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È stato mostrato come ci siano delle somiglianze tra i film per quanto riguarda il simbolismo dell’abbigliamento e dei mezzi di trasporto. Adesso si affronterà invece l’argomento dell’acculturazione e si mostrerà come i protagonisti dei film affrontano questo processo.

In Vesna va veloce è molto interessante la parte iniziale: Vesna e Marina stanno andando a Trieste e Marina ha una lunga lista di cose da comprare che amici e parenti hanno richiesto. Questo pone già l’Italia su un piedistallo rispetto alla Repubblica Ceca in quanto a consumi. Inoltre Marina dice che le è stato specificato il colore, il modello e la marca dei prodotti che deve comprare. Questo rimanda ad un concetto descritto da Peñaloza (1994). I messicani di cui lei parlava, quando ancora erano in Messico, conoscevano alcuni prodotti degli Stati Uniti. Il processo di acculturazione era iniziato già prima che si trasferissero. Anche in Vesna va veloce i cechi avevano già una certa awareness dei prodotti italiani, probabilmente anche perché queste gite a Trieste per far compere erano piuttosto frequenti.

Per il resto però Vesna non mostra alcun tipo di consumo del suo paese d’origine e si immerge invece completamente nella cultura di consumo italiana. Questo probabilmente perché Vesna era partita per l’Italia proprio con il desiderio di cambiare il suo stile di consumo.

In Pummarò invece il cibo e l’alloggio sono le due principali metafore che consentono di comprendere il processo di acculturazione.

Quando Kawaku è in Campania il Professò gli fa mangiare una mozzarella di bufala. Quando è a Verona e fanno la festa africana nel museo ci sono anche cibi africani. Una scena interessante è quella in cui l’insegnante Eleonora prepara a Kawaku la minestra di fagioli:

Eleonora: Aspetta: un po’ d’olio d’oliva. (Glielo mette e poi se

lo mette anche per sé) Poi ci va anche il sale, prova se manca di

sale. Perché è cucinata con poco sale. (Prende il sale in mano e

Eleonora: Va bene? Dici? (Mette il sale nella sua) Kawaku: Peperoncino?

Eleonora: Peperoncino no, dopo te lo do, adesso no però. Prova senza. Prova senza poi te lo porto.

Senti. Assaggia un pochino di vino. (Kawaku fa di no con la

testa) Un pochino, poco. (Glielo sta per versare, lui toglie il bicchiere) Poco? Poco? (Ride) Dai non si può mangiare la

minestra di fagioli con il succo di mela è incivile. (Ride di

nuovo)

(Pummarò, M. Placido, Italia 1990)

Si vede un chiaro contrasto in questa scena. Eleonora vuole far provare a Kawaku qualcosa di tipico della cucina italiana, ma Kawaku non ha il suo stesso gusto e preferirebbe il peperoncino invece del sale.

Il discorso sul vino è ancora più importante. Non si tratta più solo di gusti o tradizioni, ma di religione. Sarà anche “incivile” mangiare la minestra di fagioli col succo di mela, ma Kawaku non può proprio bere vino.

Per quanto riguarda l’abitazione, Kawaku passa la prima notte in Italia alla Caritas, poi va a dormire col Professò e i suoi amici nel cimitero: dormono dentro i loculi vuoti adibiti alle tombe.

A Roma, non potendosi permettere una stanza, dormirà fuori al freddo. Solo a Verona il suo amico Isidoro sarà in grado di offrirgli un posto dove dormire in casa sua.

Questo concetto del non avere dimora è importante. Ad un certo punto Kawaku dirà “Chi è lontano di casa non è mai libero” (Pummarò, M. Placido, Italia 1990) ed Irena “Chi lascia il suo paese cambia mille case” (La sconosciuta, G. Tornatore, Italia/Francia 2006). Il concetto è che lontani dal proprio paese, in un posto dove non si conosce nessuno e dove si viene sempre guardati storto, non ci si può mai sentire a casa. In Pummarò questo fenomeno è messo in luce proprio dai luoghi dove Kawaku deve dormire la notte. Nel casertano il Professò gli offre un posto con lui al cimitero, è un buon posto tutto considerato, ma precario, esattamente come la situazione di Kawaku: non può rimanere lì troppo a lungo.

A Roma la prima notte dorme fuori e la seconda non dorme affatto. Infatti il soggiorno lì è il più breve e quella città non sembra accogliere per niente la sua presenza.

A Verona infine avrà un alloggio più stabile ed infatti vi trascorrerà un po’ più di tempo, si ambienterà di più. Non ha rinunciato a trovare il fratello, ma ormai Kawaku è demoralizzato da tutte le volte che ha provato a cercarlo senza successo e così si concede una pausa.

In La sconosciuta in realtà non si notano scene di consumo atipiche o che facciano pensare a delle differenze culturali. Irena va dal parrucchiere, al cinema, ha un appartamento in affitto, molte valigie. La si vede mangiare fragole, hamburger e patatine e una volta tornare a casa con una pizza da asporto.

Sembrerebbe che ci sia uno sforzo del regista nel non categorizzare Irena come “la straniera”. O meglio sì, si deve capire che Irena è straniera ma l’unica cosa che deve differenziarla dagli altri personaggi del film è l’accento. Per il resto deve avere delle abitudini di consumo parificate agli altri perché dev’essere chiaro che lei in quanto persona non è niente di meno e niente di più dei personaggi italiani.

Nel fare questo sforzo di omologazione però, la regia sembrerebbe aver tralasciato qualcosa di importante: Irena è ucraina e in quanto tale dovrebbe avere dei consumi diversi da quelli degli italiani. Non che essere ucraina le tolga o aggiunga qualcosa come persona, ma neanche può avere delle tradizioni identiche a quelle italiane, soprattutto dal punto di vista culinario.

In effetti si può dire che i suoi consumi sono quasi aculturali. Mangia pizza, hamburger, fragole. Cibi globalizzati, se si vuole. Né specificatamente italiani né specificatamente ucraini.

Solo le fragole hanno un valore particolare per lei perché la ricollegano a dei ricordi con il suo vecchio fidanzato.

Per quanto riguarda Io sono li, ci sono due particolari scene di consumo degne di nota. Nella prima, subito all’inizio, Li ed altre donne cinesi stanno facendo il rito delle candele per la festa del poeta nella vasca da bagno, mentre gli uomini cinesi giocano a poker, bevono birra e fumano sigarette. Si può notare anzitutto come ci sia una forte differenza di genere: le donne mantengono la tradizione mentre gli uomini cercano di conformarsi alla cultura occidentale.

Questo forse perché alle donne cinesi è chiesto lo stesso sforzo di sacrificio e sopportazione che incombe sulle donne rumene di cui parla Chytkova (2011). I motivi culturali di questa concezione della donna non sono sicuramente gli stessi, ma il risultato è quantomeno simile: le donne cinesi devono essere votate al sacrificio per la famiglia e la comunità e devono sopportare la situazione che hanno davanti senza cercare di cambiarla. Come già menzionato nel paragrafo 1.4. sopportazione e cambiamento sono in antitesi. Mentre agli uomini è concesso di modificare le proprie abitudini culturali, alle donne no.

Il secondo elemento interessante è dato dall’insieme di poker, birra e sigarette. Non sembrerebbe un consumo tipico italiano, quanto più americano. Questo fa pensare agli agenti di acculturazione di cui parlano gli assimilazionisti (si veda sempre il paragrafo 1.4.). In particolare Lee (1989) affermava che le immagini televisive forniscono agli immigrati un’immagine distorta dello stile di vita e delle informazioni comportamentali della cultura americana. Nel caso degli immigrati cinesi in Italia, è possibile ipotizzare che in Cina abbiano preso contatto con la cultura occidentale attraverso il cinema hollywoodiano e che applichino quindi l’idea dello stile di vita americano (un’idea per altro inesatta) a tutto il mondo occidentale, quando invece ci sono delle grosse differenze culturali e consumistiche tra Italia e Stati Uniti.

La seconda scena importante è quella delle cannocchie (sono crostacei detti anche pannocchie, paccheri o cicale di mare). Il “cinese”, ovvero il datore di lavoro di Li al bar va al mercato del pesce e compra le cannocchie. Le cucina poi per gli uomini che sono al bar.

Avvocato: Cinese. Hai comprati il pesce? Cinese: Cannocchie.

(Il cinese va dentro il bar)

Avvocato: Ma le cucina lui?

Coppe: Certo. Sono bravi a cucinare i cinesi!

Baffo: Io ho mangiato dai cinesi, non si mangia male. Coppe: Gliel’ha insegnato Marco Polo.

Avvocato: Marco Polo?

Avvocato: Li ha scoperti o gli ha insegnato a fare le cannocchie?

Coppe: Dopo averli scoperti, a insegnarli a fare le cannocchie è un attimo!

Avvocato: Giusto.

(Si vede il cinese in cucina che le sta preparando) (Arriva Bepi al tavolino con gli altri)

Bepi: Ciao a tutti. Coppe: Ehi.

Baffo: Ciao Bepi. Sei stato in barca? Bepi: Al casone, dovevo controllare le reti.

Baffo: Con questo freddo? Sei vecchio devi stare attento.

(Bepi si siede, arriva Li)

Li: Cannocchie. (Gliele porge) Bepi: Grazie.

Li: Prego.

(Gli uomini si guardano dubbiosi, poi le assaggiano)

Bepi: Buone. Li: Piace?

Avvocato: (Annuisce) Buonette.

Li: (Lascia i tovaglioli) Grazie. (Se ne va) Bepi: Un rosso Shun Li.

Li: Sì.

Avvocato: (Appena Li se ne è andata) Fa schifo. Bepi: Secondo me sono buone.

Avvocato: Ti piacciono?

(Bepi annuisce)

Avvocato: Te sei slavo, non capisci niente di pesce. Coppe: È trent’anni che è qui, vuoi che non capisca le cannocchie?

Coppe: Eh!

Avvocato: Davvero?

Coppe: Gliel’ha insegnato Marco Polo!

(Ride)

Avvocato: Se…

Coppe: Guarda che c’è passato da Pola per andare in Cina, o no? Sennò che strada fai?

(Torna Li)

Bepi: Buonissimo. Complimenti al cuoco. Li: Grazie.

(Li se ne va. L’avvocato si pulisce la bocca mentre Bepi si lecca le dita)

Bepi: Sul canale di mattina, mangio pesci della Cina.

(Ridono tutti)

(Io sono li, A. Segre, Italia/Francia 2011)

Questo passo è un po’ lungo ma fa capire bene le dinamiche del quartetto di amici ed alcuni stereotipi sugli stranieri.

Anzitutto l’avvocato che è un po’ più diffidente verso i cinesi, si sorprende che cucinino il pesce. Coppe prende le loro difese ma in modo scherzoso e va a ricadere su Marco Polo. Come se il fatto che un italiano avesse insegnato ai cinesi a cucinare desse una qualche legittimazione alla loro cucina.

Al momento dell’assaggio c’è una contrapposizione tra Bepi e l’Avvocato. Uno apprezza le cannocchie e l’altro no. Probabilmente Bepi, che è immigrato dalla Slovenia, capisce meglio la posizione di Li e dei cinesi in generale e si sente più tollerante verso di loro e la loro cucina. L’Avvocato invece li vede come una minaccia al suo status quo. Se è vero ciò che dice Anderson (1992), ovvero che l’ingente movimento di persone da un posto ad un altro sta cambiando il volto del mondo, è vero anche che ci sono delle resistenze a questo cambiamento. L’Avvocato e, più che altro, il tipo di persone che rappresenta, sono esattamente questa resistenza ed in questa scena essa è rappresentata dal non apprezzare le cannocchie cucinate in modo diverso.

Il fatto che poi l’Avvocato dica a Bepi che non capisce niente di cannocchie perché è slavo è altresì importante. Nessuno tranne gli italiani capisce di cucina. Coppe fa di nuovo la battuta su Marco Polo per fare lo stesso processo di legittimazione della cucina slava. La filastrocca finale di Bepi servirà per alleggerire la situazione e per far capire all’Avvocato che lui, infondo, non è così filocinese (anche se invece ovviamente lo è). Per fare un discorso conclusivo e trasversale a tutti i film, si può notare come sia molto debole in tutti la presenza di consumi tipici del paese di provenienza. Né Irena né Vesna mostrano mai dei consumi che derivano dalla loro tradizione ucraina o ceca e se ne è già spiegato il motivo.

In Io sono li si vede l’attaccamento alla tradizione della festa del poeta Qu Yuan, ma niente di veramente consumistico.

Pummarò forse è l’unica tra queste pellicole dove si vedono delle scene di consumo tipiche africane. Prima tra tutte la festa che ha luogo a Verona. C’è cibo africano, musica africana e vestiti africani. Si respira un’aria di festa molto allegra, che cerca di includere tutti. Una festa tra persone italiane non si potrebbe immaginare così tanto chiassosa. Ci sarebbe inoltre una netta separazione tra il complesso che suona e gli altri. Qui invece Kawaku ad un certo punto si mette ai tamburi con Isidoro e presto il complesso si unisce al loro suono. È bello il passo in cui Kawaku, quando ancora si trova nel casertano, chiede al Professò perché lui sta sempre con le persone di colore.

Kawaku: Perché a te piace stare con noi?

Professò: E perché… perché mi sento uno come voi. Mi piace tutto quello che fate voi. Mi piace come cucinate, come

mangiate, come cantate, come ballate, come suonate e poi imparo cose nuove.

(Pummarò, M. Placido, Italia 1990)

Evidentemente il Professò aveva colto questo spirito gioioso che hanno le persone di colore e voleva farne parte.

La figura stessa del Professò è un po’ ambigua. Da una parte sembrerebbe compiere un processo di acculturazione al contrario, in quanto è un uomo del posto che impara la cultura degli immigrati. Viene da chiedersi però se dietro la sua figura non si nasconda

popolazione. Stesso carattere di ambiguità ce l’ha Eleonora, la quale per quanto sembri appassionata al suo lavoro, in realtà racconta a Kawaku che ha iniziato a farlo perché non aveva altri incarichi.

Durante una delle sue lezioni viene fuori un ambito di acculturazione importante: il tempo.

Isidoro racconta che in Africa il tempo è più “umano”, poiché semplicemente diviso in mattina, pomeriggio e sera. Non ci sono invece le ore, i minuti e i secondi.

Kawaku però fa notare che questa concezione del tempo è antica, è un “tempo del medioevo”, come dice nel film. È un tempo che si è fermato secoli fa. Peñaloza (1994) fa presente questo concetto nel suo studio sui messicani negli Stati Uniti. Essi percepivano infatti una vita più frenetica, dove si deve stare sempre a guardare l’orologio.

Per quanto riguarda Io sono li il discorso è più complesso.

Lei considera l’Italia come una grande opportunità ed infatti vuole che il figlio la raggiunga. È anche contenta del fatto che lui voglia imparare l’italiano. Però non la si vede mai compiere dei consumi caratterizzati come italiani. In effetti non la si vede nemmeno compiere consumi più legati alla tradizione cinese. Non la si vede mai mangiare o fare acquisti. L’unico suo consumo visibile sono i mezzi di trasporto di cui si è già discusso in precedenza.

Da una parte questo perché Shun Li lavora al bar tutti i giorni senza mai fare pause. Ad un certo punto chiederà un pomeriggio al suo capo per poter prendere un regalo al figlio per il suo compleanno, ma gli sarà negato. Solo più avanti avrà un unico giorno di ferie in cui andrà al mare. Li dunque non ha il tempo materiale di fare acquisti.

Per quanto riguarda il cibo, sebbene niente venga mostrato, si suppone che sia di tipo cinese dato che vive con altre persone cinesi.

Sembrerebbe dunque che sebbene Li vorrebbe compiere il processo di acculturazione ed avvicinarsi alla cultura di consumo italiana, in realtà è costretta dalla sua organizzazione e dalla concezione della donna in Cina, a perpetuare le abitudini di consumo cinesi. Vive in una comunità segregata se si vuole, come i messicani intervistati da Peñaloza (1994), però questo non esattamente per una sua scelta.

Si può notare, a proposito di questo, una differenza importante tra Vesna ed Irina, da un lato, e Kawaku e Li, dall’altro. Mentre per le prime due non esiste una comunità di persone provenienti dal loro stesso paese, per Li e per Kawaku sì, e sono comunità

piuttosto solide e numerose, che permettono ai protagonisti di portare avanti i loro consumi tradizionali e dalle quali possono trarre aiuto e supporto.

La discriminazione

Un ulteriore elemento presente in tutti i film è quello della discriminazione.

In Vesna va veloce si tratta soprattutto dello stereotipo della dona dell’est che si prostituisce. Il primo uomo italiano che Vesna incontra e che la invita a dormire da lui ha subito dei modi che fanno capire il suo secondo fine (per esempio la segue nel bagno delle donne e la aiuta ad asciugarsi le mani).

Nel momento in cui prova a baciarla e Vesna chiede dei soldi lui non è per niente meravigliato, è come se se l’aspettasse.

Anche il camionista che dà il passaggio a Vesna alla fine le chiede in cambio del sesso. È come se dal suo arrivo in Italia la protagonista fosse già considerata una prostituta, soltanto per il fatto di essere bella e dell’Est-Europa. Il fatto che già tutti la considerino così le rende più facile il decidere come procurarsi i soldi: prostituirsi.

Quando va a mangiare al ristorante e non ha soldi per pagare viene trattata in malo modo e cacciata via. Ma lei non sapeva come altro fare e dice al ristoratore che lo ripagherà, lui la caccia lo stesso. La vergogna che prova in quel momento la fa sentire così male che bussa al primo taxi che trova e chiede all’autista se vuole fare sesso con lei per 100 mila lire. L’autista acconsente e così inizia la sua “carriera”.

È stata dunque una decisione di impulso, non ragionata. Aveva bisogno di soldi, aveva deciso che non le sarebbe mai più capitata una cosa come quella che era successa poco prima al ristorante e così ha pensato al lavoro che già le era stato offerto due volte da quando era in Italia. Come se le fosse stato suggerito da coloro che l’avevano ritenuta una prostituta pur non essendolo.

Si è adattata allo stereotipo che già le era stato cucito addosso.

Altri stranieri sono presenti nel film oltre a Vesna: i colleghi di Antonio. Quando Vesna sarà ferita ma non potrà andare all’ospedale sarà uno di questi a curarla, probabilmente un ragazzo che ha una storia simile a Kawaku: si è laureato in medicina nel suo paese ma in Italia il suo titolo di studio non è riconosciuto.

In Pummarò la discriminazione per le persone di colore si sente forte e chiara e assume toni molto duri.

Nelle prime scene si vede subito dal dialogo di Pummarò con il suo capo.

Giobbe: Giobbe Kwalaturé. Bambino sull’albero: Pummarò.

Capo: (sussurra) Pummarò? (a voce alta) Quante cassette? Giobbe: 40.

Capo: 40.000 lire.

Giobbe: No. Agli altri hai dato 1.200 a cassetta e a me no. Perché?

Capo: Non ho sentito bene che hai chiesto? Perché? E da quando i negri chiedono perché?

Giobbe: Si uomo bianco: perché?

Capo: Ah non lo sai? E te lo dico io il perché…

(tira fuori una pistola)

(Pummarò, M. Placido, Italia 1990)

È a questo punto che Giobbe (alias Pummarò) si ribella e ruba il camion, cosa che lo obbligherà a scappare dal casertano. Il suo atteggiamento sembra ribelle e lo è, ma è una ribellione giustificata se si vuole.

Egli percepiva un compenso inferiore a tutti gli altri senza un motivo ed un uomo stava lì davanti a lui a dirgli che apparteneva ad una razza troppo inferiore per poter chiedere spiegazioni. Infondo Pummarò non chiedeva niente di più di quello che gli spettava: la sua giusta paga ed un po’ di rispetto in quanto essere umano.

Ma nel casertano la discriminazione verso le persone di colore era una cosa normale. Quando Kawaku arriva trova una fontanella dell’acqua e prova a bere, ma non esce niente. Il Professò allora gli dice che le chiudono apposta perché non vogliono che loro (i negri) si lavino.

Più avanti sempre il Professò racconterà a Kawaku di un ragazzo di colore che conosceva. Questi andava a letto con una del posto e per quel motivo l’hanno ucciso investendolo con un camion.

Quando Kawaku arriva a Roma non trova una situazione molto migliore. Su un muro si legge la scritta fatta con le bombolette “l’eroina: lasciamola ai negri”.

Verona invece sembra più tollerante sotto questo punto di vista. Kawaku lavora in una fonderia dove ha una tuta da lavoro, degli occhiali e una mascherina protettiva. C’è persino la mensa.

Ci sono le lezioni serali dove non c’è la semplice volontà di insegnare alle persone di colore la cultura e la lingua italiana, ma piuttosto viene operato un vero e proprio