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3. Profilo storico del banditismo: il caso del brigantaggio italiano

3.1 Il brigantaggio meridionale

Hobsbawm sembra indicare un rapporto triangolare principe-bandito- popolo, in cui il bandito si pone dalla parte del popolo contro il principe che detiene il potere e lo esercita a discapito dei più deboli [Cfr. cap.2.1], ma sul piano storico il brigantaggio ebbe caratteri contraddittori e ambigui. Per comprendere tale ambiguità, senza il rischio di cadere in un'interpretazione riduzionistica e semplicistica, è necessario mettere il brigantaggio in rapporto con i contesti sociali in cui si sviluppa, le condizioni di malessere che lo generano e i suoi stretti legami con l'intera gerarchia sociale e non solo con gli strati più bassi della popolazione. Questo ci permette di andare oltre la rielaborazione letteraria che ne è stata fatta che rende il brigante il simbolo della lotta dei più deboli contro una società corrotta .

L'analisi della situazione italiana risorgimentale e post-unitaria ci offre la possibilità di inserire il fenomeno in un più ampio reticolo sociale che abolisce la semplice contrapposizione tra brigante-contadino e borghesi-proprietari. La storia vede, più volte, le autorità e le famiglie borghesi complici dei briganti e capaci di strumentalizzare il brigantaggio a proprio favore. Nel caso italiano, inoltre, anche l'elemento legittimistico ha un ruolo importante nella vicenda del brigantaggio: basti pensare che i movimenti briganteschi insorti dopo l'Unità si formano sull'onda dello scioglimento degli eserciti che avevano combattuto contro le forze liberali e della renitenza alla leva nazionale. Nel meridione italiano il richiamo a Francesco II è uno dei motivi che si ripetono durante tutto il fenomeno, sebbene non vi si possa associare un vero e proprio significato politico ma sia, in sostanza, «il richiamo al re della tradizione e dell'immobilismo, contrapposto al re straniero e dei galantuomini».111

Il brigantaggio non fu solo un movimento post-unitario ma ha radici ben più lontane

111Fiorillo Lucio, Il brigantaggio meridionale. Legittimisti, contadini, borghesia nella crisi dell'unificazione. Il caso del Matese 1860-1868, Marco Editore, Cosenza 1992, p.20

nel tempo, come dimostra il caso del meridione italiano negli anni '30. La monarchia borbonica, infatti, espresse istanze modernizzanti a cui si opposero i centri di potere locale che si videro spogliati della propria autorità: già in questo momento storico, le classi borghesi reagirono diventando manutengole112 di bande di briganti, alla cui azione si affidarono per

mantenere il proprio potere. In questo modo, come nota la storica Giovanna Fiume113, che nel

suo saggio Comitive armate, anarchia sociale e potere nella Sicilia degli ultimi Borbone (1819-1849) studiando lo specifico contesto siciliano:

«un elemento ineludibile della costruzione del fenomeno diventa perciò l'intreccio delle bande armate con il potere politico periferico»114.

Un ulteriore elemento di sviluppo del brigantaggio che non deve essere sottovalutato è, inoltre, la lotta che si svolse per il monopolio delle cariche municipali e il coinvolgimento delle classi popolari che, con le loro azioni, dettero una spinta al processo che conduce alla disgregazione del vecchio sistema, senza però creare un assetto sociale nuovo. Per Giovanna Fiume il mescolarsi di questi fattori generò un fermento continuo, dovuto alla debolezza e alla frammentazione delle autorità, che sarebbe potuto esplodere in qualsiasi momento generando una vera e propria rivolta. La studiosa parla di:

«anarchia sociale: la rivolta ora latente, ora manifesta produce quella coscienza di essere “in licenza e non sotto governo” che intralcia la stessa volontà riformatrice della monarchia, agitando le istanze più disparate nell'intreccio inestricabile tra protesta individuale e protesta collettiva».115

112 Manutengolismo: protezione di qualcuno; nel caso specifico si fa riferimento a un fenomeno di protezione e aiuto di coloro che sono colpevoli di azione illecite, dunque dei banditi, da parte delle autorità o delle comunità rurali.

113Fiume Giovanna, Comitive armate, anarchia sociale e potere nella Sicilia degli ultimi Borbone, in Bande armate banditi, banditismo e repressione di giustizia negli stati europei di antico regime, a cura di Gherardo Ortalli, Jouvence, Roma 1986

114Ibid., p. 442 115Ibid., p. 443

Il caso siciliano nella prima metà dell'Ottocento è emblematico della condizione in cui versa il Meridione italiano. La Sicilia si trova in uno stato pre-insurrezionale: la rivolta esplodeva per diverse ragioni, quali la difficoltà del reperimento o la cattiva qualità dei generi annonari, l'aumento della pressione fiscale o i soprusi dei funzionari. Le rivolte si possono ritenere il segno tangibile di un profondo malessere sociale, che si acuì nel 1820, nel 1830, nel 1848 creando movimenti rivoluzionari di più ampia portata, e di rilevanza minore dopo le epidemie di colera nel 1820 e nel 1854. 116

Un altro sintomo del disagio sociale siciliano è costituito dal fatto che gran parte della popolazione era armata, sia per la tradizionale familiarità con l'uso delle armi, sia perché non si fidava a lasciare la propria sicurezza nelle mani delle autorità statali. Il governo reagì attraverso leggi che mirarono al disarmo collettivo ma senza ottenere successo, non solo per il rifiuto degli strati popolari ma anche dei gentiluomini che cercarono di mantenere il potere armato: questo atteggiamento è significativo poiché esprime il dissenso della subalternità allo stato.

In questo contesto di fermento sociale i latitanti evasi di prigione trovarono rifugio nelle zone più ostacolate e impervie dell'entroterra siciliano, come montagne e boschi, dove costituirono comitive e bande che uscivano dai loro nascondigli per ricomparire sulle arterie di maggior traffico, nelle masserie e nei passi. Erano per lo più comitive di tre o quattro persone di età adulta (dai venti ai cinquanta anni) che agivano soprattutto contro gli ex proprietari feudali. Le piccole comitive si limitavano a cercare il cibo, i mezzi di trasporto, denaro e oggetti di valore; solo le grandi comitive di banditi compievano furti più ingenti ed organizzavano estorsioni e sequestri. Si formarono anche bande che agivano in vista di un solo obiettivo e che, una volta raggiunto, scomparivano: erano gruppi che rimanevano

generalmente ignoti alle autorità poiché agivano lontano dal luogo di provenienza, in cui tornavano solo una volta compiute le loro azioni. In ogni caso l'omicidio delle vittime era raro ed era la conseguenza di una resistenza ad oltranza.

Tutti questi gruppi avevano certamente, come afferma Hobsbawm, rapporti con la società di provenienza, ma oltre a quelli con le comunità rurali e le loro famiglie, non deve essere sottovalutata, e questa sarebbe la pecca dello studioso inglese, la presenza di manutengoli e di protettori di elevata posizione sociale.

«Il mito, di tradizione romantica, del bandito come eroe popolare, aiutato, rifornito e occultato dalla gente del luogo, non trova che rare verifiche nella società siciliana.»117

In effetti, il banditismo “grande” e di più lunga durata necessitò di collegamenti e protezione di più alto livello rispetto la classe sociale di provenienza, quella dei cosiddetti “villani”. Già nel Cinquecento le bande avevano il ruolo di “polizia privata” al seguito dei grandi signori e questa abitudine proseguì anche nell'Ottocento: la classe dirigente seppe sfruttare a proprio favore i vari ribellismi popolari e il banditismo.

« Ancora nell'Ottocento i rapporti dell'autorità lamentano spesso la presenza di grandi abigeatari118 che trovano

rifugio nelle terre dei ricchi proprietari o che vengono visti cavalcare al loro fianco come scorta armata.» 119

Per quanto riguarda, invece, le reazioni delle autorità contro il brigantaggio che, in Sicilia, aveva provocato grossi danni all'agricoltura e al commercio, Ferdinando III dette vita ad una strategia di lotta al banditismo, con pene durissime, prima fra tutte la pena di morte anche per piccoli reati di furto. Si crearono delle liste di fuorbando120 e le persone in esse

117Ibid., p. 449

118Abigeatario: colpevole di abigeato; l'abigeato è il furto di bestiame

119 Fiume, Comitive armate, anarchia sociale e potere nella Sicilia degli ultimi Borbone, cit., p.452 120Liste di fuorbando: liste contenenti il nome dei presunti banditi

nominate furono soggette a una vera e propria caccia all'uomo, a cui parteciparono anche i privati, spinti dalla ricompensa promessa dal governo.

«I ladri scorridori di campagna entrano così a far parte delle liste di fuorbando insieme agli assassini ed ai “sobillatori”; entro 8 giorni dalla pubblicazione delle liste in ciascun comune, i familiari sono chiamati a giustificare l'assenza del congiunto iscritto come fuorbandito».121

Se le giustificazioni dei familiari venivano rifiutate dalle autorità iniziava la caccia. La lotta al banditismo fu perfezionata, premiando il tradimento: per esempio, era concessa l'amnistia al capobanda nel caso in cui uccideva tre malviventi o viceversa. Questo fece sì che i banditi, vivendo in una condizione costante di paura per il continuo sospetto di tradimento, diventassero ancora più aggressivi.

« Il “decreto delle teste”, come popolarmente viene chiamata la legge di fuorbando, provoca dunque lo sgretolamento dei rapporti solidali e propone un corrispettivo in denaro al principio della lealtà verso il sovrano e dell'adempimento del proprio dovere. Ha ancora un effetto moltiplicatore sulle bande poiché, comminando pene non proporzionate alle colpe commesse, spinge piccoli proprietari o addirittura innocenti, alla macchia, insieme ad assassini, evasi, disertori.» 122

La società stessa si era data uno strumento di difesa contro il banditismo poiché chiunque poteva uccidere un bandito e riscuotere una taglia. Se questa era la fine promessa ai banditi, invece le autorità che si ergevano da protettori di questi gruppi, generalmente, rimasero impunite.

I legami politici che muovono le azioni delle bande sono evidenti già a partire dai moti del 1848 che coinvolsero tutto il meridione: furono le bande a reggere vittoriosamente il conflitto armato a favore del re Ferdinando II di Borbone. Egli, il 15 maggio del 1848, impose lo scioglimento del Parlamento appena eletto a Napoli, sulla base della costituzione che lui

121Fiume, Comitive armate, anarchia sociale e potere nella Sicilia degli ultimi Borbone, cit., p.454 122Ibid., p.456

stesso aveva approvato quattro mesi prima123: tale decisione venne presa seguendo l'esempio

di Pio IX che si era dissociato dalla guerra contro l'Austria, dichiarata da Carlo Alberto di Savoia il 23 marzo. L'esercito di Ferdinando II poté contare sull'ausilio imponente delle bande armate per riconquistare la Sicilia. La partecipazione delle bande armate non fu soltanto legata ad un motivo di soldi, offerti dall'aristocrazia, ma deve essere considerata anche la componente della redenzione personale: ciò che un tempo i briganti avevano compiuto da fuorilegge, ora potevano farlo da eroi. Le bande, infatti, vennero “ufficializzate”, divennero squadre e trovarono nel tricolore la bandiera del proprio riscatto. Esse, nel momento in cui erano raggiunti gli obiettivi, divenivano una presenza scomoda per le autorità e venivano sciolte, a meno che i loro capi non avessero trovato posto entro gli schieramenti politici. Queste dinamiche ribadiscono come il rapporto con il potere sia un nodo centrale per la comprensione del banditismo poiché fu usato, finanziato, rivestito di panni legali e liquidato dalle stesse autorità quando la loro azione ormai non serviva più.

L'11 maggio del 1860 i garibaldini sbarcarono a Marsala, sbaragliando l'esercito borbonico, procedettero da Palermo a Messina, e poi dalla Calabria a Napoli, dove entrarono il 7 settembre del 1860. Questi avvenimenti si svolsero in un contesto ancora diverso poiché in Sicilia l'arrivo delle camicie rosse e del loro generale spinse molte comunità contadine a credere che fosse giunto il tempo della giustizia e della redistribuzione delle terre demaniali124, mai divise a causa degli abusi dei proprietari terrieri. Il fermento sociale si fece

123Il 12 gennaio del 1848 a Palermo un gruppo di autonomisti siciliani organizza un'insurrezione nella quale motivi patriottici, ragioni sociali e sentimenti di opposizione ai regnanti e a Napoli si mescolano inestricabilmente. Ferdinando II reagisce annunciando di voler concedere una Costituzione al regno delle due Sicilie; da qui, come in una sorta di effetto domino altri sovrani italiani iniziano a concedere costituzioni nei propri regni.

124Nel 1806 nel Mezzogiorno continentale e nel 1812 in Sicilia erano state approvate norme che avevano abolito le giurisdizioni feudali e avevano stabilito la divisione dei demani feudali, comunali ed ecclesiastici. I demani erano le terre sulle quali potevano essere esercitati usi civili, come il diritto alla semina, di raccolta del legname, di pascolo ecc. Tali usi civici erano riservati a determinate categorie di persone come, per esempio gli abitanti dei territori di un feudo, o di un determinato villaggio, a cui quei diritti erano stati formalmente riconosciuti da un'autorità. Le leggi che abolivano i demani avevano stabilito che una parte delle terre fossero divise tra coloro i quali avevano precedentemente goduto del diritto di usare quelle terre ma

sentire con rivolte, come quella sanguinosa e violenta di Bronte [fig.5]. Garibaldi però non era portatore di una rivolta sociale ma politica e, fedele ai suoi obiettivi, riassunti nella formula “l'Italia e Vittorio Emanuele”, mantenne l'ordine sfruttando l'arma della repressione sociale: a Bronte, Nino Bixio, capo di un gruppo di garibaldini, represse decisamente la rivolta, procedendo subito a giudizi ed esecuzioni sommarie dei rivoltosi.

I fatti di Bronte sono tanto significativi che Verga vi si ispirò nella sua novella La libertà, pubblicata il 12 marzo 1882 nella "Domenica Letteraria" e compresa poi nella raccolta Novelle rusticane (1883): è una delle novelle più politicamente impegnate dello scrittore, in cui si denunciano le false promesse e le storture del nuovo ordine. Verga pone l'accento sulla violenza di questa rivolta di contadini che si schierarono dalla parte di Garibaldi e dei Mille con la speranza che venisse messo un punto alla condizione di miseria in cui vivevano, alla schiavitù in cui erano costretti. Verga descrive molto bene la psicologia della folla impazzita e le uccisioni che compie senza più alcuna logica, colpendo anche innocenti. La folla viene rappresentata utilizzando metafore che evocano la furia dei torrenti: è come un fiume in piena che travolge tutto ciò che gli si avvicina e che, alla fine della tempesta, trova una calma piena di paura e terrore per gli atti commessi. Già le prime righe della novella mettono in luce il furore e l'illogicità delle violenze a cui si lascia andare il popolo:

l'incarico di dividere le terre era stato attribuito alle amministrazioni locali, quasi sempre controllate dai grandi proprietari: in certi casi la divisione ebbe luogo ma in altri era stata ostacolata dagli amministratori locali, poiché avevano tentato, talora con successo, di appropriarsi, spesso con successo, delle terre demaniali che avrebbero dovuto essere divise. Ciò aveva provocato il risentimento delle famiglie contadine che avrebbero avuto diritto a una parte delle terre ex feudali.

«Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza:

- Viva la libertà!

Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche, le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.

- A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie.

- A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! - A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!

E il sangue che fumava ed ubriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!»125

La rivolta dei contadini contro i galantuomini e l'aristocrazia del luogo è il segno di un evidente malessere sociale, del sogno di libertà e di una più equa distribuzione delle ricchezze e delle terre. Alla fine, però, dopo la repressione di Nino Bixio, tutto torna a suo posto, con i ricchi ancor più ricchi e i poveri ancora più poveri. Il breve riferimento a questa celebre novella è utile per comprendere la condizione di miseria e sofferenza del Meridione italiano e spiega la grande partecipazione della popolazione rurale al fenomeno del brigantaggio ma, anche, come cadesse negli intrighi delle autorità, illudendosi di migliorare il proprio tenore di vita.

Dopo l'Unità d'Italia, proseguirono le rivolte di bande contadine, i cui capi affermarono di agire in nome dell'ex re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, figlio di Ferdinando II, e di Pio IX. Si trattò di un fenomeno imponente che nel Mezzogiorno continentale fra 1861- 1870, e soprattutto tra 1861-1865, condusse a un movimento di reazione all'Unità, che le

autorità del Regno chiamarono nuovamente brigantaggio, sebbene fu molto più vasto di quello pre-unitario, tanto che si stimano 85.000 i briganti tra 1861 e 1870.126

Ancora una volta i moti ebbero caratteri esplicitamente politici ed, in effetti, furono finanziati da emissari borbonici e pontefici. Nelle bande confluirono molti ex militari borbonici, molti delusi dagli scarsi risultati sociali dell'impresa garibaldina e molti che nutrivano risentimenti nei confronti dei proprietari terrieri.

Se le azioni delle bande furono di straordinaria violenza, ancora più dura fu la repressione affidata all'esercito: restarono permanentemente in stanza in Sicilia con questo scopo 40.000 soldati; a questa strategia si aggiunsero i processi sommari, le esecuzioni, le distruzioni di villaggi, le esposizioni di cadaveri a scopo intimidatorio e, infine, le leggi eccezionali che in pochi anni assestarono il colpo di grazia al fenomeno. L'incapacità del governo di far rientrare le rivolte condusse alla dichiarazione dello stato d'assedio in tutte le province meridionali: s'instaurò così una dittatura militare che liberò l'azione repressiva dal rispetto di talune garanzie costituzionali e che fu affidata principalmente alle Guardie nazionali, con l'aiuto dello stesso popolo contadino, spinto dalla promessa di ricompense. Tra le prime misure speciali che furono adottate e che misero fine al brigantaggio merita un cenno la legge Pica, emanata nel 1863, la cui rigidità rispecchia la gravità che aveva raggiunto il fenomeno in Mezzogiorno. La legge stabiliva che i componenti delle comitive armate e i loro complici fossero giudicati da tribunali militari e che la pena per coloro che si opponevano alla forza pubblica fosse l'immediata fucilazione, se avevano le armi alla mano, sennò il carcere a vita. I briganti che si fossero presentati entro un mese dalla pubblicazione della legge avrebbero avuto una diminuzione da uno a tre gradi della pena. La legge concedeva al Governo il potere di istituire compagnie di volontari a piedi o a cavallo ed, infine, la

126Banti Alberto Mario, L'età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all'imperialismo, Laterza, Bari 2009, p. 284

possibilità di assegnare, per un tempo non maggiore di un anno, un domicilio agli oziosi, ai vagabondi e a coloro che erano sospettati di manutengolismo, dietro il parere di una Giunta provinciale. Quest'ultima norma faceva sì che il sospetto diventasse condanna. La legge Pica, assieme alle altre misure speciali, rese l'amministrazione erede dello Stato Assoluto: le misure di prevenzione diedero tanto potere al governo da minare il diritto della libertà personale, come avveniva negli ordinamenti assolutistici.

In conclusione, l'analisi del fenomeno del brigantaggio in Mezzogiorno mette in dubbio il modello del “bandito sociale” proposto da Hobsbawm, che presenta il fenomeno come sostanzialmente universale e immutabile e come una forma di protesta sociale organizzata dai contadini contro l'oppressione: egli sostiene un modello di bandito che è eroe, giustiziere e riformatore allo stesso tempo. In realtà, come già era stato detto dall'antropologo olandese Anton Blok nella sua critica ad Hobsbawm, The Peasant and the Brigand: Social Banditry Reconsidered127, e come dimostra il caso italiano, i banditi non sembrano essere in

grado di trasformare il fermento e le varie forme di ribellioni contadine in una forza politica effettiva. Uno sguardo storico più approfondito ha mostrato come i banditi non abbiano come prima priorità la difesa dei contadini e la lotta contro la miseria. I briganti stessi, nel corso delle loro carriere, hanno espresso il malcontento delle popolazioni rurali o si sono schierati