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Uno dei primi studiosi che si è occupato dei soggetti che hanno una posizione di svantaggio nel mercato è Alan R. Andreasen con la sua opera del 1975 “The Disadvantaged Consumer”. La definizione che egli dà rispetto al termine disadvantaged consumer è la seguente:

coloro “che sono particolarmente svantaggiati nell’ottenere un giusto valore in cambio della loro moneta nel mercato urbano a

causa dei loro redditi strettamente limitati, del loro status di minoranza razziale, della loro anziana età e/o delle loro

difficoltà con la lingua”9 (Andreasen 1975, 6, tradotto)

In pratica Andreasen si vuole soffermare non tanto nelle peggiori condizioni che i consumatori devono affrontare per il fatto in sé di essere poveri, discriminati, anziani o altro, quanto su come il mercato risponda a queste loro debolezze.

A parte il fatto di avere minori disponibilità economiche, di mobilità o di ottenimento delle informazioni, tra le altre, i soggetti di cui egli si occupa affrontano delle condizioni di mercato diverse (e non in senso buono) rispetto agli altri consumatori. Un esempio è rappresentato dal fatto che nei quartieri più poveri delle città statunitensi i prezzi sono più

9 Testo originale: “who are particularly handicapped in achieving adequate value for their consumer dollar in the urban marketplace because of their severely restricted incomes, their minority racial status, their old age, and/or their difficulties with the language”

alti per molti servizi, come supermercati, assicurazioni, tassi di interesse sui finanziamenti, etc. (Andreasen 1993).

Il termine “disadvantaged” quindi si riferisce ad un inferiore potere di un certo consumatore rispetto al mercato, che non gli consente di ottenere delle condizioni di scambio ottimali o almeno parificate agli altri consumatori.

Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 si era sviluppato un interesse tra gli studiosi per queste casistiche, interesse che però è scemato quasi del tutto con la fine degli anni ’70 (Andreasen 1993).

Pechmann et. al (2011) identificano 3 principali cause per la nascita di questo interesse. La prima è data dagli episodi rivoltosi di quel periodo ad opera degli afro-americani. Questi attraverso incendi, rapine e vandalismi denunciavano di essere sfruttati dal mercato. Il fenomeno attrasse l’attenzione degli studiosi, anche perché la maggior parte degli episodi di protesta andava a danno proprio degli esercizi commerciali.

In secondo luogo in quei decenni si sviluppò la protesta contro la guerra del Vietnam. Gli accademici furono coinvolti nel fenomeno perché in molti casi queste contestazioni avevano luogo all’interno dei campus dei college universitari. Secondo Pechmann et. al (2011) questo portò molti studiosi a chiedersi se volevano continuare ad aiutare le grandi imprese a crescere sempre di più, o se invece volevano rivolgersi alle popolazioni svantaggiate.

Infine negli anni ’70 la Federal Trade Commission avviò una collaborazione con gli esperti in campo di consumer research per indagare i comportamenti di consumo delle popolazioni a rischio.

Che significa popolazione a rischio? È un sinonimo di popolazione svantaggiata; lo si può capire dalla definizione che ne danno Pechmann et. al (2011):

“attori del mercato che, a causa di circostanze storiche o personali o di disabilità, possono essere danneggiati dalle pratiche dei venditori o potrebbero non essere capaci di o non

volere sfruttare appieno le opportunità del mercato”10 (Pechmann et. al 2011, 23, tradotto)

In inglese i termini corrispondenti sono disadvantaged e at-risk consumers (o population) ed in effetti nell’ articolo di Pechmann et al. si parla più di consumatori “a rischio” che non “svantaggiati”, sebbene anche lo stesso Andreasen sia un autore dell’articolo. Un altro termine che si può vedere utilizzato al posto di questi due è minority consumer, che si riferisce esplicitamente a quei gruppi di consumatori che si distinguono rispetto alla società in cui vivono e che quindi sono a rischio di discriminazione e sfruttamento da parte del mercato.

Tutto questo testimonia come già al tempo la tematica non avesse una tassonomia solida e condivisa che la identificasse.

Come già anticipato, alla fine degli anni ’70 l’attenzione degli accademici per i disadvantaged consumer scemò, Andreasen (1993) suggerisce che ciò possa essere dovuto ad uno spostamento di focus verso i problemi ambientali.

Figura 3: schema elaborato sulla base di Andreasen 1993

10 Testo originale: “marketplace participants who, because of historical or personal circumstances or disabilities, may be harmed by marketers’ practices or may be unable or unwilling to take full advantage of marketplace opportunities”

1. Le cause!dei!problemi!degli! svantaggiati!come!consumatori! sono!molteplici!e!interagiscono! tra!loro 2. Gli!svantaggiati!sono! qualitativamente e!non!solo! quantitativamente!diversi!dalla! classe!media 3. La!complessità!delle!culture! degli!svantaggiati!richiede!un attento districamento!delle! relazioni!di!causa=effetto 4. Si dovrebbe!assumere!che!gli! svantaggiati!si!comportino! razionalmente!fino!a!prova! contraria 5. Le!soluzioni!non!dovrebbero! limitarsi ad!un!intervento! normativo

Ad ogni modo alcune importanti conclusioni sull’argomento vennero raggiunte e verranno presentate qui di seguito, seguendo lo schema concettuale presentato proprio da Andreasen nel 1993, al fine di riassumere i punti fondamentali in vista di un interesse accademico che andava riaccendendosi.

Per una più chiara comprensione essi sono stati rappresentati nello schema in Figura 3. Il primo concetto chiave, come si può vedere in figura, riguarda il fatto che le cause che portano i soggetti ad essere svantaggiati nel consumo sono molteplici e interagiscono tra loro. Proprio perché così molteplici, non sarebbe possibile elencarle tutte in modo esauriente, ma è possibile invece classificarle in tre categorie: le caratteristiche dei consumatori stessi, le caratteristiche dei mercati nei quali essi fanno acquisti e i comportamenti “rapaci” dei venditori che incontrano nei mercati suddetti.

All’interno della prima categoria sono comprese le circostanze come la povertà, l’appartenenza ad una minoranza razziale, l’anzianità e molte altre.

Per quanto riguarda la seconda, Andreasen (1993) descrive un meccanismo un po’ paradossale. I quartieri poveri sono purtroppo anche dei mercati che garantiscono bassi profitti e che dunque le aziende (e qui si parla soprattutto di retailers) tendono ad evitare. Quelle poche imprese che invece decidono di stabilirvisi devono imporre al pubblico prezzi più alti per giustificare il loro investimento. È così che, paradossalmente appunto, i quartieri più poveri arrivano ad avere un livello dei prezzi nettamente superiore rispetto alle altre zone della città, creando una intrascurabile situazione di svantaggio per coloro che vi abitano.

In questo caso dunque abbiamo una condizione sfavorevole che dipende prima di tutto dalle condizioni del mercato e i venditori sono coinvolti solo di riflesso. Tuttavia, in molti casi proprio questi ultimi sono accusati di lucrare sulle condizioni di svantaggio dei consumatori, costituendo così la terza categoria della classificazione presentata.

In Figura 3 abbiamo una panoramica degli altri punti chiave, che però possono non risultare così immediati ed hanno dunque bisogno di un approfondimento.

Anzitutto il secondo punto riguarda il fatto che i consumatori svantaggiati non sono solo quantitativamente diversi dalla classe media, ma anche qualitativamente. Andreasen (1993) specifica che le persone anziane non sono solo un’età, così come quelle povere non sono solo un basso reddito. Queste condizioni vengono studiate proprio perché

chiaro che tra un ottantenne ed un ventenne non ci sono solo 60 anni, c’è anche tutta una serie di differenze di salute sia mentale che fisica che portano i due soggetti ad essere profondamente (e qualitativamente) diversi.

Allo stesso modo una persona povera non è solo una persona con una quantità X di reddito al di sotto di una certa soglia, ma è una persona che nella maggior parte dei casi “è giovane, non istruita, parte di una minoranza etnica, genitore single e residente in un quartiere povero ed isolato” (Andreasen 1993, 272, tradotto).

Il monito è quindi quello di studiare i vari tipi di consumatori svantaggiati considerando tutte le sfaccettature e le conseguenze del loro svantaggio.

Il terzo punto riguarda la difficoltà che gli accademici possono incontrare nel definire le giuste relazioni di causa-effetto che operano nei comportamenti di consumo delle persone svantaggiate. Molti dei tratti attraverso i quali si definiscono i disadvantaged sono anche le variabili che normalmente guidano le scelte di consumo (età, provenienza culturale, reddito, genere, …) per cui potrebbero essere commessi degli errori nell’imputare alla condizione di svantaggio dei comportamenti che in realtà sono nella norma, se si considerano gli effetti di queste variabili.

È importante quindi capire quali sono davvero i fattori che incidono negativamente sulle possibilità di consumo.

Il quarto punto serve a ricordare agli accademici che, fino a prova contraria, i consumatori agiscono razionalmente rispetto ai propri interessi e allo stesso modo si comportano i consumatori svantaggiati.

A volte sembrerebbe non esserci una spiegazione razionale per alcuni comportamenti delle persone svantaggiate, ma ciò non vuol dire che esse non agiscano razionalmente, solo che a volte è più difficile capire le motivazioni che guidano le loro scelte.

L’esempio che Andreasen (1993) riporta, riguarda il Truth in Lending regulation, il quale fu pensato per fornire alle persone svantaggiate un’adeguata informazione rispetto ai loro finanziamenti e alla loro onerosità. Si riteneva infatti che essi si indebitassero troppo perché non abbastanza informati sui tassi di interesse che pagavano. In realtà questa regolamentazione non produsse alcun cambiamento, poiché anzitutto le persone in questione erano interessate non tanto ai tassi da pagare quanto al capitale che potevano ottenere e successivamente perché spesso i loro redditi erano intermittenti, oltre che bassi. In pratica essi speravano di poter migliorare la loro condizione futura grazie a questi

capitali presi in prestito nel presente, il che rappresenta un tipo di ragionamento razionale, anche se non sempre i risultati poi erano quelli pianificati.

Anche questo punto rappresenta un monito, ovvero quello di non fermarsi alla conclusione che c’è stata una forma di comportamento “irrazionale”, ma invece di capire che proprio questa apparenza deve costituire un campanello d’allarme che segnala qualcosa di ancora non spiegato e che invece deve essere indagato più in profondità. Infine nel quinto punto Andreasen (1993) esorta gli accademici a non puntare unicamente ad un intervento normativo. Egli fa notare come la maggior parte delle volte che un consumatore affronta un problema sul mercato e si trova quindi nella necessità di dover fare un reclamo, si lamenta direttamente con l’azienda e solo pochissime volte si rivolge invece alle autorità competenti (l’1%). Sarebbe più utile dunque aiutare i consumatori in

1. La!povertà!è!cambiata 2.! La!definizione!di!consumatori! svantaggiati!si!è!ampliata! 3.! La!dimensione!dei! comportamenti!dei!consumatori! si!è!ampliata 4. È!cresciuta!l’importanza!dei! servizi 5. Sembra!crescere!la!ricettività! degli!atti!pensati!per!aiutare!gli! svantaggiati! 6. La!recessione!ha!accresciuto! l’intensità!dei!problemi!dei! consumatori!mentre!ha!ridotto!la! capacità!delle!autorità!locali!di! rispondere!a!questi!problemi

questa loro attività di rivendicazione autonoma, piuttosto che migliorare dei servizi che in realtà vengono usati poco.

Queste dunque le conclusioni alle quali secondo Andreasen si era giunti alla fine degli anni ’70. Nel suo articolo del 1993 egli ricorda come al tramontare di quel decennio l’interesse degli accademici per l’argomento si sia affievolito, ma testimonia anche una rinascita di questo interesse negli anni ’90. Tuttavia è necessario guardare al problema dei consumatori svantaggiati con nuovi occhi, poiché col passare dei decenni anche le condizioni ed i comportamenti dei consumatori svantaggiati sono cambiati.

Le principali differenze tra i due periodi sono rappresentate in Figura 4 come definite da Andreasen (1993).

Anzitutto egli nota che la povertà è cambiata. Che significa? Significa che le persone povere degli anni ’90 non sono come quelle degli anni ’70, sia quantitativamente che qualitativamente. In particolare i poveri degli anni ’90 sono più spesso genitori single, la povertà tra gli anziani è decresciuta, ci sono più madri nubili in condizioni di povertà, il tasso di abbandono delle scuole superiori delle persone povere è decresciuto e le loro capacità letterarie e matematiche sono aumentate, i casi di ragazze madri e che subiscono violenze sono diminuiti.

Sono cambiate anche leggermente le cause che portano alla povertà: la disoccupazione a lungo termine ha un ruolo sempre più serio nel determinare lo stato di indigenza, così come l’uso di droga.

Per quanto riguarda il secondo punto, ai casi di consumatori svantaggiati considerati in precedenza (poveri, minoranze razziali, anziani, bambini e coloro che hanno difficoltà con la lingua) si sono aggiunte le persone portatrici di handicap fisici, le nuove minoranze etniche, e in alcuni casi le donne.

La terza differenza si riferisce all’ambito accademico. Nella disciplina del marketing sono entrati nuovi campi come quello della politica, della salute, della religione, dell’educazione, e delle arti. Lo stesso pericolo che gli svantaggiati affrontano nei mercati dei beni a causa delle strategie di marketing, ovvero quello di essere sfruttati e di ottenere condizioni di scambio peggiori, si estende anche a questi nuovi campi di applicazione del marketing, per tanto la tematica diventa ancor più socialmente importante.

La quarta differenza invece si riferisce al mercato. Andreasen (1993) ricorda che dato che negli anni ’90 è cresciuta enormemente la fetta dei servizi sul totale del mercato, non è più possibile portare avanti il metodo di ricerca degli anni ’70, il quale si incentrava solo sugli oggetti.

Quinto punto, le autorità pubbliche sembrano essere sempre più a conoscenza delle problematiche degli svantaggiati e di conseguenza sempre più interessate a tutelarli attraverso delle leggi.

Infine, al sesto punto, la condizione economica del periodo: la recessione. Secondo Andreasen (1993) essa ha fatto sì che i venditori diventassero sempre più aggressivi e “rapaci” e che dall’altro lato le autorità locali per la protezione dei consumatori avessero budget sempre minori per poter svolgere efficacemente il loro lavoro.

Queste dunque le maggiori differenze in quello che è il quadro degli svantaggiati negli anni ’60-’70 e invece nei ’90. È opportuno però domandarsi se il quadro non sia altrettanto cambiato negli anni 2000 e 2010.

Confrontando i report dello United States Census Bureau sulla povertà negli U.S.A. riferiti agli anni 1991 e 2016, possiamo notare alcuni cambiamenti. Innanzitutto il tasso di povertà totale è decresciuto passando dal 14,2% al 12,7%.

Vedendo il dettaglio rispetto all’età, le persone con meno di 18 anni presentano il tasso di povertà più alto sia nel 1991 che nel 2016. Mentre però nel 1991 il secondo posto era occupato dagli over-65, adesso è detenuto dalle persone di età compresa tra i 18 e i 64 anni. Ciò significa che la povertà tra gli anziani è decresciuta in modo maggiore e che mentre prima gli adulti (18-64) erano in percentuale meno poveri degli anziani, adesso lo sono di più.

Per quanto riguarda le minoranze etniche la classifica rimane invariata: al primo posto si trovano gli afro-americani il cui tasso di povertà però è sceso di oltre 10 punti percentuali (dal 32,7% al 22,0%); mantengono il secondo posto gli ispanici anche se con una decrescita di simili proporzioni (dal 28,7% al 19,4%); il terzo posto è invece occupato dagli asiatici (dal 13,8% al 10,1%), seguiti con non troppo distacco dai caucasici (dall’11,3% all’8,8%).

Questo quadro rivela una significatività dell’appartenenza ad una minoranza etnica quando si parla di povertà, significatività che è ancora forte al giorno d’oggi. In entrambi i periodi, infatti, notiamo una forte differenza tra i tassi di afro-americani ed ispanici, da un lato, e quelli di asiatici e caucasici, dall’altro. Tuttavia i tassi degli afro-americani e degli ispanici hanno presentato una decrescita molto più marcata (rispettivamente 10,7 e 9,3 punti percentuali) rispetto a quella sostenuta da asiatici e caucasici (rispettivamente 3,7 e 2,5 punti percentuali). Questo potrebbe suggerire almeno una graduale tendenza verso la parificazione delle condizioni di povertà rispetto alla minoranza etnica di appartenenza.

Interessante notare come nel report del 1991 manchi il dato specificato per genere, per condizione di disabilità e per stato di cittadinanza, invece presenti in quello del 2016, a testimonianza del fatto che l’importanza di questi fattori è stata riconosciuta solo in un secondo momento.

Pechmann et. al (2011), infatti, testimoniano l’ulteriore estensione del termine disadvantaged (o at-risk) consumers che adesso comprende anche minoranze religiose, disabili, analfabeti, senzatetto, indigenti e persone facenti parte della comunità LGBT.