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La Giustizia degli eroi del Male La figura letteraria del bandito nel Romanticismo

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Academic year: 2021

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Introduzione

Questo saggio si propone di analizzare il paradigma del “bandito sociale” in particolare all'interno della letteratura del diciannovesimo secolo. La formula “bandito sociale” venne definita per la prima volta dallo storico inglese Eric John Ernest Hobsbawm che estrapolò tale modello dalla letteratura dei subalterni. In essa proliferavano capi carismatici ed eroi del popolo, affini nella loro rappresentazione alla figura mitica di Robin Hood. Questo eroe, tra reale e mitico, si diffuse nelle leggende inglesi a partire dalla metà del '300 ed ebbe la sua rappresentazione definitiva di ladro gentiluomo solo dal 1800, come è ben evidente nell'opera Ivanhoe di Scott, poi ripresa nel romanzo postumo di Dumas. In Ivanhoe i banditi vengono definiti così:

«Gli allegri abitanti della foresta compensano la costruzione di una capanna con l'incendio di un castello, la copertura di un coro con la razzia di una chiesa, la liberazione di un prigioniero con l'uccisione di un orgoglioso sceriffo […]. Sono ladri gentili, tutto sommato, e rapinatori cortesi; ma è sempre meglio incontrarli quando si sono comportati peggio».1

L'obiettivo di questo elaborato è quello di cercare di spiegare le cause che hanno condotto alla diffusione di banditi, di proscritti e di masnadieri all'interno della letteratura romantica. Risulta evidente che si ebbe una rivalutazione di queste figure, precedentemente poste esclusivamente sotto il segno del male, dell'oscuro, del peccato, ed è necessario comprendere a quali bisogni risponda questo processo. Non ci possiamo dimenticare, infatti, che, pur divenendo eroi del popolo, la grandezza di questi personaggi sta nella dimensione del negativo, poiché compiono azioni contro la società, contro la religione e contro la morale. L'esaltazione di queste figure corrisponde dunque ad un più generale mutamento che avviene in quest'epoca nella considerazione del male e del peccato e che prese le mosse dalla

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rappresentazione del Demonio del poeta inglese Milton nel Paradiso Perduto (1667). Milton esalta nella descrizione di Satana quello splendore primigenio che lo spinge a lottare con tutto se stesso al fine di creare un regno libero dalle leggi imposte da Dio. È possibile accogliere l'idea di Mario Praz di una discendenza delle figure di banditi dal Satana miltonico: ho cercato di verificare e approfondire questa teoria attraverso la descrizione e l'analisi di alcune opere ottocentesche in cui la raffigurazione di questi eroi del male si ripropone in modo particolarmente uniforme, derivando dal demonio di Milton.

Il tema è stato scelto proprio per il largo spazio che occupa all'interno del panorama letterario, sebbene non abbia mai avuto una trattazione unitaria. La vastità dell'argomento coinvolge oltre al piano letterario anche quello storico e sociale, perciò è di difficile realizzazione uno studio che includa approfonditamente tutti questi ambiti ma resta possibile metterli in relazione, cercando i significati e i legami tra di essi. I testi esaminati in questa sede, chiaramente, costituiscono solo alcuni esempi e non intendono coprire tutte le possibili sfaccettature dell'oggetto di studio, bensì fornire un quadro generale e limitato di esso. Essi appartengono al secolo diciannovesimo sebbene le due opere che costituiscono gli estremi cronologici del lavoro fuoriescono da tale arco temporale: I masnadieri di Schiller, rappresentata a Mannheim nel 1782, e il romanzo di Giuseppe Berto, Il brigante, pubblicato nel 1951. Nella scelta delle opere mi sono mossa all'interno di un panorama europeo che coinvolge Germania, Francia e Italia, poiché le ho ritenute più significative, essendo i luoghi in cui si sviluppa il movimento romantico che dà tanta importanza a questi eroi del male.

Questa ricerca intende seguire un percorso che si snoda sia su un piano descrittivo che analitico: da una parte, ho riportato esempi di eroi maledetti, evidenziandone le affinità, dall'altra, ho cercato di analizzarle e spiegarle facendo riferimento alla realtà sociale e storica dell'epoca. Ho intrapreso una strada che, oltre a dimostrare la discendenza del bandito dal

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Satana di Milton, raffrontasse anche l'immagine che del primo è tramandata dalla letteratura con il reale fenomeno storico, prendendo in considerazione lo specifico caso del brigantaggio italiano. Questo confronto ha permesso di evidenziare le divergenze tra le due dimensioni, reale e letteraria, mettendo in luce l'idealizzazione di cui hanno potuto godere i banditi nella tradizione delle classi popolari meno abbienti. È sorta, dunque, la necessità di comprendere il significato di tale idealizzazione sul piano sociale e culturale e di legare il modello ideale del bandito al clima che si respirava in Europa nell'Ottocento. In quest'epoca emerge una forte istanza di libertà, di ribellione, di cambiamento, accompagnata, d'altra parte, da delusioni e disillusioni, che s'intravedono nei testi esaminati.

In conclusione, questo elaborato vuole far riflettere sulla figura ideale del bandito mettendo in relazione il piano storico, quello sociale e quello letterario, attraverso l'analisi di alcuni testi cardine della letteratura del secolo diciannovesimo.

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1. Il bandito, nipote del Satana di Milton

1.1 Tra la Gerusalemme liberata e il Paradiso perduto

Alla fine del Settecento la letteratura si riempie di figure di banditi, di fuorilegge, di briganti che divengono gli eroi della gente comune, essendo l'espressione di un sogno popolare di rivolta contro una società iniqua. L'archetipo di tale eroe può essere considerato lo splendido angelo caduto dal Paradiso, Satana.

Il capo dei banditi Karl Moor de I masnadieri2 di Friedrich Schiller (rappresentata per

la prima volta nel 1782 al teatro di Mannheim) è raffigurato, seguendo le orme dello studioso Mario Praz3, come un angelo caduto, allo stesso modo del Principe dell'Inferno del poeta

inglese John Milton. Karl, in una scena poi soppressa, fa direttamente riferimento all'opera di Milton, confermando l'affinità con Satana.

«Io non so, Maurizio, se tu abbia letto Milton. Colui che non poté soffrire che altri gli fosse al di sopra, e che osò sfidare a duello l'Onnipotente, non era egli un genio straordinario? Aveva affrontato l'Invincibile, e per quanto soccombendo egli esaurisse tutte le sue forze, non è umiliato; eternamente fino ad oggi egli fa nuovi sforzi, e tutti i colpi ricadono sul suo capo, eppure non è umiliato...Una testa intelligente che trascura i doveri meschini per uno scopo più elevato, sarà eternamente infelice, mentre il briccone che ha tradito l'amico e preso la fuga davanti al nemico sale al Cielo grazie a un sospiretto opportuno. Chi non vorrebbe arrostire nel forno di Belial con Borgia e Catilina, piuttosto che sedersi lassù alla tavola di quel volgare asino? È costui al cui nome le nostre donnacole si fanno il segno della croce.»4

Karl Moor è poi paragonato da un frate a “quel primo scellerato capobanda che ha acceso il fuoco della ribellione in seno alle mille mille legioni di angeli innocenti e le ha tratte giù con sé nel baratro dei dannati”5;

infine, la donna amata, Amalia, gli si getta al collo, gridando: «Assassino! demonio!...Angelo, non 2 Schiller Friedrich, I masnadieri (tit.or. Die Räuber, 1782 ), trad. it. a c. di Liliana Scalero, Rizzoli, Milano

1966

3 Praz Mario (Roma, 1896- Ivi, 1982) è stato anglista e ha fondato la disciplina universitaria di letteratura inglese in Italia. Con La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica(1930), ha stabilito i canoni dell'estetica decadentista

4 Praz Mario, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), Sansoni, Firenze 1976, p.60 5 Schiller, I masnadieri, cit., p. 81

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posso lasciarti!»6; e Karl esclama: «Vedi, i figli della luce piangono abbracciati ai demoni che piangono»7,

precipitando così nella disperazione e subendo una scissione interna che lo induce al ritorno nel mondo della morale e della virtù.

La rappresentazione di Milton del Demonio è innovativa poiché non descrive un mero mostro produttore di malvagità nel mondo, bensì pone l'accento sullo splendore originario, sulla luce divina di cui rifulgeva prima della caduta nell'Inferno. La novità di questo ritratto del Demonio sarà molto più evidente se prima si analizza quella che ci offre Tasso nella Gerusalemme liberata8 (1581). Tasso, infatti, descrive Satana come il creatore di ogni male,

capace solo di provare sentimenti di odio e di vendetta nei confronti di Dio e dei cristiani.

«Mentre son questi a le bell'opre intenti, perchè debbiano tosto in uso porse, il gran nemico de l'umane genti contra i cristiani i lividi occhi torse; e scorgendogli omai lieti e contenti, ambo le labra per furor si morse, e qual tauro ferito il suo dolore

versò mugghiando e sospirando fuore.»9 (IV, vv. 1-8)

Le vittorie dei cristiani generano profondo dolore nel Principe dell'Inferno che non vuole che il Bene trionfi, così che sorge in lui il desiderio di «recar ne' cristiani ultima doglia»10. Il

Demonio richiama a sé gli dei dell'abisso e dà inizio al concilio infernale. Segue il suo ritratto:

«Orrida maestà nel fero aspetto 6 Ibid., p. 154

7 Ibid., p. 155

8 Tasso Torquato, Gerusalemme Liberata (1581), a c. di Giorgio Carboni Baiardi, Franco Cosimo Panini, Modena 1991

9 Ibid., p. 123 10 Ivi.

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terrore accresce, e più superbo il rende: rosseggian gli occhi, e di veneno infetto come infausta cometa il guardo splende, gl'involve il mento e su l'irsuto petto ispida e folta la gran barba scende, e in guisa di voragine profonda s'apre la bocca d'atro sangue immonda. Qual i fumi sulfurei ed infiammati escon da Mongibello e 'l puzzo e 'l tuono, tal de la fera bocca i negri fiati,

tale il fetore e le faville sono. »11(IV, vv. 49-60)

Tasso evidenzia l'aspetto orrido e la forza fisica che trasmettono la rabbia e la volontà di compiere il male. Allo stesso tempo, il poeta, pur accentuando la negatività di questi fattori, allude allo splendore primigenio che ha trovato la sua più alta espressione nel Male, tanto che la sua maestà incute terrore e lo splendore degli occhi è portatore di sventura. L'infausto fato che Satana si propone di arrecare agli uomini, con la volontà di vendicarsi di Dio, viene giustificato nell'invocazione ai suoi compagni:

«Tartarei numi, di seder più degni là sovra il sole, ond'è l'origin vostra, che meco già da i più felici regni

spinse il gran caso in questa orribil chiostra».12 (IV, vv.65-68)

Il Demonio stesso sottolinea il contrasto tra “l'abisso oscuro” in cui sono confinati i ribelli e il “dì sereno e puro/ dell'aureo sol degli stellati giri”13 (IV, vv. 81-82), quasi con nostalgia per quella

gloria ormai passata. Tasso, però, non approfondisce la psicologia del Demonio, non trattando

11 Ibid., p. 125 12 Ibid., p. 125 13 Ivi.

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né il dolore dovuto alla caduta, né i rimorsi per quel primo atto di ribellione. Il demonio, al contrario, ricorda la sfida fatta a Dio con orgoglio e la ritiene il frutto della «virtù di un gran pensiero»14(IV, v. 126).

Queste poche nozioni mettono in luce che il Tasso, nella descrizione del Demonio, si sofferma sulla sua volontà di compiere il male per vendicarsi dell'oltraggio subito da Dio, senza scandagliarne l'interiorità e portare a galla le contraddizioni e le ambiguità interne. È sul Demonio messo in scena dal poeta inglese John Milton (Londra, 1608- ivi, 1674) nel Paradiso perduto15 (la prima edizione in 10 volumi è del 1667) che è ora necessario

avvicinare la lente d'ingrandimento [fig.2].

Fin dalla sua prima comparsa egli ci appare un angelo caduto che dimora «in catene di adamante, nel fuoco della pena»16(I, v.48).

«Ma il destino altra pena doveva riservargli; il pensiero della felicità perduta e insieme del dolore interminabile ancora lo tormenta, e così getta attorno i suoi sguardi funesti, che testimoniano immensa afflizione, e sgomento

commisto a odio tenace, a inflessibile orgoglio. Per quanto è dato agli angeli distendere lo sguardo, egli subito osserva quell'aspro e pauroso e desolato luogo, quella prigione orribile e attorno fiammeggiante (I, vv.53-62) […]

Quanto diverso dal luogo da cui erano caduti!(I,v.73)»

E Belzebù gli si rivolge con queste parole:

«Oh, sei tu forse...ahimé, come caduto! Come diverso da colui che nei regni felici della luce

14 Ibid., p. 127

15 Milton John, Paradiso perduto, (tit. or. Paradise Lost, 1667) , trad. a c. di Roberto Sanesi, Mondadori, Milano 1999

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ravvolto di splendore trascendente superava perfino le più fulgide miriadi..»17(I,vv.84-87)

Ma poco dopo Satana, dimostrando un animo forte e proteso al male, risponde:

«Cherubino caduto, essere deboli è certo miserevole, sia che si offenda, sia che si subisca: ma una cosa è certa, non sarà mai nostro compito quello di fare il bene, piuttosto nostro piacere unico sarà di fare il male,

essendo ciò contrario all'alta volontà di Colui al quale ci opponiamo...»18(I, vv. 157-162)

Lucifero ci appare affranto per la perdita della felicità del Paradiso Celeste ma nella sua figura restano le tracce dello splendore primordiale nonostante la rovinosa caduta. L'eterna condanna con cui Dio l'ha punito non basta a fermare la sua volontà di compiere il male, bensì essa è incrementata dall'impulso della vendetta.

La forza morale si accompagna ad una grande possanza fisica:

«Così parlando Satana al compagno più intimo teneva il capo eretto al di sopra dell'onda, e gli occhi sfavillanti avvampavano, e il resto delle membra si estendeva prono sulla marea fluttuando, il corpo lungo e ampio per molti iugeri, solido ed imponente come quelli

citati dalle favole per tali mostruose dimensioni..»19(I, vv.192-197)

Satana, grazie alla sua grandezza mentale e fisica, riesce ad abbandonare il pensiero del mondo paradisiaco e si rende conto che ciò che realmente importa è «essere se stessi», nonostante l'esilio nell'Inferno. Egli realizza che l'Inferno potrà divenire il luogo della rinascita, il suo nuovo Regno, essendo ideale perché libero dalle leggi e dal governo di Dio.

17 Ibid., p. 15 18 Ibid., p. 15 19 Ibid., p. 17

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«Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto a lui che il tuono ha reso il più potente? Qui almeno saremo liberi; poiché l'Altissimo non ha edificato questo luogo per poi dovercelo anche invidiare,

non ne saremo cacciati: vi regneremo sicuri, e a mio giudizio regnare è una degna ambizione, anche sopra l'Inferno:

meglio regnare all'Inferno che servire in cielo.»20 (I, vv.254-261)

Belzebù a questo punto lo incita a richiamare a sé i suoi uomini e ad infondere loro coraggio, così come aveva già fatto molte volte nei momenti di scoraggiamento, poiché la sua voce è «l'unico pegno della speranza»21(I, vv.274-275) di tutti i demoni ribelli. Il Principe delle

tenebre incita così i suoi compagni che si rialzano e reagiscono alla voce del loro generale: questa scena mostra come egli sia un capo banda onorevole, dal grande carisma e dotato di una elevata eloquenza. Gli angeli ribelli, infatti, si schierano davanti al loro capo come un esercito ben organizzato che è passato in rassegna dall'occhio esperto del proprio comandante. La banda dei demoni, lungi dall'essere disorganizzata e senza regole, è ben ordinata e razionale, sottoposta ad un capo verso cui ha piena fiducia.

Lucifero si prepara così al discorso:

«[…] Egli che sopra a tutti

si impone per figura e portamento si ergeva

fermo come una torre; pur non avendo il suo aspetto perduto ancora la luce originaria, appariva

non di meno un Arcangelo caduto, anche se solo in parte il suo antico splendore era offuscato...(I, vv. 589-594) […]

Pur così ottenebrato l'Arcangelo splendeva sopra gli altri; e tuttavia sul viso profonde cicatrici gli avevano

20 Ibid., p.19 21 Ibid., p.21

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scavato i fulmini, e sulla guancia pallida posava grave la pena; ma sotto il ciglio l'indomito valore e il meditato orgoglio cercavano vendetta. Crudele, l'occhio osservava comunque con segni di passione e di rimorso

i compagni del crimine, o meglio i suoi seguaci (oh quanto diversamente felici in altro tempo!) condannati ora

per sempre a un penoso destino, milioni di Spiriti strappati al cielo per quella sua colpa, gettati lontano dagli eterni splendori per la sua rivolta, ma ancora

profondamente fedeli, malgrado spogliati di gloria (I, vv.599-612) […]

… Tre volte

provò a parlare, e tre volte le lacrime sgorgarono malgrado la vergogna, al modo che gli angeli piangono;

e infine le parole intrecciate ai sospiri trovarono un varco22.» (I, vv. 619-621)

Il Principe degli Inferi è segnato nel fisico e nella mente dalla precedente ribellione a Dio e ha rimorsi verso i suoi fratelli, verso i suoi compagni di sciagura. Egli piange per loro perché prova anche sentimenti positivi come la compassione e l'amore per le vite dei suoi compagni: il Satana di Milton non è un rappresentante del mondo del male “piatto” e stereotipato, bensì ha una coscienza e impulsi di bontà che non riesce a dimostrare per mezzo di atti concreti. Milton con la figura di Satana rappresenta il male in tutta la sua ambiguità tanto che in lui non vediamo più il Demonio bensì un uomo con tutti i suoi dubbi, le sue incertezze, gli impulsi al bene come quelli al male. Satana, ad esempio, si dimostra un buon sovrano e governa il suo regno seguendo i principi d'uguaglianza e libertà: durante il concilio nel Pandemonium, il campidoglio dei demoni, ognuno è chiamato ad esprimere liberamente la propria opinione e il proprio giudizio sulla miglior vendetta contro Dio.

Il viaggio verso il Nuovo Mondo di Lucifero è caratterizzato da molti dubbi, da

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passioni e sentimenti contrastanti, che attanagliano il suo Io, fino a che non si riconferma nella volontà del male.

«Perchè Satana, ora, acceso di nuovo di rabbia, il tentatore piuttosto che l'accusatore dell'umanità, stava scendendo a sfogare sul fragile uomo innocente la sua prima sconfitta in battaglia, l'esito infernale;

e però nel suo rapido volo, per quanto orgoglioso, a distanza e senza alcun timore, non trova motivo di gioia,

nessuna ragione di vanto, dà inizio all'impresa malvagia, che già vicina ad attuarsi gli turbina e bolle nel petto tumultuoso, e al pari d'una macchia diabolica gli si ritorce contro; il dubbio e l'orrore sconvolgono i suoi pensieri turbati, e dal profondo in lui

si agita l'inferno, ché egli si porta l'inferno dentro di sé ed attorno, e non si può staccare dall'inferno o da sé di un solo passo, fuggire

mutando luogo. La coscienza risveglia la disperazione fino allora assopita, risveglia l'amara memoria di ciò che fu, che è, che dovrà essere

anche peggiore di questo, se azioni peggiori inducono peggiori sofferenze...»23 (IV, vv. 9-26)

Satana si rende conto che l'orgoglio e il bisogno di dominare lo spinsero a guerreggiare contro il Re del Cielo che è senza rivali: Dio non meritava tale sfida, tuttavia il suo bene infinito si tramutò in lui in male. Lucifero pensa persino di sottomettersi e pentirsi ma si rende conto che non sarebbe onorevole nei confronti dei suoi compagni e che con il ritorno allo stato felice riaffiorerebbero in lui le stesse ambizioni. L'unica scelta che rimane al Principe dei demoni è quella della vendetta contro l'Altissimo e il proseguimento nel cammino della crudeltà.

«...E se per me tutto il bene è perduto, 23 Ibid., p. 151

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male sii tu il mio bene; se non altro,

grazie a te questo impero diviso posso reggerlo insieme al Re del cielo, e governarlo forse per più della metà...»24 (IV, vv. 109-112)

Nel Paradiso terrestre, alla vista della coppia gentile, l'anima del demonio vacilla nuovamente tanto che, consapevole della loro innocenza, prova amore e compassione. Egli, però, rimane risoluto a compiere la sua vendetta ai danni del Signore poiché l'odio si manifesta a tal punto in lui da dissolvere il sentimento di pena per gli uomini innocenti; Satana non ha ricevuto da Dio compassione per gli errori compiuti e, a sua volta, non vuole cedere al bene nei confronti degli uomini. Infine conclude:

«E se anche la vostra indifesa innocenza

dovesse intenerirmi, come infatti accade, la giusta ragione dello stato, onore e impero che per la vendetta saranno ampliati acquistando questo nuovo mondo, mi impone di compiere un atto che sebbene dannato aborrirei.»25 (IV, vv.388-392)

È evidente che nell'interiorità del Demonio si attui un conflitto tra ragione e sentimenti che si risolve in favore della prima: egli segue sempre la ferrea ragione per portare avanti il suo piano senza cedere mai alle emozioni. Lucifero vuole creare il suo Regno del male e questo progetto non lascia spazio alle passioni ma solo ad una logica cinica e crudele. La razionalità e la conoscenza sono i principi su cui Satana tenta di fondare il suo agire tanto che quando scopre l'esistenza dell'Albero della conoscenza proibita, il gusto dei cui frutti deve rimanere oscuro alla prima coppia, esclama:

24 Ibid., p. 157 25 Ibid., pp. 172-173

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«...La Conoscenza proibita? Una cosa sospetta, irragionevole. Perchè il loro Signore

glie la dovrebbe invidiare? Conoscere può essere un peccato? Può essere morte? E se li regge solo l'ignoranza, è questo il loro stato felice, prova dell'obbedienza e della fede? Splendido fondamento sul quale costruire la rovina! E quindi ecciterò la loro mente con un'ansia ancora più forte di conoscere, in modo che essi possano respingere gli invidiosi comandi, inventati allo scopo di tenere in basso chi potrebbe esaltarsi della conoscenza, fino

a credersi uguali agli dei...»26 (IV, vv.515-526)

Il Demonio nel compimento del suo piano ricorre a diverse metamorfosi: egli inganna l'Arcangelo Uriele con il suo mutamento in cherubino; entra, per la prima volta, nel Paradiso terrestre e lo osserva dall'Albero della Vita sotto forma di cormorano, mentre la seconda vi riaccede in forma di nebbia; cambia sembianze per esplorarlo fino a divenire serpente per ingannare Eva. Le trasformazioni sono il simbolo della sua imprendibilità e della capacità del male di annidarsi in ogni elemento o creatura.

Quando verrà scoperto e dovrà dare una spiegazione all'Arcangelo Gabriele delle sue azioni, affermerà che esse sono motivate dalla necessità di mutare il dolore e la condizione miserabile che affliggono lui e i suoi commilitoni:

«....Può esserci

veramente qualcuno che ami il suo dolore?

Chi non vorrebbe, trovandone il modo, fuggire dall'inferno, anche se là dannato eternamente?»27. (IV, vv.888-890)

Satana, dunque, è presentato come un ribelle che si oppone al Regno di Dio, vuole un Regno

26 Ibid., p. 179 27 Ibid., p. 199

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migliore per sé e i suoi, pur dovendo compiere azioni crudeli.

«Ribelli in grande stile, nipoti del Satana di Milton e fratelli del Masnadiere dello Schiller cominciano a popolare gli sfondi pittoreschi dei romanzi terrifici inglesi verso la fine del Settecento»28 e si diffonderanno

in molta della letteratura che arriva fino ai giorni nostri. Satana rappresenta l'opposizione al governo di Dio, così come il bandito, il fuorilegge e il ribelle sono l'espressione di quella allo Stato: il bandito simboleggia la sfiducia della gente comune nei confronti delle autorità sociali a partire dal Romanticismo.

Nonostante la prima ribellione di Satana non sia mossa da motivazioni oggettive e da vere e proprie ingiustizie subite da parte di Dio, egli comunque ha molte delle qualità che verranno poi attribuite al bandito. Entrambi sono presentati come eroi che combattono contro le leggi che sono state loro imposte, sono capi di grande forza fisica e dotati di un carisma tale da sollevare la banda anche nelle situazioni di maggiore scoraggiamento. I banditi fanno parte di uno mondo deviato e lontano rispetto alla società, sebbene sia le loro bande che il regno di Satana abbiano una propria organizzazione, una gerarchia interna e un sistema di regole che provengono da essa. Sia la figura del bandito che quella di Lucifero sono rappresentate con i loro conflitti interiori, i rimorsi della coscienza per le crudeltà compiute o che si preparano a compiere. Entrambi cercano vendetta e vestono i panni del giustiziere con il sogno di ritornare a una condizione di felicità sebbene la loro stessa istanza di giustizia può condurre ad altre azioni crudeli e inique contro innocenti.

Se Satana si vendica sugli uomini per riscattare sé e i suoi dalla caduta nella prigione infernale, il bandito invece sceglie di diventare tale perché non riesce a sottomettersi alla condizione di miseria in cui vive e alla società che distribuisce ricchezze in modo iniquo. Per queste ragioni il bandito con le sue avventure rappresenta per il popolo il simbolo del suo

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riscatto.

Con la rappresentazione di Satana di Milton si approfondisce il mondo del male e si inizia a comprenderne le ragioni: anche colui che è il principio di ogni peccato in realtà possiede sentimenti, amore per i compagni, rimorsi e coscienza. Questa istanza eroica che si lega al mondo del male a partire dall'epoca romantica è ben evidente in ogni opera artistica ed un esempio di notevole interesse ci è offerto dall'illustrazione del francese Gustave Doré (1832-1868) dell'Inferno della Divina Commedia di Dante [fig. 1]. Il Sommo Poeta, al canto XXIV, descrive «lo 'mperador del doloroso regno» (XXIV,28), per la possanza fisica smisurata e

l'aspetto orrido delle sue tre facce, per poi porre l'accento proprio sulla rovinosa caduta, affermando:

«S'el fu sì bel com'elli è ora brutto, e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,

ben dee da lui proceder ogni lutto» (vv.34-36)

Nella sua descrizione, Dante non allude mai ai rimorsi o allo splendore primigenio di Lucifero e nessuna istanza eroica viene legata al principio di ogni dolore, ma nell'illustrazione di Doré, nonostante le forme mostruose, traspare un atteggiamento malinconico di influenza romantica. La posa del Demone, con il mento appoggiato sulle mani, e lo sguardo rivolto verso il basso, in un atteggiamento pensieroso, ha molto in comune con quelle malinconiche di molti eroi del male romantici, scissi tra bene e male. È dunque evidente come anche la rappresentazione classica di Dante venga influenzata dai nuovi valori che si associano al mondo del male in questa particolare epoca.

Per concludere, non è errato dire che il Romanticismo porta a maturazione il processo di riabilitazione dell'universo del Male tanto che il fuorilegge, il nipote di Satana,

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entra nel mondo popolare sotto un segno positivo e diviene il campione della gente comune.

1.2 Il fascino di Satana e dei banditi: la ribellione al mondo

La fortuna che avrà la figura del diavolo a partire dalla fine del Settecento proviene dal fatto che diviene un simbolo con cui i romantici potevano esprimere le loro tendenze, le loro aspirazioni e i loro problemi. A capo della riabilitazione della figura del demonio, che era stato bandito dalla letteratura nel Medioevo, deve essere messo proprio Milton che gli attribuisce un'immagine molto diversa da quella mostruosa dei secoli precedenti. Lo scrittore Max Milner nota con grande acume in Satana e il Romanticismo29:

« Il Satana del Paradiso perduto non aveva una bellezza classica [...]ma c'era nel suo corpo annerito, zebrato di cicatrici, e nel suo animo altero una sorta di grandezza folgorata, che lasciava trasparire al contempo le sue splendide origini e il suo tragico destino. Dal momento in cui il Satana di Milton è riabilitato, molti scrittori romantici rappresentano a sua immagine sia il diavolo, sia eroi maledetti più o meno copiati da questo modello infernale»30.

La bellezza di Satana consiste proprio in questo connubio di rivolta e infelicità, di malinconia e di aspirazione ad un mondo altro. Tale bellezza è segno però di qualcosa di più profondo: è l'ammirazione per i valori morali che con questa figura vengono celebrati. Con la figura di Satana trionfa il non essere, ciò che è impossibile o assurdo, dunque si attua una ribellione rispetto la concretezza del mondo, i limiti della società e tutto ciò che è consolidato.

«Ebbene, a partire dalla fine del XVIII secolo, la letteratura comincia a celebrare il non essere. Comincia a valorizzare non ciò che è, ma ciò che è al di là, ciò che possibile o impossibile, o assurdo. A un tratto il diavolo diventa un personaggio letterario, forse il personaggio letterario per eccellenza.»31

29 Milner Max, Satana e il Romanticismo (tit.or. Satan et le Romantisme, 2000), trad. di Lucia Vacchina, Bollati Boringhieri, Torino 2000

30 Ibid., p.12 31 Ibid., p. 17

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La forza della figura di Satana consiste proprio nella rivolta che esprime contro la società, la vita quotidiana, la noia dell'esistenza umana. Egli è il simbolo del bisogno dell'uomo di uscire dalla propria condizione di oppressione e di affermare il proprio Io nel mondo, indipendentemente e liberamente, senza il tormento della morale e della religione. Se la letteratura si riempie di figure di masnadieri, di banditi e di fuorilegge è perché essi sono l'espressione del tentativo di creare un paradiso in cui l'uomo possa vivere libero e possa essere pienamente padrone di sé.

Se queste figure cadono nel male, compiono azioni immorali e sono peccatori, ad ogni modo, attraverso i loro peccati, rivendicano la libertà dell'uomo sia rispetto la legge che rispetto a Dio. Con la figura del bandito si mette in scena la potenza dell'uomo, anche se in modo negativo e terribile, la forza del suo Io, che non vuole più sottomettersi alle catene sociali, alle umiliazioni e alla miseria.

«Ebbene, il peccato non sarà più per alcuni un traviamento penoso e odioso, ma l'affermazione stessa dell'indipendenza dell'uomo dalla legge morale, la rivendicazione della sua libertà di fronte a Dio, la manifestazione terribile ma grandiosa, della sua potenza»32.

Dopo aver compreso quelle che sono le ragioni per cui i caratteri del Satana di Milton ricorrono, riferiti a molte figure di criminali e di fuorilegge, in molta letteratura dal Romanticismo in poi, è necessario analizzare come essi si presentino nelle opere.

Ne Il brigante galantuomo33(1810) di Heinrich Von Kleist è messa in scena una

caduta dell'uomo nell'abisso del male che ha molte affinità con quella di Satana. L'opera

32 Ibid., p.23

33 Kleist Heinrich Von, Il brigante galantuomo (1810) in Il brigante galantuomo; La marchesa di O.;

Terremoto in Cile, (tit.or. Michael Kohlhaas, Die marquis von O., Das erdbeben in Chili), trad. a c. di Giovanna Federici Ajroldi e Bruno Maffi, Rizzoli, Milano 1952

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mostra come l'uomo più virtuoso può divenire una figura demoniaca nel momento in cui il suo senso della giustizia si scontra con una società iniqua, fino a che il desiderio di vendetta sorto dalle ingiustizie subite non liquida ogni virtù.

«Verso la metà del sedicesimo secolo viveva sulle rive di Havel un mercante di cavalli di nome Michele Kohlhaas, figlio di un maestro di scuola, uno degli uomini più giusti e insieme più terribili del suo tempo, uomo fuor dell'ordinario, che fino alla trentina avrebbe potuto essere citato come modello del buon cittadino. Possedeva, in un paese che porta ancora il suo nome, una fattoria la quale, grazie alla sua attività, bastava ad assicurargli un'esistenza tranquilla; educava nel timore di Dio, nell'amore al lavoro e nel rispetto alla parola data i figli che la moglie gli aveva donato; e non c'era nessuno tra i suoi vicini che non avesse avuto prove della sua generosità o del suo senso della giustizia. In breve: il mondo avrebbe dovuto benedire la sua memoria, se una delle sue virtù non gli avesse fatto perdere la testa; il senso della giustizia lo rese infatti brigante e assassino.»34

Il protagonista subisce una degradazione morale che ha come motore le ingiustizie subite all'interno della società: tale caduta è affine alla trasformazione di Lucifero da splendido angelo a principio di ogni male. Varie ingiustizie causate dal barone Vanceslao di Tronkeburg colpiranno l'esistenza di Kohlhaas e quella dell'amata moglie Elisabetta, che finirà col perdere la vita. La donna prima di morire indica al marito un versetto nella bibbia di un prete luterano, «Perdona ai tuoi nemici e benefica anche coloro che ti odiano»35 , ma Kohlhaas pensa «possa Dio perdonarmi come io perdono al barone Von Tronka»36.

Da questo momento in poi il desiderio di vendetta inizia a farsi sempre più forte, inducendolo a divenire un bandito a tutti gli effetti, accompagnato nelle sue avventure da un esercito personale. La smania di giustizia lo conduce a dar fuoco a Lipsia, dichiarandosi «vicario dell'arcangelo Michele, venuto a punire col fuoco e la spada,[...] la malvagità in cui il mondo intero era piombato»37. Kohlhaas crede di agire per conto di Dio, per ristabilire la giustizia nel mondo,

34 Ibid., p. 9 35 Ibid., p. 35 36 Ivi. 37 Ibid., p. 47

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fino a che non viene richiamato all'ordine da Martin Lutero in persona:

«Kohlhaas, tu che ti affermi inviato per impugnar la spada della giustizia, che cosa osi fare, o temerario, nella follia d'una cieca passione, tu che l'ingiustizia colma dalla testa ai piedi? Perché il signore al quale sei soggetto ti nega giustizia in una contesa intorno ad un nonnulla, tu, o sciagurato, ti ribelli usando fuoco o spada, e, come il lupo del deserto, piombi sulla pacifica comunità ch'egli regge? Tu che corrompi gli uomini con un'asserzione così menzognera e subdola, credi tu, o peccatore, di poter cavartela davanti a Dio, il giorno che si vedranno in piena luce tutti i meandri del cuore? Come puoi dire che ti è stata rifiutata giustizia, tu, il cui animo invaso dall'ira e solleticato da uno spregevole appetito di vendetta, dopo il fallimento dei primi superficiali tentativi hai completamente abbandonato ogni sforzo per ottenerla? E' forse il tuo sovrano una banca piena di censori e di sbirri che trattengono una lettera arrivata o una sentenza che devono consegnare? E tocca a me dirti, o empio, che il tuo sovrano non sa nulla del tuo caso? Ma che dico? Quegli stesso contro il quale ti sollevi ignora perfino il tuo nome, cosicché, se un giorno ti presenterai davanti al trono di Dio nel proposito di accusarlo, egli con volto sereno potrà dire: “A quest'uomo, Signore, io non ho mai fatto nulla di male; la mia anima ignora perfino la sua esistenza”. La spada che tu brandisci, sappilo, è la spada del saccheggio e dell'assassinio. Tu sei un ribelle e non un soldato del Dio giusto, e la tua mèta sulla terra sono la ruota e il capestro, e nell'al di là la dannazione che pende sui misfatti e sull'empietà.

Wittenberg, il... MARTIN LUTERO»38

Tra i due seguirà un colloquio in cui Martin Lutero rivolge accuse atroci a Kohlhaas che rifiuta di perdonare il barone Vanceslao di Tronkeburg.

«Eccellentissimo signore, - disse Kohlhass, arrossendo e prendendogli la mano:- Anche il Signore non ha perdonato a tutti i suoi nemici. Lasci dunque che perdoni all'elettore, ai miei signori, il castellano e il fattore, ai signori Enzo e Cunzio e a chiunque altro, in questa faccenda, possa avermi fatto del male, ma quanto al barone se è possibile lo obblighi a foraggiare i miei cavalli.»39

Per queste ragioni Lutero rifiuta di ascoltare le confessioni di Kohlhaas e di accordargli il sacrificio del sacramento, poiché l'incapacità di perdonare non gli permetterebbe di riconciliarsi con Dio e di ottenere la grazia per i propri peccati. L'uomo, infatti, porterà avanti la sua vendetta con ostinazione anche quando, grazie a circostanze fortuite, viene in possesso

38 Ibid., p. 49 39 Ibid., p. 55

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di una capsula con un biglietto il cui contenuto interessa a tal punto al principe di Sassonia da salvarlo dalla condanna a morte se l'avesse consegnata.

C'è in Kohlhaas un odio che travalica la fede in Dio, legandosi con una pulsione di morte che lo spinge verso la pena capitale ed ad abbandonare gli affetti familiari. Egli, infatti, poco prima di essere ghigliottinato, mangerà la capsula con il biglietto, infliggendo così una sconfitta ai suoi nemici e alle autorità che governano sugli uomini ma, allo stesso tempo, distruggendo la propria vita.

Un ulteriore esempio di caduta dalla virtù all'abisso del male, in seguito a un conflitto del personaggio con il mondo creato da Dio, si riscontra anche in un romanzo storico del 1838 di Alessandro Dumas che racconta la vita di Pasqual Bruno, celebre bandito siciliano, attorno a cui fiorirono molte leggende. In Pasqual Bruno o Il bandito di Val Demona40, il

fuorilegge si ribella contro le ingiustizie sociali e contro il Dio che ha creato il mondo in modo così parziale; il torto subito fa sì che il giovane venga preso da un desiderio di vendetta che porterà con sé fino alla morte.

«Nei paesi come l'Italia e la Spagna, in cui la cattiva organizzazione della società tende sempre a respingere al basso, e dove l'anima non ha vanni [ali] per sollevare il corpo, uno spirito elevato diventa una disgrazia per un'oscura nascita; siccome egli tende sempre ad uscire dalla cerchia politica ed intellettuale in cui la sorte l'ha racchiuso, siccome cammina incessantemente verso uno scopo da cui mille ostacoli lo separano, siccome vede sempre la luce, e non è destinato a raggiungerla, comincia collo sperare e finisce col maledire. Allora si rivolta contro quella società per la quale Dio ha fatto due parti sì cieche, una di felicità e l'altra di patimenti, e reagendo contro questa parzialità celeste, di propria autorità si crea il difensore del debole, il nemico del potente. Ecco perché il bandito spagnuolo ed italiano è insieme sì poetico e popolare. Qualche gran dolore lo ha gettato quasi sempre fuor della via; indi il suo pugnale e la sua carabina tendono a ristabilire l'equilibrio divino, falsato dalle umane istituzioni.»41

Gli uomini con spirito elevato e ingegno superiore sperano di trovare la felicità, la 40 Dumas Alessandro, Pasqual Bruno o il bandito di Val Demona (tit. or. Pascal Bruno, 1838), Fratelli

Ferrario, Milano s.d. 41 Ibid., p. 46

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giustizia ma, non riuscendovi, iniziano a maledire il mondo, la società, fino a farsi difensori dei più deboli e riparatori dei torti. Per queste ragioni, un uomo dal grande animo, come Pasqual Bruno «erasi, per così dire, creato il giustiziere della giustizia; in tutta la Sicilia, e specialmente in Bauso e suoi dintorni, non si commetteva atto arbitrario che sfuggisse al suo tribunale, e siccome i suoi decreti colpivano quasi sempre i forti, aveva per sé tutti i deboli»42.

Bruno è mosso da un' estrema volontà di vendicarsi contro la contessa Gemma che gli ha tolto la felicità, non permettendogli il matrimonio con l'amata Teresa. Egli, durante il colloquio con il prete, poco prima di essere giustiziato, rifiuterà anche la confessione, l'ultima possibilità di salvezza per il proprio spirito:

«Verso la sera del secondo giorno, un prete discese nel suo carcere; Pasquale si alzò vedendolo entrare, ma, contro ogni aspettativa, ricusò di confessarsi; l'uomo di Dio insistette, ma nulla potè indurre Pasquale a compiere quell'atto di religione. Il prete, vedendo di non poter vincere tale ostinazione, gliene chiese la causa.

- E' perchè non voglio fare un sacrilegio,rispose Bruno. – Ma come, figlio mio?

– La prima condizione d'una buona confessione non è ella forse non solo la confessione de' propri delitti, ma anche l'oblio dei delitti altrui?

– Certo; senza ciò non v'ha confessione perfetta.

– Ebbene, disse Bruno, io non ho perdonato; la mia confessione sarebbe dunque cattiva, ed io non voglio farla...

– Non sarebbe piuttosto, disse il prete, perché avreste delitti tanto enormi da confessare, che temete non oltrepassino il potere della remissione umana? Rassicuratevi: Dio è misericordioso, e v'ha sempre speranza laddove avvi pentimento.

– Eppure, padre, se, fra la vostra assoluzione e la morte, mi venisse un cattivo pensiero che non avessi la forza di vincere?

– Il frutto della vostra confessione sarebbe perduto.

– È dunque inutile confessarmi, perchè questo cattivo pensiero mi verrà. – Non potete scacciarlo dal vostro spirito?

Pasquale sorrise.

– È quello che mi fa vivere, padre mio; senza questo pensiero infernale, senza quest'ultima speranza di vendetta, credete voi che mi sarei lasciato trascinare in ispettacolo e ludibrio alla moltitudine? No, no, 42 Ibid., p. 47

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mi sarei già strozzato con questa catena. Vi era già deciso a Messina, e stava per farlo, quando giunse l'ordine di trasferirmi a Palermo. Argomentai ch' ella volesse vedermi morire.

– Chi? – Ella.

– Ma se morrete così impenitente, Dio sarà senza misericordia.

– Padre mio, anch'ella morirà impenitente, perchè morrà quando non ci penserà; anch'ella morirà senza prete e senza confessione; anch'ella troverà Dio senza misericordia al pari di me, e saremo dannati insieme.»43

In Pasqual Bruno è evidente un desiderio di vendetta che va oltre la morte e che è affine a quello di Satana: il Demonio, pur sapendo che le sue azioni avranno conseguenze peggiori e sentendo il desiderio di tornare indietro, di pentirsi, non lo fa, poiché è consapevole che il suo odio nei confronti dell'Altissimo lo ricondurrà alla ribellione. Sia Bruno che Satana scelgono di confermarsi nella volontà del male, sebbene entrambi vacillino nel momento in cui si confrontano con Dio:

«Gli parve che una influenza fatale, un caso capriccioso, una vittoriosa superiorità del male sul bene, avessero tratte nell'abisso tutte le cose della sua famiglia. Allora non comprese più nulla alle promesse di felicità che il cielo fa agli uomini; cercò invano nella sua vita un'apparizione di questa tanto decantata Provvidenza, e pensando che in quel supremo momento alcun che dell'eterno segreto gli sarebbe forse svelato, si precipitò con la fronte al suolo, scongiurando Iddio, con tutte le forze dell'anima, di svelargli la chiave del terribile enimma, di sollevar un lembo di quel misterioso velo, e mostrarsi a lui come un padre o come un tiranno. Tale speranza fu vana: tutto rimase muto, tranne la voce del suo cuore, che ripeteva cupamente: - Vendetta! Vendetta! Vendetta!-»44

Fino alla fine questo desiderio di ribellione verso una società ingiusta e indegna domina il bandito tanto che, nel momento dell'impiccagione, dopo che la corda con cui doveva morire si era strappata e il boia aveva tentato di ucciderlo pugnalandolo, egli si rialza e, sfilandosi il coltello trafitto nel fianco, si uccide da solo. Prima di suicidarsi emette un ultimo grido di

43 Ibid., pp. 108-109 44 Ibid., p. 111

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protesta verso una società che è indegna e inefficiente anche nelle condanne a morte:

«Miserabile!» gridò il bandito al boia; «non sei degno d'essere né carnefice, né bandito; non sai né appiccare, né assassinare.»45

La folla accoglie il grido di ingiustizia del bandito, così che alcuni fuggono, altri salgono sul patibolo e il carnefice “fu messo in pezzi dal popolo”46: il boia, infatti, è l'esecutore degli ordini

della società che si permette di comandare sulla vita e sulla morte delle persone.

Il tema della scissione interiore del protagonista che deve scegliere tra la religione e il male è presente anche in La badessa di Castro47 di Stendhal, pubblicato nel 1839. Il giovane

protagonista Giulio Branciforte è il figlio di un brigante al servizio dei Colonna ed è innamorato della ricca Elena Campireali: egli, disprezzato dal padre di lei per la sua povertà e per le sue origini, non riuscirà ad avere la mano della donna. Questo ostacolo e il forte amore muteranno il suo animo, fin da subito connotato come umile e di nobili sentimenti, in rabbioso e vendicativo per l'impossibilità di vivere al fianco della giovane amata. Giulio, dopo un colloquio particolarmente freddo con l'amata nel monastero di Castro, in cui la donna era stata inviata dal padre per porre fine alla relazione con lui, ha una profonda crisi interiore. L'animo del giovane oscilla tra una serenità proveniente dalla religione e dalla fede nella Madonna e la disperazione e l'odio, che prevarranno e lo spingeranno al rapimento dell'amata, profanando e mettendo a soqquadro il luogo sacro. L'eroe giunge a pensare al suicidio come rivalsa contro «l'atroce destino cui era in preda», ma abbandona tale pensiero col riaffiorare della

45 Ibid., p. 120 46 Ivi.

47 La badessa di Castro fu pubblicato a puntate nella rivista “Revue des Deux Mondes"- nei numeri del 1º febbraio 1839 e del 1º marzo 1839 - a firma di "F. de Lagenevais ". Il racconto entrò a far parte delle Cronache italiane, la raccolta di racconti pubblicata postuma in volume nel 1855 a cura di Romain Colomb, cugino ed esecutore testamentario di Stendhal. Infine, fa parte dell'edizione definitiva delle Cronache italiane, curata da Henri Martineau per la Bibliothèque de la Pléiade.

Stendhal, La badessa di Castro (tit. or. L'Abbesse de Castro, 1839), in Cronache italiane (Chroniques italiennes), trad. a c. di Pietro Paolo Trompeo, Sansoni, Firenze 1963

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fede nella Madonna: « l'idea di una Madonna giusta a poco a poco scacciò la disperazione»48. Il bandito è

presentato, dunque, come un personaggio scisso tra il mondo infernale e quello paradisiaco, come il Satana miltonico, sebbene non vi siano riferimenti diretti a questo modello.

Un altro personaggio che mostra connotati fortemente legati alla figura di Satana è il fuorilegge Vautrin che compare ne La Commedia umana di Honoré de Balzac. In Papà Goriot49 (1834) Vautrin si presenta ad Eugene de Rastignac :

«Chi sono? Vautrin. Che faccio? Quel che mi pare. Andiamo avanti. Volete conoscere il mio carattere? Sono buono con chi mi fa del bene o con chi ha un cuore che parla al mio. A loro è permesso tutto: possono prendermi a calci negli stinchi senza ch'io dica loro: «Bada!». Ma, perdio! Sono cattivo come il diavolo con chi mi molesta o non mi va a genio.»50

Vautrin mette subito in mostra la sua grandezza sia nella capacità di fare il bene che in quella di fare il male e si paragona proprio al diavolo.

Il fuorilegge denuncia la società e le ingiustizie sopportate fino a che non ha scelto la via della ribellione, quella più confacente al diavolo: egli dice infatti di aver «la superiorità di un uomo che, dopo aver esaminato le cose di questo basso mondo, ha visto che le soluzioni da adottare sono due: o una stupida obbedienza, o la ribellione»51. La società a cui Vautrin si ribella, a differenza del Regno

di Dio, è descritta come corrotta e degradata, sebbene mascherata dalle apparenze della felicità, della ricchezza e della giustizia morale. Egli sostiene che l'unico uomo che può valere è il genio, intendendo così un uomo che si innalza sugli altri per intelligenza e astuzia:

«Sapete come qui ci si fa strada? Col lampo del genio o con l'accortezza della corruzione. Bisogna penetrare in questa massa di uomini come una palla di cannone, o infiltrarvisi come la peste. L'onestà non serve a nulla. Ci si 48 Ibid., p. 121

49 Balzac Honoré de, Papà Goriot (tit.or. Le Peré Goriot, 1834), trad. a. c. di Renato Mucci, Sansoni, Firenze 1965

50 Ibid., p. 89 51 Ibid., p. 90

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piega sotto il potere del genio, lo si odia; si cerca di calunniarlo, perché esso prende ma non dà; ma ci si piega a lui, se persiste; in una parola, lo si adora in ginocchio quando non lo si è potuto seppellire sotto il fango»52.

Vautrin si rende conto che la virtù e un comportamento onesto conducono solo alla miseria e chi vuole prevalere deve ricorrere ai mezzi più infimi, deve fare del male senza guardarsi indietro: « Un uomo che si vanta di non mutar mai opinione è un uomo che s'impone di camminare sempre in linea retta, un ingenuo che crede all'infallibilità. Non vi sono principi, vi sono soltanto accadimenti; non vi sono leggi, vi sono soltanto circostanze: l'uomo superiore sposa gli accadimenti e le circostanze per dirigerli»53. Vautrin rifiuta ogni principio morale ed elimina ogni spinta positiva della

coscienza poiché si adegua ai fatti e alle circostanze, che riducono ogni principio etico in vuote parole. Solo questo modo di procedere permette di trarre massimo vantaggio da ogni situazione: come il Satana di Milton, il fuorilegge sceglie consapevolmente la via della ragione, eliminando dal suo animo emozioni e sentimenti che lo potrebbero distrarre dai suoi obbiettivi.

In realtà, la sua determinazione nel compiere il male è tale da far sì che Vautrin si definisca da solo infame, scellerato, briccone e bandito ma rifiuti gli appellativi di imbroglione e spia: la sua scelta della vita da fuorilegge è fatta alla luce del sole, così che non accetta tutto ciò che ha a che fare con il tradimento e con l'inganno. Egli segue una via del male che è pura e nobile rispetto la falsità e la corruzione della società, tanto che può affermare:

«L'uomo in guanti e parole gialli ha commesso assassini in cui non si versa sangue, ma se ne dà; l'assassino ha aperto la porta con un grimaldello: due cose notturne! Tra quel che vi propongo e quel che farete un giorno, non vi è che il sangue in meno.»54

52 Ibid., p. 93 53 Ibid., p. 96 54 Ibid., p. 97

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Vautrin ha i caratteri del diavolo e sceglie il male contro una società ingiusta, in cui i valori positivi non funzionano più. Egli è una figura affascinante per Rastignac poiché evita le maschere e le finzioni sociali, così che il suo essere malvagio risulta mirabile perché è la scelta pura e consapevole di un uomo che è in contrasto con la società in cui vive. Per questo Rastignac afferma:

«In due parole, questo brigante mi ha detto più cose sulla virtù di quante non me ne abbiano dette gli altri uomini e i libri.»55

In Carmen56 (1845), novella di Prosper Mérimée, è il bandito Don Josè Navarro a

lasciare, fin dall'inizio, nel narratore l'impressione di una decadenza rispetto a uno splendore primigenio. Il narratore in proposito:

«Pose il mandolino a terra e, incrociando le braccia, con una singolare espressione di tristezza si mise a contemplare il fuoco che stava spegnendosi. Illuminato da una lampada messa sul tavolino, il suo volto, insieme nobile e selvaggio, mi ricordava il Satana di Milton. Come lui forse il mio compagno pensava alla dimora che aveva lasciato, all'esilio in cui era incappato per una colpa».57

Don José, infatti, come Satana, subisce una degradazione, un declassamento, poiché lascia il suo mondo, diventando bandito e conformandosi alle leggi che regolano la cultura rom, per amore della zingara Carmen: egli è basco e un cristiano di nobili origini ma passa al mondo degli zingari, cambiando completamente vita.

La stessa Carmen viene connotata diabolicamente tanto che Don Josè, riferendosi alla prima volta che l'ha incontrata, afferma che «nel suo paese una donna vestita in quella maniera avrebbe obbligato tutti a farsi il segno della croce»58. Carmen viene definita diavolo, o figlia di Satana, sia dall'innamorato che dalla compagna di lavoro, da lei ferita gravemente nella fabbrica di sigari.

55 Ibid., p. 98

56 Mérimée Prosper, Carmen (tit. or. Carmen, 1845), trad. a c. di Silvia Lorusso, Marsilio, Venezia 2004 57 Ibid., p. 59

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Questo carattere demoniaco non è attribuito solo alla donna ma a tutta la razza zingara poiché ha usanze, modi e comportamenti che non rientrano all'interno della morale occidentale, perciò non comprensibili a don Josè, attratto proprio dal loro elemento primitivo e istintivo. Una forte istanza di libertà è preponderante nella descrizione degli zingari: non hanno le regole occidentali, non hanno vincoli sociali o leggi morali che li frenano e, per questo, don Josè sente e riconosce in loro una forza oscura che in fondo è intrinseca in ogni uomo, sebbene attenuata o repressa dalle convenzioni sociali.

La scelta di don Josè di farsi bandito e fuorilegge coincide così con l'entrata in un mondo che è rappresentato come deviato, un cosmo Altro, diverso e, proprio per questo, legato al diavolo. Tale adesione però rimane debole poiché il giovane è radicato nelle sue origini borghesi e tenta di trascinare con sé Carmen nel suo mondo. Quella di Don Josè è una “metamorfosi” che non è imputabile solo all'amore per Carmen bensì il loro incontro, mettendo il basco a confronto con un'altra realtà, fa emergere quelle spinte di libertà, già presenti nell'inconscio dell'uomo. Non a caso, il bandito, già prima del fatale incontro, è una figura “liminale”, che sta a cavallo tra i due mondi, in quanto ha compiuto un omicidio ed è stato costretto a cambiare nome e a trasferirsi a Siviglia per lavorare. Don Josè è un membro della società borghese predominante ma sono già emersi in lui quegli istinti che essa reprime, perciò vi si trova ma in modo “fragile”, quasi come un emarginato, un outsider, che può passare da un momento all'altro al mondo del diverso.

L'idea di uno splendore primigenio, simile a quello di Satana, è presente anche in un testo del secolo scorso, come Il brigante 59 (1951) di Giuseppe Berto. Quando il narratore, un

ragazzino di tredici anni, incontra Michele Rende, sente per lui una profonda ammirazione e afferma:

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«la sua grande forza era già in lui, è vero, ma sarebbero passati ancora degli anni prima che venisse fuori e fosse evidente. Quel giorno egli non era che un soldato che veniva dalla guerra. Ma non era solo la sua divisa da soldato, ne sono sicuro. No, anche allora c'era qualcosa dentro di lui, negli occhi e nella voce si faceva sentire, e nel suo volto duro, con la bocca che pareva tirata a disprezzo».60

In Rende il ragazzino riconosce subito una grande forza interiore che distingue il bandito, il grande uomo dalle masse: essa si riflette nell'aspetto esteriore, nel disprezzo della bocca, nel volto duro e nello sguardo, tanto che il bambino resta paralizzato in presenza di Michele, con il sangue che gli pulsa in gola. Il giovane non può far a meno di ammirarlo per «la sua superbia e la sua prepotenza, quel modo franco di decidere le cose senza piegarsi di fronte alla volontà contraria degli altri, fosse pure la volontà dei signori»61.

Il giovane si accorge subito che solo da uomini come lui possono sorgere cose grandiose, nel bene o nel male. Per queste ragioni, se in un primo momento Rende mostra al di sotto della maschera di fierezza un animo buono con il bisogno di essere consolato, successivamente, dopo l'evasione dal carcere, appare una persona cambiata e si mostra in tutto il suo odio: «gli occhi erano vivi, pronti a guardare tutto, ma così freddi che lo sguardo passando toccava come un pezzo di ghiaccio”62 e “vi era una rigidezza in lui che non si voleva sciogliereneanche davanti ai nostri sforzi

di essere buoni con lui»63. È l'ingiustizia sociale a cambiare a poco a poco questo uomo e a far

nascere in lui un desiderio di vendetta che lo condurrà alla ribellione, a passare al lato oscuro, divenendo brigante:

«forse nel suo animo non c'era posto che per la vendetta, e per tutti gli uomini non c'era posto che per odio e disprezzo».64 60 Ibid., p. 18 61 Ibid., p. 37 62 Ibid., p. 67 63 Ibid., p. 69 64 Ibid., p. 77

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L'opera rappresenta le oscillazioni interiori tra male e bene di un uomo in cerca di una giustizia non presente nella società. Egli cerca di rimanere sulla retta via, prova a riparare ai suoi errori cercando la felicità per sé e per il popolo tanto che, grazie ai suoi incitamenti, riuscirà ad unirlo nella ribellione contro i latifondisti. La lotta in prima persona di Michele per l'uguaglianza lo farà incappare nell'odio delle autorità che lo useranno come capro espiatorio e lo incarcereranno più volte, facendo sorgere in lui un odio tale da spingerlo a divenire un bandito a tutti gli effetti, distruggendo i beni dei nobili per il suo desiderio di vendetta65. Lo

scontro con la sorte, con la società, con l'ingiustizia ha condotto Rende ad aderire al lato oscuro, a far prevalere le forze diaboliche, tanto che egli stesso confessa a Nino:

«Alle volte, quando non ho niente da fare, mi metto a pensare alla mia vita”, disse. “Penso a come è stata strana, e anche sfortunata. Uno può avere tutta la buona volontà di mettersi in pace, e invece gli capitano cose che lui non ha natura di sopportare. Non so come un altro si sarebbe comportato al mio posto, uno di quei compagni che ho conosciuto nel nord e che mi hanno insegnato le cose che so. Erano gente di tutte le qualità, si capisce, ma ce n'era uno che faceva pensare ai santi e ai martiri, e ai miei occhi era il migliore di tutti, sempre mi sforzavo a prenderlo come esempio. Credo che lui al mio posto sarebbe rimasto in prigione a scontare la pena, anche se era ingiusta. Ma io non riesco ad essere come lui. Io sono figlio di questa terra, c'è in me un istinto primitivo di violenza che non posso controllare, e allora agisco come avrebbe agito uno della nostra gente cento o mille anni fa. Mi sembra che non sia mia, la colpa. Io volevo essere un uomo come tutti gli altri e loro non mi hanno lasciato. Mi hanno cacciato qui sulla montagna e ancora mi perseguitano, e non avranno pace fino a quando non mi avranno preso. Così son diventato un brigante...»66

La scelta di farsi brigante viene spiegata dal protagonista stesso, da una parte, come indotta dalla società, come unica fuga da un contesto sociale corrotto, dall'altra, come conseguenza di un animo ancora primitivo, non disposto a cedere.

65 Ibid., p. 129: «Era Michele Rende, lo si sapeva bene. Era lui che si serviva della distruzione per compiere la sua vendetta. Fin da allora tutti cominciarono a chiamarlo il brigante. Dissero che lui si era messo a vivere come ogni altro fuorilegge, chiedeva denaro ai signori, e se i signori si rifiutavano di darglielo ne pativano danno. Però non ci fu mai denuncia, perchè avevano paura. Si era messo a combatterli con le loro stesse armi, di nascosto, e adesso avevano di nuovo paura.»

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Dopo che anche l'ultimo legame con il bene, quello con la donna amata, viene distrutto, allora il brigante diventerà portatore di morte e la sua stessa vita sarà legata alla fine:

«la vita di uomo non doveva contare più molto, per lui. Anche lui era legato alla morte, ormai si capiva. Avrebbe sparso tutto il sangue necessario alla vendetta, poi sarebbe morto. Non avrebbe avuto più ragione di vivere, dopo. Non si poteva più portare la giustizia agli uomini con le mani sporche di tanto sangue. I poveri che si aspettavano la giustizia e il regno di Dio non lo avrebbero avuto certo da lui. Qualcun altro sarebbe sorto da loro capace di guidarli...»67

Il romanzo, dunque, parla chiaramente della caduta di un uomo dalla giustizia al male e alla distruzione, nel tentativo di ribellarsi a un mondo che ritiene ingiusto: egli alza la testa e, anziché rassegnarsi agli eventi, sceglie di esprimere tutto il suo odio per la società e per il mondo come li ha creati Dio.

Un esempio che diverge da quelli trattati fino ad ora poiché offre una rappresentazione del bandito che sta sotto il segno del negativo è quello de L'amante di Gramigna68, novella

appartenente alla raccolta Vita de' Campi(1880)69 di Verga. Vi si racconta la storia di un

bandito, tale Gramigna, «nome maledetto come l'erba che lo porta»70, che spadroneggiava nelle terre

lungo il Simeto. Il bandito è l'elemento di disordine per la comunità contadina che vive in quelle zone e, secondo il meccanismo tipico della mentalità popolare, è etichettato come creatura demoniaca e con poteri sovrannaturali.

«Era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di abbarbicare. […] se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta la provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo col telegrafo. […] egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, s'arrampicava sui precipizi, strisciava sulle messi, correva 67 Ibid., pp. 193-194

68 Verga Giovanni, L'amante di Gramigna, in id. Vita de' campi (1880), in Giovanni Verga. Novelle e teatro, a c. di Marzio Pieri, UTET, Torino 2002

69 Vita de' Campi è la prima opera verista di Giovanni Verga. È una raccolta di otto novelle, pubblicate per la prima volta nel 1880 e scritte tra 1878 e 1880 (la prima è Rosso Malpelo). I protagonisti sono uomini di umile estrazione sociale, per lo più provenienti dalla campagna siciliana, quali minatori, pastori e contadini. 70 Verga, L'amante di Gramigna, cit., p.405

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carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti.»71

Verga sottolinea dunque gli elementi bestiali, istintuali del fuorilegge e la sua forza disumana: c'è la sua idealizzazione ma in chiave negativa e sono messi in mostra i meccanismi che la producono nel mondo contadino, constatando come essa derivi dalla paura.

Le sue avventure diventano tanto famose che una ragazza, Peppa, s'innamora di lui senza neppure conoscerlo, rovinando così il matrimonio programmato con compare Finu, «che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni»72.

La madre di Peppa, disperata per l'accaduto, paragona Gramigna al demonio e si comporta proprio come se la figlia fosse stata stregata da Satana.

«Ah! quel demonio è venuto fin qui a stregarmi la mia figliuola! […]

La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore con la stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso. […]

Allora la vecchia la chiuse in casa perchè non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell'uscio con le immagini dei santi.

Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l'Inferno in faccia.»73

Gramigna, pur essendo paragonato al diavolo, non è sottoposto ad alcun approfondimento psicologico, così come gli altri personaggi: non viene rappresentato né come un bandito che combatte per la difesa del popolo o che è appoggiato da esso, né come giustiziere, bensì compie azioni poco onorevoli nei confronti di Peppa. Gramigna è, diversamente dagli altri banditi, malvisto dalla gente comune per i danni che causa al

71 Ibid., p. 406 72 Ibid., p. 407 73 Ibid., p. 408

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villaggio e ai raccolti; anzi, è la gente stessa a definirlo diavolo e a contrapporre a lui i santi della religione.

Anche in questo caso rimane valido il paragone tra il fuorilegge e il diavolo, rimangono i caratteri bestiali, i poteri sovraumani e il fascino della sua forza ma lo scrittore ce li offre in modo più scoperto, mostrando oggettivamente il meccanismo che li produce.

Per tirare le somme, è evidente che i banditi e i fuorilegge delle opere trattate hanno caratteri in comune con il Satana di Milton, di cui condividono la caduta e la degenerazione morale. Essi sono presentati, per lo più, come uomini virtuosi e dal grande animo che, a causa di un conflitto con il mondo in cui vivono, anziché rassegnarsi alla limitatezza dell'esistenza e alla miseria della vita, si ribellano. La rivolta li conduce ad una lotta che è un ultimo slancio vitale per l'affermazione del proprio Io, in opposizione alla società. Per condurre questa guerra gli uomini si muovono nel campo del male, uscendo dalle norme accettate dalla società, divenendo fuorilegge. La via del male diviene l'unica possibile per l'individuo che vuole vivere liberamente e indipendentemente e che vuole essere completamente padrone di sé. I banditi rappresentati non sono mai semplici esecutori di male bensì, come il Satana di Milton, oltre a lottare contro il mondo esterno, lottano con se stessi, con i rimorsi, con la vergogna per la caduta: sono i portatori di quello splendore primigenio che li rende grandiosi e terribili ad un tempo.

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1. GUSTAVE DORE', illustrazione della Divina Commedia , L'inferno- La Giudecca- Lucifero. Ha illustrato la Divina Commedia tra 1861-1868

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2. Il banditismo sociale

Allo storico inglese E. J. Hobsbawm74 si deve l'enucleazione e la coniazione della

formula “banditismo sociale”. Il primo saggio sull'argomento fu pubblicato da Hobsbawm nel 1959 con il titolo di Primitive Rebels: Studies in Archaic Forms of Social Movements in the 19th and 20th Centuries e fu il primo di una trilogia a cui seguì, dopo dieci anni, Bandits, che

ebbe una versione riveduta nel 1981. Egli ha proposto una descrizione del tipo ideale del bandito presente nella cultura subalterna, del ruolo sociale che le masse contadine gli hanno attribuito, delle aspettative a cui il bandito doveva rispondere e dell'idealizzazione a cui tale figura è stata soggetta. Hobsbawm definisce il banditismo sociale come «una forma piuttosto primitiva di protesta sociale organizzata»75. Il termine «primitivo» non deve però trarci in inganno e non ci deve far pensare a una società arretrata, bensì il critico fa riferimento «ad un mondo che da tempo ha conosciuto lo Stato ( e cioè soldati e poliziotti , prigioni, esattori di tasse e forse anche funzionari pubblici), le differenze di classe e lo sfruttamento da parte dei proprietari terrieri, commercianti e simili, e perfino le città»76 ma in cui continuano a sopravvivere e hanno un ruolo centrale i legami di

parentela e di solidarietà tribale, sebbene non costituiscano più una difesa per l'individuo. Tale situazione permette la nascita di due tipi di banditismo:

«da una parte il classico fuorilegge per vendetta di sangue, della Corsica per esempio, il quale non era un brigante di tipo sociale che combatteva i ricchi per aiutare i poveri ma un uomo che combatteva con e per il 74 Eric John Ernest Hobsbawm: (Alessandria d'Egitto 1917- Londra 2012) fu esponente del marxismo

britannico ed ha concentrato il suo interesse sull'origine della rivoluzione industriale britannica e sul decollo industriale in altri paesi. Hobsbawm ritiene che le situazioni di tensione sociale siano proprie dei paesi il cui equilibrio è stato alterato e non quelle statiche: tipico è il caso del capitalismo che modifica la struttura dei rapporti sociali. Egli concentrò anche i suoi studi sulle classi subalterne a partire de Labouring men, study in the history of labour (1964), Primitive Rebels.Studies in arcaic forms of socialm movement in the 19th and

20th centuries (1959) e Captain Swing (1969).

75 Hobsbawm Eric John Ernest, I banditi. Il banditismo sociale nell'età moderna, (tit.or. Bandits, 1969), trad. a c. di Eliana Rossetto, Einaudi, Torino 1971, p. 50

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proprio gruppo familiare (ricchi compresi) contro un altro gruppo familiare (poveri compresi). Dall'altra parte troviamo invece il classico Robin Hood, che era ed è essenzialmente un contadino in rivolta contro i padroni di terre, usurai ed altri rappresentanti di quella che Thomas More chiamava la “congiura dei ricchi”»77

Hobsbawm usa il termine banditismo riferendosi a una forma di ribellione individuale o di minoranze esclusivamente all'interno delle società rurali: «città e campagna sono, come comunità umane, troppo diverse tra loro perché sia possibile discuterne mettendole sullo stesso piano, e d'altra parte i banditi-contadini, come la maggior parte della gente di campagna, detesta i cittadini e ne diffida»78. I banditi rurali sono ritenuti fuorilegge per lo Stato o per il Signore ma non lo

sono per la società contadina a cui appartengono che li considera eroi: secondo lo studioso, ciò è possibile perché un bandito sociale non depreda un contadino del suo territorio.

Il banditismo sociale è un fenomeno che si presenta in modo straordinariamente omogeneo nei paesi più disparati, essendo il riflesso di situazioni consimili nelle varie società rurali.«Sotto l'aspetto sociale, si verifica, a quanto pare, in tutti i tipi di società umane che si trovano tra la fase evolutiva dell'organizzazione tribale e familiare e la società moderna, capitalista e industriale»79. Nel

momento in cui queste società iniziano la differenziazione tra classi allora possono fornire un gran numero di banditi, mentre una società moderna, capitalista non sviluppa tale fenomeno. Una società moderna manca dei presupposti che originano il fenomeno poiché l'evoluzione economica, una rete di comunicazione efficiente, un'autorità statale forte e una buona amministrazione non permettono la diffusione di banditi. I briganti, in effetti, emergono in zone isolate e inaccessibili, chiamate già nell'Alto Medioevo i “mali passi”, come le montagne con le loro foreste, le pianure isolate rispetto le reti stradali e le zone paludose: sono ambienti in cui l'autorità statale con la sua legge non può arrivare per reprimere il movimento.

77 Ivi. 78 Ibid., p. 11 79 Ibid., p. 13

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