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Esclusi dal consumo: una prospettiva nuova sulle abitudini di consumo analizzata attraverso la cinematografia italiana

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

LAUREA SPECIALISTICA IN MARKETING E RICERCHE DI MERCATO

Dipartimento di Economia e Management

Tesi di Laurea

Esclusi dal consumo:

una prospettiva nuova sulle abitudini di

consumo analizzata attraverso la

cinematografia italiana

RELATORE Prof. Daniele Dalli

CANDIDATO Silvia Laratta

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SOMMARIO

Questo elaborato si propone di fare luce su una parte di consumatori trascurata. Mentre molti studiosi hanno indagato i meccanismi di scelta del consumatore, pochi si sono soffermati sui casi in cui quest'ultimo non aveva scelta. Una rassegna della letteratura mostrerà come gli studiosi hanno definito queste casistiche nel corso del tempo e si provvederà a creare una versione finale e completa di questa definizione. Vi saranno incluse persone anziane, bambini, in alcuni paesi le donne (o gli uomini), i membri della comunità LGBT, gli immigrati e le minoranze etniche, le persone analfabete, le persone che vivono delle limitazioni dovute alla propria cultura o religione, i disabili e i malati, i membri di Total Control Institutions, le persone povere, i residenti in luoghi disastrati e coloro che attraversano particolari stati emotivi. Due categorie in particolare, ovvero gli immigrati e i membri della comunità LGBT, verranno analizzate attraverso alcune opere cinematografiche.

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INDICE

INTRODUZIONE!...!7!

1.! CONSUMER CULTURE THOERY IN AMBITO DI ESCLUSIONE DAL CONSUMO!...!9!

1.1LA COSTRUZIONE DI UN’IDENTITÀ PERSONALE!...!9!

1.2.LE CULTURE DI MERCATO!...!16!

1.3.I PATTERN SOCIO-STORICI DI CONSUMO!...!23!

1.4. LE IDEOLOGIE DIFFUSE DAL MERCATO E LE STRATEGIE INTERPRETATIVE DEI CONSUMATORI!...!28!

2.! L’ESCLUSIONE DAL CONSUMO!...!38!

2.1.! CIÒ CHE L’ESCLUSIONE DAL CONSUMO NON È!...!38!

L’esclusione sociale!...!38!

La fuga dal mercato!...!41!

2.2.! I DIVERSI APPROCCI TEORICI PER LA DEFINIZIONE DEI CASI DI ESCLUSIONE DAL CONSUMO!...!44!

The disadvantaged consumer!...!44!

Consumer vulnerability!...!52!

Bottom of the Pyramid!...!58!

Restrictions and constraints!...!61!

Total Control Institutions!...!76!

Un nuovo framework!...!80!

3.! IL METODO DI RICERCA!...!88!

3.1.! LE DIFFICOLTÀ DELLA RICERCA!...!88!

3.2.! IL CINEMA COME FONTE DI INFORMAZIONE!...!93!

3.3.! IL METODO DI RICERCA!...!98!

Prima fase: il database!...!98!

Seconda fase: le sinossi dei film!...!100!

Terza fase: l’analisi dei film!...!100!

3.4.! I LIMITI DELLA RICERCA!...!102!

4.! I RISULTATI DELL’ANALISI!...!104!

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Differenze Etniche!...!104!

Omosessualità!...!105!

4.2.! LE SINOSSI DEI FILM SULLE DIFFERENZE ETNICHE!...!105!

Vesna va veloce, C. Mazzacurati, Italia 1996!...!106!

Pummarò, M. Placido, Italia 1990!...!108!

La sconosciuta, G. Tornatore, Italia/Francia 2006!...!110!

Io sono li, A. Segre, Italia/Francia 2011!...!112!

4.3.! FILM SULLE DIFFERENZE ETNICHE: ANALISI TEMATICA!...!115!

L’amore e le relazioni sociali!...!115!

La lingua!...!117! I mezzi di trasporto!...!120! L’abbigliamento!...!121! I consumi e l’acculturazione!...!123! La discriminazione!...!131! La mercificazione!...!140! I limiti al consumo!...!143!

4.4.! LE SINOSSI DEI FILM SULL’OMOSESSUALITÀ!...!147!

La patata bollente, Steno, Italia 1979!...!147!

Immacolata e Concetta, S. Piscicelli, Italia 1980!...!151!

Mine vaganti, F. Ozpetek, Italia 2009!...!154!

Io e lei, M.S. Tognazzi, Italia 2015!...!156!

4.5.! FILM SULL’OMOSESSUALITÀ: ANALISI TEMATICA!...!158!

La discriminazione!...!159!

La società!...!167!

Il consumo!...!171!

5.! CONCLUSIONI!...!176!

6.! RIFERIMENTI!...!186!

6.1.! INDICE DELLE FIGURE!...!186!

6.2.! BIBLIOGRAFIA!...!187!

6.3.! SITOGRAFIA!...!194!

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INTRODUZIONE

Il primo approccio delle scienze economiche al consumatore è stato in quanto individuo perfettamente razionale. Col passare del tempo si è iniziato a capire che la perfetta razionalità non esiste e che i consumatori non sono tutti uguali. L’età, il sesso, la provenienza geografica e culturale sono solo alcune delle molte variabili che distinguono i consumatori i quali sono, in ultima analisi, tutti diversi.

Molti studi cercano di collegare delle variabili che indicano una o più caratteristiche del consumatore con altre che indicano i suoi comportamenti e di trovare dei pattern che riescano a spiegare gli acquisti.

Tuttavia una variabile che viene di rado presa in considerazione è quella che descrive le possibilità del consumatore.

Anche questo infatti è un elemento di differenziazione importante. Non tutti i consumatori hanno le stesse possibilità o capacità di scelta. Si pensi ad una persona disabile. A seconda del tipo di disabilità in questione ci potrebbero essere delle difficoltà oggettive nel recarsi in un negozio oppure online, nello scegliere l’acquisto migliore per se stessi ed anche nell’effettuare il pagamento.

Allo stesso modo queste operazioni diventano difficili con l’avanzare dell’età o se si vive in un ambiente dove non esiste un mercato fornito come quello delle società occidentali. Non si può dire che esistano consumatori che non abbiano un limite alle proprie scelte, ma sicuramente tra gruppi di consumatori diversi esiste una netta differenza. Il fatto che questa differenza non sia quantificabile non giustifica il fatto che la si ignori.

Posto che le persone disabili, quelle che vivono sotto la soglia di povertà, le persone immigrate e tanti altri gruppi svantaggiati sul mercato affrontano ogni giorno problemi di ogni tipo e che l’aspetto del consumo a volte è solo un qualcosa di marginale nelle loro vite, questo non giustifica il fatto che gli studiosi non si occupino di loro.

Può risultare sorprendente, a volte, quanto essere esclusi da certi ambiti di consumo possa essere problematico per le persone ed altrettanto sorprendenti possono essere i comportamenti di risposta ad un impedimento da parte dei consumatori.

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Nel primo capitolo dell’elaborato si cercherà di far capire come una situazione di esclusione dal consumo possa ripercuotersi sul consumatore e dunque l’importanza dell’affrontare questa tematica. Per far questo si utilizzeranno le quattro aree della Consumer Culture Theory (Arnould e Thompson 2005) come linea guida e per ognuna si descriverà un caso pratico dove sia presente il tema dell’esclusione dal consumo. Successivamente, nel capitolo 2, si cercherà di dare una definizione esaustiva e dettagliata di cosa si intende per esclusione dal consumo e di quali siano le categorie che ne fanno parte.

Nel capitolo 3 invece verranno esposte le problematiche collegate al fare ricerca in questo campo e si proporrà il metodo di ricerca qui adoperato: le pellicole cinematografiche che trattano i temi qui discussi saranno analizzate per cercare di trarre delle conclusioni su alcuni casi di esclusione dal consumo.

Infine nel capitolo 4 verranno mostrati i risultati della ricerca e nel quinto le conclusioni che si possono trarre da tutto il lavoro svolto.

Purtroppo l’argomento trattato è troppo vasto ed ancora troppo poco conosciuto perché se ne possa ricavare qualcosa di conclusivo, ma la speranza è che questo elaborato possa partecipare a diffondere un po’ di conoscenza sullo stesso, fungendo da base per le ricerche che verranno in seguito.

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1.!CONSUMER CULTURE THOERY IN AMBITO

DI ESCLUSIONE DAL CONSUMO

1.1 La costruzione di un’identità personale

I beni, come è noto, hanno un forte ruolo nella costruzione di un’identità personale. I consumatori li selezionano per creare un collage che li rappresenti. Ma come funziona questo meccanismo quando al consumatore in questione viene impedito il possesso di qualsiasi oggetto?

L’esempio che segue descriverà proprio un caso di questo tipo.

Si presti molta attenzione al brano che segue. Esso riguarda un momento raccontato da una vittima dell’olocausto, Louis de Wijze, nel suo libro autobiografico “Only my life: a survivor’s story”, 1997. Il campo dove era tenuto prigioniero viene liberato e lui si trova di fronte all’armadio di un alto ufficiale nazista.

“Quando apro l’armadio, è pieno di una varietà di vestiti. Una bellissima uniforme da cerimonia, tutta pulita e stirata, rapisce il mio sguardo. Il chirurgo evidentemente aveva un alto

grado militare. Tiro fuori l’appendiabiti con l’uniforme dall’armadio e lo tengo davanti a me. Ho un forte bisogno che

non riesco a reprimere. Prendo dei calzini puliti, della biancheria, una camicia, scarpe luccicanti e il berretto militare

e incomincio a vestirmi.

Qualche minuto dopo sto guardando una completa metamorfosi all’interno di un grande specchio nella porta. Lì si staglia un tedesco dallo sguardo arrogante, mento in alto, schiena dritta,

berretto girato sulla testa con nonchalance.

Mi tolgo il cappello. Compare una testa rasata con una leggera ricrescita di capelli. L’immagine del crucco arrogante svanisce e ritorna lo sguardo di una vittima, il prigioniero del campo:

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forze. Imbarazzato, ripongo l’uniforme nell’armadio e prendo degli abiti civili che mi calzino bene.”1

(Louis de Wijze 1997,175; citato da Klein e Hill 2008, tradotto)

Come si può notare è ben evidente qui il ruolo del vestiario nel definire e modellare l’identità personale. Il protagonista indossa abiti nazisti e si vede allo specchio come un nazista, anche con il suo portamento caratteristico, si toglie il cappello e ritorna di nuovo ad essere il prigioniero. I segni che porta sul suo corpo testimoniano il momento in cui è stato rasato e la fame e le dure condizioni di vita che ha subito per un lungo periodo. Questi segni sono dunque dei richiami oggettivi ai ricordi, sono testimonianze di fatti successi.

D’impatto è soprattutto la frase “Ho un forte bisogno che non riesco a reprimere” (Louis de Wijze 1997,175; citato da Klein e Hill 2008, tradotto). Mostra come nel vedere quella divisa, simbolo di un grande potere al quale il protagonista è dovuto sottostare per molto tempo, egli non possa fare a meno di provare a prendere quel potere per sé. Non può fare a meno di provare la sensazione di stare dalla parte del carceriere e non del prigioniero. Tutto questo discorso è però imperniato, in fin dei conti, su un oggetto: una divisa militare. Un capo d’abbigliamento, ma intriso di significati simbolici. Lo stesso protagonista rimane sorpreso da quanto quell’oggetto possa trasferire su di sé tutti i suoi valori, da quanto possa modellare la sua identità. Quando però si rende conto che non solo gli trasferisce una sensazione di potere, ma tutto l’insieme dei valori nazisti, che erano stati per lui causa di tanto dolore fisico e psicologico, sente subito il bisogno di allontanarsi da quell’identità e di indossare abiti civili.

1 Testo originale: “When I open the closet, it is full of a variety of clothing. // A beautiful gala

uniform, all clean and freshly ironed, catches my eye. The surgeon apparently had a high military position. I take the hanger with the uniform out of the closet and hold it in front of me. I have a strong urge that I cannot suppress. I take some clean socks, underwear, shirt, shiny shoes, and the military cap and start to dress. // Minutes later I am staring at a complete metamorphosis in a large mirror inside the door. There stands an arrogant-looking German, chin in the air, straight-backed, cap nonchalantly tilted on his head. // I take off my cap. A skinny head with short stubbles of hair on top appears. The image of the arrogant kraut vanishes and the look of a victim, the camp prisoner returns: hollow eyes, still pale and scurvy skin, powerless. Embarrassed, I put the uniform back in the closet and take out some well-fitting civilian clothes.”

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Anche questi ultimi hanno un significato. Non è la divisa militare trovata nell’armadio, ma non sono neanche gli abiti che indossava prima, da prigioniero. È un abbigliamento nuovo, simbolo di un nuovo periodo della vita e della fine della prigionia.

Klein e Hill (2008) hanno raccolto questa come molte altre testimonianze di vittime della Shoah, le quali raccontano di una situazione di deprivazione molto particolare, assimilabile a quelle che Goffman (1963) chiama Total Control Institutions. Si tratta di luoghi come le prigioni, gli ospedali psichiatrici, i campi di concentramento ed altre forme di controllo di alcune persone sulle altre (Hill et al. 2015) nelle quali vengono appunto esercitate forme di controllo totali. I prigionieri, i pazienti degli ospedali psichiatrici e i deportati nei campi di concentramento condividono il fatto che ogni singolo momento della loro giornata è imposto dall’istituzione in cui si trovano. Anche le forme di consumo sono dunque imposte in modo quasi completo, se non per quanto riguarda il costituirsi di mercati illeciti di scambio (Hill et al. 2015).

In queste istituzioni un momento molto particolare è quello dell’ingresso del soggetto al loro interno. Klein e Hill (2008) chiamano questo processo “spossessamento”.

Le persone deportate nei campi di concentramento, infatti, si sono viste piano piano sottrarre tutti gli oggetti che le collegavano alle loro vite precedenti, anche con dei sotterfugi. Ad esempio erano state invitate a preparare delle valigie prima di partire, ma poi nessuno aveva avuto la possibilità di prenderle dal treno una volta arrivati a destinazione. I vestiti che avevano addosso dovevano toglierseli prima di venire rasati, ma nessuno gli aveva detto che non li avrebbero mai rivisti (Klein e Hill 2008). Persino i capelli gli venivano portati via, il loro ultimo collegamento visibile con la loro identità.

“…tutto quello che possedevamo, letteralmente, era la nostra nudità. Che cosa altro ci rimaneva come collegamento materiale

alle nostre vite precedenti?”2

(Victor Frankl, 1963,22; citato da Klein e Hill 2008, tradotto)

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“Ho guardato l’orologio che indossavo... Non potete avere i

miei ricordi! […] Lo frantumai in mille pezzi”3

(Rena Gelissen, 1995,61; citato da Klein e Hill 2008, tradotto)

Stesso processo di “svestizione” dai beni avviene nelle prigioni e negli ospedali psichiatrici, ma sia prigionieri che pazienti sanno già quello che sta per succedere, a differenza di quanto avviene nei campi di concentramento.

I nazisti per omologare i deportati, dunque, agiscono proprio spossessandoli di tutti i loro averi, capelli compresi. Per eliminare la loro identità, la loro possibilità di distinguersi gli uni dagli altri, sottraggono loro tutti gli oggetti che possiedono. Questo testimonia il ruolo dei beni nel comunicare l’identità personale, ma ancor più interessante è il fatto che le vittime di questo processo non siano preoccupate della possibilità di distinguersi che gli viene portata via, ma piuttosto dei ricordi che se ne vanno con i loro oggetti. Rena Gelissen non è così attaccata al suo orologio per il suo valore estetico; quell’oggetto porta con sé dei ricordi, è un simbolo che rimanda ad un riferimento non visibile per gli altri, ha valore solo per lei. E allora nessuno che non conosca a cosa quell’orologio è legato può averlo. Questa è la sua decisione.

L’identità che gli individui costruiscono tramite i beni, dunque, non ha solo una valenza esterna, non è solo una forma di comunicazione verso gli altri. Serve anche a livello interno, per fissare dei ricordi, dei momenti della vita che hanno partecipato alla creazione dell’identità interiore. Serve per ricordare prima di tutto all’individuo stesso chi è e chi vuole essere.

Wallendorf e Arnould (1988) testimoniano il fatto che nelle culture occidentali (in particolare negli Stati Uniti, presentati in contrapposizione rispetto ad una comunità nigeriana) l’attaccamento a certi particolari oggetti dipende proprio dal loro valore per l’individuo, valore che in ultima analisi è dettato dalla capacità di simboleggiare ricordi ed affetti.

Nel momento in cui i deportati vengono spossessati di tutti i loro averi quindi cercano di salvare prima di tutto gli oggetti che hanno un significato per loro stessi, a livello

3 Testo originale: “I looked at the watch I am wearing…You cannot have my memories! […] I

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individuale; danno meno importanza invece ai beni che servono a rappresentarli a livello sociale.

Ma perché le persone hanno bisogno di oggetti per rappresentare sé stessi a sé stessi? Non dovrebbero già sapere chi sono senza bisogno di simboli a definirli?

Si potrebbe ipotizzare che questo ruolo degli oggetti derivi dalla sfiducia che l’uomo nutre verso la propria mente. Essa registra le cose con un filtro di soggettività, distorce, dimentica. Gli oggetti però sono qualcosa di reale, qualcosa che dà certezza. Semanticamente possiamo ritrovare questo concetto nella dicotomia tra le parole oggettivo e soggettivo, l’una definisce qualcosa di stabile e condivisibile da tutti, l’altra qualcosa di interiore ed incerto.

Douglas e Isherwood (1979) teorizzano che i beni servano a fissare dei significati culturali, così che possano essere protetti da eventuali fluttuazioni o cambiamenti. I consumatori secondo loro si appropriano selettivamente dei beni, per appropriarsi in ultima analisi dei significati che questi portano.

Questa funzione di “fissazione” diventa ancor più importante nel momento in cui, come succede per i deportati nei campi di concentramento, avviene un taglio netto con la vita precedente.

Se davvero gli individui non ritengono la propria mente in grado di ricordare la propria identità stabilmente, devono ricercare questa immagine in qualcosa di esterno, come gli oggetti.

Gli ebrei e le altre vittime dell’olocausto si vengono a trovare in un ambiente completamente nuovo, dove nessuno li conosce e dove subiscono un trattamento che mira precisamente a privarli della propria identità, così che ognuno di essi non sia più un individuo ma un numero, una macchina da lavoro tra tante. È per questo dunque che si attaccano agli oggetti più carichi di significato che hanno, così da poter trattenere qualche immagine, seppur parziale, dell’identità che si erano costruiti. C’è un conflitto tra il tentativo di omologazione dei nazisti e la resistenza della personalità di ciascun deportato e le armi del conflitto risiedono proprio nel possesso degli oggetti che costituiscono un collegamento con la vita precedente.

Senza questi la paura è che si potrebbero dimenticare delle cose importanti, che si potrebbe arrivare un giorno a chiedersi se certi ricordi siano reali, se certe esperienze siano state veramente vissute. La paura più grande è che piano piano si possa dubitare di tutto ciò che è avvenuto al di fuori del campo di concentramento, arrivando così a

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considerare quest’ultima come l’unica realtà certa e a considerare dunque sé stessi soltanto come prigionieri.

Per riassumere i punti chiave di quanto detto fin ora, la costruzione di identità operata dagli individui attraverso i beni è un processo complesso e con una funzione molteplice. Nel tempo si raccolgono beni che siano in grado di fermare dei significati. Attraverso di essi la persona si può appropriare dei suddetti significati e costituire un’immagine composita di sé. Questa serve a comunicare la sua identità agli altri, ma anche a sé stessa. Nel particolare caso dello spossessamento operato a danno delle vittime dell’olocausto, si può notare un attaccamento maggiore ai beni che servono alla rappresentazione dell’identità per l’individuo stesso, più che per gli altri.

È opportuno fare un’altra considerazione rispetto agli oggetti e alla loro capacità partecipare alla costruzione dell’identità. Oggetti diversi possono svolgere funzioni diverse ed assumono pertanto un’importanza diversa. Quelli che possono adempiere meglio al compito di modellare l’immagine della persona sono quelli che possono essere portati con sé sempre ed in modo visibile.

La casa, i mobili e l’automobile dicono molto di una persona, ma ovviamente la loro funzione è limitata ai momenti in cui possono essere visti insieme al soggetto.

Il vestiario invece segue la persona in ogni momento della giornata, ma (almeno al giorno d’oggi e nei paesi occidentali) uno specifico capo d’abbigliamento non viene indossato tutti i giorni.

Infine sicuramente minore è la rappresentatività di oggetti come i calzini, ad esempio, poiché sono poco visibili.

Una persona che voglia definirsi attraverso un oggetto, darà più importanza a quelli che possono essere visti spesso e che vengano direttamente associati ad essa.

Un esempio calzante è proprio quello dell’orologio: è qualcosa che si può indossare tutti i giorni ed è subito visibile.

Da notare come anche qui, nonostante si parli di visibilità, il riferimento potrebbe essere anche interno. Sarebbe a dire che anche nel caso in cui l’oggetto in questione abbia un valore individuale piuttosto che esterno, il soggetto potrebbe considerare comunque importante la sua visibilità. Potrebbe ritenere importante che tutti vedano quel simbolo, anche se solo lui ne capisce il significato profondo.

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Le stesse caratteristiche dell’orologio si ritrovano in oggetti come i gioielli e, a ben pensarci, i capelli. Tutti segni che possono essere applicati permanentemente (o quasi) sul corpo e che possono diventare quindi, piano piano, parte integrante dello stesso. Esempio culmine è il tatuaggio, un segno indelebile sul corpo, visibile e che ha valore prima di tutto per l’individuo, ma egli vuole mostrarlo. Nonostante le altre persone non capiranno mai fino in fondo il significato di quel segno, l’individuo vuole comunque che esso venga usato per definirlo, perché per lui ha un determinato valore.

Nei campi di concentramento proprio il tatuaggio assume un ruolo cruciale: viene utilizzato per sostituire il nome dei deportati con un’identità numerica.

Il nome proprio è l’ultima cosa della quale i deportati vengono privati, come ultimo atto di umiliazione e omologazione (Klein e Hill 2008).

Per sostituire un segno di identificazione forte come un nome viene usato un simbolo altrettanto forte, uno con tutte le caratteristiche prima elencate, un tatuaggio: esso viene portato visibilmente e permanentemente sul corpo. Uno strumento di costruzione di identità praticamente perfetto, il più efficace, utilizzato contro l’identità stessa dell’individuo.

Ecco dunque presentato un primo caso di deprivazione forte e particolare. Forte perché è totale: un completo spossessamento (fino anche ai capelli e al nome). Particolare perché queste persone non sono nate in queste condizioni ma ci sono entrate in modo brusco e netto. Erano abituate, come molti altri, ad avere una raccolta personale di oggetti e dunque di segni. Una casa, dei mobili, altri oggetti di arredamento, capi d’abbigliamento, gioielli, ricordi. Gli viene portato via tutto. Essi si attaccano sempre di più a ciò che hanno più a cuore: ciò che li definisce, ciò che li collega alla loro vita precedente; cosicché possano essere sicuri che quella vita precedente c’è stata, che non è solo un’illusione della mente che compare in momenti disperati della loro vita nel campo di concentramento. Di questo vengono spossessati insieme ai loro oggetti: della loro identità, del loro esistere in un modo che li contraddistingua dagli altri e che possa essere deciso e modellato, del controllo su sé stessi, ma, soprattutto, delle loro vite precedenti.

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1.2. Le culture di mercato

Il paragrafo precedente si è concentrato sull’utilizzo degli oggetti di consumo per la costruzione dell’identità personale e su come questo meccanismo sia affetto dalla presenza di limitazioni al consumo.

Ma i beni hanno anche altre funzioni oltre a quella di cui si è parlato ed in questo nuovo paragrafo verrà esplorato il loro ruolo nella costruzione, affermazione e partecipazione ad una comunità di consumo.

L’esempio che si è scelto è quello della comunità LGBT (acronimo che racchiude persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) descritta da Steven M. Kates nel suo articolo del 2002.

Questo caso è perfettamente calzante poiché si tratta di un gruppo di persone spesso discriminate e pertanto escluse dal mercato, ma al contempo di una comunità che ha dei propri codici di consumo e comportamentali.

In particolare Kates (2002) compie uno studio etnografico su un ghetto gay situato in una cittadina canadese. Egli era più che altro interessato a capire le dinamiche di una cultura di consumo paragonabile ad altre come le comunità punk o quella famosa della Harley Davidson, ma non ha ignorato la particolare situazione di stigmatizzazione e discriminazione in cui si trovano gli appartenenti alla comunità LGBT.

L’autore, infatti, elenca anzitutto quali sono le caratteristiche che differenziano questa comunità dalle altre. Prima di tutto essa proviene da una storia di oppressione, stigmatizzazione ed emarginazione che altre culture di consumo non conoscono; si tratta inoltre di un fenomeno molto più pervasivo e permanente, ma altresì dinamico rispetto alle altre comunità.

I seguaci della Harley Davidson, i fan di Star Trek, i gruppi goth o punk, possono decidere di incarnare i valori del proprio clan in modo intermittente. Nella vita quotidiana, ad esempio sul posto di lavoro, possono svestire i panni caratteristici del proprio gruppo di consumo e possono quindi mostrare la loro dedizione a tale comunità solo in certi precisi e selezionati intervalli di tempo.

Non si può dire lo stesso di un membro della comunità LGBT, il quale è dedito in modo più pervasivo e permanente (per usare di nuovo le parole di Kates) ai valori della sua comunità. Egli può decidere di non mostrare la sua appartenenza a tale gruppo in certi

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momenti, ma si tratta più che altro di una pratica di camuffamento, poiché in realtà l’adesione a quel set di valori è continua ed ininterrotta.

Nel suo lavoro Kates (2002) intende contestare alcuni aspetti chiave delle comunità di consumo definiti negli studi precedenti sull’argomento, i quali sono l’ethos condiviso, il mantenimento dei confini e la struttura gerarchica.

Per quanto riguarda il primo concetto, l’autore fa notare come spesso si guardi alla cultura di consumo come un set di pratiche e significati diversi da quelli del resto della comunità e invece omogenei all’interno del gruppo. Durante il suo periodo di ricerca sul campo Kates ha individuato effettivamente delle pratiche di consumo che nascevano in opposizione rispetto a quelle del resto della società, tuttavia esistevano anche molte pratiche invece comuni tra i due gruppi contraddistinti. Inoltre all’interno della comunità LGBT non si può parlare si un set omogeneo di valori e abitudini universalmente condivisi, in quanto esistono tendenze in conflitto (come ad esempio quelle dell’effemminatezza e del mascolinismo) e in quanto ogni membro decide autonomamente i valori che vuole incarnare e fino a che livello vuole farlo.

Il quadro è dunque più frammentato rispetto a quello delineato negli studi precedenti. Non esiste un set omogeneo di valori per la comunità LGBT ed un altro ben differenziato per i non membri, ma le varie pratiche di consumo possono nel tempo divenire (o meno) simboli di omofilia o di un atteggiamento gay friendly e ogni consumatore può autonomamente selezionare tra tutte le pratiche esistenti quelle che meglio esprimono la sua posizione su una scala che va da omofobico a “regina del ghetto”.

Uno dei primi elementi attraverso cui Kates (2002) nota questa frammentazione è il concetto di sicurezza nel consumo, il quale si ricollega anche alla tematica di esclusione dal consumo indagata in questo elaborato.

Al di fuori del ghetto gay le persone omosessuali vivono una situazione rischiosa. Non possono attuare delle scelte di consumo troppo effemminate o che ostentino in modo troppo visibile il loro orientamento sessuale, poiché questo li esporrebbe a stigmatizzazione e a volte anche ad episodi di violenza.

Vivono dunque una condizione di esclusione proprio per il fatto di non poter compiere liberamente le proprie scelte di consumo. All’interno del ghetto però questa dimensione è rimossa, i limiti non ci sono più e loro sono liberi di rendere il proprio orientamento sessuale palese attraverso consumi ed atteggiamenti e di corteggiare persone del loro

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Il simbolo di questa zona sicura è una bandiera arcobaleno, che può essere esposta nelle case o nei negozi per indicare un ambiente gay friendly, oppure indossata nelle sue versioni commercializzate (magliette, anelli, portachiavi, …).

Anche questo concetto di sicurezza però non è netto come si potrebbe pensare.

Kates (2002), infatti, ha registrato episodi di attacchi fisici e verbali alle persone omosessuali presenti nella comunità. Sembrerebbe essere in atto ugualmente quel meccanismo di regole non scritte per le quali le persone si devono vestire in un certo modo, frequentare certi posti, certe persone e così via, al fine di non essere discriminate. Cambiano le regole ma il meccanismo è lo stesso, magari sono regole diverse, meno stringenti, ma comunque esistono.

Si può capire dunque il concetto di frammentazione menzionato in precedenza. Non si può dire con certezza se il ghetto sia per gli omosessuali un posto sicuro o meno e neanche si può dire se sia più o meno sicuro degli altri ambienti di consumo. Tutto dipende da un complicato intrico di fattori che non consentono quindi di trarre conclusioni a priori. Un altro aspetto che permette di vedere questo fenomeno di frammentazione è quello dei consumi che hanno una connotazione di genere.

Le persone gay, per esempio, si sentono più libere nel ghetto proprio perché possono intraprendere consumi che vengono considerati femminili senza la paura di venire derisi. Tuttavia questa operazione di “attraversamento dei confini” non può essere compiuta troppo spesso. Contrapposta alla tendenza a modi e consumi femminili c’è la propensione a mostrare la propria mascolinità, cosa che serve per rendere il proprio corpo attraente ma ancor di più per far capire che si è in grado di renderlo così.

Secondo quanto suggeriva Featherstone (1982) un corpo che non si adegua ai canoni della società viene considerato come un fallimento morale perché rivela l’incapacità del soggetto a disciplinare il proprio corpo secondo quei canoni. Allo stesso modo nel ghetto gli uomini devono rendere il loro corpo mascolino, poiché quello è il canone della “bellezza”.

Ecco che anche i confini dei consumi di genere sono sfumati e frastagliati.

Un ultimo elemento che l’autore cita e che può essere visto come contrapposto a quelli visti fin ora è la presenza di una continua competizione estetica a sfondo ostentatamente sessuale.

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Nel ghetto esiste infatti questa competizione soprattutto tra uomini gay sull’aspetto esteriore, il cui il fine sessuale non è celato ma bensì esasperato.

Intere istituzioni commerciali si dedicano al soddisfacimento degli erotismi, come linee telefoniche, bar gay e bagni pubblici. Inoltre immagini sessuali proliferano soprattutto nelle riviste e nei bar gay.

Gli uomini si intrattengono spesso in conversazioni deliberatamente spinte e a volte passano il tempo ad osservare gli altri uomini concentrandosi sul volto, sul corpo, sul posteriore e sul “basket”, ovvero la forma dei genitali maschili visibili dai vestiti, e si divertono a commentare insieme quello che vedono.

Kates (2002) afferma che proprio queste forze contrapposte (sicurezza/insicurezza, effemminatezza/mascolinità e competizione estetica a sfondo sessuale) sono quello che differenzia la comunità LGBT dal resto della società. Non si deve quindi considerare una sola faccia della medaglia ma è proprio lo scontro e la continua negoziazione tra questi aspetti il tratto distintivo che in ultima analisi costituisce l’ethos condiviso della comunità LGBT e non ci si può limitare ad elencare una serie di valori distinti come veniva fatto negli studi precedenti.

Il secondo elemento contestato da Kates (2002) è l’insieme delle pratiche di consumo utilizzate per costruire un confine tra la comunità LGBT e il resto della società.

Studi precedenti hanno dimostrato come negli ultimi decenni quelli che erano i beni distintivi di certi gruppi di consumo siano fluiti negli usi mainstream della società e come abbiano dunque perso forza in quanto simboli di differenziazione.

Si pensi ad esempio ai codici di abbigliamento dei gruppi skinhead, punk e hippy. Tuttavia l’autore attesta un continuo processo in atto di creazione di simboli consumistici di confine tra la propria comunità ed il resto della società. Processo che però adesso avviene in maniera sempre più sofisticata e che può essere letto in chiave di un’estetica kantiana, in quanto i simboli e i codici di consumo e di comportamento sono sempre più raffinati e comprensibili da pochi.

Per capire come questo processo avvenga nella comunità LGBT studiata da Kates (2002) è necessario procedere per gradi.

Anzitutto egli individua dei beni simbolo che indicano inequivocabilmente l’appartenenza alla comunità LGBT.

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Esiste una sorta di linguaggio segreto chiamato hanky code secondo il quale a seconda di che colore è il fazzoletto che si porta e se esso sia posizionato a sinistra o a destra del corpo si può comunicare la propria omosessualità e anche le proprie preferenze sessuali (attività o passività oppure propensione per certe pratiche sessuali particolari).

Si può capire bene come questo codice rientri in un’ottica di estetica kantiana, poiché solo chi conosce il codice può comprenderlo.

Altri simboli sono la già menzionata bandiera arcobaleno, il triangolo rosa che veniva usato dai nazisti per contrassegnare le persone omosessuali ed infine il portare vestiti di pelle o più femminili.

Tuttavia se da una parte questi simboli sono semplici e netti e dunque svolgono bene la propria funzione di marcatori, falliscono invece nell’esprimere l’intensità, la qualità e la natura oppositoria dei significati subculturali della comunità LGBT.

Ecco che diventa interessante una pratica messa in atto dagli uomini gay e definita gaydar: è l’unione delle parole gay e radar e sarebbe quella capacità che ha un uomo omosessuale di riconoscere l’orientamento degli altri uomini attorno a lui.

La cosa curiosa è che le persone gay in realtà non sanno dire esattamente come riconoscano l’omosessualità di altri uomini. A volte menzionano l’abbigliamento o la cura del corpo, ma non riescono a definire dei criteri o delle discriminanti precise. Questo significa che i marcatori per la differenziazione sono talmente sottili e sofisticati che neanche le stesse persone della comunità riuscirebbero a tradurli in un codice stabile come ad esempio quello dei fazzoletti. È dunque un atteggiamento generale, un insieme di sfumature, a caratterizzare il soggetto come gay o meno.

Ugualmente sfumato è il significato che sta dietro all’aggettivo camp, traducibile come effemminato o, più volgarmente, checca. Il punto è che le stesse persone gay usano questo aggettivo in modo volgare, poiché sempre rivestito di ironia.

Una persona che si comporti in modo effemminato senza limiti, ma soprattutto senza scherzarci sopra, verrebbe considerata come priva di personalità, qualcuno che segue una moda ad occhi chiusi, senza metterci una componente individuale. È quello che i soggetti studiati da Kates (2002) chiamano ghetto queen, la “regina del ghetto”.

L’ironia invece serve a far capire agli altri che sì, si sta avendo un atteggiamento camp, ma si è perfettamente in grado di distaccarsi da esso quando necessario.

Non si è completamente soggiogati dalla comunità, si ha ancora la capacità di compiere delle scelte autonome.

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Interessante è anche vedere come l’idea di ciò che è o non è gay possa essere modellata dall’orientamento sessuale delle celebrità. È come se le celebrità che si dichiarano omosessuali stabilissero degli standard di consumo e atteggiamento per la comunità ed infatti il coming out di una star insospettabile costituisce una grande notizia. Nell’articolo si cita l’esempio dell’attore Rock Hudson, che è morto di AIDS nel 1985.

“…se un’icona americana di mascolinità come Hudson è gay,

chiunque potrebbe essere gay”4

(Kates 2002, 390, tradotto)

Se Rock Hudson è gay, infatti, allora vuol dire che il suo stile di abbigliamento e comportamento deve essere accettato come un possibile stile gay e dunque una persona omosessuale è legittimata a vestirsi come Rock Hudson.

È anche per questo motivo che non esiste uno stile gay univoco, perché ogni celebrità omosessuale aggiunge il suo stile all’elenco dei possibili stili gay ed è anche per questo che per i gay è tanto importante conoscere quali celebrità facciano parte della loro comunità, mentre per gli eterosessuali tutto questo codice è sconosciuto.

Ultimo fenomeno che concorre alla creazione di barriere tra la comunità LGBT e il resto della società è il famoso Lesbian and Gay Pride Day (LGPD).

Durante questa manifestazione i temi fondamentali sono lo shock, l’oltraggio e l’offesa ed infatti si possono osservare persone vestite nei modi più estremi e che assumono i comportamenti più estremi. Si tratta di una reazione forte e volontaria ai parametri ortodossi della società che ha per tanto tempo represso queste persone e di nuovo qui possiamo ritrovare il tema dell’ironia.

È un caso di una costruzione di barriere totalmente deliberata, un momento in cui le persone omosessuali vogliono mostrare la più grande distanza possibile dal resto della società.

Anche la definizione di “resto della società” però non sfugge al processo di negoziazione visto fin ora, infatti anche le persone che vivono con l’AIDS e i genitori e gli amici delle persone omosessuali possono prendere parte alla manifestazione e dunque farsi portatori

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dei valori della comunità LGBT. La barriera non è dunque fissa e stabile ma è invece modificabile e negoziabile.

L’ultimo concetto sulle culture di consumo contestato da Kates (2002) è la struttura gerarchica della comunità.

Alcuni autori come Fox (1987) e Schouten e Alexander (1995) avevano interpretato le differenze tra i soggetti di una cultura di consumo in termini di diversi livelli di dedizione ai valori della comunità. Secondo loro poteva essere immaginata una struttura gerarchica concentrica, dove i vari appartenenti alla comunità potevano essere disposti secondo il loro livello di identificazione con i suoi valori.

Kates (2002) tuttavia contesta questo concetto, poiché secondo lui le differenze interne ad una comunità nascono dalla scelta, dalla negoziazione e dalla differenziazione operate da ciascun individuo.

Come già affermato in precedenza, infatti, i valori non vengono automaticamente assorbiti dagli appartenenti alla comunità ma esiste invece un processo di negoziazione e di scelta grazie al quale il soggetto seleziona quelli ai quali vuole aderire e la misura in cui intende farlo. Inoltre questo processo è complicato dalle contraddizioni esistenti tra questi stessi valori.

Va aggiunto che anche all’interno delle comunità sopravvive il bisogno di differenziazione poiché ogni individuo ha bisogno di essere riconosciuto come tale e non soltanto come appartenente ad un certo gruppo.

Si è già visto come l’ironia giochi un ruolo importante nel ricordare la presenza della volontà individuale all’interno della comunità. La minaccia è quella del conformismo. Aderire completamente ai valori della comunità gay in ogni suo aspetto dimostra l’incapacità di prendere decisioni autonome e così, sorprendentemente, all’interno della comunità le persone cercano di non essere “troppo gay”, per non incarnare lo stereotipo della ghetto queen.

C’è anche il pericolo però che i consumi siano “troppo etero” e dunque all’interno del ghetto bisogna saper creare un set di consumi variegato che consenta al soggetto di posizionarsi in una giusta via di mezzo, dove emergano sia i valori della comunità che quelli della sua identità personale.

Ad esempio si possono assumere solo alcuni dei comportamenti ascrivibili alla ghetto queen, indossare solo una parte della cosiddetta “uniforme gay” ed infine ricorrere alla già menzionata ironia.

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Tutto questo rende chiaro come il semplice riferimento ad una struttura gerarchica concentrica sia inadatto, ancor più se si considerano le competizioni di nicchia.

Gli uomini gay che sanno di non poter competere fisicamente con i loro pari, infatti, utilizzano altri terreni di scontro competitivo ed uno dei più frequenti è proprio quello del consumo cospicuo, che viene attuato anche attraverso il possesso di oggetti di marca. Ecco dunque come Kates (2002) descrive quella particolare comunità LGBT. È un quadro sicuramente complesso, ma probabilmente anche molto realistico.

Dal punto di vista dell’esclusione dal consumo è interessante osservare questo caso perché mostra cosa succede una volta che il fattore di esclusione viene rimosso.

All’interno del ghetto è stato menzionato un certo livello di sicurezza percepita, se bene non totale, che costituisce dunque un miglioramento in termini di libertà nel consumo. Tuttavia gli appartenenti alla comunità LGBT hanno sviluppato una serie di pratiche di consumo che si oppongono esplicitamente alle abitudini mainstream.

Ci si aspetterebbe che una volta rimosso il limite al consumo le persone che erano prima escluse si conformino alle abitudini di consumo della società che per tanto tempo hanno agognato, eppure non è quello che accade qui.

Il lungo periodo di repressione che le persone omosessuali hanno affrontato le ha portate ad unirsi come comunità e a desiderare di sentirsi diverse da coloro che le discriminavano. Per questo adesso il loro codice di consumo in ambito di non esclusione è nuovo e diverso da quello mainstream, nonostante queste persone non abbiano differenze culturali o demografiche che spieghino comportamenti diversi sul mercato.

Sulla carta non ci sarebbero ragioni per gli appartenenti alla comunità LGBT di consumare in modo significativamente diverso dagli altri; questa differenziazione che ricercano come comunità è frutto dell’esclusione stessa e questo è già un presagio delle possibili conseguenze che questo fenomeno può avere, anche una volta rimosso.

1.3. I pattern socio-storici di consumo

La storia, le tradizioni, gli usi e i simboli condivisi all’interno delle culture modellano i consumi più spesso di quanto non si pensi e altrettanto spesso costituiscono dei limiti al consumo, i quali però sono talmente tanto interiorizzati che le persone ormai non se ne rendono più conto.

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All’interno di una certa cultura si è abituati a muoversi in un certo range di scelte senza rendersi conto che i limiti di questo spettro sono dati proprio dalla tradizione culturale. Un esempio classico è quello del consumo di carne di certi animali. Nei paesi occidentali quando si pensa alla carne si intende manzo, bovino, pollame, ovino e pochi altri casi, ma in realtà l’insieme degli animali esistenti è molto più vasto ed esistono degli studi antropologici specifici che tentano di spiegare perché mangiamo certi animali e non certi altri (vedi ad es. Sahlins 1976).

Il fatto che questi limiti siano culturali e non “naturali”, è messo in evidenza dal fatto che comunità diverse consumano carni diverse; basti pensare all’esempio della Cina, dove viene consumata la carne di cane.

Come in questo caso spesso è difficile rendersi conto delle regole imposte dalle proprie tradizioni culturali, ma questo esercizio appare più semplice se si guarda ad altre culture e le si confronta con le proprie. Proprio per questo il caso che segue fa riferimento alla cultura islamica.

Le informazioni presentate sono tratte da un articolo di Abedifar et al. (2015).

Nei paesi musulmani (e per le persone di religione islamica in generale) la finanza funziona in modo diverso.

La Shariá, ovvero l’insieme delle leggi religiose islamiche, pone dei limiti molto netti. Anzitutto è proibito il pagamento o la riscossione del Riba, ovvero del tasso d’interesse. Questo divieto non si applica alla compravendita di beni con pagamenti dilazionati; è infatti consentito applicare un prezzo più alto in questi casi rispetto a quello che si avrebbe pagando subito l’intera somma, ma non è invece possibile fare lo stesso su prestiti o finanziamenti. Serve che nella transazione sia presente un bene fisico o un servizio, il denaro non può generare denaro di per sé.

Sono poi proibiti anche i contratti che presentano un Gharar, ovvero un’eccessiva incertezza.

In più è proibito investire in aziende che trattino beni o servizi proibiti dalla Shariá, come gli alcolici, il gioco d’azzardo, i servizi finanziari che violano le regole islamiche, la pornografia, il tabacco e le armi.

Tuttavia si tendono a consentire gli investimenti in aziende i cui ricavi derivino solo in piccola parte da queste attività, a patto che gli investitori donino i profitti provenienti da queste ultime in modo da purificare i loro guadagni.

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In ultima analisi, la Shariá proibisce anche l’applicazione di penalità per i debitori in caso di insolvenza.

Si capisce come queste norme di carattere religioso abbiano costituito un limite decisivo alla diffusione di un mercato bancario e finanziario nei paesi islamici.

Di conseguenza si è creata una mancanza di offerta nei confronti dei consumatori musulmani, i quali non hanno avuto la possibilità di accedere a servizi invece disponibili per coloro che appartengono ad altre religioni.

Questo è un’evidente caso di consumo limitato: le persone musulmane non possono accedere ai servizi finanziari tradizionali.

La cosa interessante è che dagli anni ’60 si è sviluppato un nuovo settore bancario e finanziario perfettamente in linea con i principi islamici.

Ad esempio esistono dei contratti per cui il finanziatore compra un bene per il finanziato per poi rivenderglielo a prezzo maggiorato. In questo caso non si avrebbe il pagamento di un interesse, ma di un servizio.

In altri casi il finanziatore non vende il bene al finanziato ma glielo concede in leasing. Alla fine del contratto la proprietà passa totalmente o parzialmente all’utilizzatore. Infine un altro caso importante è quello dei PSLB contracts, ovvero investimenti profit-sharing and loss-bearing, dove il cliente e l’istituto finanziario condividono profitti e perdite.

In questo settore sono molte le difficoltà, le quali si aggiungono ai già stringenti limiti posti dalla Shariá. I contratti sono più complessi di quelli tradizionali, ci sono problemi di moral hazard negli investimenti PSLB ed inoltre ricordiamo che questi investimenti non possono riguardare certi settori produttivi o di servizi vietati dalla Shariá. Infine, data l’impossibilità di applicare delle penalità per insolvenza, spesso si ricorre al meccanismo degli sconti in caso di pagamenti in tempo. Tutto ciò però genera ulteriori complicanze che risultano in inefficienze per gli istituti finanziari.

Tuttavia, nonostante queste difficoltà, il settore della finanza islamica ha registrato livelli di crescita in alcuni periodi anche superiori a quelli della finanza tradizionale. Sono molti gli studi che cercano di determinare se addirittura ci sia stato un sorpasso delle banche islamiche rispetto a quelle tradizionali in termini di efficienza, profittabilità, riduzione del

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In realtà questi studi non giungono a risultati concordanti, tuttavia, sebbene non possano affermare che le banche islamiche abbiano superato quelle tradizionali, concordano nel dire che le due istituzioni si equivalgono.

Sembrerebbe una storia di successo, dunque, un caso in cui i limiti del consumo sono stati rimossi. Non esisteva un’offerta finanziaria per le persone musulmane ed è finalmente stata creata. Non solo, ma si tratta di servizi paragonabili con quelli della finanza tradizionale.

Eppure il limite rimane. Anzitutto è vero che è stata compiuta la grande impresa di creare un settore finanziario in linea con le leggi islamiche, è anche vero però che questo è stato fatto solo negli anni ’60, mentre il settore bancario tradizionale esisteva già da secoli. Non tanto per la solidità e lo sviluppo conseguito dal settore, che è stato imitato poi da quello islamico, quanto per le conseguenze di questo buco di offerta durato per così tanto tempo.

Alcuni studiosi come Schumpeter, Goldsmith e McKinnon hanno teorizzato un collegamento tra lo sviluppo finanziario di un paese e la sua crescita economica, collegamento che è stato poi verificato empiricamente (vedi ad es. King and Levine 1993). Questi studiosi hanno pertanto provato che il mercato finanziario è sicuramente una delle determinanti dello sviluppo economico di un paese.

0 5.000 10.000 15.000 20.000 25.000 30.000 1820 1850 1900 1950 2000 Regional!averages!of!GDP!per!capita,!1820=2010 (US!dollars!at!1990!PPPs) Western!Europe Eastern!Europe Western!Offshoots Latin!America!and!Caribbean East!Asia South!and!South=East!Asia Middle!East!and!North!Africa Sub=Saharan!Africa

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Osservando il grafico in Figura 1 si può vedere l’andamento del PIL pro capite nelle varie regioni geografiche del mondo dal 1820 al 2010. La regione Middle East and North Africa, che coincide grosso modo con l’insieme dei paesi islamici (in rosso), ha avuto negli ultimi due secoli una crescita economica molto contenuta e si colloca al terzultimo posto in termini di PIL pro capite al 2010.

Non si può dire che la mancanza di un mercato finanziario sia stato l’unico fattore determinante, tuttavia è sicuramente annoverabile tra le varie cause.

I limiti al mercato finanziario imposti dalla Shariá hanno dunque privato i paesi islamici di una parte del loro sviluppo.

Un'altra considerazione importante da fare è che in realtà il limite al consumo non è stato rimosso. I musulmani non hanno ancora accesso alla finanza tradizionale. Potrebbe sembrare un’ovvietà, ma non lo è. Né si vuole far intendere che essi debbano trascurare la propria religione e cultura e servirsi del mercato finanziario tradizionale. Tutt’altro. Ad ogni modo però non possiamo non realizzare che se da una parte i musulmani hanno accesso al solo mercato finanziario islamico, tutti gli altri hanno invece accesso ad entrambi i settori, islamico e non.

Buona parte della penalizzazione che gli islamici subivano in ambito finanziario è stata colmata e questo è sicuramente un grande miglioramento, ma un piccolo distacco è rimasto. Si può dire che se la finanza islamica ha costituito un enorme passo in avanti per i musulmani, ha generato un piccolo vantaggio anche per coloro che avevano già accesso alla finanza tradizionale, dato che ha allargato il loro spettro di offerta. È così che il divario non si è appianato completamente.

In pratica, mentre la maggior parte dei consumatori può scegliere tra due tipi di servizi finanziari secondo quello che ritiene più prudenziale, redditizio o altro, i consumatori musulmani hanno invece una scelta più limitata, per cui a volte potrebbero essere costretti a scegliere l’opzione meno desiderabile.

Data la dimostrata parità delle banche islamiche rispetto a quelle tradizionali si sta parlando di differenze minime, di sottigliezze, eppure questa riflessione è utile per comprendere due punti importanti.

Il primo concetto è la relatività dell’esclusione dal consumo. Infatti si può parlare di una condizione di consumo limitata solo se si prendono degli standard di riferimento. Nel caso presentato, se non fosse esistita una finanza tradizionale i consumatori musulmani

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vuol dire che non si ha accesso a determinati beni o servizi ai quali invece altri hanno accesso.

Si riporta qui una testimonianza raccolta da Correa-Velez et al. nel 2012, rilasciata da un uomo nato in Sudan e che viveva come rifugiato in Australia da 4 anni. Si tratta di una dichiarazione molto semplice, ma che aiuta a calare il fenomeno in una situazione reale.

“Se paragono la mia vita con gli altri australiani di fatto noi siamo gli ultimi. Siamo nella classe sociale più in basso

dell’Australia.[…]”5

(Correa-Velez et al., 2012,11, tradotto)

Il secondo punto riguarda invece la natura a volte irremovibile delle barriere al consumo. Nel nostro esempio si tratta di barriere di origine religiosa e che per tanto non possono essere sorpassate se non con un grande sacrificio da parte del consumatore, ovvero contravvenire al proprio credo.

Altri tipi di limiti che vedremo sono ancora più irremovibili, nel senso che il consumatore non ha proprio alcun modo di poterli oltrepassare, nonostante sia disposto a tutti i sacrifici possibili.

Il punto è che la maggior parte delle cause che portano i soggetti ad essere esclusi dal consumo sono di carattere strutturale, sono radicate nella persona, nella cultura o nella società e sono quindi difficilmente (se non del tutto) incancellabili. È per questo che il presente elaborato vuole indagare a fondo queste situazioni particolari, perché si tratta di condizioni spesso critiche che i singoli non possono risolvere senza un aiuto concreto.

1.4. Le ideologie diffuse dal mercato e le strategie interpretative dei

consumatori

Nei tre paragrafi precedenti sono stati approfonditi tre aspetti del consumo in ambito di esclusione: la costruzione di identità, le culture di consumo e le influenze culturali sulle pratiche di consumo.

5 Testo originale: “If I compare my life with the other Australians in fact we are the last. We are in the bottom class of Australia.”

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Si può dire che nei primi due casi l’agency sia in mano al consumatore, nel terzo invece è rappresentata da una forza storica, sociale e culturale.

Esiste però un ulteriore agente che non può essere trascurato: il mercato. In ogni economia è in atto un processo continuo per il quale domanda e offerta si influenzano a vicenda, in particolare i consumatori sono testimoni di alcune ideologie che il mercato diffonde attraverso i beni ed elaborano la propria risposta ricorrendo ad una molteplicità di meccanismi.

Anche questo ultimo processo può essere calato in una situazione di esclusione dal consumo ed in questo specifico caso ci si riferirà alle persone immigrate.

Esse infatti sono spesso viste come un gruppo subordinato e stigmatizzato e possono sperimentare problemi con la lingua, la moneta e le relazioni sociali (Luedicke 2011, Peñaloza 1994).

Si vengono a trovare inoltre in un ambiente dove la cultura (e dunque le ideologie) è diversa da quella del loro paese d’origine e dove non è detto che siano in grado di reperire i prodotti a cui sono abituate.

Si tratta, come si potrà capire, di un set complesso di limiti che varia da caso a caso (in base al paese d’origine, a quello d’arrivo, al soggetto in sé…) e che spinge i consumatori ad attuare strategie diverse.

Il potenziale ruolo del mercato in questo processo è ben visibile confrontando due casi. Il primo è descritto da Peñaloza (1994) e riguarda un gruppo di migranti dal Messico verso gli Stati Uniti, specificatamente nella California del Sud. Il secondo caso invece riguarda un gruppo di donne che dalla Romania è migrato verso l’Italia ed è stato descritto da Chytkova nel 2011.

La fondamentale differenza è che mentre negli Stati Uniti esiste una lunga tradizione di migrazioni dal Messico e si è creato anche un mercato specifico per questa minoranza etnica, la società italiana non ha ancora affrontato il recente fenomeno dell’immigrazione e come conseguenza il mercato italiano per la maggior parte ignora l’esistenza del segmento degli immigrati (Chytkova 2011).

Per poter descrivere queste due situazioni accuratamente ed operare un confronto, però, è necessario prima ripercorrere le basi teoriche di quello che gli studiosi chiamano acculturation theory, o “teoria dell’acculturazione”.

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Peñaloza (1994) definisce l’acculturazione del consumatore come “il processo generale di movimento e adattamento all’ambiente culturale del consumo in un paese da parte di persone provenienti da un altro paese” (Peñaloza 1994, 33, tradotto)6.

Esiste una vesta letteratura sull’argomento e i vari casi studiati hanno aggiunto elementi al framework arricchendolo e complicandolo.

Luedicke (2011) ha riassunto nel suo articolo i vari contributi teorici degli studiosi e ne ha contestato alcuni aspetti.

Similmente ad altri (Peñaloza 1994; Chytkova 2011; Askegaard, Arnould e Kjeldgaard 2005) egli distingue due differenti e consequenziali correnti teoriche. La prima è quella degli assimilazionisti.

Essi partivano dal modello di Berry (1980) che vedeva l’acculturazione del consumatore come un processo progressivo di assimilazione della cultura del paese ospitante, tralasciando dunque gradualmente quella del paese di origine.

Wallendorf e Reilly (Reilly e Wallendorf 1987; Wallendorf e Reilly 1983) hanno intuito che le abitudini di consumo di una persona immigrata non potevano essere dedotte unicamente come una media delle abitudini di consumo dei due paesi (quello d’origine e quello ospitante), ma hanno rilevato invece che i messicani negli Stati Uniti a volte iper-assimilano uno stile culturale anglo-americano in realtà datato.

Il fato che non assimilino (o iper-assimilino) lo stile anglo-americano corrente dipende dai cosiddetti agenti di acculturazione, ovvero quelle fonti attraverso le quali i consumatori apprendono le abitudini di consumo di una certa cultura, come ad esempio i media.

Come notato da Lee (1989), però, le immagini televisive forniscono agli immigrati un’immagine distorta dello stile di vita e delle informazioni comportamentali della cultura americana ed è per questo che lo stile anglo-americano adottato dai messicani risulta in qualche modo datato.

Metha e Belk (1991) invece, studiando persone indiane residenti a Bombay o negli Stati Uniti, hanno individuato un meccanismo di iper-identificazione con la cultura di origine, in modo da rigettare quella del paese ospitante.

6 Testo originale: “the general process of movement and adaptation to the consumer cultural environment in one country by persons from another country”.

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I meriti che hanno avuto dunque gli assimilazionisti, secondo Luedicke (2011), sono stati quello di contestare il modello di Berry (1980), di definire il processo di acculturazione come qualcosa di non lineare ed infine di individuare l’importanza degli agenti dell’acculturazione.

Su queste basi costruiscono le loro teorie i post-assimilazionisti, dei quali la prima è proprio Lisa Peñaloza. Dai suoi studi sui messicani negli Stati Uniti è risultato che essi adottavano più velocemente quei beni che conferivano visibilità e approvazione sociale (vestiti e automobili) e quelli che consentivano di mantenere i legami sociali (telefono, cibi spagnoli e media spagnoli).

In particolare i soggetti da lei intervistati utilizzavano i beni americani ma in un modo che ricordava la loro cultura messicana.

Inoltre aveva notato come essi resistessero sia ad alcune spinte della cultura americana (il materialismo, la pianificazione del tempo, l’isolamento e la discriminazione), sia ad alcune di quella messicana (i limiti all’autonomia individuale e alcuni aspetti delle festività).

Grazie ad un duplice set (americano e messicano) di agenti dell’acculturazione queste persone immigrate mettevano dunque in atto quattro meccanismi diversi: l’assimilazione, il mantenimento, la resistenza e la segregazione, i quali rispettivamente rappresentano la conformazione alle abitudini americane, il rafforzamento di quelle messicane, il rigetto degli usi americani e la separazione dalla cultura americana mainstream.

Ogni soggetto può attivare il meccanismo che vuole quando vuole, non si tratta di una strategia univoca di comportamento.

Oswald (1999), invece, studiando gli immigrati haitiani negli Stati Uniti ha definito un meccanismo di “swap” tra le due culture. Le persone immigrate quindi non costruirebbero un’identità unica, ma alternerebbero ad intermittenza l’aderenza all’una o all’altra cultura.

Askegaard, Arnould e Kjeldgaard (2005) però rigettano questa ipotesi, poiché implica la concezione della cultura come qualcosa di dato e di statico, invece che contingente e storicamente costruito (Luedicke 2011).

Loro parlano infatti di pendulism, poiché i groenlandesi da loro studiati oscillano tra la propria cultura e quella danese, a causa delle forze attraenti e respingenti che provengono da entrambe. Gli altri meccanismi da loro individuati sono l’iper-cultura (riferito a quella

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In realtà questi autori fanno notare come parlare di due culture sia riduttivo: dato il crescente movimento di globalizzazione dei consumi ed anche la crescente mobilità delle persone tra i vari paesi, anche la cultura transnazionale deve essere considerata accanto a quella del paese d’origine e di quello ospitante. I groenlandesi migrati in Danimarca da loro studiati, ad esempio, avevano accesso a cibi italiani (pasta e pizza), americani e messicani, che esulano dunque dallo schema dualistico home/host country.

Un ultimo ma importante contributo di Askegaard, Arnould e Kjeldgaard (2005) è stato quello di rifiutare la concezione dei meccanismi suddetti come delle scelte tattiche del consumatore. Loro le considerano invece delle risposte interpretative conseguenti ad un cambiamento. Questo è importante perché elimina la consapevolezza che si riteneva il consumatore avesse.

Üstüner e Holt (2007) infine analizzano una situazione un po’ differente dalle altre: il caso di donne turche migrate dalle zone rurali in un campo abusivo nella periferia di Ankara. Quello che sostengono in base alla loro ricerca è che senza gli adeguati capitali finanziari, culturali e sociali gli immigrati non possono mettere in pratica le strategie di acculturazione prima descritte e non possono migliorare la propria condizione, scopo che li aveva indotti a migrare.

In sostanza, letto nell’ottica dell’esclusione dal consumo, benché i meccanismi di acculturazione siano già una risposta ad una condizione di limitazione (quella della persona immigrata), le barriere potrebbero essere così stringenti da non consentire neanche la loro attuazione.

Lo studio di Chytkova (2011) contesta questa affermazione.

Le donne rumene della sua ricerca soddisfano appieno le condizioni definite da Üstüner e Holt (2007): nel paese ospitante occupano una classe sociale bassa, non esiste una tradizione di migrazioni rumene in Italia ed infine le due culture sono distanti rispetto ad alcuni ideali (in particolare rispetto alla figura della donna). Benché inserite in una comunità che non legittima la loro presenza e con la quale si trovano a scontrarsi su certi fronti ed inoltre a corto di capitale finanziario, queste donne attuano comunque dei meccanismi di acculturazione simili a quelli rintracciati nei precedenti studi.

Mentre più avanti verranno illustrati più approfonditamente questi meccanismi, adesso si conclude il percorso concettuale di Luedicke (2011), che prosegue con alcune critiche ai modelli fin qui esposti.

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Anzitutto per quanto riguarda il processo di costruzione dell’identità attraverso l’acculturazione, egli fa notare come non siano state tenute in dovuta considerazione le influenze degli altri individui residenti nel paese ospitante sull’immigrato.

È vero che Peñaloza (1994) menziona l’importanza per coloro che migrano di imparare quale sia la posizione sociale che gli viene conferita nel nuovo paese, ma queste considerazioni non rientrano nel suo modello di acculturazione così come in altri. La discriminazione che gli immigrati possono subire e come vengono visti nella nuova società è sicuramente una variabile fondamentale nella loro costruzione di identità e ciò spiega anche perché l’acculturazione non possa essere vista come un qualcosa di tattico e volontario, almeno non completamente.

Per quanto riguarda invece gli agenti di acculturazione, la critica va in tre direzioni. Come prima cosa Luedicke (2011) fa notare che è riduttivo soffermarsi solo su amici, famiglia e compagni di scuola come fatto negli studi precedenti. I colleghi, il personale di vendita dei supermercati, i vicini di casa sono esempi di altri agenti di acculturazione altrettanto importanti.

Non è detto che i contatti più frequenti siano i più influenti, anzi a volte proprio le persone che si incontrano casualmente sono quelle che forniscono più informazioni e spunti, proprio perché magari se ne vedono tante diverse ogni giorno. Inoltre non sono solo i contatti di tipo amichevole ad influenzare il soggetto, ma anche quelli conflittuali. In secondo luogo, come già proposto da Askegaard, Arnould e Kjeldgaard (2005), parlando di agenti di acculturazione si rischia di supporre la cultura come qualcosa di statico e dato ed inoltre non si tiene conto delle sottoculture, che invece sono molto importanti.

Si deve considerare inoltre il fatto che a volte l’acculturazione può avvenire in modo disomogeneo. Ad esempio Peñaloza (1994) fa notare come i messicani in USA si approprino subito di certi tipi di beni ma si trovino più in difficoltà ad abituarsi agli ambiti legali, dell’educazione, religiosi e politici.

Infine gli agenti dell’acculturazione secondo Luedicke (2011) possono essere delle forze distanti e non di tipo culturale. Come esempi riporta le relazioni tra gruppi, la distanza percepita tra i migranti e il sistema culturale locale, le opportunità lavorative e la mobilità sociale.

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Tenendo dunque conto di questo complesso ed ancora incompleto quadro, si può procedere all’osservazione dei due casi a confronto: i messicani migrati in USA (Peñaloza 1994) e le donne rumene migrate in Italia (Chytkova 2011).

Nel primo caso appena arrivati negli USA i messicani intervistati da Peñaloza (1994) hanno avuto difficoltà con la lingua, la moneta e le relazioni sociali.

La maggior parte di essi ha trovato alloggio in luoghi fisicamente e socialmente separati dal resto della società e preferisce fare acquisti dove si parla spagnolo. Nel mercato americano è infatti presente il segmento latino, con prodotti e servizi su misura e con il personale di vendita che parla appunto spagnolo.

Inoltre i messicani arrivati negli Stati Uniti hanno espresso un sentimento di conforto nel trovare altre persone del loro stesso paese al loro arrivo.

Sia la presenza di una comunità messicana sia quella di un mercato dedicato ad essa, secondo l’autrice, ha in qualche modo legittimato la presenza di queste minoranze etniche negli USA e ha consentito agli immigrati di mantenere le abitudini di consumo che avevano nel loro paese di origine.

Un esempio chiave è quello dell’alimentazione. Peñaloza (1994) dichiara che i messicani da lei intervistati non hanno cambiato molto le loro abitudini alimentari da quando si sono trasferiti negli USA e che inoltre rigettano alcuni tipi di prodotti come i cibi congelati, prepreparati o preconfezionati.

Questo è stato possibile proprio perché la maggior parte dei prodotti alimentari che consumavano in Messico era reperibile anche negli Stati Uniti.

Un leggero cambiamento si nota nell’abbigliamento, dato che le donne portano i pantaloni più spesso negli Stati Uniti di quanto non facessero in Messico, nonostante gli uomini non sembrino essere molto d’accordo con questa tendenza.

Aumentano i consumi di automobili, beni status symbol che adesso queste persone si possono permettere, e quelli di telefonia, fondamentali per il mantenimento delle relazioni sociali con i parenti e gli amici rimasti in Messico.

Per quanto riguarda i servizi finanziari c’è una certa diffidenza verso la carta di credito, sebbene alcuni intervistati la possiedano. Infine i media vengono consumati sia in lingua spagnola che inglese.

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