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È opportuno guardare un’ultima volta alla Figura 13 (paragrafo 2.2.-Un nuovo framework) per osservare un nuovo aspetto problematico che riguarda tutti i consumatori svantaggiati e/o vulnerabili: la ricerca.

Un ricercatore infatti, se volesse condurre un’indagine sulle categorie annoverate nello schema, incontrerebbe molteplici complicazioni.

Si pensi alle problematicità di intervistare persone anziane o bambini, per esempio, in quanto possono non essere capaci di seguire in modo continuativo il filo logico della conversazione e inoltre a volte hanno una percezione distorta della loro stessa quotidianità (a causa di dimenticanze o di fatti che gli vengono ragionevolmente nascosti).

Si pensi alla difficoltà di intrattenere un dialogo con una donna in una società fortemente patriarcale o alle informazioni che un membro della comunità LGBT nasconderebbe per motivi di imbarazzo.

Si pensi alla difficoltà nel compiere ricerche su persone che parlano una lingua diversa dai ricercatori, ai fatti che una persona immigrata potrebbe voler nascondere per motivi di legalità, alla distanza che una persona di una certa cultura o religione potrebbe percepire nei confronti del ricercatore.

Si possono facilmente immaginare anche le complicazioni in caso di persone disabili o malate, di membri di Total Control Institutions, di persone povere in senso assoluto o relativo, di persone appartenenti a comunità disastrate e di persone che si trovano in delle condizioni emotive particolarmente difficili.

Ci sono, come si potrà capire, tutta una serie di difficoltà pratiche nel fare ricerca sui consumatori svantaggiati e/o vulnerabili, ma un’ulteriore questione che i ricercatori devono porsi è se sia legittimo compiere queste ricerche.

Il tentativo dei ricercatori è quello di produrre conoscenza su una parte della società che viene trascurata sia in campo accademico che dal mercato, cosicché le condizioni di vita della stessa possano piano piano migliorare. Tuttavia ci si deve chiedere se i benefici che

la ricerca porta controbilancino lo sforzo che si chiede a questi consumatori nel rendere le loro vite disponibili come fonte di ricerca.

È giusto chiedere a queste persone di donare il loro tempo, le loro sensazioni più intime e dolorose, i racconti dei momenti più critici della loro vita, chiedergli di rivivere tutte le difficoltà che hanno passato e che ancora affrontano, solo perché tutto possa essere registrato e trattato ai fini della ricerca?

La questione è molto delicata. Inoltre accanto a questo dilemma etico e alle difficoltà pratiche prima elencate, nel compiere ricerca sui soggetti svantaggiati e/o vulnerabili si incorre anche nel fenomeno della “researcher vulnerability”, ovvero la vulnerabilità del ricercatore (si veda ad esempio Jafari et al. 2013; Downey, Hamilton e Catterall 2007; Hamilton, Downey e Catterall 2006).

Gli accademici che si occupano di questo fenomeno sostengono che negli studi sui metodi di ricerca si sia posta grande attenzione su come minimizzare le conseguenze negative per i soggetti di ricerca, ma poca invece sugli effetti negativi per i ricercatori stessi. In particolare nel caso in cui si indaghino popolazioni vulnerabili e temi sensibili, infatti, “le sensazioni di vulnerabilità potrebbero riflettersi sul ricercatore” (Downey, Hamilton e Catterall 2007, 734, tradotto), il quale potrebbe inoltre sperimentare dilemmi etici ed empatia.

“Sono uscito dalle interviste con la sensazione che i miei intervistati dovrebbero sapere come proteggersi da persone

come me”17

(Finch 1984, 80, tradotto)

I dilemmi etici come quello qui citato derivano da uno squilibrio di potere percepito tra il ricercatore ed il soggetto. In particolare il primo ha un vantaggio sul secondo perché decide come raccogliere, trattare e diffondere i dati. Inoltre in questi casi in cui ha di fronte un soggetto svantaggiato e/o vulnerabile la percezione di potere del ricercatore aumenta. Proprio per questo in lui si generano sentimenti di incertezza e colpevolezza che lo portano a dubitare della legittimità della sua ricerca.

“… la grande quantità di storie nel processo di ricerca ha creato un alto livello di stress. Facevo sogni in cui morivo e altri

in cui apprendevo che nessuno dei miei intervistati mi aveva detto la verità. Passando il tempo in un’inusuale casa dopo un’intervista ho camminato nel sonno per la prima volta in vita mia e durante le settimane di trascrizione ho sofferto di crampi

allo stomaco e nausea su basi regolari”18

(Scott, 1998, tradotto)

Questa dichiarazione invece rivela i potenti effetti fisici e psichici dell’empatia. I ricercatori, sebbene possano calarsi perfettamente nel loro ruolo senza lasciar trasparire le proprie emozioni, sono comunque degli esseri umani che interiorizzano gli episodi difficili che gli vengono raccontati. Warr (2004) parla di “emotional weight” rispetto alle storie che si incontrano facendo ricerca. Il ricercatore si porta dietro queste storie, infatti, proprio come un peso emozionale.

Può accadere anche che questi racconti portino il ricercatore ad esplorare le proprie paure e le proprie insicurezze (Jafari et al. 2013).

Tuttavia l’empatia del ricercatore e il suo totale inserimento nella comunità che studia sono elementi ritenuti fondamentali per la riuscita della ricerca ed è proprio per questo che è difficile eliminare questo effetto collaterale.

Gli stessi luoghi dove i ricercatori devono recarsi per le interviste, infine, possono costituire elemento di stress psicologico, soprattutto quando si tratta di quartieri con alti tassi di delinquenza e dove egli viene visto come un soggetto estraneo e non gradito. Quello che gli studiosi consigliano, in accordo tra loro, è un periodo di formazione dei ricercatori e dei loro supervisori per prepararli ai rischi della ricerca. Non è stata ancora definita però una linea guida che indichi tutti gli aspetti della “researcher vulnerability”

18 Testo originale: “… the sheer quantity of stories in the research process created a high level of stress. I had dreams about dying, and dreams in which I learned that none of my interviewees had told me the truth. Staying in an unfamiliar house after one interview I walked in my sleep for the first time in my life, and during the weeks of transcription I endured stomach cramps and nausea on a regular basis.”

e come affrontarli o aggirarli, pertanto non sarebbe ancora possibile formare in modo adeguato ricercatori e supervisori.

Riassumendo quanto detto fin ora, si può concludere che un ricercatore sia posto di fronte a molti ostacoli nell’indirizzare il suo lavoro verso i consumatori svantaggiati e/o vulnerabili. L’insieme di problemi pratici, questioni etiche e il rischio della sua stessa vulnerabilità spesso portano alla rinuncia ad affrontare tali tematiche (Jafari et al. 2013), tuttavia alcuni ricercatori hanno saputo trovare dei metodi alternativi e creativi di indagine che possono aggirare almeno in parte quei dilemmi e quelle difficoltà.

Va premesso che il metodo più diffuso per fare ricerca su questi gruppi di soggetti è quello delle interviste in profondità e dell’etnografia (vedi ad esempio Gentry et al. 1994; Cornwell e Gabel 1996; Kates 2002; Pavia e Mason 2012), i quali sono sicuramente i più adatti tra gli approcci tradizionali data la poca conoscenza che è stata sin ora prodotta sull’argomento e la grande diversità che esiste tra ogni caso specifico. Tuttavia sono proprio questi i metodi che portano le difficoltà più complesse, i dilemmi più profondi e i rischi più alti di vulnerabilità.

Un grande merito va dunque a quei ricercatori che hanno saputo inventare nuovi approcci creativi ma che garantiscono comunque validità di ricerca.

Downey (2016), per esempio, illustra come ricerche su soggetti quadriplegici possano essere condotte tramite l’uso della poesia. Ovvero essi stessi scrivendo delle poesie possono veicolare delle emozioni profonde in modo libero e il ricercatore può comprendere ed interpretare i temi che da esse emergono.

Wallendorf e Arnould (1988), invece, hanno utilizzato le fotografie per indagare la connessione tra le persone e gli oggetti in due diverse culture.

Hill e Martin (2012) hanno compiuto un’indagine riguardo alle restrizioni assolute e relative (di cui si è parlato nel paragrafo 2.2.-Restrictions and constraints) utilizzando esclusivamente dati di natura secondaria provenienti da diverse fonti. Benché questo non possa dirsi un metodo innovativo di fare ricerca, può comunque costituire uno spunto per evitare i metodi “pericolosi” dell’etnografia e delle interviste in profondità.

Lo stesso vale per Shpigelman e Gill (2014), le quali hanno indagato l’uso di Facebook da parte di persone disabili attraverso una survey online. Pur non trattandosi di nuovo di un metodo innovativo, è comunque degno di nota per il fatto che rappresenta un’alternativa al libero download di dati dal famoso social network. Va detto tuttavia che

completato il questionario e questo può essere facilmente ricondotto alle difficoltà che una persona disabile può incontrare nello svolgere una simile attività. Inoltre il 75,5% dei rispondenti aveva dichiarato di essere iscritto a o di aver completato un titolo accademico (laurea triennale, laurea magistrale o dottorato di ricerca) rivelando dunque una certa non rappresentatività del campione.

Bone, Christensen e Williams (2014) invece hanno condotto una ricerca sulle discriminazioni che le persone di colore incontrano nel mercato finanziario ed hanno utilizzato tre metodi di ricerca diversi in sequenza. Il primo è stato quello del mystery shopping, il quale anche questa volta non rappresenta un metodo nuovo, la novità sta piuttosto nel suo intelligente uso in questa area di studio. Come secondo metodo sono state condotte interviste qualitative ZMET, per le quali si richiede al soggetto di assemblare un collage di immagini preventivamente e poi di spiegarne il significato in sede di intervista. L’analisi delle immagini fornite ha evidenziato punti in comune interessanti tra i vari soggetti. Per la terza fase dell’indagine infine è stato utilizzato un esperimento di simulazione online.

Un ulteriore metodo innovativo è presentato da Ozanne e Saatcioglu (2008) ed è stato denominato Participatory Action Research, o PAR. Il principio chiave di questo metodo è quello di includere maggiormente il soggetto di ricerca dandogli un ruolo più significativo e facendo in modo che attraverso la ricerca stessa egli ottenga un vantaggio o un miglioramento delle proprie condizioni.

Un esempio molto esplicativo è l’indagine condotta da Hill et al. (2015) in un carcere di massima sicurezza. Inizialmente un gruppo di detenuti ha seguito un corso tenuto dai ricercatori, dove questi li istruivano circa le metodologie di ricerca e li informavano rispetto a tematiche come la povertà, la criminalità e il marketing. Il corso portava inoltre i detenuti a riflettere sulle proprie condizioni di consumo all’interno della prigione. Sono stati proprio questi detenuti poi a condurre le ricerche, intervistando altri detenuti all’interno del penitenziario. Le trascrizioni di queste interviste insieme a tutte le note prodotte dagli intervistatori hanno costituito l’insieme dei dati di base per l’analisi. Anche la stessa fase analitica ha visto i detenuti come protagonisti dato che sono stati loro ad estrapolare i temi più importanti dalle trascrizioni. I ricercatori veri e propri hanno svolto soltanto il ruolo di consulenti in questa fase.

Posto che l’articolo di Hill et al. (2015) denuncia soprattutto la de-umanizzazione dei carcerati ed il loro essere trattati come oggetti, si può capire quanto il metodo di ricerca impiegato sia stato d’aiuto proprio in questo senso. I detenuti sono divenuti non solo gli

attori della ricerca ma bensì i protagonisti e questo ha sicuramente aumentato la loro concezione di sé e la loro percezione di essere trattati davvero come esseri umani capaci. Come ultimo esempio di ricerca si cita il lavoro di Klein e Hill (2008), già esplorato nel paragrafo 1.1.. Per indagare i processi di consumo nei campi di concentramento, gli autori si sono basati sulle biografie scritte da persone che avevano avuto tali esperienze e hanno incluso nella ricerca anche alcuni film. Si tratta di un esempio di utilizzo di opere letterarie come base per la ricerca ed è proprio da questo tipo di metodo che si trae lo spunto per l’analisi effettuata in questo elaborato.