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La conservazione dei dipinti murali su intonaci in terra cruda: valutazione dell’ efficacia di materiali naturali tradizionali per il consolidamento corticale

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Università degli Studi di Cagliari

DOTTORATO DI RICERCA

TECNOLOGIE PER LA CONSERVAZIONE DEI BENI ARCHITETTONICI E

AMBIENTALI

Ciclo

XXVIII

La conservazione dei dipinti murali su intonaci in terra cruda:

valutazione dell’efficacia di materiali naturali tradizionali

per il consolidamento corticale

Settore scientifico disciplinare di afferenza

ING-IND/22

Presentata da:

Marta Cappai

Coordinatore Dottorato:

Anna Maria Colavitti

Tutor:

Paola Meloni

Maddalena Achenza

Esame finale anno accademico 2015 – 2016

(2)

“La presente tesi è stata prodotta durante la frequenza del corso di dottorato in Tecnologie per la Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali dell’Università degli Studi di Cagliari, XXVIII ciclo, con il supporto di una borsa di studio finanziata con le risorse del P.O.R. SARDEGNA F.S.E. 2007-2013 - Obiettivo competitività regionale e occupazione, Asse IV Capitale umano, Linea di Attività l.3.1 “Finanziamento di corsi di dottorato finalizzati alla formazione di capitale umano altamente specializzato, in particolare per i settori dell’ICT, delle nanotecnologie e delle biotecnologie, dell'energia e dello sviluppo sostenibile, dell'agroalimentare e dei materiali tradizionali”.

Marta Cappai gratefully acknowledges Sardinia Regional Government for the financial support of her PhD scholarship (P.O.R. Sardegna F.S.E. Operational Programme of the Autonomous Region of Sardinia, European Social Fund 2007-2013 - Axis IV Human Resources,Objective l.3, Line of Activity l.3.1.)”.

(3)

A tutta la bella gente

che ho incontrato lungo

questo cammino.

(4)
(5)

INDICE

ABSTRACT I

INTRODUZIONE E SCOPO DELLA RICERCA II

CAPITOLO 1

LA CONSERVAZIONE DELLE PITTURE MURALI SU INTONACI IN TERRA CRUDA 1

1.1 CENNI SUL MATERIALE 4

1.2 IL CONSOLIDAMENTO DEI DIPINTI MURALI SU INTONACI IN TERRA CRUDA 7 1.2.1 INTERVENTI PER IL RIPRISTINO DELL'ADESIONE TRA GLI STRATI PITTORICI 8 1.2.2 CONSOLIDAMENTO CON PRODOTTI SINTETICI 8 1.2.3 CONSOLIDAMENTO CON PRODOTTI NATURALI 12

1.2.3.1 MUCILLAGINE DI OPUNTIA FICUS INDICA 13

1.2.3.2 AMIDO DI RISO 16

CAPITOLO 2

CASO STUDIO: IL TEMPLO PINTADO NEL SITO ARCHEOLOGICO DI PACHACAMAC 18 2.1 IL SITO ARCHEOLOGICO DI PACHACAMAC 18

2.2 IL DIO PACHACAMAC 21

2.3 IL TEMPLO PINTADO (600 - 1533 d.C.) 23 2.3.1 LE PITTURE DEL TEMPLO PINTADO 26 2.4 ANALISI DELLE CAUSE E DELLE PATOLOGIE DI DEGRADO 33 2.5 INTERVENTI CONSERVATIVI NEL TEMPLO PINTADO 44 2.6 SPERIMENTAZIONI CON CONSOLIDANTI DI ORIGINE NATURALE 49 CAPITOLO 3

SPERIMENTAZIONE IN SITU 51

(6)

3.1.1 CONSOLIDANTI UTILIZZATI 52 3.1.2 METODOLOGIA DI APPLICAZIONE E DI VALUTAZIONE DEL CONSOLIDAMENTO 54 3.1.3 RISULTATI OTTENUTI E PRIME CONSIDERAZIONI 55 3.2 CONSOLIDAMENTO SU LACERTI DI INTONACO DIPINTO 55

3.2.1 CONSOLIDANTI UTILIZZATI 56

3.2.2 METODOLOGIA DI APPLICAZIONE 56

3.2.3 METODOLOGIA PER LA VALUTAZIONE DEL CONSOLIDAMENTO

SCOTCH TAPE TEST (STT) 57

3.2.4 RISULTATI OTTENUTI 61

3.2.5 DISCUSSONE DEI RISULTATI 67

3.3 CONSIDERAZIONI FINALI 69

CAPITOLO 4

CARATTERIZZAZIONE DEI FRAMMENTI DI INTONACO PROVENIENTI DAL TEMPLO PINTADO 70

4.1 MATERIALI E METODI 70

4.1.1 DESCRIZIONE DEI FRAMMENTI DI INTONACO DIPINTO 70 4.1.1.1 CAMPIONI DI INTONACO CON PIGMENTO SUPERFICIALE DI COLORE

GIALLO PALLIDO 71

4.1.1.2 CAMPIONI DI INTONACO CON PIGMENTO SUPERFICIALE DI COLORE

ROSSO VERMIGLIO 74

4.1.1.3 CAMPIONI DI INTONACO CON PIGMENTO SUPERFICIALE DI COLORE GIALLO PALLIDO CONSOLIDATI CON MUCILLAGINE DI

OPUNTIA FICUS INDICA 77

4.1.2 TECNICHE DIAGNOSTICHE E METODOLOGIE IMPIEGATE PER LA

CARATTERIZZAZIONE DEI MATERIALI 78

4.2 CARATTERIZZAZIONE DEI CAMPIONI ARCHEOLOGICI 85 4.2.1 OSSERVAZIONI IN MICROSCOPIA OTTICA (MO) 85

(7)

4.2.2 ANALISI GRANULOMETRICA DELLA MALTA DEL CORPO INTONACO 92 4.2.3 CARATTERIZZAZIONE MINERALOGICA DEI MATERIALI (XRD) 94

4.3 CONSIDERAZIONI FINALI 101

CAPITOLO 5

PRODUZIONE DEI FACSIMILI DI PROVA 103

5.1 MATERIALI E METODI 103

5.1.1 MATERIALI UTILIZZATI 103

5.1.1.1 TERRE UTILIZZATE PER LA REALIZZAZIONE DEI SUPPORTI 104 5.1.1.2 PIGMENTI UTILIZZATI PER LA REALIZZAZIONE DELLE SUPERFICI DIPINTE 105

5.1.1.3 AGGLUTINANTE 107

5.1.2 TECNICHE DIAGNOSTICHE E METODOLOGIE IMPIEGATE PER LA

CARATTERIZZAZIONE DEI MATERIALI 107

5.1.2.1 TEST SPEDITIVI 108

5.1.2.2 TECNICHE STRUMENTALI PER LA CARATTERIZZAZIONE DEI MATERIALI 109 5.2 CARATTERIZZAZIONE DEI MATERIALI UTILIZZATI 115 5.2.1 TERRE UTILIZZATE PER LA REALIZZAZIONE DEI SUPPORTI 115 5.2.2 PIGMENTI UTILIZZATI PER LA REALIZZAZIONE DELLE SUPERFICI DIPINTE 125

5.2.3 CONSIDERAZIONI FINALI 129

5.3 PRODUZIONE E CARATTERISTICHE DEI FACSIMILI 130

5.3.1 PRODUZIONE DEI SUPPORTI 130

5.3.2 STESURA DELLO STRATO PITTORICO 132 5.3.3 VALUTAZIONE DEI FACSIMILI PRODOTTI 136 CAPITOLO 6

(8)

6.1 METODOLOGIA IMPIEGATA 142

6.1.1 CICLI DI WET-DRY 142

6.1.2 CICLI DI EROSIONE SIMULATA 143

6.2 PATOLOGIE DI DEGRADO INDOTTE DALL'INVECCHIAMENTO ACCELERATO 147

6.2.1 CICLI DI WET-DRY 147

6.2.2 CICLI DI EROSIONE SIMULATA 149

6.3 VALUTAZIONE DELLA COESIONE E DELLA ADESIONE SUPERFICIALE - STT 151 6.4 VARIAZIONI COLORIMETRICHE IN SEGUITO ALL'INVECCHIAMENTO ACCELERATO 158 CAPITOLO 7

CONSOLIDAMENTO DEI FACSIMILI 160

7.1 MATERIALI UTILIZZATI E METOLOGIA DI APPLICAZIONE 160

7.1.1 CONSOLIDANTI UTILIZZATI 160

7.1.1.1 VALUTAZIONE DEL pH E DEL CONTENUTO SOLIDO

DEI MATERIALI NATURALI 162

7.1.2 METODOLOGIA DI APPLICAZIONE 163

7.2 RISULTATI OTTENUTI E DISCUSSIONE DEI DATI 165 7.2.1 VALUTAZIONE DELLA COESIONE E DELLA ADESIONE SUPERFICIALE - STT 165 7.2.1.1 COMPARAZIONE TRA I DIVERSI TRATTAMENTI 169 7.2.2 VARIAZIONI COLORIMETRICHE IN SEGUITO AL CONSOLIDAMENTO 171 7.2.2.1 COMPARAZIONE TRA I DIVERSI TRATTAMENTI 174

7.3 CONSIDERAZIONI FINALI 175

CONCLUSIONI E PROSPETTIVE FUTURE 177

BIBLIOGRAFIA 182

(9)

I

CONSERVATION OF ANCIENT WALL PAINTINGS: EVALUATION OF TRADITIONAL NATURAL

MATERIALS FOR SUPERFICIAL CONSOLIDATION OF EARTH PLASTERS.

The research aims at analysing some topics regarding the conservation of painted earth surfaces (wall paintings - pictorial layers) using natural substances. The emphasis was laid on the consolidation on archaeological earth surfaces. Two of the main materials traditionally used in the conservation of earthen architecture were experimented: the mucilage of Opuntia Ficus Indica and starch of rice. The research was carried out in situ as well as in the laboratory.

The case study of Templio Pintado in the Archaeological sanctuary of Pachacamac (south of Lima, Peru coast) was analysed to comprehend the knowledge of the artefact and the methodologies used in the conservation. The selected materials were tested on some points of the pictorial surfaces of the Templio and the improvement of the cohesion was evaluated.

In the laboratory, the effect of these materials on specially-made support was tested. These supports were created and accelerated aging following the knowledge learnt in the situ experience. The natural materials used in the consolidation were compared to the ethyl silicate; one of the synthesis products mainly used in the consolidation of this kind of pictorial support. Diagnostics investigation (OM, XRD, Colorimetric analysis) allowed evaluating the effects of the materials on the surface, completing the observation made in situ.

The alternation between in situ and in laboratory experimentation was essential because it allowed to completely understand the problem being faced in the conservation and what are the real requirements for conserving these important, but vulnerable, surfaces.

Keywords: wall paintings; plaster; Opuntia Ficus Indica mucilage; rice starch; surface consolidation;

(10)

II

INTRODUZIONE E SCOPO DELLA RICERCA

Le superfici in terra cruda sono state tra i primi supporti utilizzati dall'uomo per raccontarsi e comunicare con gli altri attraverso simboli, graffiti, dipinti fino alla scrittura. Queste superfici ricche di fascino e fortemente evocative, sono in grado di farci rivivere una battuta di caccia avvenuta nel paleolitico, coinvolgerci in una cerimonia svoltasi più di 2000 anni fa e renderci partecipi di credi e valori di civiltà ormai scomparse. Esse rappresentano una inestimabile fonte di informazioni sociali, culturali e tecnologiche che forniscono un importante contributo nello studio della storia dell'umanità. Tuttavia, la vulnerabilità dei materiali utilizzati per la loro realizzazione, unitamente all' aggressività degli agenti di degrado, naturali e antropici, rappresentano i fattori che maggiormente incidono sul loro stato di conservazione e ne pregiudicano il loro perdurare nel tempo. La conservazione di questi apparati pittorici, così singolari, pone non poche difficoltà al conservatore e al restauratore che quotidianamente si adoperano nel cercare nuove ed efficaci soluzioni per preservarle. Le operazioni di scavo portano alla luce queste testimonianze del passato, ma allo stesso tempo, perturbano un equilibrio raggiunto in centinaia di anni tra la struttura archeologica e il terreno che ne ha consentito la conservazione.

La possibilità di conservare e salvare queste testimonianze appare quanto mai difficoltosa. La materia prima è estremamente eterogenea e le infinite soluzioni adottate nel corso dei secoli per la sua messa in opera incrementano un ventaglio di caratteristiche che si differenziano anche in ristretti areali geografici. La terra è estremamente vulnerabile alle azioni indotte dall'acqua e dalla sua interazione con gli altri fattori ambientali, generando comportamenti talora imprevedibili anche a fronte di minime variazioni dei parametri microclimatici.

A livello metodologico, mancano protocolli, norme e prove di laboratorio per la valutazione delle caratteristiche prestazionali delle superfici dipinte in terra cruda, così come risultano pressoché assenti test finalizzati alla valutazione dell'adesione e coesione dei rivestimenti superficiali.

Tra le svariate criticità poste da questo tipo di superfici, nel presente lavoro l'attenzione è stata focalizzata sulla tematica del consolidamento corticale.

L'utilizzo di alcuni polimeri sintetici per la protezione e il consolidamento, ha spesso causato su queste superfici un peggioramento del già precario stato di conservazione a causa dell’incompatibilità tra materiali polimerici e terra cruda.

Il silicato di etile, unico prodotto di origine sintetica che attualmente è ancora tra i pochi impiegati nel consolidamento superficiale, appare invece come una soluzione di difficile sostenibilità economica, sopratutto nel caso di realtà che necessitano conservare estese aree di dipinti murali e con finanziamenti generalmente insufficienti. Tutti i trattamenti eseguiti con prodotti di origine sintetica sono inoltre irreversibili e impossibili da rimuovere senza generare una ingente perdita materica. Gli studi in merito al loro effetto a distanza di anni, soprattutto nel caso del silicato di etile, appaiono ancora lacunosi. Evidenziati i danni causati in passato per la troppa fiducia verso i materiali moderni, attualmente si tende attualmente ad utilizzarli con cautela, ricercando nei materiali naturali, utilizzati

(11)

III

nella tradizione costruttiva locale, una soluzione per preservare e conservare in maniera coerente e efficace questi manufatti

L'utilizzo di sostanze animali o vegetali, tal quali o sottoposte a processi di trasformazione, è noto e si perde nella notte dei tempi. Il loro utilizzo nella tecnica costruttiva è stato ampiamente documentato nella bibliografia specifica e la loro compatibilità materica con la terra è comprovata da pratiche millenarie legate alla costruzione e manutenzione di questi edifici.

Tuttavia esiste una enorme lacuna relativa al loro utilizzo nella conservazione delle superfici dipinte, i cui i saperi sono spesso relegati alla diffusione orale delle pratiche e metodiche impiegate in cantiere, sia tra maestranze locali che tra esperti del settore.

Da queste premesse nasce l'esigenza di approfondire le problematiche accennate attraverso lo scelta di un caso studio. In questo modo è stato possibile valutare l'estensione delle patologie murarie, l'eterogeneità dei materiali in opera e le pratiche conservative messe in atto per la loro conservazione.

La scelta è ricaduta all'interno del ricchissimo patrimonio archeologico Peruviano, costellato dalla presenza di numerosi siti archeologici realizzati con differenti tecniche costruttive, frequentemente decorati con pitture murali, e che vedono quale comune denominatore il materiale terra cruda. Queste strutture sono collocate principalmente lungo la fascia costiera in cui il clima arido semi desertico, unitamente al terreno che nel corso dei secoli le ha ricoperte, hanno garantito la conservazione di parte di questo importante patrimonio artistico e culturale.

L'edificio selezionato per l’attività di studio del presente Dottorato di Ricerca è il Templo Pintado all'interno del santuario archeologico di Pachacamac, situato nella fascia costiera del Perù a 20 km a sud di Lima.

La scelta dei materiali da testare ed impiegare per il consolidamento delle pitture murali si fonda su un’ampia ricerca bibliografica. In tale occasione, è emersa l'attuale attenzione rivolta dalla comunità scientifica nei confronti della mucillagine di Opuntia Ficus Indica, prodotto utilizzato da secoli soprattutto nell'areale dell'America Latina.

La ricerca coinvolge ambiti estremamente diversi e in campo architettonico, oltre ad essere utilizzata con la terra cruda, è impiegata e studiata anche come additivo in materiali quali calce e cemento. Altro materiale considerato nella ricerca è stato l'amido di riso, derivante dalla tradizione costruttiva della Cina. Questi materiali sono attualmente diffusi in tutto il mondo e il loro processo di trasformazione non richiede particolari e costosi accorgimenti, rendendoli quindi pratici e utilizzabili in svariati contesti.

In merito a questo, il Templo Pintado è stato scelto in particolare per la presenza di un programma di ricerca finalizzato alla conservazione di queste pitture, che ha previsto nel 2009 lo sviluppo di alcune sperimentazioni con queste sostanze. La sperimentazione condotta su questi materiali è stato un fattore discriminante nella scelta del caso studio, oltre ad essere una delle poche esperienze pubblicate e reperibili su questa tematica. Le ricerche svolte in sito prima dell'inizio del presente lavoro, hanno ancora una volta sottolineato l'estrema difficoltà nella valutazione dei trattamenti, così come la mancanza di una metodologia scientifica che ne avvalori il loro utilizzo e che si spinga oltre alla valutazione qualitativa.

(12)

IV

Il lavoro di ricerca è stato sviluppato parte in situ e parte in laboratorio. L' esperienza in situ è durata nel complesso 20 mesi, distribuiti nell'arco dei tre anni. Durante questi mesi ci si è inizialmente concentrati nell'approfondire e conoscere intimamente il materiale e analizzare nel dettaglio le patologie di degrado presenti. Una parte del lavoro è stata dedicata ad acquisire dimestichezza con le pratiche impiegate nella conservazione, partecipando attivamente alle attività svolte dalla equipe che opera costantemente nel sito e da cui si è appreso come preparare e utilizzare questi materiali nelle operazioni di consolidamento.

Successivamente a questa prima fase conoscitiva, è stata sviluppata una sperimentazione in cui, i materiali naturali oggetto di interesse, sono stati testati su alcuni lacerti pittorici.

Durante la sperimentazione in situ è stato possibile apportare alcuni cambiamenti nella metodica di preparazione dei presidi consolidanti, oltre che proporre e testare una metodologia atta a quantificare gli effetti apportati dai trattamenti.

L'attività di laboratorio ha invece previsto un primo momento conoscitivo, in cui sono stati caratterizzati alcuni campioni di intonaco dipinto provenienti dalle ultime campagne di scavo. Successivamente si è proseguito tramite la produzione di oltre 120 facsimili, con caratteristiche differenti, e che sono stati invecchiati artificialmente per simulare lo stato delle superfici pittoriche originali. Infine queste sono state consolidate mediante le stesse metodiche impiegate nel Templo ed è stata comparata la loro efficacia con quella del silicato di etile.

Entrambe le esperienze si sono rivelate fondamentali per lo sviluppo della ricerca.

Questo studio intende proporre una metodologia che miri a valutare gli effetti indotti dal consolidamento corticale in situ, verificare alcuni aspetti del consolidamento mediante materiali tradizionali comparandoli con quelli moderni e documentare alcune pratiche conservative normalmente impiegate in cantiere ma raramente diffuse tramite pubblicazioni nella bibliografia scientifica.

(13)

1

CAPITOLO 1

LA CONSERVAZIONE DELLE PITTURE MURALI SU INTONACI IN TERRA CRUDA

"In every country in the world, people lovingly preserve their dwellings. They seek not only to protect materials that risk changing, decaying, or crumbling, they also hope to "make beautiful," to identify with a group or, on the contrary, to mark a distinction, to obey social and religious traditions, or simply to "make clean," We have noticed during our travels that this is one preoccupation that motivates most inhabitants, even those with the most modest homes. In South Africa, for example, we had the opportunity to cross a shanty town in which families from different tribes were housed by neighborhood, and we admired the builders' ingenuity and way of assembling found materials essentially corrugated sheet metal-and the care taken to decorate their humble shelter with the help of paint, and even interiors with respect to the group's ancestral traditions." (Lenclos J.P. et alii, 1999).

Dal paleolitico ai giorni nostri l'uomo ha decorato le superfici della propria abitazione, dei suoi edifici pubblici e religiosi, con l'intento di narrare le proprie esperienze, comunicare e riconoscersi in segni e simboli. Queste manifestazioni artistiche ci permettono, quando interpretabili, di apprendere su abitudini, credi e valori di popoli a noi lontani nel tempo e nello spazio, scoprendo il mondo che li circondava.

In particolare, le superfici dell'architettura in terra cruda, sono state tra le prime tele utilizzate dall'uomo essendo, insieme alla pietra e al legno, tra i primi materiali impiegati nella costruzione (Mellaart J., 1964; Chiari G., 1998; Rainer L.,2004; Anger R., 2009). Mescolando la terra con sabbia, acqua e altri materiali naturali disponibili localmente, l'uomo ha costruito abitazioni, innalzato templi, palazzi e intere città. Le superfici decorate che rivestono queste strutture seguono spesso lo stesso principio in quanto, per la loro esecuzione, sono utilizzate perlopiù terre naturali colorate che, mescolate con acqua e additivi di varia natura, vengono stese sulla superficie per costituire gli apparati decorativi. Lo sviluppo delle tecniche costruttive in terra cruda, dalle più semplici alle più complesse, contempla molteplici tipologie, distinguibili spesso in base all'areale geografico in cui queste sono state realizzate, così come le decorazioni presenti sulle loro superfici (Chiari G., 1998).

"Earthen architecture is one of the most original and powerful expressions of our human ability to create a built environment using locally available resources. It includes a great variety of architectural and urban manifestations, ranging from simple houses to palaces, from granaries to religious buildings, and further to historic city centers, cultural landscapes, and archaeological sites. The evidence of its cultural importance throughout the world has led to its consideration as a common heritage of humankind, therefore deserving protection and conservation by the international community." (Joffroy T. et alii,

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2

Attualmente si stima che il 50% della popolazione mondiale viva in edifici in terra cruda, distribuiti su tutti i continenti. Il suo utilizzo nella storia è documentato grazie ai numerosi siti archeologici che ancora sussistono in questo materiale. Circa il 20% dei beni iscritti nella World Heritage List identificato dall’UNESCO è costituito da architetture in terra cruda (Anger R., 2008; Joffroy T. et alii, 2012; Bartolomucci C., 2013).

Fig. 1.1 Areali geografici di diffusione dell'architettura in terra con indicazione dei beni architettonici iscritti nella World Heritage

List dell'UNESCO. (Rielaborazione della mappa sulla base tratta da Joffroy T., 2012).

Nonostante il suo diffuso utilizzo e la grande attività di ricerca sviluppatasi soprattutto a partire dai primi anni sessanta, gli aspetti inerenti la sua conservazione appaiono ancora carenti di soluzioni efficaci, che permettano non solo di salvaguardare il processo produttivo con l'eterogeneo e diversificato bagaglio culturale che da questo deriva, ma di preservare la sua consistenza materica, soprattutto in ambito archeologico.

"Il materiale è molto poco resistente, ed è sempre stato utilizzato con l'idea di sottoporre gli edifici a una accurata manutenzione, spinta fino a periodici rifacimenti che riguardano non soltanto muri e intonaci, ma anche superfici decorate o dipinte. Questo basta da solo a giustificare le difficoltà connesse con la conservazione di monumenti in terra, poiché il conservatore-restauratore moderno non può ovviamente permettersi di rifare l'opera quando questa presenti segni di deterioramento, come in antico non solo si faceva comunemente, ma addirittura si pianificava di fare, onde rendere accettabile un materiale che altrimenti non avrebbe dato garanzie di durata al di là di pochi anni. Le regole del gioco sono quindi mutate, per questo materiale, molto più che per altri."

(15)

3

La terra cruda è un materiale estremamente e intrinsecamente vulnerabile che necessita di continua manutenzione per poter perdurare nel tempo (Houben H., 1994

;

Rainer L., 1995

;

Charnov A.A., 2011; Little B. et alii, 2001).

Il modus operandi a cui si riferisce Chiari è presente in molti contesti culturali in cui l'utilizzo di questo materiale è fortemente radicato. Le tradizioni legate al rifacimento annuale degli intonaci, che ancora oggi perdurano all'interno del popolo Kasséna, potrebbe essere un esempio di quelle che un tempo erano le pratiche manutentive legate a queste superfici che oggi possiamo apprezzare solo in parte. A Tiébelé (Burkina Faso) le case vengono annualmente intonacate e dipinte dalle donne

Kasséna, che tramandano il sapere tecnologico e simbolico alle nuove generazioni. Il rifacimento

dell'intonaco e delle sue decorazioni, che si effettua nel mese di maggio in previsione dei 4 mesi di piogge, diventa una vera e propria cerimonia che unisce e rende partecipe tutta la comunità (Kéré B., 1995; Rokotomamonjy B., 2008). Questo non è che un esempio poiché, a prescindere dalle diverse tecnologie costruttive impiegate, la pratica della manutenzione è il fattore comune che permette la sopravvivenza di queste architetture.

Fig. 1.2 Donna Kasséna durante l'annuale rifacimento dello

strato di intonaco.

Fig. 1.3 Intonaci decorati. Tiébelé (Burkina Faso).

In ambito archeologico, ci confrontiamo con strutture in cui tutte le pratiche di manutenzione sono state interrotte centinaia di anni prima dalla sua scoperta. In molti casi, la loro conservazione, è stata assicurata solo dal permanere interrate per un lungo periodo di tempo e che le ha protette dagli agenti di degrado (pioggia, vento, forti sbalzi di temperatura, umidità e uomo) (Mora P., 1986; Tabasso M., 2008). Lo stato in cui si presentano queste strutture al momento dello scavo è probabilmente lo stesso nel quale lo si sarebbero ritrovate molti secoli più tardi (Mora P., 1986). L'operazione di scavo provoca un'esposizione rapida e violenta del bene archeologico agli stress indotti dall'ambiente circostante, causandone un rapido deperimento se non si interviene al momento dell'esposizione stessa con operazioni di conservazione e protezione (Alva Balderrama A et

alii, 1986; Rainer L., 2004; Charnov A.A., 2011).

In particolare, se risulta difficile intervenire nella protezione della struttura, lo è ancora di più nel caso degli intonaci di terra con superfici dipinte. Questo deriva dal ruolo stesso dell'intonaco all'interno della fabbrica architettonica. Oltre alla sua funzione estetica infatti, questo rappresenta la superficie sacrificale dell'edificio, la cui funzione è proprio quella di proteggere la struttura dagli agenti atmosferici. Per questo motivo è sempre stato soggetto a continui rifacimenti in quanto è il primo a

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4

subire degrado, sia quando l'edificio è in funzione sia nel caso delle strutture archeologiche (Mora P., 1986; Tabasso M. 2008). Riconoscendo l'estrema labilità della terra cruda, quando possibile in termini di disponibilità materica e sapere tecnologico, l'intonaco veniva eseguito con materiali più resistenti, quali ad esempio la calce.

Nel presente studio l'attenzione è focalizzata su intonaci e superfici dipinte eseguiti integralmente in terra, che sono appunto tra i casi maggiormente a rischio. Questi apparati si presentano generalmente complessi, esibendo uno o più strati di malte di terra realizzate con differenti modalità esecutive. Le decorazioni pittoriche erano stese per la maggior parte utilizzando pigmenti stemperati in acqua e altri medium, come estratti vegetali o sostanze di origine animale (Botticelli G.,1992; Rainer L., 2004).

I problemi posti dalla conservazione di queste superfici decorate sono complessi a causa delle caratteristiche di eterogeneità del materiale terra e della già menzionata intrinseca vulnerabilità. Inoltre la ricerca pubblicata su questo argomento è limitata, e pochissimi ricercatori si sono concentrati sulla conservazione delle superfici decorate in terra cruda (Singh M. et alii, 2015).

Al fine di pianificare interventi di restauro appropriati, occorre possedere un'adeguata conoscenza del materiale, della sua organizzazione tessiturale e dei suoi comportamenti in risposta alle sollecitazioni ambientali che caratterizzano lo scenario dinamico in cui il esso opera.

1.1 CENNI SUL MATERIALE

La terra è il prodotto del disfacimento delle rocce e, data l'estrema variabilità della composizione mineralogica delle molteplici "roccia madre", così come i fenomeni di alterazione che intervengono in questo processo, possiede una composizione estremamente eterogenea. La terra può essere definita come un materiale composito, costituito da grani di differenti dimensioni, la cui funzione è determinata dalla loro dimensione e composizione mineralogica. In particolare, la tipologia dei grani costituenti il materiale può essere distinta in due grandi famiglie: gli inerti e l'argilla (Houben H. et alii, 1995). Nel caso degli intonaci in terra cruda, gli inerti sono perlopiù costituiti da sabbia (2<ø<0.06 mm) e limo (0.06<ø<0.002 mm). Questi costituiscono lo scheletro strutturale del materiale che è tenuto insieme dalla componente legante, ovvero i minerali argillosi. Il termine argilla ha una definizione ambivalente (Bergaya F.A., 2000) a seconda che si consideri il significato in termini dimensionali o

mineralogici. Da un punto di vista dimensionale, la frazione granulometrica delle argille comprende tutti i grani di dimensioni inferiori a 2 μm. Da un punto di vista invece mineralogico, con il termine minerali argillosi ci si riferisce a particolari silicati idrati di alluminio e magnesio, ovvero fillosilicati secondari generatisi a seguito del processo di alterazione di minerali quali miche, feldpati e altri silicati. La struttura di questi minerali è caratterizzata dalla sovrapposizione dello strato tetraedrico e ottaedrico. Le unità tetraedriche (T) sono costituite dall'unione di più tetraedri costituiti a loro volta da un atomo di silicio centrale legato a 4 ioni ossigeno disposti sui vertici. I tetraedri si uniscono tra loro formando dei piani esagonali T. L'unità fondamentale ottaedrica è invece costituita da uno ione di alluminio o di magnesio centrale legato a 6 ioni ossigeno. Dall'unione in corrispondenza dei vertici di questi ottaedri si genera lo strato ottaedrico delle argille (O). Gli strati T si legano agli strati O mediante legami forti di tipo ionico per formare i "pacchetti elementari". In base alla combinazione delle unità T e O si distingue una elevata varietà di minerali argillosi. In particolare, in funzione alla distanza basale

(17)

5

dei pacchetti elementari si differenziano le 4 più importanti famiglie di minerali argillosi: Caolinite (7 Å), Illite (10 Å), Smectite (15 Å) e Vermiculite (14.5 Å). È inoltre molto comune trovare queste strutture combinate in natura, costituendo i minerali argillosi a strati misti (interlayer). I pacchetti elementari si legano tra loro con forze più deboli, come ad esempio legami a idrogeno o ionici più deboli rispetto a quelli che tengono uniti gli strati dei pacchetti elementari (Newman A.C., 1987). La microtessitura, in sezione trasversale, appare tipicamente fogliettata, mentre platiformi sono spesso le forme assunte dalle singole particelle. I minerali argillosi formano aggregati a grana molto fine e, quando miscelati con acqua, assumono diversi gradi di plasticità (Newman A.C., 1987; Houben H. et alii, 1995; Anger R.

et alii, 2009).

Le principali proprietà dei minerali argillosi dipendono criticamente dalla loro piccola dimensione, a cui consegue un'elevata superficie specifica, e dalle cariche elettriche delle superfici e dei bordi dei pacchetti, che permettono a questi minerali di interagire tra loro e con gli altri componenti del sistema grazie alle forze elettrostatiche che ne derivano (Houben H. et alii, 1995; Anger R. et alii, 2009) . Le argille sono superficialmente caricate negativamente per la presenza degli ioni ossigeno sulle superfici. Inoltre in molti casi si assiste a sostituzioni isomorfe in cui cationi con più bassa valenza occupano le posizioni di silicio e allumino determinandone un aumento di carica superficiale negativa. Oltre alle cariche negative, queste presentano delle cariche positive lungo i bordi dei pacchetti. Queste cariche, unite all'elevata superficie specifica, sono le responsabili delle interazioni che le argille generano soprattutto con le molecole d'acqua e con gli atomi superficiali insaturi facenti parte di particelle limitrofe (Houben H. et alii, 1989).

Per i motivi appena accennati, le argille manifestano un'elevata affinità all'acqua. Le molecole d'acqua possono interporsi all'interno degli strati dei pacchetti elementari e generare un forte rigonfiamento con successiva contrazione quando questa è rilasciata durante l'essiccamento. Argille di questa tipologia, facenti parte del gruppo delle smectiti, non vengono generalmente utilizzate per le costruzioni in terra. Queste infatti inficiano la già precaria resistenza del materiale (Houben H. et alii, 1989). Tuttavia, la presenza di una quantità d'acqua adeguata è necessaria affinché il materiale manifesti coesione.

L'acqua tende infatti a disporsi attorno alle placchette d'argilla, attratta dalle cariche negative superficiali. Quest'interposizione annulla la repulsione esistente tra le superfici di pacchetti elementari,

entrambe cariche negativamente,

generando ponti capillari dello spessore di pochi nm tra le stesse (Fig. 1.2). Quest'acqua, definita acqua adsorbita, è la reale responsabile dell'unione tra le particelle d'argilla (Anger R. et alii, 2009).

Fig. 1.2 Ponte di argille tra due grani di sabbia (a). I grani sono legati

da un ponte di minerali argillosi a loro volta tenuti insieme dai ponti capillari (b, c). (Immagine: Anger R. et alii, 2009)

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Aumentando la quantità d'acqua nel sistema, la distanza tra i foglietti d'argilla aumenta facendo conseguentemente diminuire la coesione data dai ponti capillari. L'aggiunta d'acqua rende il sistema plastico e permette alle particelle di scorrere l'una sull'altra o sui grani dell'inerte agendo quindi da lubrificante (Chiari G., 1998). Quest'acqua, definita invece interstiziale, è quella che nel processo di presa evapora dal materiale mentre permane l'acqua adsorbita (Houben H. et alii, 1995; Anger R. et

alii, 2009). Se invece l'acqua presente nel sistema è in quantità eccessiva, questa genera un

eccessivo allentamento dei già deboli legami secondari. In corrispondenza di questa quantità si ha un indebolimento eccessivo dei legami, le argille sono portate in sospensione e si assiste alla completa disgregazione del materiale (Chiari G., 1998).

Con l'evaporazione si assiste alla contrazione (ritiro) del materiale, tanto più marcata quanto più rigonfiante è l'argilla presente nel sistema. Per limitare gli effetti generati dalla contrazione, è necessario che lo scheletro inerte, il cui scopo è quello di dare stabilità dimensionale al materiale, sia presente in quantità ottimale (Prost R.et alii, 1998).

Al fine di migliorare le caratteristiche intrinseche del materiale, da sempre la terra è stata migliorata con l'aggiunta di additivi tra i più differenti, da fibre e estratti di tipo vegetale e sostanze animali fino ai giorni nostri con l'aggiunta di materiali di sintesi. In particolare, gli additivi derivanti dalla tradizione si differenziano enormemente per aerale geografico e sono stati utilizzati con scopi differenti. Un tentativo di sistematizzazione di questi è presentato in differenti pubblicazioni (Chandra S. et alii, 1994; Shetty. M.S., 2006; Cooke L., 2010). La più recente e completa rassegna è Argiles & Biopolymèeres di

CRATerre (Vissac A. et alii, 2017), che concentra la ricerca proprio sulla tematica inerente gli additivi

naturali e tradizionali utilizzati nell'architettura in terra cruda. I materiali tradizionali di tipo naturale sono definiti bio-polimeri, ovvero macromolecole naturali con disposizione a catena, che conferiscono maggiore coesione al materiale favorendo i processi di adesione tra i grani di argilla. Le molecole utilizzate per i miglioramenti della coesione del materiale sono degli agenti gelificanti.

Queste molecole presentano due caratteristiche principali: possiedono una debole carica elettrica superficiale, capace di interagire con quella dei minerali argillosi, e sono sufficientemente lunghe per fissarsi a più foglietti d'argilla alla volta collegandoli tra loro (Fig. 1.3).

Queste peculiarità sono presenti all'interno della famiglia dei polisaccaridi di origine vegetale (cellulosa, amido, pectine, mucillagini, gomme e alghe) e delle proteine di origine animale (caseina, collagene o gelatina) (Anger R., 2009).

Fig. 1.3 I biopolimeri sono grandi catene in grado

di fissarsi a più foglietti di argilla. (Immagine: Anger R. et alii, 2009)

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Tuttavia, dato il rilevante ruolo giocato dall'acqua, nonostante gli accorgimenti tecnologici incontrati per la protezione e il miglioramento del materiale, questa è ancora il peggior nemico nel caso di strutture e superfici in terra cruda, soprattutto nel caso in cui queste non vengano mantenute assiduamente. I forti stress generati dalla continua espansione e contrazione del materiale, unitamente all'interazione con gli altri fattori ambientali, lo rende estremamente vulnerabile e da questo ne deriva un'urgente quanto complessa attività per la sua conservazione. Il problema inoltre si complica ulteriormente quando a dover essere conservate sono le superfici dipinte in cui, anche la perdita del più piccolo strato materico, compromette definitivamente la leggibilità dell'opera (Chiari G., 1998). Le alterazioni che maggiormente si riscontrano sulle superfici pittoriche sono strettamente legate al degrado dell'intonaco e della stessa struttura su cui sono state eseguite. L'intervento su queste superfici non può quindi prescindere dalla conservazione, restauro e protezione delle strutture con le quali esse convivono

"…il contatto con l'acqua di pioggia deve essere comunque evitato. Un sistema di copertura è quindi sempre necessario, anche se, quando ci si ritrova i uno scavo, spesso è di difficile esecuzione per motivi sia estetici che topografici. L'importanza di conservare nel loro ambiente fregi e pitture, anche nel caso della terra cruda, è comunque tale da incoraggiare a intraprendere l'opera di conservazione in situ che, se pur non facile, è tuttavia possibile."

(Chiari G., 1998).

Per la vastità e complessità della tematica, nel presente lavoro si è focalizzata l’attenzione sulle operazioni di consolidamento delle superfici dipinte, volte a mitigare la polverizzazione dello strato pittorico e la perdita di adesione tra esso e il supporto in terra cruda.

1.2 IL CONSOLIDAMENTO DEI DIPINTI MURALI SU INTONACI IN TERRA CRUDA

Il consolidamento superficiale dei dipinti murali in terra cruda rappresenta un punto critico e ancora poco approfondito nell'ambito della ricerca. Per consolidamento superficiale si intende una serie di operazioni volte al miglioramento della coesione del materiale degli strati pittorici, oltre che al ripristino dell’adesione tra questi e il supporto. Questo consiste nell’applicazione di sostanze consolidanti attraverso l’impregnazione del materiale o iniezioni nelle cavità della struttura del materiale (Weyer et alii, 2015). Mentre esiste un copioso corpus bibliografico inerente la

documentazione di queste pitture e i trattamenti eseguiti soprattutto con sostanze di sintetisi, si rileva una carenza di informazioni relative agli effetti a lungo termine del consolidamento e che solo recentemente inizia ad essere implementata. Dall'analisi dei casi studio relativi il consolidamento, ciò che si evince è che non esiste una soluzione unica e risolutiva per i problemi di polverizzazione e distacco della pellicola pittorica. L'estrema variabilità del materiale e la sua vulnerabilità alla caratteristiche del contorno rendono necessario un adattamento del trattamento conservativo allo specifico caso di studio analizzato. Per questa ragione, consolidanti che hanno dato buoni risultati su determinate superfici, potrebbero risultare deleteri su altre.

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1.2.1 Interventi per il ripristino dell'adesione tra gli strati pittorici

Per la riadesione degli strati pittorici, nel caso della terra cruda, non sempre vengono impiegati prodotti consolidanti o adesivi ma, in alcuni casi, l'intervento è eseguito semplicemente sfruttando le proprietà dell'argilla e del suo recupero di plasticità a contatto con l'acqua.

Il procedimento prevede l'inumidimento dell'area trattata, che reidrata i minerali argillosi e conferisce un'adeguata plasticità al materiale; successivamente si procede applicando una lieve pressione con spugna morbida, proteggendo la superficie pittorica con carta giapponese che viene poi rimossa prima della sua completa essiccazione (Chiari G., 1998; Tabasso M., 2008; Pozzi-Escot D. et alii, 2013). Questa metodica di intervento può essere l'unica eseguita nel caso non si possa agire con altre pratiche conservative. In altri casi invece rappresenta la fase preliminare all'apposizione in superficie di prodotti consolidanti di differente tipologia (Chiari G., 1998; Tabasso M., 2008).

1.2.2 Consolidamento con prodotti sintetici

I prodotti di origine sintetica impiegati nelle operazioni di consolidamento possono essere di due tipologie: organici e ibridi. Tra i prodotti organici di origine sintetica, i più usati sono i polimeri polivinilici come il PVA o acrilici come il Paraloid B72. Questa tipologia di adesivi e consolidanti sono stati (e in alcuni casi continuano a esserlo) ampiamente utilizzati in differenti interventi conservativi in tutto il mondo per il consolidamento corticale del coating e la riadesione tra gli strati pittorici. Inoltre sono stati ampiamente utilizzati per ottenere la riadesione degli intonaci al supporto murario mediante iniezioni (Mora P. et alii,1984; Preusser F., 1991; Corzo M.A. et alii, 1990; Matero F. et alii, 1994; Bandaranayake S., 1997; Gordon 1997; Zuixiong L., 2010).

Tuttavia, l'analisi di alcune esperienze ha evidenziato come questa tipologia di prodotti ha generato notevoli danni, soprattutto quando questi prodotti sono utilizzati nel consolidamento corticale delle superfici. I polimeri sintetici tendono a formare un film superficiale, saturare il colore, aumentare la lucentezza modificando la tessitura del materiale e possiedono un coefficiente di dilatazione termica di un ordine di grandezza superiore rispetto al materiale non trattato. Generalmente formano inoltre una soluzione di continuità (crosta superficiale) tra la superficie trattata (di solito polverulenta) e quella sottostante ove il polimero non è penetrato. Sono facilmente deteriorabili se sottoposte all'azione della luce, specie ultravioletta, e dell'ossigeno (French P. 1986; Chiari G., 1998; Singh M. et

alii, 2015).

I trattamenti effettuati con questo tipo di prodotti hanno portato a un deterioramento maggiormente accentuato sulle superfici data l'incompatibilità tra esse e il supporto e, ancora oggi a distanza di decenni, se ne stanno valutando le conseguenze (He X. et alii, 2014) e i trattamenti possibili per la loro rimozione data l'irreversibilità del trattamento (Sun M. et alii, 2015).

Un esempio di quali siano i danni dovuti all'utilizzo di questi prodotti è sicuramente il sito archeologico di Chan Chan (Fig. 1.4). Le superfici sono state trattate con PVA nel caso di intonaci con alto rilievi e silicato di etile sulle superfici dipinte (Hoyle A.M., 1990). In seguito alle forti piogge non è stata riscontrata erosione sulle murature. Tuttavia il PVA ha generato una pellicola che ha reso la muratura impermeabile a causa della rapida evaporazione del prodotto, causandone una esfoliazione dovuta all'azione di umidità e cristallizzazione salina. La constatazione di questi danni ha portato in questo caso a prediligere l'utilizzo materiali di tipo naturale (Hoyle A.M., 1990).

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Fig. 1.4 Sito archeologico di Chan Chan (Perù). Situazione attuale. (Foto: Marta Cappai 2015)

Per quanto riguarda invece l'utilizzo di prodotti sintetici di tipo ibrido, ci si riferisce in particolare a quello maggiormente usato, ovvero il silicato di etile (Lewin et alii, 1985; Chiari 1990; Gamarra R.M., 2011; Silver S.C., 2011). Questo è formato dall'estere dell'acido silicico e si può trovare sia puro che già diluito in solventi per diminuirne la viscosità e aumentare la penetrabilità. Si tratta di un liquido leggermente viscoso.

L'applicazione del prodotto avviene a spruzzo o tramite pennello1 fino a rifiuto; la profondità di

penetrazione è variabile in base alla porosità del materiale. Si stima che nelle normali condizioni di trattamento (cioè uno o due litri di silicato di etile per metro quadrato), la penetrazione possa variare tra uno e tre centimetri di profondità. Il formulato è in parte inorganico (silicato) e in parte organico (residuo alcolico), ma al termine della reazione il residuo sulla superficie trattata è puramente minerale (silice amorfa).

L'effetto consolidante si ottiene già entro poche ore, ma la reazione può richiedere anni prima di essere completa. I tempi di maturazione del prodotto sono comunemente indicati nelle schede tecniche fornite dai produttori stessi. Il monomero è costituito da un atomo di silicio attorniato da quattro gruppi etossilici (etanolo). In presenza di acqua avviene la reazione di idrolisi, con evaporazione di una molecola di etanolo e la formazione di un residuo acido che rimane legato al silicio, per formare Si-OH.

La reazione può avvenire su i 4 gruppi in tempi diversi; quando tutti e 4 portano a termine il processo di idrolisi si ha la formazione di acido silicico Si(OH)4. Quando poi due gruppi acidi appartenenti a

molecole diverse interagiscono, avviene la reazione di polimerizzazione per condensazione. A ogni condensazione si libera una molecola d'acqua, che si rende quindi disponibile per l'idrolisi di un altro gruppo , e contemporaneamente si forma un legame Si-O-Si, molto forte. I dettagli della reazione di condensazione sono riportati in Fig. 1.5.

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In Chiari G. 1998 si specifica che il prodotto non può essere applicato con pennello per l'estrema fragilità della superficie.

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a) Reazione di idrolisi e formazione del resduo acido b) Reazione di policondensazione

Fig. 1.5 Dettagli delle reazioni di idrolisi (a) e policondensazione (b). Immagine tratta da Chiari (1998).

Al procedere della reazione i gruppi tetraedrici di acido silicico interagiscono tra loro per costituire una rete tridimensionale di gel di silice. In contatto con il materiale argilloso la reazione di condensazione può avvenire con uno dei gruppi idrossilici (-OH) delle argille, formando un legame tra il polimero inorganico che si sta formando e una particella di argilla.

Il silicato di etile è utilizzato in superficie per il miglioramento della coesione del materiale ma non possiede capacità adesive (Chiari G., 1998). Nel caso di strati pittorici che si presentano distaccati tra loro, l'utilizzo del silicato avviene successivamente alla riadesione degli strati illustrata nel sottoparagrafo 1.2.1.

Nonostante l'utilizzo del silicato di etile sia apparso nella maggior parte dei casi, anche a distanza di tempo, un trattamento che offre buoni risultati nel caso di superfici non dipinte, nella conservazione dell'architettura in terra e nello specifico di queste superfici è di estrema importanza che le strutture siano riparate dall'azione diretta dell'acqua e di tutti gli agenti atmosferici che inficiano sui suoi stadi di accumulo e evaporazione nella muratura.

Per questo è necessario, nel caso in cui non si operi un rinterro successivamente lo scavo, l'utilizzo di adeguati accorgimenti quali la protezione mediante coperture ben progettate e testate, l'apposizione di malte sulle cortine murarie specificatamente progettate per il sito sul quale si interviene e, fondamentale, la manutenzione continua con interventi puntuali sul bene in questione (Alva Balderrama A. et alii, 1986).

Tra gli esempi annoverabili di siti archeologici in cui questo prodotto è attualmente utilizzato nel consolidamento corticale di dipinti murali in terra c'è sicuramente il caso della Huaca de la Luna (100-800 d.C.). In questo sito (Fig. 1.6-7) il silicato di etile è tra le soluzioni adottate per il consolidamento dei vastissimi apparati pittorici dati i risultati positivi ottenuti in questi anni (Morales Gamarra R., 2008).

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Fig. 1.6 Decorazioni murali sulle superfici di adobe della Huaca dela Luna (Valle Moche - Perù). (Foto: Marta Cappai 2015)

Fig 1.7 Decorazioni murali sulle superfici di adobe della Huaca dela Luna (Valle Moche - Perù). (Foto: Marta Cappai 2015) Tra gli ultimi aspetti da considerare in merito a questa tipologia di trattamenti e che viene spesso tralasciata come criticità in merito, è la loro sostenibilità economica. Il silicato di etile ha infatti un costo che, nel caso di piccole e medie realtà, non è sempre sostenibile data anche la grande quantità di prodotto che è necessaria per il consolidamento. Per questo motivo, esistono molteplici pratiche diffuse che sfruttano i materiali derivanti dalle tradizioni locali della costruzione in terra, tramite cui si conservano queste superfici con mezzi accessibili e facilmente reperibili.

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1.2.3 Consolidamento con prodotti naturali

I materiali naturali locali di differenti tipologie sono stati da sempre impiegati per migliorare le prestazioni della terra come materiale da costruzione. Data la vastità dei composti utilizzati nella storia, nel presente lavoro di ricerca ci si è concentrati su due di questi, testandone gli effetti sia nel consolidamento delle superfici pittoriche del sito di Pachacamac che in laboratorio.

I prodotti naturali scelti sono la mucillagine di Opuntia Ficus Indica e l'amido di riso. Questi sono stati selezionati in base alla loro diffusione a livello mondiale e locale e in base alla loro facilità di preparazione. In particolare la scelta di utilizzare l'amido di riso è stata dettata dal conoscere, successivamente l'inizio della collaborazione nel santuario, che questo materiale è utilizzato nelle pratiche di manutenzione del sito scelto come caso studio.

Entrambi i materiali sono costituiti da carboidrati complessi, ovvero lunghe catene di polisaccaridi spesso lineari e in alcuni casi ramificati. Il monomero è costituito da un anello di 6 atomi di carbonio con presenza di gruppi OH. Queste macromolecole si ottengono sottoponendo la materia prima a differenti processi: nel caso della mucillagine il processo prevede la macerazione della polpa del cladodio in acqua mentre, per l'amido, un processo di cottura del riso.

Grazie alla loro flessibilità queste possono legarsi a più particelle di argilla e tenerle unite. In questo modo formano un'armatura microscopica tra le particelle di argilla aumentando la coesione tra esse (Vissac A. et alii, 2016).

L'utilizzo di prodotti naturali ai fini del consolidamento dello strato pittorico è una tematica che risente di una enorme lacuna in termini bibliografici. Nonostante infatti queste siano pratiche diffuse in contesti locali, la conoscenza relativa il loro utilizzo per il consolidamento degli strati pittorici rimane spesso relegata alle tradizioni orali.

Durante il periodo di permanenza in Perù c'è stata la possibilità di intervistare diversi specialisti del settore. In queste interviste, oltre ad aver appreso quali mucillagini naturali si usassero maggiormente in Perù, è emerso come tutti gli intervistati (15 tra conservatori e restauratori) utilizzano queste sostanze e che soprattutto ne hanno appreso l'utilizzo nella pratica di cantiere, da "un operaio" con il quale avevano lavorato.

Queste risposte, ottenute da esperti del settore del restauro e della conservazione, devono portare a una prima riflessione su quanto ampio sia ancora il cammino da intraprendere per far luce sulle pratiche locali relative gli interventi di conservazione e di quanto sia necessario studiarle in base alla zona geografica in cui si stia operando.

Un esempio di quanto queste possano essere diversificate deriva proprio da questa esperienza e dal verificare che, a seconda che ci si trovi nella regione della costa o delle Ande, la mucillagine usata si differenzia per la cactacea di provenienza. Nelle regioni andine infatti è maggiore l'uso del Giganton, o Jahuancollay mentre, nella tradizione costiera è stato riscontrato un uso diffuso del cactus San

Pedro e di Opuntia Ficus Indica. Attualmente si sta ampiamente utilizzando la mucillagine di Opuntia Ficus Indica, più facilmente reperibile rispetto alle altre specie menzionate.

Grazie alle ricerche inerenti lo studio di questi materiali, in particolare come additivi per malte e consolidanti su superfici in terra non dipinte, è stato comunque possibile entrare in contatto con una vasta bibliografia che analizza l'uso e le principali proprietà di questi materiali.

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1.2.3.1 Mucillagine di Opuntia Ficus Indica

La mucillagine di Opuntia Ficus Indica è un prodotto che durante i secoli è stato utilizzato largamente nella tradizione costruttiva in terra cruda, soprattutto nelle regione dell'America Latina. Originario del Centro America, al giorno d'oggi può essere reperito come pianta selvatica o coltivata in varie fasce climatiche in America, nel Mediterraneo, in India, in Asia orientale e in Australia (Sáenz, et al., 2006). In base alla zona questa assume differenti nomi, come ad esempio Tuna in Perù o Nopal in Messico. In particolare in Messico è presente una antica tradizione che utilizza questo prodotto come additivo anche in malte di calce (Kita Y., 2013). Relativamente a questo, sono state sviluppate differente ricerche, tra le ultime quelle svolte proprio in collaborazione tra Italia e Messico(Persia F. et alii, 2016), che forniscono un valido e prezioso complemento per lo studio della mucillagine utilizzata sulla terra. Le ricerche odierne sui materiali cementizi stanno inoltre testando l'utilizzo di questo materiale studiando il suo ruolo nella inibizione della corrosione, modificazione della viscosità, riduzione delle deformazioni conseguenti il processo di presa e altri fenomeni(Chandra S. et alii, 1998; Chandra S. et

alii, 1994; Martinez-Molina W. et alii, 2015).

La mucillagine è estratta secondo differenti tecniche dal cladodio della pianta ed è composta principalmente da acido galatturonico (7-8%) e differenti quantità di L-arabinosio (35-40%) e D-galattosio (20-25%), L-ramnosio (7-8%) e D-xylosio (20-25%) (Trachtenberg et alii,1980; Nobel P.S. et alii, 1992; Goycoolea et alii, 2003) oltre a elementi minerali come il Ca+ e il K- la cui presenza, unitamente a

quella dei polisaccaridi, è funzionale a renderla viscosa (Sepulveda et alii, 2007). Possiede inoltre elevate quantità di ossalati di calcio nel tessuto succulento del cladodio che, per i metodi utilizzati per l'estrazione della mucillagine, entrano a far parte della sua stessa composizione (Trachtenberg S. et

alii, 1981; Monje P.V. et alii 2002). Queste proprietà sono comunque influenzate dalle condizioni

pedo-climatiche e da conseguenti variazioni genetiche delle stesse piante (Muñoz D.C. et alii, 1995; Mizrahi Y. et alii,1997; Persia F. et alii, 2016). La mucillagine ha la capacità di assorbire e ritenere l'acqua e, a contatto con essa, forma una soluzione viscosa (Claus S.E. et alii, 1965; Kita Y., 2013).

I metodi di estrazioni tradizionali più semplici prevedono la macerazione di pezzi di cladodio tagliati in acqua. Il tempo di macerazione varia da un minimo di 24-48 ore, dopo le quali si ottiene un liquido gelatinoso e dal pH compreso tra 3 e 4 (Hoyle A.M., 1990). In altri studi l'estratto viene fatto macerare dai 7 ai 24 giorni (Vargas Neumann J. et alii, 1986). Altre tipologie di preparazione prevedono l'utilizzo del solo tessuto parenchimatico e la macerazione in acqua di calce per almeno 20 giorni. Il risultato è un liquido appiccicoso ma non viscoso e con pH pari a 13-14 (Fructuoso Hernández, 2009). Tra queste due metodologie di estrazione, Kita (2013) fa notare la differenza tra la preparazione in acqua semplice e acqua di calce in quanto, la mucillagine ottenuta dal cladodio fresco impiega molto tempo nell'asciugare mentre, con la seconda metodica, asciuga rapidamente e formando un film sottile. Un altro metodo di estrazione che merita di essere menzionato è quello impiegato per le prove di fissaggio del colore nel monolite in pietra di Tlaltecuhtli in Messico. Gli autori puntualizzano che sono state scelte le piante di maggiori dimensioni e sono state esposte al fuoco per bruciare le spine. Il cladodio è stato tagliato in piccoli pezzi e lasciato macerare in acqua per 1 giorno. Successivamente questo composto è stato riscaldato per accelerare il processo, senza però arrivare al punto di ebollizione che avrebbe potuto causare la decomposizione dei polisaccaridi. La miscela così ottenuta è stata diluita in acqua 1:1.

Nello stesso lavoro è inoltre testata la "gomma" che si forma nei cladodi quando sono attaccati dagli insetti. Questa è stata raccolta e bollita più volte e successivamente messa in acqua con proporzioni

(26)

14

di 1:1 ottenendo una sospensione fluida con proprietà adesive. L'analisi diffrattometrica effettuata su entrambi i composti lasciati essiccare su vetrino ha permesso di rilevare la presenza di ossido di calcio, CaO2(H2O)8, fin dal primo giorno successivo all'essiccazione (Barajas M. et alii, 2009). Infine si riportano

alcune esperienze in cui la mucillagine è stata ottenuta mediante disidratazione del cladodio e successiva reidratazione (Malpartida S., 2015; Pacheco G. et alii, 2016).

Tra le caratteristiche principali della mucillagine vi è la ritenzione idrica, che inibisce la rapida asciugatura delle malte quando usata come additivo e evita il generarsi di crepe sul materiale. Questa proprietà risulta molto utile anche nel caso in cui la malta debba essere utilizzata nelle operazioni di reintegro e iniezioni nella conservazione. Inoltre, la viscosità delle mucillagini migliora la plasticità quando usata per la realizzazione di intonaci, consentendone l'applicazione di strati sottili (Kita Y., 2013). Inoltre ha la capacità di migliorare la coesione superficiale se usato come consolidante superficiale, oltre che inibire la proliferazione di batteri e microrganismi vegetali (Hoyle A.M., 1990). L'ottima resistenza alla colonizzazione biologica è stata testata anche recentemente dagli studi effettuati sull'utilizzo di mucillagine come additivo di malte di calce di Persia et alii (2016).

Il suo utilizzo nella tradizione è attestato per lo più come additivo di malte e per la protezione delle superfici, in quanto la sua applicazione permette di ottenere un certo grado di idrorepellenza. Nel caso di Messico e Perù continua a essere utilizzato non solo la mucillagine ma a stessa polpa del cladodio, sia come adesivo sia per le costruzioni in terra (Guerrero Baca L.F., 2007).

In Messico è stato usato per la realizzazione degli intonaci tradizionali, di cui un esempio è fornito dalla chiesa di Nuestra Señora del Pilar a Sonora, in cui lo strato di intonaco della struttura in adobe è stato eseguito utilizzando una malta di terra, sabbia, acqua, mucillagine di Opuntia, sterco di cavallo e paglia di grano tritato. Questa miscela ha permesso la creazione di uno strato liscio, lo sterco di cavallo consente una maggiore plasticità della malta insieme alla mucillagine che è anche altamente agglutinante e permette una maggior coesione del materiale e adesione al supporto. Il ruolo della mucillagine è duplice: plasticizzante per gli intonaci e idrorepellente se applicato successivamente sulla superficie (Martínez-Camacho, et al., 2008).

Il ruolo idrorepellente è stato verificato anche in laboratorio (Mattone M. 2010)e, tra gli esempi più importanti, si riporta il lavoro del 1986 di Vargas J. sulla protezione delle costruzioni in adobe in aree piovose. Nella ricerca sono state testate differenti tipologie di additivi naturali tra cui la mucillagine di

Opuntia, utilizzata sia nella preparazione dei supporti di prova che successivamente a pennello sulla

superficie. I supporti così creati hanno evidenziato un'ottima resistenza agli effetti erosivi dell'acqua. In questa occasione sono state eseguite anche alcune considerazioni relativamente al tempo di macerazione ideale, che rende quindi il miglioramento apportato dalla mucillagine più effettivo, ed è stato attestato tra i 14 e 25 giorni nel periodo invernale e tra i 7 e 14 giorni nel periodo estivo (Vargas J.

et alii, 1986).

Nella tradizione è stato inoltre utilizzato dalle culture preispaniche come agglutinante di pigmenti date le sue proprietà coesive (Magaloni D., 1990; Ortega-Avilés et alii, 2001). Gli studi eseguiti sulla mucillagine di Opuntia nell'ambito della conservazione, sono in gran parte relativi allo sviluppo di malte da reintegro e per iniezioni, poiché vengono sfruttate le proprietà di ritenzione dell'acqua che ne rallenta il tempo di essiccazione e migliora le proprietà adesive.

Nell'ambito del consolidamento corticale la mucillagine di Opuntia Ficus Indica è stata impiegata in

(27)

15

consolidante volto al fissaggio del pigmento (Barajas et alii, 2009). Non esiste una procedura standard per la sua applicazione ma sono state testate le modalità a spruzzo e a pennello su superfici di adobe pretrattati con una soluzione idro-alcolica che riduce la tensione superficiale dei pori del materiale e migliora la penetrazione della mucillagine nonostante l'elevata viscosità. In merito al pretrattamento superficiale, sempre nel caso della chiesa Messicana di Nuestra Senora de Pilar, la mucillagine è stata utilizzata nelle operazioni di consolidamento delle superfici esterne. In questa occasione è stato osservato tramite SEM che il pretrattamento permette una migliore penetrazione della mucillagine rendendone più durevole l'effetto. Il controllo inoltre è stato eseguito dopo circa sei mesi dal trattamento e successivamente all'esposizione degli adobe ai fenomeni di pioggia della zona. Non solo è stato verificato che questa sostanza è rimasta sulla superficie garantendo una miglior resistenza rispetto ai fenomeni erosivi generati dalle piogge, ma nei materiali in cui è stato effettuato il pretrattamento la superficie dei grani appare ricoperta da uno strato di materiale organico che aderisce ai pori dell'adobe e ne garantisce una maggiore coesione (Martínez Camacho F. et alii., 2008). Tuttavia, la durata delle mucillagini agli agenti atmosferici quali gelo-disgelo e cristallizzazione salina non è stata ancora adeguatamente studiata (Kita Y., 2013).

In ambito archeologico la mucillagine è stata utilizzata nelle operazioni di consolidamento superficiale e come additivo nelle malte durante gli interventi 1987-1989 nelle rovine di Chan Chan successivamente al disastroso risultato ottenuto a seguito dell'utilizzo di PVA e altri prodotti sintetici. In questo caso la mucillagine è stata ottenuta tagliando la polpa del cladodio e lasciandola macerare in acqua. Le proporzioni utilizzate per la preparazione sono state 350 g in 0.5 l. Il tempo di macerazione è stato di 24 h. La mucillagine è stata poi utilizzata per due scopi differenti: consolidante corticale nelle superfici in soluzione acquosa al 5 e 10 % per diminuirne la viscosità e facilitarne la penetrazione che è stata misurata pari a circa 3 cm; additivo per l'ottenimento di malte di protezione per le cortine murarie. Nell'articolo è indicato che il tempo di utilizzo della sostanza è di 48 h poiché successivamente si perde l'85% della sua viscosità. I risultati ottenuti, valutati dopo 3 anni dagli interventi, hanno constatato il positivo esito dei trattamenti tramite mucillagine, registrando solo una lieve erosione delle malte delle cortine murarie a causa dell'azione della pioggia. I risultati ottenuti a

Chan Chan sono inoltre importanti ai fini della presente ricerca in quanto la mucillagine è stata

applicata al 5% per il consolidamento corticale di una limitata area di pittura murale. Anche in questo caso il risultato è stato valutato positivamente, registrando solo una leggera saturazione del colore iniziale sparito poco tempo dopo dall'applicazione. (Hoyle A.M., 1990).

Sempre in merito al consolidamento Hoyle evidenzia come una delle qualità più apprezzabili del materiale è la sua ritrattabilità. Questa è fondamentale in quanto la mucillagine, dopo un tempo (si specifica non conosciuto), perde le sue qualità coesive e si ha quindi la necessità di ripetere l'operazione (Hoyle A.M., 1990).

Infine, quale esempio di applicazione del prodotto in ambito archeologico mediante iniezioni volte alla riadesione degli strati, si menzionano quelli eseguiti nel Santuario archeologico di Pachacamac, caso studio del presente lavoro di ricerca. Il lavoro sperimentale svolto in sito con questa tipologia di prodotto è stato il motivo discriminante nella per la sua scelta.

Dagli studi riportati, emerge un attivo filone di ricerca che sempre più si concentra e si arricchisce, tramite test di laboratorio e, anche se ancora limitati, test in situ. Questo ha permesso di propendere nella scelta di studiare questo tipo di materiale nell'ambito del consolidamento corticale su superfici dipinte in terra cruda.

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1.2.3.2 Amido di riso

L'acqua di riso (definito nel presente lavoro amido di riso) è una sospensione di amido ottenuto dalla cottura del riso. Questo si presenta bianco lattiginoso ed è costituito da percentuali differenti di amido, in base al riso utilizzato come materia prima, oltre che da altri tipi di molecole organiche tra cui polisaccaridi di diversa natura (Wong H.B., 1981). L'utilizzo dell'acqua di riso nel presente lavoro di ricerca è stata dettata dall'apprendere che questa sostanza è stata utilizzata nella conservazione di alcune pitture del Templo (Pozzi-Escot D., 2013). Il suo impiego nelle pitture del sito è iniziato a seguito di alcune informazioni ricevute per via orale da alcuni conservatori che ne affermano il suo utilizzo nelle operazioni di riadesione e consolidamento degli intonaci dipinti.

L'utilizzo delle sostanze derivanti dalla cottura del riso tuttavia ha origini antiche e sono state ampiamente utilizzate nella tradizione costruttiva Cinese per la formulazione di malte di calce (Yang F. et alii, 2010; Zhao P., 2015). Mediante indagini su campioni archeologici ne è stato testato l'utilizzo in architetture monumentali come la Grande Muraglia oltre che in palazzi e templi di estrema rilevanza del patrimonio costruito cinese, nonché mondiale (Chandra S. et alii, 1994). Antichi testi cinesi descrivono la formulazione dei leganti e specificamente affermano l'utilizzo dell' acqua di riso (Sticky

rice o Oryza sativa), olio di Tung e sangue di maiale usati come additivi in aggiunta alla calce (Zhao

P., 2015). Nell'opera del naturalista Song Yingxing (1937) viene descritta la Tabia, ovvero il legante a base di calce, terra e sabbia utilizzato durante la dinastia Ming (1368-1644). Nell'opera viene descritto come l'acqua di riso e il succo di canapa fossero utilizzati come additivi per il confezionamento delle malte e conferissero al materiale una maggior resistenza riducendone la vulnerabilità rispetto agli agenti atmosferici (Song Y.X., 2008). Purtroppo non si conosce esattamente come avvenisse il procedimento originale ma dall'analisi di alcuni campioni archeologici di malta risalenti al 221-206 a.C. se ne conferma la presenza mediante analisi FTIR. Dagli studi effettuati in laboratorio, in cui si è cercato di riprodurre le malte originali, è stato riscontrato come l'effetto dell'amido sulla calce sia quello di contrastare l'accrescimento dei cristalli, ottenendo cristalli più piccoli e di granulometria omogenea che rendono la malta più resistente e coesa (Zhao P., 2015). Nello studio menzionato l'amido di riso è stato ottenuto portando a ebollizione per 4 h 100 g di farina di Sticky rice in 900 g di acqua. Durante il processo di ebollizione è stata aggiunta acqua sufficiente per mantenere costante il rapporto tra il peso secco della farina e l'acqua. La concentrazione finale di farina di riso in poltiglia bollita era circa il 10% in peso (Yang F. et alii, 2010; Zhao P. et alii, 2015). In altri lavori invece sono impiegati i chicchi di riso stessi (Fang S.Q. et alii, 2014) e la preparazione ha previsto l'impiego di 4 g di riso in 94 g di acqua distillata. Il riso è stato portato a ebollizione per 4 h ed è stata aggiunta acqua durante la preparazione per mantenere costante il rapporto con il riso. In questo caso a termine processo il peso secco dell'acqua ottenuta è del 6%. La soluzione è stata utilizzata come additivo in malte di calce che hanno manifestato un incremento della resistenza meccanica e una notevole diminuzione della porosità al temine della stagionatura (Fanga S.Q. et alii, 2014; Yang F.W. et alii, 2008). Inoltre, sempre utilizzato con la calce, è in grado di ridurre la quantità di acqua libera nella miscela e produrre un aumento di viscosità. L' amido influenza lo slump, il contenuto d'aria, la densità, la capacità di ritenzione idrica e il tempo di presa. L'amido si utilizza come additivo di ritenzione idrica e per migliorare la viscosità (Shetty M.S., 2006).

L'amido è costituito da due principali macromolecole: l'amilosio, lineare e lungo, e l'amilopectina, ramificata a forma di grappolo. Le ramificazioni dell'amilopectina tendono a formare legami a idrogeno tra esse mantenendo la macromolecola chiusa e ordinata. Queste molecole, entrambe polisaccaridi, se riscaldate in acqua formano un gel(Vissac A. et alii, 2016). Il processo di dissoluzione

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