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Similmente all’articolo di Klein e Hill (2008), anche questo elaborato prende come base per l’analisi delle opere, ma questa volta si tratta solo ed esclusivamente di opere cinematografiche.

Dalli e Gistri (2006) dichiarano che “a partire dagli anni ’80 i film sono stati usati come fonte di informazione per l’analisi della cultura del consumo” ed infatti sia Hoolbrook e Grayson (1986) che Hirschman, Scott e Wells (1998) sono esempi eccezionali di questo tipo di ricerca.

Tuttavia, tralasciando l’area di studio della consumer behavior e volgendo lo sguardo a quella propriamente del cinema incontriamo un importante dibattito: il cinema è reale o rappresentazione? Ovvero ciò che la cinepresa riprende può essere considerato una finestra sul mondo? Una trasposizione su un supporto audiovisivo di un qualcosa di reale? Oppure i film sono, come le opere d’arte in genere, delle rappresentazioni che non possono mai essere scisse dal proprio autore? E se prevale questa seconda ipotesi, che validità hanno le ricerche basate su delle pellicole cinematografiche?

Per cercare una risposta a queste domande si deve ricorrere all’area di studio definita sociologia del cinema che studia il rapporto tra i film e la società. In particolare come le pellicole rappresentano la società e come questa le recepisce.

Il primo sociologo cinematografico, Siegfried Kracauer dichiarava che

volge: il cinema non può evitare di mostrare la sola realtà che ci riguarda, quella delle cose e delle persone. La vista è il più

preciso, il più acuto dei nostri sensi, quello che ci inganna di meno”.

(Sorlin e Budini 1979, 270)

La cinepresa dunque secondo Kracauer non può fare a meno di registrare il reale dato il suo funzionamento meccanico. Qualsiasi cosa su essa venga impresso, infatti, è realmente accaduto in qualche modo (fanno eccezione gli effetti speciali soprattutto degli ultimi decenni).

A prova di questo egli nota come la cinepresa riprenda anche l’inatteso. Sarebbe a dire che oltre agli elementi che il regista decide di porvi davanti, ce ne possono essere altri inaspettati che vengono catturati. Si pensi ad esempio ad un aereo che passa nel cielo durante delle riprese all’aperto.

Il tutto si basa sulla grande affidabilità ascritta al senso della vista: Ford Madox Ford, romanziere inglese, scriveva che “per tutti gli scettici di questo pianeta, da San Tommaso fino agli ultimi di loro, vedere è trovare la fede” (Sorlin 2017, 50).

È come se ciò che si vede immediatamente diventi qualcosa di vissuto ed in quanto tale acquisisca veridicità. Le persone si fidano della propria vista.

Eppure questo non basta a conferire ai film lo status di reale. Il fatto che le persone credano in ciò che vedono e che ciò che vedono sia a sua volta ritenuto credibile, è in ultima analisi un fatto puramente soggettivo.

Come si giudica ciò che è vero o non lo è? Sorlin scrive che “il <<realismo>> non è nel film, è percepito da alcuni in base a quello che per loro è il reale” (Sorlin 2017, 55). Se dunque quello che la pellicola rappresenta è conforme a quanto ritenuto dallo spettatore questa coincidenza di opinioni genera la sensazione del reale. Ma si tratta di un punto di incontro tra il film e lo spettatore e il “mondo reale” non viene chiamato in causa. Se ad esempio il regista e gli spettatori avessero tutti una stessa convinzione che però non coincide con la realtà, questi ultimi guardando il film gli assegnerebbero l’etichetta del “reale”, pur così non essendo.

A supporto di questa ipotesi Sorlin (2017) fa notare come spesso le persone giudichino “vere” le scene più crude e brutali dei film così come quelle di attività manuali, i lavori rurali o le scene all’interno di officine o fabbriche. Quando un registra mostra qualcosa che gli spettatori non hanno mai visto ma sanno che esiste, premiano questo accesso sul

mondo che gli viene fornito considerandolo reale, eppure non avendone mai avuto esperienza non possono sapere se sia conforme a realtà o meno.

Un altro punto su cui Sorlin (2017) fa riflettere è la differenza tra il mostrare e il raccontare. Mentre un libro racconta, nel senso che non solo descrive ambienti e avvenimenti, ma precisa le opinioni dei personaggi e non lascia dunque spazio ad interpretazione, un film invece mostra. Mette a disposizione degli spettatori una serie di scene ma senza precisare un’opinione. Lo spettatore può dunque scegliere quale punto di vista adottare, quali dettagli far contare di più. Alla fine di un film si possono creare dei dibattiti perché tutti sembrano aver visto qualcosa di diverso sullo schermo.

Dunque questo “mostrare” e non “raccontare” proprio del film aumenta il fattore della soggettività e lo allontana ulteriormente dalla coincidenza con la realtà, poiché ogni spettatore legge il film in modo diverso, ma la “realtà” dovrebbe essere una sola.

Se ci si pensa bene questo non dovrebbe sorprendere. Le opere d’arte così come i quadri, le poesie e la musica, non veicolano qualcosa di preciso come possono essere delle informazioni. L’autore imprime in parole, pennello, pellicola o note delle emozioni, sperando che queste risveglino dei sentimenti in chi riceve l’opera, indipendentemente dal supporto su cui viene veicolata.

Un’opera d’arte non è fatta per trasmettere qualcosa di vero. Non è il suo scopo.

Anche a livello tecnico, sebbene una cinepresa sia un mezzo meccanico e per tanto oggettivo, come suggeriva Kracauer, essa è pur sempre manovrata dal regista o da un tecnico. Anche solo l’inquadratura, le luci, i toni di colore sono già una linea di confine tra realtà e girato. La metafora della “camera-occhio” è fuorviante: l’occhio si adatta alla luce e si muove velocemente mentre la camera non può ed è prigioniera dentro dei margini fissi (Sorlin 2017).

Inoltre sempre Sorlin (2017) fa notare come i film rappresentino delle scene che nessuno potrebbe sperimentare allo stesso modo nella vita reale. Ad esempio in Westfront19 viene mostrata la scena di un combattimento ripreso da più angolazioni. Di chi è quel punto di

vista? Chi mai potrebbe seguire tutto il combattimento in quel modo? Nessuno dei due combattenti e nemmeno un ipotetico spettatore della scena.

Più angolazioni aprono lo sguardo su più facce della realtà, ma se fosse veramente la realtà noi potremmo vedere solo un lato di essa.

Le argomentazioni di Sorlin sono molto convincenti e difficili da confutare: il cinema è rappresentazione, non realtà, anche quando l’oggetto del film è qualcosa di realmente accaduto. Jacques Le Goff (1980) parlando del documento storico in generale diceva che esso non può essere neutro, poiché subisce sempre l’influenza del proprio autore, del tempo e del contesto in cui viene scritto.

Persino quando gli storici (i professionisti in questo campo, si può dire) cercano di raccontare il reale non vi riescono mai completamente.

L’impresa è ancor più impossibile se si cerca di compierla attraverso un’opera cinematografica, secondo quanto è stato detto fin ora.

Che valore può avere dunque per la ricerca un’opera cinematografica che non tratta neanche di fatti realmente accaduti?

È necessario tornare su un concetto espresso in precedenza: lo spettatore considera reale nel film ciò che ha un riscontro con la propria realtà. Benché questo, come sottolineato prima, non dia un valore di realtà al film, ha un’importante implicazione.

Un autore per venire compreso dal suo pubblico deve usare dei riferimenti che quest’ultimo sappia cogliere. I film dunque non possono essere considerati in termini di verità o verosimiglianza, ma di veridicità, ovvero il fatto che sebbene ciò che mostrino non sia reale, per il pubblico è ragionevole, possibile o semplicemente comprensibile (Dalli e Gistri 2006).

I cineasti possono usare la propria immaginazione ma entro certi limiti. Deve esserci comunque una cornice di riferimenti che aiutino lo spettatore ad ancorare la storia alla propria realtà, in modo da considerarla, se non vera, almeno possibile.

Hoolbrook e Grayson (1986) parlano dell’uso di comportamenti di consumo simbolici nelle opere d’arte che aiutano a veicolare il significato di quella creazione artistica. Affermano, inoltre che “queste opere d’arte rappresentano la vita, e gli usi artistici dei

comportamenti di consumo simbolici ci potrebbero dire qualcosa sull’umanità stessa”20 (Hoolbrook e Grayson 1986, 380, tradotto).

Per dirla con le parole di Sorlin, “… i film utilizzano necessariamente i codici vigenti…” Sorlin (2017, 14), secondo lui sono artefatti “il cui potere rivelatore sta nella distanza che crea[no] tra il dato sociale e la sua rappresentazione” (Alpini 2008).

Che cosa significa tutto questo per la ricerca qui proposta?

Significa che se si vogliono utilizzare i film per cogliere la realtà, si fallisce. Data però la loro intrinseca veridicità essi possono essere utili per capire alcuni elementi della società in certi dati periodi. Quali simboli venivano associati a quali tematiche, quali erano le tematiche più discusse e come l’opinione popolare si poneva di fronte ad esse. Infine i film ci possono dire come i cineasti tentavano di modificare l’opinione pubblica rispetto a tali tematiche.

Ritornando nell’area dei consumatori svantaggiati o vulnerabili, dunque, i film non ci consentono di comprendere le loro reali vite, le loro reali difficoltà e il loro reali comportamenti di consumo, ma ci consentono di capire come la società descriveva queste categorie (in generale) e come le descrivevano invece gli autori dei film (in particolare). Per quanto riguarda l’aspetto propagandistico del cinema esso è ben spiegato da Alpini (2008). La domanda è, se negli anni delle guerre il cinema veniva usato dai politici per indirizzare l’opinione pubblica (ad esempio sulla decisione americana di intervenire o meno nella seconda guerra mondiale) nei decenni successivi c’è stata un’iniziativa da parte dei cineasti per veicolare attraverso il cinema delle tematiche di tipo sociale? Nel prossimo paragrafo verrà spiegato il metodo di ricerca effettivamente utilizzato in questo lavoro e come attraverso di esso si spera di dare una risposta alle molte domande emerse fin ora.