A sostegno di coloro che presentavano disturbi psichici, il diritto romano corse in soccorso con l’istituto della curatela.

Le forma più antiche di cura, già presenti all’interno delle XII Tavole e disciplinate poi dal ius civile, furono la cura furiosi e la cura prodigi.

In sintonia con il significato proprio del termine50, con l’uso di tale aggettivo i romani erano soliti indicare ‹‹non solo il folle agitato e violento, ma ogni infermo di mente incapace di pienamente intendere e volere››51.

47B. Albanese, op.cit.;

48

M. Marrone, op.cit., pp.170-171: ‹‹Già da prima, per vero, si era ammesso che in

testamento il pater familias, anziché nominare egli la persona del tutore testamentario, desse alla figlia che sarebbe divenuta sui iuris alla sua morte il tutore che ella stessa avesse poi liberamente scelto per sé; per il quale, cioè ella avesse fatto optio (optio tutoris): si parlò al riguardo di tutor optivus. Risultato analogo la donna avrebbe potuto conseguire più tardi – verosimilmente dalla tarda età repubblicana – con la coemptio fiduciaria, cosidetta tutelae evitandae causa. La lex Iulia ed Papia Poppea, del tempo di Augusto, nel quadro di una politica demografica perseguita dall‟imperatore, riconobbe alle donne con tre figli se ingenue, quattro figli se liberte, il cosidetto ius liberorum, esonerandole dalla tutela e riconoscendo loro, in sostanza, piena capacità d‟agire. Presto si ammise che il potere potesse, su istanza della donna, costringere il tutore, purché testamentario o datico, a prestare l‟auctoritas; mentre la tutela legittima dell‟agnatus proximus venne abolita da una lex Claudia, del tempo dell‟ìimperatore Claudio (41 – 54 d.C)››;

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Non è dato rinvenire una diversa definizione medico-scientifica. Date le scarse conoscenze mediche del tempo, il disturbo psichico restò sostanzialmente un dato ignoto, privo di una esaustiva classificazione delle diverse patologie.

Le differenti locuzioni rintracciabili dalle fonti non devono far cader in errore; al variare della scelta linguista comune era il significato ad esse attribuito52

.

Il regime di risposta prestato dall’ordinamento fu, quindi, sostanzialmente unico53

.

La struttura operativa della curatela presentava spiccate analogie con la tutela dedicata ai fanciulli con la quale condivise, dalle origini e sino all’età preclassica e classica, la matrice di stampo potestativo che le valse la designazione di potestas54.

Solo più tardi, con una terminologia più specifica, fu indicata con il termine di cura (o curatio) furiosi55.

Designato curator furiosi era l’agnato più vicino o, in sua assenza, il gentile: essi costituivano la categoria dei c.d. curator legitimus (curatori legittimi)56.

50‹‹Furioso, dal latino furiosus, der. di furia “furore”: Chi è solito andare in furia o

dà spesso segni di furore, per insofferenza d‟animo o per alienazione mentale››: da

www.treccani.it

51F. Serrao, op.cit., p. 242; 52

Una ricca raccolta di fonti che permettono di rintracciare il diverso uso dei vocaboli in tema è consultabile in E. Nardi, Squilibrio e deficienza mentale in diritto romano, Milano, 1983, p. 38 e ss., da cui si riporta a titolo esemplificativo: ‹‹Da Gaio D. 3.1.2

apprendiamo che, come ai furiosi, anche agli “scemi” si dava un curatore: ‹‹fatuo, fatua: cum istis quoque personis curator detur››. Di nuovo i due poli: “squilibrati/deficienti” […] Il curatore dello scemo è ulteriormente ricordato da Gaio in D.42.5.21 “vel fatuo”[…] “Demens” compare per la prima volta in Proculo, D.31.48,1, usato come sinonimo di furiosus: ‹‹ Bonorum possessione dementis curatori data legata a curatore, qui furiosum defendit, peri poterunt›› […] Giavoleno in D.29.2.60 usa “demens” in contrapposto a “sana mente”: ‹‹filius, tamquam pater demens fuisset, bonorum possessionem ab intestato petir…si probaretur sana mente pater testamentum fecisse [...]››.

53

Cfr. B. Albanese; op.cit.;

54Cfr. G. Pugliese – F. Sitzia – L. Vacca, Istituzioni di diritto romano, Torino, 2012; 55Cfr. B. Albanese; op.cit.; F. Serrao, op.cit.;

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Nella cura furiosi, a differenza di quanto accadeva per la tutela, non esistevano curatori testamentati in senso stretto; era ben possibile la nomina di un curatore da parte del pater familias all’interno del proprio testamento, ma tale atto non importava il conferimento automatico dell’incarico.

Perché ciò accadesse era necessario ottenere il placet del pretore che, a tal fine, procedeva ad un previo controllo sulle condizioni mentali in cui versava il presunto incapace57

.

Nel diritto classico e postclassico tale potere di nomina fu concesso anche al pretore e, nelle provincie, ai presidi dando così vita alla cura honoraria58.

Con l’intervento del pretore la curatela venne estesa anche a coloro che erano affetti da minorazioni o malattie inguaribili, ai sordi e ai muti59. Oltre al dovere generale di custodia e vigilanza in ordine alla salvaguardia personale dell’incapace, compito principale e dettagliatamente disciplinato del curatore fu, ancora una volta, quello di amministrare per conto dell’incapace la quota di patrimonio a questo spettante.

Seguendo lo schema dettato per la tutela impuberum, anche nella curatela i rapporti fra curatore e incapace si realizzarono secondo lo schema della negotiorum gestio60.

Anche al curator fu fatto obbligo di stipulare una cautio rem furiosi salvam fore, con la quale lo si obbligò a svolgere il proprio ufficio secondo i principi di diligenza e correttezza.

Se la garanzia veniva disattesa e il curatore si macchiava di cattiva amministrazione i familiari dell’incapace, o quest’ultimo in caso di

57

Ibidem;

58Cfr. A. Guarino, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 2006;

59Cfr. D. Dalla – R. Lambertini, Istituzioni di diritto romano, Torino, 2006; 60Cfr. A. Guarino, op.cit.;

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guarigione, potevano esperire nei suoi confronti l’actio negotiorum gestorum utilis61.

L’assoluta incapacità del furiosus fu consacrata anche in ordine al diritto penale privato e al diritto pubblico.

Sotto questo aspetto ‹‹il furiosus è, nelle fonti, assimilato talora ad un morto o ad un assente o ad un dormiente62››.

L’altra forma di curatela, anch’essa nota fin dalle XII Tavole, era quella apprestata a favore dei prodighi.

Per i giuristi romani, con il termine prodigo ‹‹furono tipicamente designate le persone che, per loro grave inettitudine pratica, risultassero, di fatto, incapaci di amministrare normalmente il proprio patrimonio63››.

A differenza della cura furiosi, per il quale l’incapacità di agire sorgeva ipso iure al presentarsi della malattia, nel caso del prodigo costui poteva essere dichiarato incapace solo a seguito di un atto di interdizione (l‟interdictio)64; in epoca classica tale atto era di competenza del pretore sotto forma di decreto65.

A seguito dell’interdizione, in mancanza di adgnati, il pretore nominava un curatore dativo.

Il prodigo però, a differenza di quanto accadeva per il furiosus, non subiva un’ablazione totale della propria capacità d’agire.

Costui conservava, infatti, la capacità di porre in essere autonomamente solo gli atti che accrescevano il patrimonio, mentre l’ausilio del curatore era necessario per il compimento di quegli atti che

61Cfr. A. Petrucci, op.cit.; 62 B. Albanese, op.cit., p. 540; 63 Ivi, p. 544;

64F. Serrao, op.cit., p. 243: ‹‹La formula con cui il magistrato pronunciava

l‟interdizione è stata tramandata dal giurista Paolo: Paul. Sent. 3,4°,7: ‹‹Quando tibi bona paterna avitaque nequitia tua disperdis liberosque tuos ad egestatem perducis, ob eam rem tibi ea re (o aere) commercioque interdico››. (Giacché per tua prodigalità dissipi i beni paterni ed aviti e conduci i tuoi figli alla miseria, perciò te ne interdico la gestione e il commercio)››;

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16

comportassero il sorgere di obbligazioni, alienazioni o situazioni giuridiche passive66.

La sua sostanziale equiparazione sotto tale profilo all’infantia maior, determinò l’assoggettamento del curatore alla medesima disciplina vista in tema di tutela impuberum.

In ordine alle garanzie gravanti sul curatore, nonchè all’azione di responsabilità esperibile dai familiari del prodigo, si rimanda alla disciplina dettata per la cura dei furiosi, a sua volta modellata ad immagine di quella dettata per la tutela impuberum67

.

Nel diritto Giustinianeo la cura degli insani di mente e dei prodighi fu oggetto di una disciplina identica a quanto previsto per la tutela68.

66

Cfr. B. Albanese, op.cit.. p. 546;

67Ivi, p. 547: ‹‹Il curator prodigi fu, in diritto classico, tenuto a prestare una

satisdatio rem prodigi salvam fore; al prodigo, o ai suoi eredi, fu concesso privilegium sui beni del curatore insolvente; probabilmente, per i rapporti litigiosi tra il prodigus ed il curatore fu esperibile l‟actio negotiorum gestorum, ed il prodigus o i suoi eredi ebbero actio subsidiaria contro il magistrato locale che aveva designato, per la nomina, un curatore che poi fosse risultato insolvente››;

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1.1 Il diritto intermedio

La fine dell’Impero Romano d’Occidente, ad opera delle invasioni e dominazioni barbariche, incise profondamente sulla complessa architettura giuridico romana.

Nell’alto medioevo il diritto delle persone e, in particolare, l’istituto tutelare nella sua ultima formulazione Giustinianea si conserva, se pur corrotto, solo nelle regioni in cui sopravvive il diritto romano69

. Nelle zone dell’Italia centro-settentrionali raggiunte dal diritto longobardo, invece, si trovarono a convivere sistemi normativi molto diversi fra loro70.

La società barbarica, a differenza della cultura romana, disciplinò il diritto delle persone seguendo i semplici ma radicati principi militari su cui si fondava.

Immersi in un continuo stato di guerra, la forza fisica fu elevata a ‹‹valore primario[…]in grado di riverberare i suoi effetti nella complessa fenomenologia dei rapporti umani, compresi quelli rilevanti per il diritto71››.

In questo contesto sociale, l’uomo diventava protagonista della vita pubblica solo con la consegna delle armi; da questo momento sarebbe stato in grado di difendere sé stesso, le persone a lui care e le proprie cose.

Solo l’uomo libero e armato godeva (secondo un linguaggio moderno) della piena capacità72.

La generale concezione che equiparava la piena capacità giuridica con l’idoneità alle armi ebbe un forte impatto verso coloro che erano

69

Cfr. M. E. Viora, Diritto Intermedio, in Noviss. dig. it., XVII, Torino, 1957; 70

E. Maffei, Dal reato alla sentenza. Il processo criminale in età comunale, Roma, 2005, p. 10: ‹‹Il diritto romano […] fu sempre una sorta di elemento di confronto o una

fonte di ispirazione cui attinsero i popoli germanici per adottare le proprie consuetudini alla mutata realtà sociale››;

71

G. Di Renzo Villata, Persone e famiglia nel diritto medievale e moderno, in Digesto IV (discipline privatistiche), Torino, 1995, p. 457;

72Cfr. A. Pertile, Storia del Diritto Italiano dalla caduta dell‟Impero Romano alla

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18

annoverabili fra i soggetti deboli a causa del sesso, dell’età, di difetti fisici che rendevano inadatti alle armi, di malattie fisiche e psichiche gravi, nonché dello status libertatis, lo status civitatis e il credo religioso73.

Nonostante l’incrementarsi dei soggetti incapaci, un vero e proprio istituto tutelare non esisteva.

La protezione dei minori liberi ricadeva sotto la sfera paterna fino al raggiungimento della maturità fisica idonea all’ingresso del fanciullo nell’esercito; da questo momento sarebbe stato in grado di esercitare tutti i diritti civili e politici riconosciuti all’uomo libero74

.

La tutela del fanciullo si limitava alla gestione, da parte del pater o dei parenti più prossimi, dei beni di quest’ultimo che nel periodo più antico erano comuni a quelli degli altri membri familiari75.

Per quanto, infatti, le disposizioni di Liutprando prima e successivamente quelle di Rachis e Astolfo protesero verso un maggior avvicinamento delle consuetudini barbare alla cultura romana, non è possibile rinvenire in questo periodo riferimenti alla figura vera e propria del tutore76.

La condizione giuridica della donna subì un arretramento: gli editti longobardi negarono a quest’ultima la capacità di agire.

Per tale motivo essa doveva necessariamente soggiacere al mundio77 perpetuo del padre o, in caso di sua assenza, del parente più prossimo o del marito78.

73

Cfr. G. Di Renzo Villata, op. cit.;

74Cfr. G. S. Pene Vidari, Lineamenti di storia giuridica, Torino, 2013; 75Cfr. M. E. Viora, op.cit.;

76

Cfr. C. Stroppa, La città del sogno; idee per una politica culturale, Milano, 2007; 77

L. Gatto – P. Supino Martini, Studi sulle società e le culture del Medioevo per

Girolamo Arnaldi, Firenze, 2002, p. 423: ‹‹Nella cultura tradizionale delle tribù germaniche una donna selpmundia era un fenomeno inconcepibile e, in ogni caso, intollerabile››;

78

G. Bosco, La storia d‟Italia raccontata dalla gioventù, Torino, 1874, p. 181: ‹‹Quando poi gli era richiesta una figliuola a nozze, il richiedente doveva pagargli il

mundio pel diritto che egli acquistava sopra la promessa consorte. Oltre il mundio lo sposo con quel atto doveva sborsare al padre della sposa una somma più o meno

(19)

19

Il mundio era un istituto molto comune fra i popoli barbari; con esso si indicava la tutela che il capo famiglia poteva esercitare sulla moglie, sui figli e su i servi79.

Senza l’intervento del mundualdo80 la donna non poteva alienare beni mobili o immobili, maritarsi o prendere i voti e se veniva offesa o lesa nei suoi diritti, al mundualdo spettava la difesa in giudizio facendo valere le sue ragioni81

.

Al mundio erano poi assoggettati i dementi, i ciechi, i sordi, i muti e gli anziani la cui condizione giuridica era parificata a quella della donna82

.

Dopo l’anno mille la riscoperta del diritto romano, ad opera dei Dottori della Scuola di Bologna, fu un momento cruciale per il panorama giuridico83.

Lo studio sistematico delle fonti romanistiche avviò la stagione del Diritto Comune, con cui si riprese ‹‹il cammino interrotto col Corpus iuris per attualizzarne l‟opera e consegnarne gli esiti all‟età delle codificazioni84››.

Le disposizioni Giustinianee, commentate e divulgate dai giuristi bolognesi, furono recepite dai legislatori comunali e plasmate secondo le esigenze del tempo85.

cospicua secondo le sue facoltà, che addimandavasi Meta. Così non la donna portava la dote al marito, ma questi doveva pagarla al padre della sua futura compagna››;

79Ibidem: ‹‹Il mundio dava al capo di casa l‟autorità di comporre i litigi, che

sorgevano tra i membri della famiglia e le persone estranee, e di percepire il provento delle fatte composizioni››;

80

E. Leo, Storia degli stati italiani dalla caduta dell‟impero romano fino all‟anno

1840, Firenze, 1849, p. 43: ‹‹Chiamavasi mund quegli che era sottoposto al mundio, e mundualdo quegli che aveva il diritto di tutela o di mundio sopra di un altro››;

81Cfr. G. Piola, op.cit.; 82

Cfr. G. Di Renzo Villata, op. cit.;

83A. La Torre, Cinquant‟anni col diritto, Milano, 2008, p. 9: ‹‹Singolare il destino

della compilazione bizantina: il Corpus iuris sugellava nel nome di Roma mille anni di storia giuridica, razionalmente selezionata e coordinata, ma lasciava per così dire “giacente” – come tesoro in uno scrigno – questa ricchissima eredità di sapere ed esperienza. Rimase infatti nell‟oblio di un lungo letargo durato i secoli bui dell‟Alto Medioevo, per rinascere a nuova vita solo nel secolo XI grazie a Irnerio e agli altri maestri della scuola di Bologna: i “Glossatori”, impegnati in un minuzioso lavoro di esegesi delle fonti racchiuse nella codificazione di Giustiniano, ben presto assurta a un tale grado di autorevolezza e addirittura di venerazione da potersi paragonare a quella che, nel versante religioso era attribuita alle “sacre scritture”››;

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La figura giuridica della tutela non subì, in questo periodo, stravolgimenti rispetto alla sua antica formulazione.

In materia tutelare, infatti, il diritto romano aveva lasciato in eredità una normativa dettagliata e completa che gli statuti comunali recepirono quasi completamente, limitandosi a disciplinare solo quegli aspetti ritenuti, di volta in volta, più importanti86.

La tutela dei fanciulli seguì, senza significative deviazioni, l’antico schema romano.

La volontà del minore era integrata dall’intervento di un soggetto terzo, sia esso un parente o un tutore; in sua assenza al fanciullo era precluso il compimento di qualsiasi atto giuridico87.

L’amministrazione dei beni pupillari spettava al tutore, sul cui corretto operato vigilavano sia gli organi comunali che il Consiglio di Famiglia; su quest’ultimo gravava, infatti, il compito di prevenire i danni di una cattiva gestione più che il potere di far rimuovere un eventuale tutore infedele88.

A vantaggio del fanciullo, contro gli atti di disposizione patrimoniale, la dottrina medioevale rievocò con pienezza di effetti l’antico istituto romano della restitutio in integrum, ed impose l’obbligo di rendicontazione annuale dinanzi all’autorità comunale89.

Sulla scorta dei testi Giustinianei, inoltre, il tutore fu ritenuto responsabile del proprio operato non solo per culpa lata ma anche per culpa levis, rimettendo al giudice la valutazione caso per caso90.

La cura personale del fanciullo spettava, invece, al Consiglio Familiare a cui era demandato il suo mantenimento e la sua educazione;

85

Cfr. M. E. Viora, op.cit.;

86Cfr. G. Cresta, Dalla cura furiosi all‟amministrazione di sostegno, Persona e Danno, 2009,‹https://www.personaedanno.it/ generalita – varie / dalla – cura – furiosi – all – amministrazione – di – sostegno – giuseppe - cresta›› (20/06/2009);

87

Cfr. G. Di Renzo Villata, op. cit.; 88Cfr. M. E. Viora, op.cit., p.923; 89Ibidem;

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in presenza di un gruppo familiare, infatti, l’intervento del tutore in questo campo era solo eventuale91.

Particolare attenzione fu riservata, in questo periodo, anche agli orfani: a loro favore alcuni comuni istituirono apposite magistrature la cui competenza si estese, successivamente, anche a favore dei furiosi e dei malati in genere.

Variamente nominate, tali istituzioni erano composte per lo più da avvocati ed erano dotate di specifiche competenze tutorie92

.

Seguendo le indicazioni contenute nel Corpus iuris civilis, con gli istituti del tutore e del curatore fu predisposta la tutela non solo di coloro che erano affetti da malattie fisiche e mentali ma anche dei prodighi.

Come emerge dalla fonti l’interdictio administrationis bonorum93, pronunciata da un giudice su istanza dei parenti, aveva carattere essenzialmente patrimoniale.

Gli statuti di Parma del 1255, ad esempio, impedivano al podestà di interdire la gestione dei beni da parte di un soggetto per il quale non fosse stato esplicitamente richiesto, eccetto che per i furiosus vel mentecaptus sive non sanae menti94.

91Ivi, p. 923;

92

G. Cresta, op.cit.: ‹‹Così, ovunque si crearono magistrature speciali, variamente

denominate, aventi la funzione istituzionale principale di proteggere i pupilli, come i «Procuratori di S. Marco» a Venezia, gli «Ufficiali dei Pupilli» a Verona, i «Procuratores pupillorum» a Treviso, i «Iudices tutelarum» a Trento, l‟«Officium sindicationis et minorum provisionis» a Siena, la «Curia nova pupillorum» a Pisa, ecc. Mentre in alcune città la cura si trasformò e si confuse con la tutela, in altri casi, le magistrature speciali ebbero il compito di proteggere anche i furiosi e i malati in genere. Così a Udine troviamo gli “Officiales et deputati ad negocia pupillorum et aliarum miserabilium personarum”, istituiti tra il 1366 e il 1367, con una competenza allargata alla protezione di tutti gli incapaci sia per età (minorenni o decrepiti) che per malattia (dementi e prodighi). […] A Firenze, con provvisione del 18 agosto 1473, la competenza della magistratura degli «Ufficiali de‟ pupilli et adulti», creata nel 1393 col compito di tutelare sia i minorenni il cui padre fosse morto senza nominare un tutore sia le vedove, fu estesa anche alla tutela dei soggetti socialmente più deboli per cause fisiche e psichiche come i “mutoli, sordi, a natura mentecatti, prodighi, furiosi, dilapidatori, vedove et altre persone miserabili”. I magistrati ne amministravano i beni e trattavano le relative cause››;

93

Cfr. G. Di Renzo Villata, op. cit.;

94Cfr. P. Silanos, Homo debilis in civitate. Infermità fisiche e mentali nello spettro

della legislazione statutaria dei comuni cittadini italiani, in G. M. Varanini (a cura di), Deformità fisica e identità della persona tra medioevo e età moderna, Firenze, 2015;

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Per quest’ultimi, però, lo stato di infermità doveva essere comunque provato per testes bonae famae et opinionis95.

Sul curatore, scelto fra i membri della famiglia, ricadeva non solo la gestione patrimoniale, ma anche la protezione dell’incapace col compito precipuo di vigilare sulla sua integrità fisica.

L’assistenza svolta nell’alveo familiare era la soluzione preferita; ove possibile, infatti, permetteva di evitare l’ospedalizzazione dell’incapace o, in caso di reato, il suo internamento in prigione96

.

Ai furiosi, mentecapti e non sanae mentis erano poi accomunati i prodighi, dato che la prodigalità era concepita come uno status psichico in grado di alterare le facoltà razionali del soggetto.

A tutela del prodigo, gli statuti perugini del 1279 stabilirono che a carico di quest’ultimo fosse pronunciata l’interdizione dall’amministrazione delle proprietà e la contestuale nomina di un curator bonis et rebus ipsius dilapidanti97.

A tutela dell’attività negoziale fu inoltre stabilita la nullità, a tutti gli effetti, di ogni contratto concluso con un prodigus quale parte in causa98.

Le soluzioni adottate furono molto diverse da comune a comune: ogni statuto predispose le proprie regole e i propri istituti dando vita a quel fenomeno, noto come particolarismo giuridico, che si protrarrà fino alle codificazioni dell’ottocento.

95 Ibidem; 96Ibidem; 97Ivi, p.56; 98Ibidem;

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1.2 Il contributo innovativo offerto dalla Codificazione Francese del 1804

La materia del diritto delle persone restò, per secoli, priva di una disciplina organica.

Si dovrà attendere il 1804, anno dell’entrata in vigore del Code civil des Francais99

, per assistere alla composizione di una disciplina unitaria della materia.

L’esperienza codicistica francese non fu l’unica a segnare il panorama europeo: a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento iniziò, per prima, la Prussia nel 1791 con l’ALR (Allgemeines Landrecht), seguirono poi la Francia e l’Austria, nel 1811 con il suo ABGB (Allgemeines Burgherliches Gesetzbuch).

Delle tre codificazioni l’opera francese spiccò, però, per importanza e diffusione e divenne, per la legislazione italiana, il modello di riferimento della futura codificazione100.

Focalizzando l’attenzione sulla disciplina dedicata al diritto delle persone è necessario evidenziare però come, su alcuni argomenti, la nuova codificazione segnò un decisivo arretramento rispetto alla disciplina rivoluzionaria.

Sotto la scure del droit intermediarie vennero meno tutti quegli istituti, propri dell’antico regime, volti a preservare l’integrità patrimoniale delle nobili famiglie, con l’intento di creare un nuovo assetto familiare fondato sulla solidarietà e sull’affetto.

Essi condussero infatti alla secolarizzazione del matrimonio, assimilandolo ad un mero contratto sociale e procedettero a liberalizzare, in larga misura, il divorzio101

.

99D. Ziino, Profili dell‟interpretazione giuridica, Milano, 2011, p.7: ‹‹Il 3 Settembre

del 1807, il codice civile francese prende il nome di Code Napolèon, con il quale è conosciuto dalla storiografia giuridica e dalla dottrina, e con tale nuova dizione venne pubblicato con decreto imperiale››;

100Cfr. A. La Torre, Diritto civile e codificazione: il rapporto obbligatorio, Milano, 2006;

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24

Particolare favore fu riservato all’adozione, si consacrò il criterio di uguaglianza fra tutti i figli (legittimi e naturali), la titolarità della potestas genitoriale fu riconosciuta anche alla donna e nei rapporti patrimoniali si procedette all’abolizione dell’autorizzazione maritale102.

La scelta dei legislatori napoleonici seguì, al contrario, un impostazione maggiormente conservativa103.

Il nucleo familiare riacquistò l’immagine di un’istituzione caratterizzata da una ‹‹forte struttura di comando, centrata sul principio di autorità del suo capo104››; il secolare favor per la figura patriarcale tornò in auge non solo nei rapporti coniugali, ma anche in quelli genitoriali.

Nei rapporti coniugali la condizione giuridica della donna retrocedette fino a scomparire: calata in uno stato di assoluta incapacità giuridica, la soggezione al marito fu sancita a chiare lettere tanto nei rapporti personali, nell’art. 213, che in quelli patrimoniali all’art. 217105.

La codificazione non fu solo un ritorno agli antichi regimi.

Per quanto concerne, nello specifico, la tutela rivolta all’incapace maggiorenne, questa fu oggetto di un primo corpo di norme che, seppur

101V. Franceschelli, Diritto privato, Milano, 2011, p. 205: ‹‹La Rivoluzione Francese

vide nel diritto di matrimonio null‟altro che un contratto civile. La Costituzione dell‟anno III (Tit. II, art. 7)proclamò che la “Loi ne considerè la mariage qua comme un contrat civil”››;

102G. Ferrando, I rapporti personali fra coniugi, in M.R. Spallarossa (a cura di),

Famiglia e servizi. Il minore, la famiglia e le dinamiche giudiziarie, Milano, 2008;

103

Cfr. A. Ascoli - F. Cammeo, Parte generale del diritto privato francese moderno, Milano, 1906;

104E’ il giudizio di P. Ungari, Il diritto di famiglia in Italia dalle Costituzioni

‹‹giacobine›› al Codice civile del 1942, Bologna, 1970, p. 19 riportato da G. Ferrando, Matrimonio e Famiglia, in G. Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello (a cura di), Matrimonio e famiglia, in Tratt. Dir. Fam. Zatti, Milano, 2011, p. 296;

105‹‹Art. 213: Le mari doit protection à sa femme, la femine obeissance à son mari. (Il

marito è in dovere di proteggere la moglie, la moglie di ubbedire al marito.) Art. 217: La femme, mème non commue ou sèparèe de biens, ne peut donner, aliener, hypothèquer, acquèrir à titre gratuit ou onèreux, sans le concours du mari dans l‟acte, ou son consentement par ècrit. (La donna, ancorché non sia in comunione o sia separata di beni, non può donare, alienare, ipotecare, acquistare, a titolo gratuito o oneroso, senza che il marito concorra all‟atto, o presti il suo consenso in iscritto)››: Per

gli articoli si rimanda a Code Civil des Francais, Paris, Fantin Libraire Quaides Augustins, 1805, p. 39; per la traduzione si rimanda a Codice di Napoleone il Grande pel Regno d’Italia, Firenze, 1806, p.46-47;

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25

esigue, frammentarie e in larga parte lacunose, segnarono per il tempo un contributo iniziale importante.

Alla tutela dell’interdetto fu dedicato l’intero Titolo XI del primo Libro del codice rubricato, per l’appunto, De la Majoritè, de l‟Interdiction et du Conseil judiciaire.

Per essere in grado di esercitare validamente tutti gli atti della vita civile era necessario, come statuiva la disposizione di apertura del titolo, essere maggiorenni.

Il sistema della maggiore età, quale criterio regolatore dei traffici giuridici, fu uno degli apporti più rilevanti introdotti dalla codificazione Napoleonica106.

Si assume, in via presuntiva, che al raggiungimento del ventunesimo anno di età il giovane abbia maturato le idonee facoltà intellettive atte a consentirgli non solo il governo della propria persona, ma anche la comprensione dei negozi giuridici aventi ad oggetto il suo patrimonio; egli diveniva soggetto attivo del mondo giuridico.

Il funzionamento di tale meccanismo non incontrava ostacoli particolari in merito al fanciullo, la cui disciplina fondata sull’alternativa capacità / incapacità risultava organica, prevalentemente lineare e in grado di dare certezza e stabilità ai rapporti giuridici.

La minore età non era (e non è), però, l’unica condizione che porta con sé una condizione di immaturità psichica.

106G. Tarello, Le ideologie della codificazione nel secolo XVIII, Corso di filosofia del

diritto, Genova, 1973, p. 62-72 riportato da F. Giardina, La condizione giuridica del minore, Napoli, 1984, p. 5: ‹‹In termini di diritto positivo si devono al code Napolèon il collegamento tra incapacità di agire del figlio e patria potestà e l‟assunzione dell‟alternativa tra capacità e incapacità di agire del soggetto a schema razionalizzante dei rapporti tra struttura familiare e libertà di contratto. […] Questo semplice criterio ordinatore pone fine al precedente, complesso sistema della capacità del soggetto di diritto, la cui maggiore età è un dato quasi esclusivamente formale, mentre determinante – ai fini della libertà di disposizione dei propri beni – è la sottoposizione o non sottoposizione alla patria potestà››;

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26

Benché maggiorenne, infatti, l’individuo può andare incontro nel corso della sua esistenza ad eventi che, nelle forme ed entità più varie, possono compromettere il corretto sviluppo delle sue capacità intellettive. In queste ipotesi era evidente la necessità di individuare e incanalare la protezione del maggiorenne incapace sotto un altro criterio regolatore.

La scelta compiuta dal legislatore francese, sulla scorta della tradizione giuridica sviluppatasi in materia, cadde sull’utilizzo dell’istituto dell’interdizione.

In tema di interdizione la codificazione introdusse un’altra novità rilevante.

Secondo quanto disposto dall’art. 489, infatti, l’applicazione dell’istituto in parola poteva essere domandato solo in presenza di tre condizioni specifiche sulle quali, inoltre, alcuna rilevanza assumevano i lucidi intervalli107.

Tali condizioni erano lo stato di imbecillità, di demenza e di furore108.

Ne furono esclusi sia lo stato di prodigalità, che la presenza di deficienze fisiche.

Al più fu previsto per il prodigo, mediante una breve disciplina apposita, l’assistenza di un consulente la cui assenza avrebbe precluso

107Cfr. G. Lisella, Interdizione giudiziale e tutela della persona. Gli effetti

dell‟incapacità, Camerino, 1984;

108Art. 489 contenuto in Codice di Napoleone il Grande pel Regno d’Italia, Firenze, 1806; Interessante la classificazione operata da M. Duranton, Corso di Diritto Civile

secondo il Codice Francese, (a cura di) P. Liberatore, nella versione italiana, Vol. II,

Napoli, 1841, p.212, in cui è possibile trarre i tratti distintivi delle tre alterazioni psichiche: ‹‹L‟imbecillità è quella debolezza di mente la quale, senza privare affatto la

persona dall‟uso della ragione, la lascia tuttavia solo con la facoltà di concepire idee comunissime che riferiscono quasi sempre ai suoi bisogni fisici ed alle sue abitudini. Tale stato è per l‟ordinamento permanente. La demenzia proviene, non da debolezza degli organi, ma dal loro sconcerto: essa è più o meno continua, secondo che le loro funzioni siano alterate sotto un maggiore o minore numero di rapporti. Il furore è lo stato di demenzia giunta al massimo grado e proviene da disordine e contrazione degli organi, le cui funzioni discordanti eccitano il furioso a movimenti pericolosi per sé stesso e per gli altri››.

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all’interessato la possibilità di alienare beni, riscuotere capitali, fare quietanza di pagamento, prendere denaro a prestito o transigere.

Il dato rilevante che emerge dalla lettura delle norme dedicate all’istituto dell’interdizione, è il totale disinteresse mostrato dal legislatore verso l’individuo incapace come persona.

Ancora una volta, infatti, il motore della disciplina fu di natura prettamente patrimoniale.

L’ideologia che tornò a segnare il leit motiv della codificazione, fondato essenzialmente sull’importanza di predisporre gli idonei istituti giuridici atti ad assicurare la conservazione dei patrimoni familiari, non mancò di segnare profondamente anche la disciplina dell’istituto in parola109.

La rigida disciplina contenuta nell’art. 502 del codice110, volta a sanzionare con la nullità tutti gli atti posti in essere dal soggetto ormai interdetto, faceva calare sullo stesso una gabbia di assoluta incapacità palesandosi più come istituto di punizione che si sostegno111.

L’assetto normativo non mancò di sollevare da più parti accesi dibattiti, animati dall’intento di individuare nel sistema atti che potessero essere esercitati dall’incapace, ed in grado di restituire all’interdizione natura di mezzo di protezione112.

Fu così che si prospettò la distinzione fra atti patrimoniali, soggetti alla disciplina dell’art. 502 e sempre nuls de droit, ed atti morali, come il matrimonio e il riconoscimento di figlio naturale, ritenuti sempre validi ‹‹se il soggetto, al momento di porli in essere, era in possesso della capacità d‟intendere e di volere113››.

109

Cfr. E. Russo, Studi sul diritto di famiglia, Roma, 2009;

110Art. 502: ‹‹L‟interdizione o la nomina di un consulente avrà il suo effetto dal

giorno della sentenza. Sarà nullo qualunque atto fosse stato fatto posteriormente dall‟interdizione, o senza l‟autorizzazione del consulente›› tratto nella traduzione

italiana da Codice di Napoleone il Grande pel Regno d’Italia, Firenze, 1806; 111Cfr. G. Lisella, op. cit.;

112Ivi, p. 30; 113Ivi, p. 32;

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La restante disciplina fu dedicata al processo di interdizione che, costruito essenziale ad immagine di quello di cognizione, fu considerato lo strumento più idoneo a garantire e tutelare le ragioni dell’incapace e dei suoi familiari114.

Mancano, come è agilmente percepibile, disposizioni attinenti esclusivamente alla cura della persona dell’incapace.

Il rinvio alla disciplina della tutela minorile, effettuato dall’art. 509, non era in grado di colmare la lacuna di cui era affetto il Titolo XI.

Il codice, infatti, ben poco diceva anche sugli obblighi del tutore circa la cura del fanciullo.

Statuita la regola generale, all’art. 450 del codice, secondo cui il tutore ‹‹avrà cura della persona del minore […]›› nulla era poi previsto nello specifico115.

Poco aggiungeva alla disciplina il contenuto dell’art. 510 che, pur prevedendo l’obbligo per il tutore di impegnare le rendite dell’interdetto per facilitarne la cura e addolcirne la condizione, non contemplava poi alcun controllo sul suo reale operato.

All’apprezzamento del Consiglio di Famiglia era rimessa la scelta se apprestare la cura dell’interdetto all’interno dell’alveo familiare o presso strutture specifiche, quali le case di sanità o ospedali.

La scelta, libera dal rispetto di alcun canone si esso medico o giuridico, poteva determinare due prospettive di vita alquanto diverse per l’interdetto il cui destino, dal momento dell’interdizione, poco interessava all’ordinamento giuridico.

Allargando le maglie dell’indagine oltre il campo giuridico, meglio si comprende l’impostazione assunta dal codice verso la figura degli incapaci.

114Cfr. V. Vadalà, La tutela della disabilità, Milano, 2009;

115Secondo larga parte della dottrina, tale obbligo ricomprendeva tanto il dovere di provvedere all’educazione del giovane che ai suoi alimenti, non impegnando però l’investimento diretto del patrimonio del tutore, essendo al contrario un dovere primario degli ascendenti. A tal proposito Cfr. M. Duranton, op.cit.;

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La visione che vigeva, agli inizi dell’Ottocento, verso coloro che erano afflitti da malattie legate alla sfera psichica, era in larga parte fondata su un’impostazione sorta e consolidatasi nel periodo Rinascimentale, atta a dipingere la figura del folle come quella di un individuo pericoloso, segnato dal peccato e, in quanto tale, da ripudiare e allontanare dal contesto sociale della città.

Vagabondi, malati, mendicanti e ammalati psichici furono così soggetti a quella che Michel Foucault definì come la politica della grande reclusione, volta ad allontanarli dai contesti urbani e allocarli in edifici di internamento116

.

Lo stesso Hopital Gènèral, sorto in Francia nel 1656, altro non era che un luogo in cui individui affetti dalle più diverse patologie furono riuniti per essere sorvegliati più che curati117.

Solo dalla seconda metà del Settecento, in concomitanza con i venti rivoluzionari, si affermò in campo medico, parallelamente al metodo anatomico - clinico, lo studio e il trattamento delle malattie mentali.

Rilevante fu l’apporto metodologico introdotto dal dottor Philippe Pinel il quale, per primo, introdusse un nuovo approccio verso la cura delle malattie mentali.

Il nuovo metodo si basava soprattutto sull’importanza di costruire un rapporto personale con gli individui non escludendo, nel contempo, l’uso di metodi duri e violenti118.

È dal miglior allievo di Pinèl, il dottor Jean Etienne Dominique Esquirol, che giunge la testimonianza dello stato in cui gravavano le strutture manicomiali presenti nel territorio francese, a seguito di un viaggio intrapreso dallo studioso fra il 1810 e il 1818 e finalizzato a indagare le condizioni di vita dei malati entro tali strutture.

116Cfr. F. Villa, Dimensioni del Servizio Sociale: principi teorici generale e

fondamenti, Milano, 2009;

117

Cfr. G. Cresta, Dalla cura furiosi all‟amministrazione di sostegno, Persona e Danno, 2009, ‹‹https:// www.personaedanno.it/generalita-varie/dalla-cura-furiosi all’amministrazione-di-sostegno-giuseppe-cresta› (20/06/2009);

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