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Trasformazioni del Terzo Settore e nuova governance delle partnership pubblico-privato. Studio di caso sul Progetto Homeless a Pisa

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Academic year: 2021

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(1)

U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in

Sociologia e Management dei Servizi Sociali

Tesi di Laurea Magistrale

Trasformazioni del Terzo Settore e nuova governance

delle partnership pubblico-privato

Studio di caso sul Progetto Homeless a Pisa

Relatore: Candidata:

Chiar.mo Prof. Graziella Vella

Gabriele Tomei

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A Ivan, Angelo e Calogero, gli amori della mia vita.

A tutte le persone che hanno incrociato il mio cammino e che, anche se inconsapevolmente, hanno lasciato un segno indelebile.

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Indice

I

NTRODUZIONE

»

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CAPITOLOI–ILWELFARESTATE:TRASFORMAZIONIDIUN MODELLOSOCIALE

1.1. Welfare State in prospettiva storica: evoluzione e crisi » 12

1.1.1. Il caso italiano » 21

1.2. Proposte e tentativi di superamento della crisi » 23

1.3. Welfare Community: il rilancio dello Stato sociale » 33

1.3.1. Il welfare community in Italia » 40

CAPITOLOII–TERZOSETTORE:NUOVISCENARIINITALIA

2.1. Che cos’è il Terzo Settore » 45

2.2. Il ruolo del Terzo Settore nel welfare » 56

2.3. Il Terzo Settore in Italia » 62

2.4. La Riforma del Terzo Settore in Italia: cosa cambia? » 74

CAPITOLOIII–SOCIALINNOVATIONEPARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATO(PPP)

3.1. La prospettiva della Social Innovation » 84

3.2. Forme di interazione in evoluzione: le partnership pubblico-privato (PPP) » 93

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CAPITOLOIV–PARTNERSHIPPUBBLICO-PRIVATOAPISA: STUDIODICASOSULPROGETTOHOMELESS

4.1. Nota metodologica: lo studio di caso » 104

4.2. Le persone senza dimora e il Progetto Homeless » 114

4.3. Studio di caso sul Progetto Homeless a Pisa: il disegno della ricerca » 130

4.3.1. Progetto Homeless come partnership pubblico-privato » 132

4.3.2. Ruoli e responsabilità all’interno della partnership relativa

al Progetto Homeless » 135

4.3.3. Partecipazione dei partner al Progetto Homeless » 137

4.3.4. Progetto Homeless come buona pratica di

partnership pubblico-privato » 138

4.3.5. Efficacia/efficienza della partnership relativa al Progetto Homeless » 140

4.4. Prospettive e scenari futuri » 143

CONCLUSIONI » 146 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI » 148 SITOGRAFIA » 153 NORMATIVA DI RIFERIMENTO » 154 RINGRAZIAMENTI » 156 APPENDICE: LE INTERVISTE » 160

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Introduzione

Se una società libera non può aiutare i molti che sono poveri, non può salvare i pochi che sono ricchi. (John F. Kennedy, Discorso inaugurale, 20 gennaio 1961)

Nel lavoro di ricerca qui proposto, ho deciso di affrontare un argomento che attualmente si posiziona al centro del dibattito sulle dinamiche dei sistemi di welfare, soprattutto italiani: le trasformazioni del Terzo Settore e la nuova governance che assumono le partnership pubblico-privato, con un focus empirico sul Progetto Homeless a Pisa.

L’obiettivo principale che mi propongo di raggiungere con questo mio lavoro è quello di fornire una descrizione e alcuni elementi di riflessione rispetto ai cambiamenti intervenuti nei sistemi di welfare, nella platea degli attori coinvolti e negli strumenti innovativi che vengono utilizzati per progettare interventi e servizi. L’analisi della letteratura effettuata servirà da supporto alla ricerca condotta sul Progetto Homeless, un sistema di servizi presente sul territorio pisano da oltre venti anni rivolto alle persone senza dimora, che viene qui presentato come esempio di partnership pubblico-privato per la programmazione e gestione di un servizio nell’area della grave marginalità adulta. Lo studio di caso proposto si auspica di proporre nuove chiavi di lettura ed elementi conoscitivi necessari per una trattazione analitica del tema e per orientare future sperimentazioni.

La scelta dell’argomento è scaturita dall’esperienza del Servizio Civile Regionale che ho svolto presso il Centro d’Ascolto della Caritas Diocesana di Pisa per otto mesi;

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durante l’attività di servizio civile mi sono occupata della presa in carico delle richieste di aiuto da parte delle persone che si rivolgevano al centro, in particolare dei senza dimora. Tramite il servizio ho potuto scoprire l’esistenza a Pisa del Progetto Homeless, articolato in una serie di servizi (asilo notturno, centro diurno, sportello di ascolto, punto PAAS) rivolti alle persone senza dimora e non che necessitano di un posto sicuro dove soddisfare le proprie necessità (posto letto, cura dell’igiene personale, ascolto, orientamento ai servizi). Ho avuto il piacere di visitare la struttura che ospita il Progetto e di parlare con gli operatori e gli ospiti che la vivono quotidianamente.

Da qui è nata la curiosità di capire come funziona il progetto, quali attori sono impegnati nel suo funzionamento e in che modo potesse fungere da buon esempio per l’implementazione di altri servizi.

Per raggiungere questo obiettivo, ho scelto di articolare il mio lavoro in quattro capitoli.

Nel primo capitolo ho discusso della nascita, affermazione e declino del welfare state, puntando l’attenzione sulle proposte di superamento della crisi che si sono succedute nel tempo. Dalla metà degli anni Settanta, infatti, i sistemi di welfare dei Paesi occidentali hanno subito profondi cambiamenti sotto il profilo socio-demografico (invecchiamento della popolazione, trasformazione della struttura familiare) e sotto il profilo economico-produttivo (ingresso delle donne nel mondo del lavoro, rimodulazione dei sistemi produttivi), modificando anche lo spettro dei bisogni sociali. Di conseguenza, i sistemi di welfare sono stati accusati di essere inefficaci e inefficienti e si è proceduto con tagli considerevoli della spesa sociale. Per sopperire a questa crisi strutturale, lo Stato sociale si è dovuto reinventare: si è verificato un coinvolgimento di soggetti economici e sociali che hanno sostenuto il settore pubblico per la programmazione, gestione ed erogazione di prestazioni più efficaci ed efficienti. Queste novità vanno sotto il nome di welfare mix, welfare societario fino ad arrivare all’idea di welfare community. Questo processo di ammodernamento ha provocato la ridefinizione del ruolo dello Stato (non più unico soggetto responsabile del benessere della società), sotto la spinta di due processi importanti: il rescaling territoriale dei poteri, distribuiti ai vari livelli, e il passaggio dal government a modelli di governance caratterizzati dalla

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pluralità di stakeholder, nell’ottica del principio di sussidiarietà che fa da corollario allo scenario proposto.

Il secondo capitolo ha come oggetto il Terzo Settore e le trasformazioni in atto nel contesto italiano. Ho voluto proporre un excursus storico del Terzo Settore e sul cambiamento dei rapporti tra pubblica amministrazione e settore non profit nella gestione dei servizi (si passa dalla logica del mutuo accomodamento, alla stagione dei contratti, all’affidamento tramite gara d’appalto). Le trasformazioni dei sistemi di welfare e della domanda sociale hanno favorito la crescita e l’importanza del Terzo Settore nell’implementazione delle politiche sociali.

Al sempre più crescente ricorso al Terzo Settore come panacea dei fallimenti di Stato e mercato non è seguita, tuttavia, una sua chiara configurazione nello scenario sociale in cui esso opera; la metafora calzante al Terzo Settore è stata quella di un caleidoscopio, formato da tante tessere, da tante realtà ognuna con caratteristiche simili alle altre ma allo stesso tempo diverse, peculiari che rendevano difficile una definizione unitaria. La seconda parte del capitolo è dedicata a tracciare la storia del Terzo Settore nell’ambito delle politiche assistenziali in Italia, con una sezione dedicata a delineare i tratti distintivi dei principali organismi del Terzo Settore fino ad arrivare alla recente Riforma avviata in Italia tramite la legge 106/2016 “Delega al Governo per la Riforma del Terzo Settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale” che, tramite i decreti attuativi (d.lgs. 117/2017, recante “Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106”, d.lgs. 112/2017, recante “Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell'articolo 2, comma 2, lettera c) della legge 6 giugno 2016, n. 106” e d.lgs. 40/2017 recante “Istituzione e disciplina del servizio civile universale, a norma dell'articolo 8 della legge 6 giugno 2016, n. 106”), ha avuto il merito di affrontare la questione del settore non profit per la prima volta in maniera organica. La legge di riforma si pone come obiettivo principale quello di affermare un’identità del Terzo Settore, con l’attribuzione di nuove funzioni e capacità a questo settore che si riconoscere essere anche un soggetto di impresa.

Nel terzo capitolo ho voluto porre l’attenzione sul paradigma della Social Innovation e sulle partnership pubblico-privato, quali strumenti innovativi utilizzati ampiamente

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per la programmazione e gestione delle politiche sociali. In particolare, l’innovazione sociale si riferisce alla sapiente combinazione di interventi e servizi sociali destinati alla collettività che, dinnanzi alle nuove esigenze e ai nuovi rischi sociali, pretende sempre maggiori risposte che sappiano coniugare il loro essere utenti, portatori di un dato bisogno sociale, e la loro identità di cittadini e appartenenti ad un sistema culturale specifico. Ogni attore, sia esso sociale o economico, è in grado di innovare singolarmente, ma il punto di forza è dato proprio da queste partnership che si possono creare tra soggetti appartenenti a diversi domini, che hanno anche l’opportunità di osservare il problema da angolature diverse, fornendo un’analisi completa della situazione e convergendo in una soluzione che si presenti il più possibile esaustiva al bisogno osservato. All’interno del paradigma della Social Innovation, le partnership pubblico-privato hanno un posto privilegiato. Il Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati e al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni presentato dalla Commissione delle Comunità Europee nel 2004 ha definito le PPP come:

forme di cooperazione tra le autorità pubbliche ed il mondo delle imprese che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione e la manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio.

Da questa affermazione si comprende come le PPP siano considerate ormai uno strumento a cui ricorrere come alternativa ai tradizionali metodi di esternalizzazione e affidamento dei servizi a soggetti terzi all’amministrazione pubblica. Il loro più grande vantaggio è quello di contribuire al miglioramento della qualità nella realizzazione di un’attività o di un servizio, mirando a ricomprendere in tutte le fasi del progetto il soggetto privato.

Il quarto ed ultimo capitolo è, invece, dedicato alla ricerca empirica, presentando i risultati dello studio di caso riferito al Progetto Homeless a Pisa come esempio di partnership pubblico-privato.

Dopo aver descritto nella prima parte il procedimento metodologico per portare a termine uno studio di caso e le caratteristiche strutturali e funzionali del Progetto Homeless, nella seconda parte ho voluto descrivere il disegno della ricerca che ha condotto alla realizzazione dello studio di caso. Sono partita da una domanda di ricerca: in che modo il Progetto Homeless si configura come una partnership pubblico-privato e

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perché questo modo di gestione dei servizi a bassa soglia dovrebbe preferirsi rispetto ad una gestione univoca del privato o del pubblico? La metodologia scelta è stata quella della conduzione di tre interviste (al Responsabile del progetto e dell’area marginalità adulta della Cooperativa sociale e a un esponente della Società della Salute della Zona Pisana, in quanto parte dello staff dirigenziale) che hanno permesso di estrapolare cinque aree tematiche a supporto della domanda di ricerca. I risultati dello studio di caso hanno permesso di evidenziare che il rapporto di partenariato che costituisce la base del Progetto Homeless rappresenta sicuramente una buona pratica da seguire e un modo innovativo di pensare la progettazione di questo tipo di servizio.

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Capitolo I

Il Welfare State: trasformazioni di un modello sociale

1.1. Welfare State in prospettiva storica: evoluzione e crisi

Il welfare state è da considerarsi uno dei capisaldi della storia contemporanea e rappresenta sicuramente un concetto ampio e complesso a cui vengono date diverse spiegazioni, che richiede un approccio multidisciplinare per arrivare a una definizione soddisfacente.

Il welfare state rappresenta, infatti, un fenomeno complesso e multiforme, complessità che ha stimolato diversi studi e approfondimenti capaci di far risaltare molteplici manifestazioni teorico-interpretative1.

La storia occidentale - nel periodo compreso tra le due Guerre e, nello specifico, dal Secondo Dopoguerra fino ai nostri giorni - s’intreccia, inevitabilmente, con il discorso sullo Stato del benessere che ne rappresenta, senza dubbio, un’istituzione cardine e un’innovazione capace di rivoluzionare il modo di ragionare e di affrontare la questione sociale relativa a rischi e tutele.

Nonostante sia un fenomeno relativamente moderno, il welfare state ha subito un processo di maturazione sulla base di alcune precondizioni consolidatesi tra Ottocento e Novecento, che hanno favorito il passaggio «dallo Stato liberale allo Stato provvidenza, poi definito Stato del benessere» (Vittoria, 2012:17). Come noto, la prima forma di

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Il Welfare State è un fenomeno che ha interessato diverse discipline (politica, filosofia, sociologia, economia, diritto), ognuna delle quali ha apportato il proprio contributo per plasmare un sistema di politiche pubbliche che potesse abbracciare tutti gli ambiti di interesse. È per questo che si parla di complessità che può essere chiarita solo adottando una lente multidisciplinare.

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welfare, seppur rudimentale, si ha nella Germania bismarckiana nel 1881, grazie a un sistema di forme di assicurazione obbligatoria prevalentemente contro i rischi d’infortuni. La Seconda metà dell’Ottocento, infatti, fu interessata dalla diffusione del capitalismo nella maggior parte dei Paesi europei. La repentina crescita dell’economia capitalistica se, da un lato, favorì un rafforzamento economico, dall’altro, scatenò l’emergere di una serie di nuovi bisogni sociali legati alla formazione di una nuova classe sociale, quella operaia, che, trasferitasi dalle campagne alle città per lavorare in fabbrica, reclamava nuove tutele nei riguardi di condizioni di lavoro massacranti e di esigenze abitative contrassegnate da condizioni igienico-sanitarie precarie (Ranci, Pavolini, 2015). I nuovi bisogni diedero vita ad una vera e propria questione sociale che richiedeva nuove strategie di intervento e nuovi strumenti di azione rispetto alle modalità fino ad allora utilizzate.2

Al modello bismarckiano, si contrappose il modello beveridgeano ispirato al Piano Beveridge del 1942 (dal nome di Beveridge, economista e studioso liberale) che, nell’Inghilterra del Secondo Dopoguerra, consegnò al Parlamento inglese questo famoso rapporto con l’intento di instaurare un modello di welfare universalistico, attraverso un sistema di assicurazioni sociali esteso a tutti i cittadini, un servizio sanitario nazionale (obbligatorio e universalistico) e un reddito minimo che fosse in grado di garantire la sopravvivenza dei cittadini al di là dell’occupazione (ibidem). Da questa idea, il welfare state si diffuse velocemente come fondamento di tutti i governi dei Paesi europei, tanto che alla fase di “sperimentazione” seguì un ciclo di

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La questione sociale dei poveri e i relativi interventi per arginarla erano stati storicamente prerogativa della Chiesa che, attraverso la beneficienza e la filantropia delle famiglie più abbienti, si occupava di tenere sotto controllo il fenomeno della povertà e del vagabondaggio. Il problema più importante riguardava la mancanza di obiettività da parte delle associazioni caritatevoli di stampo religioso che distribuivano i sussidi in maniera clientelare e del tutto priva di oggettività, ma sulla base di un apposito mandato giuridico che le autorizzava a procedere in questo modo. Emblematica sotto questo punto di vista è la Poor Law (legge sui poveri), emanata dal Parlamento inglese nel 1601, che affidava la gestione dei poveri alle parrocchie e che obbligava i proprietari terrieri ad alimentare queste risorse da destinare tramite una tassa sulla rendita dei loro terreni e sulle case di proprietà. La Poor Law può, quindi, essere considerata la prima forma di politica sociale adottata contro la povertà, anche se trattasi di una politica sociale negativa, perché la povertà era considerata come una colpa della persona e l’intervento era teso al controllo e alla preservazione dell’ordine pubblico piuttosto che alla riabilitazione sociale del soggetto. È per questo che, agli albori dell’industrializzazione, con la conseguente urbanizzazione e il crescente divario tra le classi sociali, si rese necessaria una razionalizzazione e una legislazione sulla questione. Per un approfondimento sulla questione dei poveri si rimanda al capitolo II di Kazepov Y., Carbone D., Che cos’è il welfare state, Carocci, Roma, 2007.

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consolidamento e piena realizzazione dei principi ispiratori dello Stato sociale nel periodo definito, per questo, Trentennio glorioso (1945-1975). Siamo nel periodo compreso tra la Seconda Guerra Mondiale e gli anni Settanta, il periodo del boom economico: la fase di risanamento della guerra è accompagnata da una crescita economica senza eguali. Sono gli anni d’oro anche per il welfare state, crescono infatti le misure di sostegno dello Stato nei confronti delle famiglie e prendono avvio le principali politiche nei confronti dei bisogni sociali.

In questi anni si verificò, infatti, la convergenza di alcuni fattori che costituirono la base per l’affermazione e l’attuazione del welfare state: a) il processo di industrializzazione che portò all’affermazione dei principi del fordismo e al passaggio da un’economia agricola ad un’economia industriale; b) un aumento della domanda di lavoro che portò ad un periodo di piena occupazione con una crescita del benessere della classe lavoratrice; c) un sistema sociale caratterizzato dalla divisione in classi sociali (principalmente classe operaia e capitalisti) ma con l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze sociali grazie ai sistemi di welfare nascenti; d) per ultimo, una divisione del lavoro basata sul genere, con la diffusione della famiglia cosiddetta male breadwinner che vedeva il capofamiglia impegnato a lavorare per la sussistenza del nucleo familiare e la donna impegnata nella cura dei soggetti deboli (bambini e anziani) all’interno delle mura domestiche. Il sistema di welfare che si sviluppa nel Trentennio glorioso assume proprio la conformazione del contesto sociale di riferimento, e cioè si caratterizza come catalizzatore di una crescita economico-industriale in una società basata su una divisione di classe e ruoli, cercando di ridurre le disuguaglianze attraverso la promozione dell’occupazione della forza lavoro maschile (Ranci, Pavolini, 2015). Il contesto storico che ha favorito l’affermazione di questo Stato del benessere, dunque, fu caratterizzato da un clima di distensione sociale e industriale, in cui prende forma la legislazione sociale (in materia di assicurazione contro i rischi sociali e di previdenza) e in cui lo Stato assume il ruolo di imprenditore ed erogatore dei servizi. La nascita del welfare state, dunque, sconvolse il fondamento dello stato liberale, ovvero l’idea che il governo non dovesse intervenire per non alterare in alcun modo la concorrenza del mercato basata sul libero incontro tra domanda e offerta. L’intervento dello Stato era contemplato solo come principio riparatore ex post, per sopperire alle storture provocate

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dal mercato. La nascita e la conseguente affermazione del welfare state pongono lo Stato al centro del sistema di riconoscimento dei diritti sociali dei cittadini3 e dell’erogazione di prestazioni e servizi, poiché il principale strumento che il potere politico ha a disposizione per effettuare ciò è proprio lo Stato sociale che riconosce, sulla scia del modello di cittadinanza propugnato da Marshall, il diritto dei cittadini al benessere sociale.

Per affrontare in maniera opportuna il tema del welfare state, ai fini della nostra trattazione, riportiamo la nota definizione di Asa Briggs (1961), secondo cui:

Lo stato del benessere è quello in cui il potere organizzato viene impiegato deliberatamente (con la politica e con l’amministrazione) per modificare il funzionamento del mercato in tre direzioni almeno: prima direzione, la garanzia per individui e famiglie di un reddito minimo indipendente dal valore di mercato del loro lavoro o della loro proprietà; seconda, la riduzione del grado di insicurezza, permettendo a individui e famiglie di far fronte ad alcune evenienze sociali (per esempio malattia, vecchiaia, disoccupazione) che potrebbero provocare crisi individuali e familiari; terza, l’assicurazione a tutti i cittadini, senza distinzione di censo o di status, di poter raggiungere i livelli migliori in rapporto a una dotazione convenuta di servizi sociali (Briggs, 1961:228).

Si tratta della definizione di welfare più articolata che ci permette di scomporlo nelle componenti essenziali e di rispondere a cosa sia lo Stato sociale, chi sono i soggetti beneficiari, come viene erogato e perché.

Il welfare state è riconosciuto come l’intervento dello stato in campo economico finalizzato a sopperire alle limitazioni del mercato per promuovere migliori condizioni di vita dei cittadini e il loro benessere generale. I soggetti beneficiari di questo intervento sono identificati nei singoli e nelle famiglie, poiché «la famiglia è la prima istituzione sociale che incoraggia a rispettare le norme e favorisce l’integrazione sociale» (Esping-Andersen, 2000: 87). La definizione rende evidente anche il fatto che la costruzione del sistema del benessere degli individui dipende da tre leve - Stato, mercato e famiglia – che danno vita ai «regimi di welfare», che intendono indicare il modo in cui queste tre istituzioni, interdipendenti tra di loro, si distribuiscono la

3 Thomas Humphrey Marshall, sociologo inglese, nel suo testo Citizenship and Social Class (1950),

descrive il processo di affermazione dei diritti del cittadino che, a seconda del periodo storico, vede il riconoscimento dei diritti civili, politici e infine sociali. Solo con il riconoscimento dei diritti sociali si verifica, secondo il sociologo inglese, quel passaggio dallo stato liberale, allo stato democratico, per arrivare a quello sociale. È per questo che Marshall, nel suo testo, parla di modello di cittadinanza, che è tale solo con il riconoscimento dei diritti sociali.

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produzione di welfare (Esping-Andersen, 2000: 63), partendo da servizi statali e articolandosi, poi, anche in contesti di mercato e familiari. Con riguardo al come viene erogato, il potere politico dispone di un modello istituzionale-amministrativo atto a sostenere una vision comune e diffusa tra le classi dirigenti in grado di giustificare il perché il welfare state esista. Le finalità che sono perseguite sono, infatti, la lotta alla povertà, la protezione dei cittadini e delle famiglie contro i principali rischi sociali (malattia, vecchiaia, disoccupazione) e la promozione del benessere indipendentemente da classe e status di appartenenza, con il conseguente appiattimento delle disuguaglianze sociali (Ranci, Pavolini, 2015: 20). Il perseguimento di queste tre finalità è stato articolato in maniera differente nel tempo e nello spazio, dando vita a diversi regimi di welfare che sono stati ampiamente definiti da diversi autori (Titmuss, 1958; Esping-Andersen, 1990; Ferrera, 1996).

Tab. 1 – Regimi di welfare state

Liberale Socialdemocratico Familistico Corporativista Dei Paesi in transizione

Paesi emblematici

Regno Unito e Irlanda

Paesi scandinavi Pesi dell’area mediterranea (Italia, Sagna, Grecia, Portogallo) Francia e Germania Pesi dell’Europa Centro-Orientale Principali beneficiari Persone in difficoltà

Cittadini Famiglie Lavoratori capifamiglia Cittadini con reddito medio-elevato Modalità d’intervento Residualismo statale, prova dei mezzi Schemi di intervento universalistici Sussidiarietà passiva dello Stato Intervento dello Stato sulla base della posizione

lavorativa

Self made

welfare

Finanziamento Fiscale Fiscale Fiscale Contributi sociali da assicurazioni obbligatorie Contributi sociali privati

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Dalla classificazione dei diversi regimi di welfare, dunque, sembra farsi strada l’affermazione di Esping-Andersen, secondo cui:

Il welfare state non è il solo strumento attraverso il quale affrontare i rischi sociali; lo si può fare contando anche sulla famiglia e il mercato. In effetti, ciò che individua i diversi regimi di welfare è proprio il tipo di socializzazione dei rischi praticato: a seconda del ventaglio dei rischi considerati «sociali» e della collettività ritenuta in diritto di protezione, il ruolo dello stato viene definito o residuale e minimalista, o, al contrario, inclusivo e istituzionale (Esping-Andersen, 2000: 62).

Sulla base del clima politico, economico e sociale dominante nel Trentennio glorioso, il welfare state vive la sua fase di maggiore espansione, sostenuto dalla costante crescita economica e dal diffuso benessere della popolazione. In realtà, già dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, iniziarono a nascere le prime critiche allo Stato sociale sulla sua natura ambigua e contraddittoria, accusandolo di inibire la crescita economica e favorire la dipendenza dei cittadini nei confronti di una macchina burocratica che, solo apparentemente, propugnava i valori di uguaglianza tra le classi. Questo malcontento nasceva dal fatto che i governi, nell’elargire i servizi garantiti dal welfare, fecero ricorso al meccanismo di «deficit spending: in pratica molti servizi e prestazioni venivano erogati senza l’esistenza reale di una copertura economica, ma semplicemente ricorrendo all’indebitamento pubblico» (Kazepov, Carbone, 2007: 52). Questo meccanismo, unito ai cambiamenti sociali ed economici verificatisi a partire dagli anni Settanta, provocarono un processo di insostenibilità finanziaria del welfare state; le condizioni sociali ed economiche che avevano favorito lo sviluppo dello Stato sociale iniziano a vacillare, lasciando spazio alle premesse di una trasformazione della società con la conseguente crisi dei regimi di welfare.

La seconda metà degli anni Settanta segna il declino della parabola del welfare. Gli sconvolgimenti socio-economici di quel periodo mettono in discussione tutto il lavoro fino ad allora avviato; inizia una profonda fase di cambiamento del welfare che si protrae fino agli anni Novanta con la stagione delle riforme e con la ricalibratura dello Stato Sociale. Dal Trentennio glorioso si passa a quella che Kazepov definisce età dell’argento di austerità permanente (Kazepov, 2009: 39)4

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4 Kazepov prende in prestito la definizione di età dell’argento di austerità permanente coniata da

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Il panorama internazionale, dalla seconda metà degli anni Settanta, è scosso da alcuni avvenimenti importanti che sconvolgono l’assetto economico e societario: lo shock petrolifero, la chiusura dei mercati nazionali e la spinta verso la globalizzazione e l’integrazione europea sono solo alcune delle minacce al welfare. Modificato l’andamento economico di base, entra in crisi il sistema di protezione generale, basato su un metodo redistributivo che faceva leva sui lavoratori impiegati e su un’economia in rapida crescita, generando dei debiti fiscali mai visti prima e delineando l’insostenibilità della macchina burocratica del welfare. Da ciò deriva anche la nascita di nuovi bisogni sociali e nuove richieste di tutela da parte della popolazione sempre più in trasformazione.

Per capire meglio le sfide che fanno da sfondo alla situazione attuale del welfare state, è necessario esaminare le dinamiche endogene ed esogene che sottendono alla trasformazione di un welfare incapace di gestite i nuovi rischi sociali che emergono dai mutamenti economico-sociali della società moderna. Tra i fattori esogeni, Ferrera (2007: 346) ne identifica essenzialmente due: la globalizzazione, con l’aumento della concorrenzialità dei mercati, e l’integrazione europea. Le crisi petrolifere verificatisi negli anni Settanta provocarono una sovversione degli ordini economici regnanti nel panorama internazionale, portando come conseguenza una stagflazione5 mai vista prima di allora e a una svalutazione delle monete nazionali. A questo si aggiunge la spinta alla globalizzazione che i governi nazionali hanno dovuto fronteggiare negli anni Ottanta/Novanta. Borzaga e Fazzi (2005: 165) ci aiutano a comprendere meglio che cosa si intende per globalizzazione:

Con questo concetto ci si riferisce principalmente alla mutata interazione tra le dinamiche dell’economia, della tecnologia e della politica, che hanno portato all’emergere di una nuova configurazione dell’economia caratterizzata da nuovi trend del commercio internazionale (importazioni ed esportazioni), degli investimenti esteri diretti, della finanza internazionale e delle alleanze e reti di collaborazioni tra le grandi corporation multinazionali.

Adattandosi a questa condizione, gli Stati nazionali si sono visti costretti a ridurre le risorse destinate alla spesa sociale e ad aumentare quelle destinate agli investimenti

5

La stagflazione indica la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti sia un aumento generale dei prezzi (inflazione) sia una mancanza di crescita dell’economia (stagnazione). La definizione è stata recuperata da http://www.ilsole24ore.com.

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produttivi (Borzaga, Fazzi, 2005). L’altro fattore esogeno che, secondo Ferrera, ha influito a trasformare il tradizionale assetto del welfare state è la spinta all’integrazione europea. Con la creazione di un livello sovranazionale, molte delle competenze fino ad allora lasciate al “libero arbitrio” dei singoli Stati nazione si trovano accentrate in esso; in particolare, «la disciplina economica, fiscale e monetaria garantita dalle autorità sovranazionali ha stimolato e accelerato dinamiche di ricalibratura del welfare state, comunque necessarie per affrontare una serie di problemi endogeni» (Ferrera, 2007: 351). In seguito alla firma del Trattato di Maastricht nel 1992 da parte degli Stati membri, «ciascuno di essi si impegnava a contribuire a ad innalzare la competitività del sistema Europa, attraverso rigide politiche di bilancio e di lotta alla disoccupazione» (Borzaga, Fazzi, 2005: 167).6

Oltre a queste spinte esogene, i regimi di welfare state entrano in crisi anche a causa di trasformazioni endogene, che riguardano gli assetti socio-demografici ed economico-politici. Sembrano essere quattro le cause principali di questi sconvolgimenti: a) invecchiamento della popolazione: aumenta la speranza di vita e diminuiscono i tassi di natività. L’invecchiamento della popolazione porta da un lato a un innalzamento del tasso di anziani e della domanda di servizi di cura ed assistenza per la non autosufficienza e dall’altro ad una riduzione dei lavoratori che, attraverso il loro lavoro, finanziano questi servizi. È il paradosso del welfare: aumenta la parte di popolazione che ha assistito al consolidamento dei regimi di welfare e che adesso, una volta dato il proprio contributo, chiede al sistema di ricevere i contributi versati sotto forma di servizi e assistenza per una vecchiaia sicura e diminuisce la quota dei lavoratori che possono assicurare il finanziamento delle prestazioni. Per mantenere questa promessa, il welfare si trova a esercitare una maggior pressione fiscale sui lavoratori per alimentare la macchina sociale.

6

Questo orientamento si evince anche dall’art. 2 del Trattato, che ha come obiettivo: «promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l'instaurazione di un'unione economica e monetaria che comporti a termine una moneta […]».

Il presente articolo è stato reperito sul sito:

http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/Documents/Normativa/Trattati%20e%20Convenzioni/ Trattato%20Maastricht.pdf.

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L’attuale mercato del lavoro, però, non sembra collaborare in tal senso, perché cresce l’insicurezza lavorativa e il numero di contratti atipici (lavoro part-time, interinale, temporaneo, voucher sociali), per cui ci ritroviamo con cittadini che chiedono sempre di più e un welfare che dà sempre meno. b) trasformazione dei sistemi familiari: si assiste a una pluralizzazione dei modelli familiari, con l’aumento delle famiglie monogenitoriali e single, dovuto all’incremento di separazioni e divorzi e alla tendenza all’individualizzazione. Tutto questo porta alla «precarizzazione delle relazioni sociali» (Ferrera, 2007: 355); c) ingresso femminile nel mercato del lavoro: tutti i sistemi di welfare europei, agli albori della loro nascita, erano basati sul paradigma fordista che prevedeva una rigida divisione di genere del lavoro, per cui l’uomo rappresentava il breadwinner, procacciatore di risorse che aveva nelle mani le sorti della famiglia, e la donna, invece, doveva prendersi cura dei membri deboli della famiglia (bambini e anziani) (Kazepov, Carbone, 2007). L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha capovolto completamente questo sistema tradizionale con l’aumento della domanda di politiche di conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di cura da parte delle donne e di servizi che sostituiscano il loro lavoro “domestico” (quindi servizi educativi per l’infanzia e servizi di assistenza per anziani). d) rimodulazione dei sistemi produttivi: le spinte internazionali alla globalizzazione, l’innovazione sul piano tecnologico e il processo di terziarizzazione sono state le cause di una trasformazione e riadattamento delle configurazioni occupazionali. Il passaggio da un’economia industriale a un’economia post-industriale ha portato ad un aumento dei tassi di disoccupazione e ad una precarizzazione del lavoro con l’introduzione di contratti atipici che produce, come unica conseguenza, incertezza sociale e aumento dei cosiddetti working poor esposti a rischi lavorativi ed esclusione sociale (Ferrera, 2007).

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Tab. 2 – Quadro riassuntivo delle trasformazioni intervenute nei sistemi di welfare occidentali dal dopoguerra ad oggi

Condizioni iniziali Trasformazioni dagli anni settanta a oggi Strutture demografiche in

equilibrio

Aumento della popolazione dipendente

Economia in rapida espansione Rallentamento dell’economia Economie nazionali Disoccupazione frizionale Povertà tradizionali Globalizzazione Disoccupazione strutturale Nuove povertà

Fonte: Borzaga, Fazzi, 2005: 148

L’incontro-scontro tra le quattro cause sopra citate, unite alle modifiche ecologiche e alle spinte globali dell’attuale contesto europeo, ha intaccato l’equilibrio fragile del welfare state e ha portato alla ridefinizione di nuove strategie e nuovi servizi.

1.1.1. Il caso italiano

Nella nostra trattazione riguardo alla storia del welfare state e le sue implicazioni, non possiamo non puntare un riflettore sul modello di welfare italiano e sulle sue caratteristiche essenziali. Dei sistemi di welfare riportati nella tabella precedente, l’Italia si colloca senza dubbio tra i Paesi rientranti nel modello Sud-Europeo o mediterraneo, con un sistema di welfare fortemente sbilanciato nel settore pensionistico a svantaggio della copertura di altri rischi, in particolare disoccupazione e interventi a favore delle famiglie (Ranci, Pavolini, 2015: 73). Dunque, quello italiano si connota come un sistema notevolmente generoso sul versante delle vecchie generazioni, ma presenta un media bassa rispetto agli altri paesi europei per l’investimento sulle altre politiche. È

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solo negli anni Ottanta che il sistema di welfare italiano riesce a introdurre il carattere universalistico per le sue politiche, istituendo nel 1978 il Servizio Sanitario Nazionale e prevedendo, sul fronte scolastico, un sistema d’istruzione di base garantito a tutti con una differenziazione fra indirizzi tecnico-professionali e accademico-liceali per il secondo livello (Ranci, Pavolini, 2015:73).

Come gli altri Paesi afferenti l’area mediterranea, il welfare italiano spiccava per alcune caratteristiche: a) il familismo, laddove il settore pubblico non riusciva a soddisfare determinati bisogni, interveniva la famiglia con l’assunzione dei compiti di cura e assistenza nei confronti dei propri componenti; b) il carattere clientelare delle politiche, sia sul versante delle erogazioni (manipolazioni clientelari e frodi) sia sul versante del finanziamento (evasioni contributive) (Borzaga, Fazzi, 2005: 131); c) la frammentarietà del sistema.

Nel caso dell’Italia, a queste caratteristiche se ne aggiunge una quarta che fa da contraltare alla disomogenea proposta del welfare nazionale: quest’ulteriore caratteristica è data dall’affermazione non tanto di un unico modello nazionale di welfare quanto piuttosto da una pluralità di sistemi di welfare regionali e territoriali, tra loro profondamente diversi, tanto da configurare il sistema di welfare italiano come un sistema a sé nel panorama europeo.

Nella comparazione del welfare italiano con i modelli degli altri paesi dell’Europa sono evidenti alcune particolarità che continuano a contrassegnarlo come un sistema che mantiene caratteristiche tipiche del modello mediterraneo, ben sintetizzate da Ascoli (2011: 15):

i processi di invecchiamento della popolazione (con la relativa tematica della non autosufficienza) appaiano più accentuati; i livelli della natalità collocano il nostro Paese ai gradini europei più bassi, così come i servizi per l’infanzia, se confrontati con i principali paesi dell’UE, appaiono mediamente assai più lontani dai traguardi fissati a Lisbona; il sostegno e il riconoscimento sociale del lavoro di cura si rivelano particolarmente deboli se raffrontati con i contesti esteri più significativi; l’elevatissima disoccupazione giovanile conferisce all’Italia un triste primato europeo, così come la diffusione del lavoro atipico, sempre presso le giovani generazioni; anche il basso livello dell’occupazione femminile colloca il nostro Paese in fondo alla classifica europea; i flussi migratori sono stati affrontati con politiche che si posizionano tra le più fragili e sconnesse; l’Italia è il paese che ha fatto maggiormente ricorso alle immigrate per coprire i buchi del welfare pubblico nelle politiche della non autosufficienza; i bisogni di formazione e di politiche attive del lavoro appaiono tra i meno affrontati con efficacia.

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1.2. Proposte e tentativi di superamento della crisi

L’excursus storico del paragrafo precedente ci ha permesso di rappresentare lo sviluppo del welfare state come una parabola: da un inizio prorompente (rappresentato dal cosiddetto Trentennio Glorioso) si è passati ad un punto di stasi dovuto ad alcune modificazioni nel contesto di sperimentazione (l’età d’argento di austerità permanente), fino ad un lento declino, tutt’oggi in corso, dovuto a diverse crisi che sono avvenute in tempi recenti e che hanno scardinato le basi e i principi istitutivi del welfare. Ma non sempre la crisi si dimostra un evento catastrofico, al contrario può rappresentare il momento di rinascita e di messa in discussione di un modello ormai troppo “vecchio” che non tiene il passo con i tempi e gli spazi moderni.

Le trasformazioni che hanno investito il contesto sociale ed economico dei Paesi Europei - a partire dagli anni Settanta fino agli anni Novanta - hanno portato come conseguenza inevitabile la creazione di nuovi rischi sociali e nuovi bisogni, sintetizzati nella tabella sottostante.

Ecco che, come sostiene Barbieri (2005: 174), «le sfide per il welfare futuro nascono da come il welfare attuale (non) è in grado di gestire i nuovi rischi sociali che coinvolgono una parte sempre crescente della popolazione».

Questi nuovi rischi sono la naturale conseguenza delle dinamiche esogene ed endogene che abbiamo descritto nel paragrafo precedente, che stanno capitalizzando i dibattiti e le speculazioni scientifiche attuali. Dal Pra Ponticelli (2010:16) pone l’attenzione su queste dinamiche, affermando l’esistenza di diversi rischi sociali:

dal rischio di caduta al di sotto della soglia di povertà, al rischio di perdita del lavoro nonché della propria autosufficienza. Sono le conseguenze inevitabili di profondi cambiamenti sociali quali il progressivo invecchiamento della popolazione, le trasformazioni della famiglia […], le trasformazioni del mondo del lavoro anche in relazione alle ricorrenti crisi economiche: tutti fenomeni ben noti che hanno avuto e che hanno profonde risonanze sul sistema sociale nel suo complesso e in quello dell’assistenza sociale in particolare.

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- 24 - Tab. 3 – Vecchi e nuovi rischi sociali

Vecchi rischi sociali Nuovi rischi sociali

Mercato del lavoro Disoccupazione (di lunga durata) Perdita dell’impiego per limiti di età Perdita dell’impiego per disabilità o malattia

Occupazione temporanea e precaria Part-time involontario

Impieghi a bassa remunerazione

Difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro per i giovani

Famiglia Basso reddito del lavoratore Conciliazione tra lavoro e cura Difficoltà di cura di non autosufficienti Povertà reddituale e famiglie monogenitoriali Sistema abitativo Abitazione priva di standard

Inaccessibilità di abitazioni decenti

Incapacità a pagare una casa Sovraffollamento abitativo

Mobilità internazionale Assenza di protezione per gli stranieri accettati come lavoratori-ospiti

Non fruibilità di diritti sociali per la nazionalità o l’assenza di un’occupazione regolare Difficoltà di integrazione

Fonte: Ranci, Pavolini, 2015: 82

Sotto queste pressioni, a partire dagli anni Novanta, si avvia una stagione di riforme che ha riguardato tutti i settori del welfare state (previdenza, sanità, assistenza sociale). Queste riforme sono da collocare in un particolare clima intellettuale e politico che riconosce nell’Inghilterra dei primi anni Ottanta la sua madre patria (Guidi, 2011). Nel 1979 Margaret Thatcher, leader del Partito conservatore, salì al governo britannico, con un programma che aveva come obiettivo fondamentale smantellare lo Stato sociale perché inefficace e troppo costoso e ritornare alla libera concorrenza del mercato in

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campo economico e ai principi dell’individualizzazione in campo sociale (Ranci, Pavolini, 2015). In una famosa intervista del 1987, la Lady di ferro (così fu definita la Thatcher) affermava che:

Abbiamo attraversato un periodo in cui troppi bambini e troppi adulti facevano ragionamenti del tipo: «ho un problema, ci deve pensare il governo a risolverlo», oppure «ho un problema e ho il diritto di farmelo risolvere dal governo», o «sono senza casa, il governo me ne deve dare una». E così affibbiavano i loro problemi alla società. E chi è la società? La società non esiste. Ci sono individui, uomini e donne, ci sono famiglie. E nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone, mentre le persone, prima di tutto, pensano a loro stesse. È un nostro dovere badare a noi stessi e quindi anche aiutare i nostri vicini a badare a se stessi. La gente ha avuto troppo in mente i propri diritti acquisiti, senza pensare ai propri doveri, ma non esistono diritti acquisiti senza aver prima assolto i propri doveri. (ibidem: 15)

Da queste parole si comprende come il welfare state, fino ad allora considerato il motore della società, cessa di essere considerato un fattore importante per l’economia e la politica di uno Stato. Il ritorno al liberalismo venne accolto anche negli Stati Uniti dal presidente Reagan: a cento anni dalla sua nascita (nella Germania bismarckiana) il welfare si trovava nella posizione di doversi difendere dalle accuse che gli venivano rivolte di essere un’istituzione inutile e costosa, non in grado di far fronte ai mutamenti intervenuti nei decenni successivi alla sua fase di espansione (aumento della disoccupazione, delle disuguaglianze sociali in termini di divario tra occupazioni a bassa e alta qualificazione, sconvolgimenti dell’istituzione familiare, invecchiamento demografico e modificazione del mercato del lavoro al femminile).

Questi due governi conservatori, ispirati ai principi del neoliberismo in campo politico e, soprattutto, economico, portano con sé un nuovo modo di gestire la “macchina statale del welfare” trasportando metodologie e strumenti tipici della gestione aziendale nel mondo pubblico, con la nascita di un nuovo modello gestionale: il New Public Management (da ora in avanti NPM). Come afferma Cervia (2014: 28):

la soluzione proposta dal NPM […] promuove la razionalizzazione economica, la managerializzazione dei servizi e la ri-articolazione delle scritture contabili. Il modello di gestione dell’impresa privata viene assunto come riferimento ultimo per un management efficace ed efficiente che si pretende di poter garantire attraverso l’introduzione di strumenti aziendalistici di controllo dei costi e di valutazione del rapporto costi/benefici delle prestazioni, delle risorse e dei servizi, ma anche tramite la privatizzazione dei servizi (mix pubblico/privato).

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Visto in questa prospettiva, il NPM rivoluziona completamente il modo di pensare e di rappresentare lo Stato sociale, portando ad una «re-ideologizzazione nella definizione di welfare state» (Kazepov, Carbone, 2007: 23): dal sapere tecnico-specialistico si passa ad un sapere manageriale-aziendalistico, dal soggetto portatore di diritti di cittadinanza si passa al cittadino/consumatore a cui viene riconosciuta la libertà di scegliere la prestazione che a lui più si addice sulla base di un’ampia gamma di servizi offerti in regime di concorrenza e di libero mercato. D’altronde, come afferma bene Clarke (2007: 4) «una cultura del consumatore è una cultura nella quale le persone possono inseguire le loro necessità individuali e i loro desideri, e si aspettano organizzazioni reattive, flessibili e adattabili che soddisfino i loro desideri, vadano incontro alle loro esigenze e realizzino i loro sogni»7. Purtroppo, i sistemi di welfare sembrano essere lontani da queste caratteristiche e l’ondata managerialista che li ha travolti non ha fatto altro che aumentare l’asimmetria informativa del cliente/consumatore, con un sacrificio in termini di qualità dei servizi in favore di maggiore efficienza dell’intero sistema, e un conseguente depauperamento in termini di tutela dei diritti del cittadino, poiché «l’orientamento al risultato è il motivo conduttore del modello neomanageriale» (Bifulco, 2008: 65).

Ispirandosi al NPM, il processo di riforma che ha investito tutti i pilastri del welfare negli anni Novanta ha seguito essenzialmente due direttrici:

(a) la riorganizzazione territoriale dei poteri, il cosiddetto processo di rescaling; (b) il coinvolgimento progressivo di attori privati nella gestione delle politiche

pubbliche, che si manifesta nel passaggio dal government alla governance. Vediamoli più da vicino. Il processo di riorganizzazione territoriale dei poteri (rescaling) è un tratto comune dei paesi dell’UE orientato su due direzioni. Verso il basso, con una redistribuzione dei poteri dallo Stato a Regioni e Comuni. Verso l’alto, attraverso il riconoscimento di livelli sovranazionali, quali l’UE e l’OMS.

La globalizzazione e la conseguente crisi del welfare premono su una diversa allocazione di ruoli e poteri, con una spinta sempre maggiore di acquisizione del potere decisionale da parte delle agenzie sovranazionali da una parte, e un riconoscimento di un ruolo più importante da parte di Regioni e Comuni, quali enti locali più vicini ai

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cittadini dall’altra. Bartolomei e Passera (2005: 30) sottolineano, infatti, come il principale attore del vecchio modello di welfare state, cioè lo Stato:

non può assumere ed esaurire in proprio la funzione di garante del benessere sociale, secondo un modello di sviluppo e di qualità della vita preventivamente e centralmente individuato, ma deve sinergicamente armonizzare la propria funzione d’indirizzo e di garante dei diritti unitamente ai diversi soggetti associativi e socializzanti che possono, per mandato, per vocazione, per ruolo, per collocazione, soddisfare autonomamente i bisogni, i problemi, la domanda sociale in un quadro di opportunità e libertà garantite.

Viene a delinearsi un nuovo volto dell’Europa, con una governance multilivello alla quale concorrono sempre più attori e sempre più strategie di fronteggiamento diverse. I cambiamenti sopra descritti portano a un’inevitabile trasformazione delle politiche di welfare e del sistema di relazioni tra soggetti istituzionali preposti alla loro gestione. Lo Stato, infatti, perde la sua originaria funzione di produttore-imprenditore e cerca collaborazione con il mercato e il settore non-profit. È il passaggio definito dal government alla governance: mentre prima lo Stato gestiva in maniera centralizzata le politiche pubbliche e si “serviva” degli altri soggetti per l’erogazione di prestazioni e servizi (government) adesso gli stessi soggetti entrano di diritto a fare parte dell’intero processo di gestione delle politiche, partecipando a tutte le fasi che compongono il processo decisionale: ideazione, programmazione, implementazione, erogazione e valutazione (governance). Alla base di questo stravolgimento del sistema sociale europeo si collocano due concetti teorici e culturali che entreranno a pieno regime nel vocabolario legislativo europeo e nazionale: sono i concetti di sussidiarietà (ribadito dalla legge di riforma dell’assistenza sociale 328/2000 e dalla successiva Riforma del Titolo V della Costituzione) e d’integrazione. Secondo Carbone e Kazepov (2007: 127), «il processo di riorganizzazione territoriale è stato realizzato prevalentemente all’insegna del principio di sussidiarietà […], che ne ha legittimato il cambiamento».

I fenomeni di riorganizzazione territoriale e i rapporti tra i diversi livelli di governo descritti sopra tendono a considerare il territorio non una realtà data inoperosa ma tessuto ricco di relazioni sociali, poteri e capacità di agency. Per questo motivo il principio di sussidiarietà diventa un principio fondamentale che pone l’accento sulle soggettività sociali nel tentativo di aumentarne il grado di autonomia e di

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partecipazione. Non è casuale, dunque, come affermano Kazepov e Barberis (2008:53) che «nell’ambito delle politiche sociali la riarticolazione territoriale sia andata prevalentemente verso una decentralizzazione e venga giustificata sia con l’intento di essere “più prossimi ai cittadini” sia con la necessità di essere più efficaci ed efficienti».

Le riforme dei regimi di welfare, facendo riferimento alla sussidiarietà e all’integrazione tra gli attori e i livelli interessati in quanto principi guida delle azioni politiche, portano verso assetti regolativi complessi, focalizzandosi su temi quali la partecipazione dei cittadini e delle comunità con conseguente accrescimento del loro empowerment, la costruzione e promozione di partnership fra attori pubblici e privati, la diffusione di pratiche deliberative. Tutti i paesi europei sono stati interessati da questi processi di riorganizzazione ispirati al principio della sussidiarietà, con conseguenze diverse a seconda dei contesti: ad esempio nel regime di welfare mediterraneo si ha un utilizzo ambiguo dei meccanismi regolativi della sussidiarietà, poichè se da un verso si accentua il ruolo della famiglia e del settore non profit, dall’altro le responsabilità loro affidate non vengono sostenute. Sotto questo punto di vista, il processo di rescaling e il passaggio alla governance possono essere ricompresi nella volontà di dare applicazione al principio di sussidiarietà nelle due accezioni - verticale e orizzontale – avviando un processo di decentralizzazione delle funzioni e avvicinando i processi, oltre che i risultati, alla comunità dei cittadini.

L’introduzione di questi concetti ha contribuito a ridare un nuovo volto al welfare europeo, sia per quanto riguarda la rimodulazione delle politiche sia per quanto riguarda la struttura. Proprio per questo entrano a far parte dell’agenda politica e della letteratura scientifica degli anni Novanta termini quali modernizzazione, ristrutturazione, razionalizzazione, retrenchment, quali chiari segnali di un cambio di rotta che, inevitabilmente, si stava realizzando. Ferrera, in ragione di questo dibattito, introduce il termine ricalibratura, definendola come un rimodellamento dei sistemi di welfare e una strategia di risposta degli stessi ai cambiamenti socioeconomici avvenuti negli ultimi decenni per migliorarne l’efficacia e l’efficienza. A tal proposito, l’autore fa riferimento a diverse dimensioni del termine ricalibratura: quella funzionale, che riguarda i “vecchi” e “nuovi” rischi sociali; quella distributiva, che riguarda il ribilanciamento della copertura sociale dei diversi gruppi; quella istituzionale, che riguarda le istituzioni e i

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vari livelli dove vengono prese le decisioni; e infine quella normativa, che riguarda gli sforzi fatti per sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici verso la formazione di un pensare in maniera differente il welfare (Ranci, Pavolini, 2015: 87-88).

I dibattiti sui percorsi di trasformazione del welfare non si soffermano, però, solo sulle necessità di retrechment o taglio dei costi, ma anche sul modo di innovare i sistemi di welfare e ripensarne il ruolo. Infatti, la trasformazione del welfare è messa in relazione, oltre che con i nuovi rischi e bisogni sociali, con le riflessioni sulla cittadinanza attiva e sulle politiche sociali come politiche di «attivazione ed empowerment» e non semplicemente come copertura dei rischi (Saraceno, 2006).

Siamo partiti dal modello di cittadinanza inteso da Marshall come pieno soddisfacimento dei diritti civili, politi e sociali che fanno di un soggetto un cittadino, e siamo arrivati a considerare il welfare state, nella sua originaria definizione, come ormai un’istituzione sorpassata e troppo avanti negli anni per sopportare il peso di tante modificazioni in corso. Quello che ci chiediamo adesso è: in che modo il welfare è cambiato e soprattutto quali sono state le risposte/proposte a questi cambiamenti?

Una prima proposta è arrivata dai governi neoliberisti, con la loro idea di smantellare il welfare state perché troppo costoso e inefficace e di ritornare all’ideologia del libero mercato e dell’incontro concorrenziale tra domanda e offerta. A questa idea si contrappone la resilienza del welfare state, sostenuto da una quota sempre più ampia di popolazione dipendente, che manifesta bisogni di cura e assistenza, dalla massiccia presenza sul territorio nazionale di stranieri, per i quali l’inclusione nei sistemi di welfare è condizione essenziale per l’inserimento sociale (Di Nicola, 2011: 200).

Riconoscere e rinforzare queste necessità significa ammettere che il welfare serve, che deve essere visto come un investimento per uscire dalla crisi piuttosto che come un costo da contenere: per questo la modernizzazione dei sistemi di welfare deve avvenire facendo ricorso a nuovi strumenti d’integrazione e sinergia tra settore pubblico e settore privato, profit e non-profit, strumenti che storicamente sono conosciuti come welfare mix e welfare societario. Con riguardo al welfare mix, a un certo punto della nostra trattazione abbiamo preferito abbandonare l’idea del welfare state introducendo quella di regime o sistema di welfare, proprio perché si mostrava molto più adatta e includente di quelli che vengono definiti i quattro attori del welfare: Stato, mercato, organizzazioni

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non profit e famiglia. Ognuna di queste istituzioni è interdipendente dalle altre e fornisce, in maniera diversa, il proprio contributo alla formazione del sistema di welfare in un governo.8 Visto sotto questo punto di vista, il welfare mix non sembra essere, dunque, un’invenzione recente e non sembra esistere neppure una contraddizione tra welfare state e welfare mix, «se con il termine welfare si intende una rete ampia e articolata di protezione sociale che accompagna il lento ingresso del cittadino alla vita adulta e lo segue anche una volta uscito dal mercato del lavoro» (Di Nicola, 2011: 200). Quello che cambia e che giustifica l’attenzione al welfare mix è il mutato riconoscimento che nel tempo è stato assegnato al contributo apportato dal Terzo Settore nei processi di welfare. A un certo punto, ci si è resi conto che il dualismo Stato-mercato non era più efficace a tenere a bada i processi socio-economici in atto e che i “nuovi soggetti” che irrompevano in questo panorama si stavano dimostrando all’altezza di ricevere un riconoscimento formale. Questo passaggio si è tradotto nella creazione di un “quasi mercato” e nell’ingresso, negli anni Ottanta, del Terzo Settore come erogatore di servizi. Abbracciando il pensiero della Di Nicola (ibidem: 202):

Sono anni in cui non solo il Terzo Settore produce welfare, ma lo stesso welfare produce Terzo Settore (confermato anche dal fatto che le Regioni con welfare più sostanzioso e organizzato presentano anche una rete più vivace e solida di organizzazioni di volontariato, cooperazione, ecc.), attivando meccanismi, anche legislativi, che portano ad una crescita del settore non profit nella produzione dei servizi di cura alla persona (sociali e sanitari).

La spinta verso lo sviluppo del welfare mix si deve soprattutto alle idee collegate al NPM che poggia sul presupposto che “poco è meglio” e che la concorrenza migliora la qualità. I soggetti privati entrano nell’arena delle policy come pedine di un grande mercato amministrato, che vede lo Stato muovere le fila quale organo super partes che assicura la qualità dei servizi erogati9, e i soggetti privati, profit e non profit, diventare

8 Ogni attore del welfare ha un proprio codice simbolico con cui organizza le proprie azioni; così il

mercato utilizza lo scambio, lo Stato la redistribuzione, la famiglia la reciprocità e il Terzo Settore, potremmo dire, la solidarietà non profit.

9 Lo Stato, per assicurare la qualità dei servizi erogati, impone ai soggetti che voglio far parte del

“mix”, diventando così erogatori di servizi e prestazioni, di avere le carte in regola per farlo. Per questo in questi anni vengono introdotti gli strumenti dell’autorizzazione e dell’accreditamento.

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gli strumenti attraverso i quali lo Stato si fa garante dell’equità distributiva ai suoi cittadini (Di Nicola, 2011: 203).

Tuttavia, la valutazione della qualità dei servizi offerti muta a seconda delle policy a cui si fa riferimento: per le politiche sanitarie la valutazione è resa relativamente facile dal fatto che ad essere valutate sono prestazioni sanitarie sulla base di dati oggettivi e tecnici; nel campo delle politiche sociali è difficile, se non impossibile, applicare una qualche forma di valutazione, poiché la gamma dei servizi offerti deve necessariamente essere plurale e differenziata e perché hanno una forte connotazione relazionale. Sotto questo aspetto:

la crisi del welfare appare come vera e propria crisi di crescita non del welfare ma dei cittadini. Proprio perché questi, anche grazie al welfare, sono divenuti più liberi e maturi, richiedono non tanto “sempre più diritti”, quanto diritti diversi, appunto più individualizzati o meglio più adeguati a biografie non facilmente standardizzabili. (Saraceno, 2006: 244)

Al cittadino/consumatore, emblema del NPM, capace di massimizzare il proprio benessere individuale tramite un attento calcolo costi/benefici, si contrappone un cittadino consapevole che il proprio interesse deve essere raggiunto sulla base del più ampio benessere della società di cui fa parte. Il welfare societario, dunque, punta l’attenzione su quei beni definiti “relazionali”, che riguardano, cioè, una diversa concezione della cittadinanza, concepita come appartenenza a una comunità in grado di guardare ai suoi bisogni e di interrogarsi sul modo migliore per poterli soddisfare. È una dimensione che nella costruzione dei sistemi di welfare è stata lasciata da parte, con la speranza che il soddisfacimento dei soli bisogni materiali (povertà, assicurazione dai rischi, bisogni sanitari) potesse bastare per rendere i cittadini liberi e grati ad uno Stato che li tutela. La speranza è stata disattesa, con l’unico risultato di aver creato una macchina onerosa e inefficiente e una sempre più ampia richiesta di diritti da parte dei cittadini. I già citati processi di rescaling e governance non hanno fatto altro che puntare i riflettori sull’appartenenza del cittadino a una rete di relazioni e istituzioni e sulla dimensione locale, quale luogo privilegiato di formazione di solidarietà, coscienza civica, partecipazione politica e problem-solving comunitario. Partendo da questo presupposto, le politiche pubbliche dovrebbero avere come scopo, e principalmente

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come effetto, lo sviluppo delle capacità degli individui, prestando attenzione al loro bisogno relazionale oltre che economico (Saraceno, 2006). In questa direzione si sono mosse le principali disposizioni legislative europee e nazionali, riconoscendo il principio di sussidiarietà come colonna portante delle politiche e dei servizi alla persona e puntando i riflettori sulle dinamiche che, nei nostri giorni, sottendono lo sviluppo di un nuovo modello di welfare, il welfare community, che verrà analizzato nel prossimo paragrafo.

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1.3. Welfare Community: il rilancio dello Stato Sociale

Il concetto del welfare community trova la sua culla nella Gran Bretagna, ad opera di due grandi ideologie portate avanti in tempi diversi: l’ideologia della Terza Via, elaborata da Anthony Giddens, e il concetto di Big Society, proposta da David Cameron, che verranno analizzate di seguito.

La società europea si scopre, oggi, attraversata dal vortice “globalizzazione” di fronte al quale si trova a reagire in maniera contraddittoria: da un lato si apre al dialogo con il resto del mondo, dall’altro ha paura di aprire il propri confini perché resa insicura dalle emigrazioni/immigrazioni che ne rimettono continuamente in gioco la geografia. In questo quadro di profonda incertezza, siamo sempre alla ricerca di qualcosa che ci rassicuri e che ci permetta di mantenere uno status quo della nostra esistenza, pur spingendo sempre verso forme di progresso o di cambiamento in positivo.

Giddens, nell’esporre la sua proposta, affronta il tema della responsabilità, poiché «uno stato che opera per l’inclusione contro l’esclusione, che ha deciso anzitutto di investire sulle persone e sulle risorse umane, non si rassegna all’assistenzialismo» (Prodi, 1999:10). La proposta di rinnovamento avanzata da Giddens è passata agli onori della storia con il termine “terza via” associata, in Gran Bretagna a Tony Blair e alla politica del New Labour. La terza via in questione è terza, appunto, ad altre due visioni politiche che hanno attraversato la storia della società inglese: la socialdemocrazia classica e il neoliberismo, ognuno con delle caratteristiche specifiche e identificabile con un particolare momento della storia inglese.

Possiamo inquadrare la socialdemocrazia con l’avvento del welfare state che aveva come obiettivo fondamentale quello di creare una società più giusta in grado di proteggere gli individuo nel corso della loro esistenza. In questa visione l’intervento dello Stato prevale sugli individui, riducendo al minimo le interferenze del mercato, per garantire un’uguaglianza diffusa e un grado di sicurezza sociale dalla culla alla tomba. Il neoliberismo, identificato nell’antagonista per eccellenza del welfare state, può essere individuato nell’avvento della Thatcher al governo inglese negli ani Ottanta. Questa visione è completamente opposta alla prima: si presuppone un intervento minimo dello stato in favore di una più ampia ingerenza del mercato; si ha, inoltre, un alto grado di

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individualismo e un’accettazione della disuguaglianza quale criterio di differenziazione e di meritocrazia.

Detto questo, nell’accezione utilizzata da Giddens:

la terza via si riferisce ad un quadro di pensiero e di formazione di politiche che cerca di adattare la socialdemocrazia a un mondo che negli ultimi tre decenni è cambiato in modo radicale. È una terza via nel senso che è un tentativo di trascendere sia la socialdemocrazia vecchio stile sia il neoliberismo (Giddens, 1999: 39).

Come affermano bene Ascoli e Sgritta (2014:500), il dilemma centrale per Giddens è capire se e in che modo la socialdemocrazia può adattarsi ad un mondo completamente mutato e attraversato da alcune sfide che lui identifica nella globalizzazione, che sta cambiando il modo di concepire e affrontare la vita quotidiana e le istituzioni in cui viviamo; l’individualismo, non inteso come la creazione di una «generazione “io-centrica”» (Giddens, 1999: 47) ma come il naturale impatto della globalizzazione; l’obsolescenza della dicotomia destra-sinistra nel dibattito politico; un’azione politica e di rappresentanza degli interessi della società sempre più frammentata e l’emergenza di nuovi rischi sociali ed ecologici, che richiedono una tutela a lungo termine.

Date queste sfide, lo scopo principale della politica della terza via dovrebbe essere quello di «aiutare i cittadini a trovare il proprio cammino attraverso le principali rivoluzioni del nostro tempo: la globalizzazione, le trasformazioni della vita personale e il rapporto con la natura» (ibidem:71). In questo senso, l’ideologia politica proposta da Giddens poggia su alcuni valori imprescindibili che esaltano il trionfo della democrazia: il principio di uguaglianza, il sostegno agli svantaggiati, l’autonomia e il senso di responsabilità, il pluralismo cosmopolita e una filosofia di conservazione.

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